Oggi il voto in Giunta: il “Capitano” sta sereno

Il popolo di Rousseau si è espresso. Ma nel campo del M5S non restano che lacerazioni per la gestione politica della richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini, accusato dal Tribunale dei ministri di Catania di sequestro aggravato per il trattenimento a bordo dei 177 migranti della Nave Diciotti.

Gli iscritti alla piattaforma, come ampiamente previsto, dopo che per giorni gli stessi vertici del Movimento hanno chiarito quale fosse la trincea che andava presidiata, hanno detto no: il ministro leghista non dovrà essere processato. Ma il fatto che al Senato sia più d’uno a non volersi attenere al verdetto della consultazione online, pur esponendosi alle conseguenze previste dal regolamento del gruppo 5 Stelle, la dice lunga sul clima che si respira: c’è chi non avrebbe attivato Rousseau, chi la piattaforma gestita dalla Casaleggio non la può vedere, chi pensa che gli iscritti siano stati strumentalizzati, chi voterà sì al processo comunque. Chi infine vede la piega che ha preso questa vicenda, che ha fatto emergere laceranti contraddizioni, che gettano una luce fosca sul suo cerchio magico di Di Maio: chi ha deciso come procedere? E in quali sedi? Perché ne è venuto fuori questo pasticcio?

Sono interrogativi che assillano la stragrande maggioranza dei senatori che è pronta comunque a salvare Salvini. Costi quel che costi, pure un certo imbarazzo nel dover sottolineare la grande partecipazione al voto su Rousseau quando in realtà l’ambiguità con cui è stato posto il quesito agli iscritti s’è rivelata un boomerang. Come che sia, questa mattina la Giunta dovrà pronunciarsi sul caso Diciotti. E poi lo farà l’aula di Palazzo Madama, presumibilmente nel giro di pochi giorni. Tra i 23 componenti dell’organismo del Senato l’esito appare scontato: il Pd non si scomoderà neppure a proporre una relazione di minoranza per sostenere il sì al processo; i dem si godranno lo spettacolo del no al via libera ai magistrati di Lega, Forza Italia, FdI e 5 Stelle.

I 7 senatori pentastellati che siedono in Giunta domani sentiranno Gasparri accogliere le modifiche proposte da loro alla relazione iniziale. E che, almeno negli auspici, la renderà meno permissiva nei mezzi con cui in futuro i ministri potranno dire di perseguire i fini di governo. Salvini è tranquillo più che mai, anche se i suoi generali hanno spinto fino alla fine per chiarire il concetto: “Quello su Salvini è un voto sul governo” ha detto il sottosegretario Edoardo Rixi.

Lo sanno bene i 5 Stelle che non vedono l’ora di archiviare il caso della nave Diciotti e di passare oltre. Poi non resterà che attendere la Procura di Catania, sperando che decida di archiviare, come parrebbe intenzionata a fare, le posizioni di Giuseppe Conte, Di Maio e di Danilo Toninelli. E che il Tribunale dei ministri faccia lo stesso e per tutti e tre.

L’ultima vittoria della Lega e del suo capo: si prende l’immunità e spacca il Movimento

Ha vinto ancora Matteo Salvini. E sulle macerie degli alleati, a fine serata, si concede l’ultima beffa durante un comizio a Sassari: “Il governo non era in discussione”. Facile ora, che ha avuto quanto richiesto: la benedizione solenne dei Cinque Stelle su Rousseau. Ora che i grillini (o meglio ex grillini) escono spaccati quasi a metà: il 41% dei militanti ha votato contro le indicazioni dei vertici. Una situazione che non si era mai verificata.

Il leghista ha giocato con la strategia sin dall’inizio: in principio aveva dichiarato che non avrebbe chiesto aiuti al Senato e si sarebbe fatto processare dai magistrati, poi ha capito che avrebbe potuto trarre il massimo profitto anche in questa situazione, mandando in tilt gli alleati-rivali pure sul principio fondativo del Movimento: la legge uguale per tutti. Ha messo sul piatto la stabilità, se non la sopravvivenza, del governo. E si è messo seduto a guardare lo spettacolo.

La Lega ha giocato di squadra anche ieri. Mentre Salvini in Sardegna interpretava il poliziotto buono, i suoi riempivano siti e agenzie di stampa con messaggi molto meno rassicuranti. Il ruolo del cattivo se l’è preso il numero 2 del Carroccio, Giancarlo Giorgetti: “Governare significa assumersi delle responsabilità”, ha affermato di mattina “a urne” appena aperte. “L’ha fatto Salvini e devono farlo anche gli altri. Aspettiamo il loro voto”. Col passare delle ore è aumentata anche la pressione. Giorgetti ha rilasciato una dichiarazione meno sibillina e più minacciosa: “Sono convinto che dalla votazione online sulla piattaforma Rousseau uscirà il no all’autorizzazione a procedere nei confronti del ministro Salvini. In caso contrario vorrebbe dire che gli stessi iscritti del M5S sfiduciano anche l’operato dei loro al governo e che quindi non ci credono più”.

Una linea sostenuta pubblicamente da altri big leghisti, come il sottosegretario all’Economia Massimo Garavaglia: “Penso prevalgano i no all’autorizzazione – ha detto a Sky Tg24 – perché il buon senso dice quello. Anche perché è un’autorizzazione a procedere verso il governo non solo verso un ministro”.

È andata così, come chiedevano loro. Il Capitano incassa il salvataggio in Giunta, incasserà quello nell’aula di Palazzo Madama. Compatta i suoi e divide gli altri. Ora punta le Regionali in Sardegna, poi ci sono le Europee. Una lunga volata nella quale è scattato in avanti, e guarda gli inseguitori da lontano.

Problemi interni e hacker. Rousseau collassa ancora

L’hashtag usato ieri su Twitter da Rogue0, l’hacker che già mesi fa era entrato nella piattaforma Rousseau, è stato #pisQAnon, un gioco di parole: “Pisquano” è un modo di dire settentrionale per indicare una persona stupida; “QAnon”, invece, è una delle ultime teorie cospirazionistiche contro Trump. Il primo tweet arriva in mattinata, quando la piattaforma inizia a crollare e a non rispondere ai comandi. Rogue0 posta una provocazione, invitando gli utenti (“la ciurma”) a votare (“Venghino, signori venghino”) su Salvini (“il capitano”), ricordando il “processo” a cui è stato sottoposto l’hacker che per primo aveva segnalato a Rousseau le sue falle, Evariste Galois, che ora è indagato nonostante sia stato considerato un buono, un etico, a cui interessava solo segnalare i problemi da risolvere. Poi, condivide una immagine che mostra come il sito risulti inaccessibile da ogni parte del mondo: a quel punto sui siti già si parla di hackeraggio e di un nuovo intervento di Rogue0 per alterare voto e piattaforma. Ma l’hacker nega: “Forse non è chiaro, io non ho fatto nulla. Siete voi, loro sono solo #pisQAnon. A ridaje ciurma ”.

Il problema è che è molto difficile sapere se Rousseau sia crollata sotto il peso dei contatti degli utenti che si sono collegati ieri (come sostengono dalla stessa Rousseau) o sia crollata sotto l’effetto degli attacchi DDos, attacchi che utilizzano specifici software per moltiplicare esponenzialmente i contatti e quindi sovraccaricare la piattaforma fino al collasso. Saperlo, se nessuno rivendica l’attacco, non è semplice. Si può aspettare che siano prodotti dei report non ufficiali nei prossimi giorni oppure si potrebbe verificare se esista una discrepanza irragionevole tra i voti espressi e il numero di semplici contatti che ha registrato il sito. Di sicuro c’è un problema tecnico. Da Rousseau spiegano che la piattaforma è nata per “assolvere ad alcune funzioni” per le quali era stata progettata. Poi il Movimento è cresciuto e sono cresciute “le esigenze”. Anche Rousseau è cresciuta ma l’infrastruttura è rimasta la stessa “quindi quando c’è tanto traffico fa fatica”. Assicurano poi che nel giro di qualche mese “non ci saranno più questi problemi”. E c’è da augurarselo: “Probabilmente la piattaforma ha subito entrambe le dinamiche: tanto il sovraccarico dovuto ai votanti e agli utenti regolari quanto quello generato da attacchi DDos – spiega Beppe Mastrodonato, sviluppatore software che lavora in una società tedesca e che ha lanciato il progetto HackItaly con il dem Francesco Boccia – Lo segnalo da mesi e lo abbiamo dimostrato: la piattaforma è poco sicura, utilizza infrastrutture obsolete e non è dotata dei sistemi necessari per respingere eventuali attacchi”.

Al di là del sovraccarico (e al conseguente rallentamento del sistema che non ha spesso permesso neanche di capire se il voto fosse andato a buon fine) alcuni utenti già iscritti non sono riusciti ad accedere. Guido Palmieri, che milita nel M5S da dieci anni, segnala di non essere riuscito ad accedere con password e utente nonostante fosse già iscritto: “Ho chiesto spiegazioni, mandato mail, ma non mi hanno risposto. Capisco che il sito non regga, ma l’assistenza dovrebbe essere garantita per aiutare gli utenti a votare”.

Il motivo, spiegano da Rousseau, è non solo che di solito il sabato e la domenica viene sospesa l’attività, ma anche che molti utenti, come Palmieri, non hanno seguito la procedura per il passaggio alla nuova associazione da gennaio 2018 (passaggio che viene ricordato ad ogni accesso) e quindi, chi non si collegava dalla fine del 2017, non è riuscito ad accedere. È stata infatti data la precedenza a chi aveva diritto a votare, ovvero agli iscritti da almeno sei mesi, e ai cambi di mail e di password. Per i quali, nei giorni scorsi, ci sarebbero state migliaia di richieste.

L’alleato Salvini è salvo: il 59% degli iscritti dice no al processo per la Diciotti

Da ieri sera i Cinque Stelle non sono più così diversi. Anzi sono più uguali, a tutti gli altri. Perché nell’ordalia sul web hanno salvato il coinquilino Matteo Salvini, il contraente che non chiamano neppure alleato. Tanto ha potuto la voglia di tenere in vita il governo, che ha prevalso sull’identità del Movimento e sulla sua storia. Così hanno deciso gli iscritti alla piattaforma web del M5S, Rousseau, che ieri in una giornata di ritardi e isterie sul portale di Casaleggio hanno votato con il 59 per cento Sì. Ossia, nella logica invertita del quesito sulla piattaforma (ritoccato ieri) contro l’autorizzazione a procedere nei confronti del ministro dell’Interno, che il tribunale dei ministri di Catania vorrebbe processare per sequestro di persona per la gestione della nave Diciotti. “Sì, Salvini ha agito per la tutela di un interesse dello Stato” è la scelta fatta in maggioranza dagli attivisti.

Così già oggi i sette grillini in Giunta per le autorizzazioni in Senato dovranno respingere la richiesta, da buoni portavoce come esigono i codici a 5Stelle. Ed è l’esito desiderato da Luigi Di Maio, il capo politico, che aveva bisogno di un voto come questo per guadagnare tempo, e che annuncia i risultati alle dieci di sera all’assemblea colma di parlamentari, dentro la Camera. E alcuni applaudono. Mentre da Milano, dalla Casaleggio, celebrano “la giornata con il maggior numero di votanti di sempre su Rousseau”, 52.417. E va benissimo così per il premier Giuseppe Conte, da (quasi) subito per il no all’autorizzazione. E va ancora meglio per Di Maio, che in assemblea si presenta assieme ai ministri, a ribadire l’importanza del momento.

E ai suoi racconta il nuovo M5S che vorrebbe, un partito: “Abbiamo bisogno di un tessuto di amministratori e di un’organizzazione verticale sui temi”. Ergo, di una segreteria politica. E il voto su Rousseau può permettergli di insistere: “Presto voteremo online la nuova organizzazione”. Mentre una big come Paola Taverna avverte: “Quelli che si sentono il Movimento e che non accettano la votazione se ne possono andare”. Martellate, sul tramonto di un giorno da sospetti incrociati. E il primo bersaglio della rabbia di tanti parlamentari è Davide Casaleggio, perché la sua creatura, Rousseau, si è impantanata ancora, come accade ad ogni votazione. Con l’inizio del voto che è slittato dalle 10 alle 11, dilatandosi dalle 20 alle 21,30. Così è facile insorgere per gli eletti, già furibondi per i 300 euro che versano ogni mese alla casa di madre di Milano per la piattaforma. Ed è la senatrice dissidente Elena Fattori a picchiare in chiaro: “L’associazione Rousseau finora ha ottenuto circa un milione di euro per implementare la piattaforma, e ad oggi non è dato avere né una fattura o una ricevuta del versamento né un rendiconto su come sono stati impiegati i soldi. Almeno dovrebbe funzionare, ma io non riesco neanche a connettermi”.

Un’altra figuraccia che intacca il peso di Casaleggio e la centralità del web nella storia dei 5Stelle. È anche per questo che Di Maio vuole riscrivere le regole per fare del M5S un partito radicato sui territori, per dargli (più) carne e sangue. Oltre Internet, e oltre la Casaleggio. “Il Movimento deve avere un’organizzazione permanente a livello territoriale e nazionale” assicura dalla sua Pomigliano d’Arco, dove trascorre la mattina assieme a Conte. Sono lì per un convegno nello stabilimento di Leonardo, il colosso dell’industria aerospaziale. E colpisce che Di Maio passi buona parte di un lunedì decisivo nella sua città. Da dove lancia l’avviso ai suoi sulla Diciotti: “Ognuno si assume le responsabilità di quello che vota”. Nel frattempo sulle agenzie planano indiscrezioni sul fastidio di Conte per la votazione sul web. E da Palazzo Chigi smentiscono: “Il presidente non ha mai espresso una posizione in ordine alla consultazione”.

Ma di certo l’avvocato aveva indicato un’altra strada, quella del no all’autorizzazione, subito dopo la lettera del 29 gennaio al Corriere della Sera con cui Salvini aveva annunciato di volersi sottrarre dal processo. Creando di fatto un problema a Di Maio, che da Salvini aveva ricevuto promesse di segno opposto (“Votate pure sì”). E che avrebbe atteso prima di concedergli quell’assist. D’altronde nel suo lungo lunedì il M5S vive di sconquassi emotivi. Per esempio c’è il Garante, Beppe Grillo, che domenica aveva twittato, sarcastico: “Se votì sì vuol dire no…”. E il suo sberleffo aveva irritato i vertici, da dove ormai non lo chiamano più. E il tweet in fondo era nato proprio per questo, perché “non l’hanno consultato né sulla decisione di affidarsi al web e neppure sul quesito” sussurrano. Di Maio prova comunque a tamponare: “Il tweet di Grillo ci stava”.

Ma certe telefonate al fondatore sono arrivate. E allora Grillo abiura: “La mia era solo una battuta montata contro il M5S, ho piena fiducia in Di Maio”. E fa ammenda anche la sindaca di Roma Virginia Raggi, che sul Fatto era stata chiara: “Le responsabilità, anche politiche, devono restare personali”. Ma in giornata smussa: “Le mie parole sul caso Diciotti sono state ingigantite, sostegno pieno alla linea di Di Maio”. E in serata, Di Maio, può gioire con i suoi per il voto, ossia per lo scampato pericolo. Con il sottosegretario Mattia Fantinati, dimaiano doc, che celebra: “Da questo voto il M5S esce rafforzato”. Certo, in assemblea arrivano anche critiche, con la deputata Patrizia Terzoni che attacca i sottosegretari troppo “distanti”. Ma Di Maio ascolta, rassicura, promette. E tanti gli fanno i complimenti. Perché ha vinto anche lui.

Silvio spezza le reni alla cina con Le Pen

La visionenon gli manca, anzi diciamo che abbonda. E se un tempo fu l’Italia il Paese che amava, oggi s’è esteso al continente intero, all’Europa tutta. Ci si riferisce all’ultraottuagenario Silvio Berlusconi e alla viva preoccupazione attorno a cui s’è dilungato ieri sera, ospite di Quarta Repubblica, programma della sua Rete4: “Non immaginavo di dover ritornare in campo, ma l’Italia é in grave pericolo, l’Ue tutta da rifare, il mondo è in pericolo per il regime totalitario giapponese…”. Solo l’intervento del suo dipendente, conduttore pro-tempore, lo ha portato a riconsiderare il ruolo di Tokyo sullo scacchiere internazionale puntando infine il dito su Pechino. Non si può pretendere troppo, l’ora era tarda e la stanchezza a quell’età si fa sentire. Come che sia, il fu Cavaliere ha anche la ricetta per salvarci tutti: si parte dal il Ppe, il Partito popolare europeo “che è e resterà il primo in Europa”, e poi “cercherò di portare a un’alleanza sia Salvini e il suo sovranismo nazionale che Marine Le Pen e il suo conservatorismo nazionale per arrivare a un sovranismo europeo. Così contrasteremo il totalitarismo cinese”. Ecco, poi sconfitta la Cina, faremo il sovranismo mondiale per spezzare le reni ai marziani. Ma questa è già la prossima puntata.

“Impossibile collegarsi”: la furia degli attivisti

“Occorre perserverare, come sempre nella vita”. È il riassunto di un voto online che è diventato scontro, epica, commedia e guai tecnici insieme, prima di consegnare il suo verdetto a tarda sera, con un’ora e mezza di ritardo rispetto al previsto. La suddetta sintesi la concede Albano Dario in un commento sul Blog delle Stelle alle 17:05, ovvero quando ormai i difetti di connessione sarebbero dovuti essere superati. E invece no. La base, già avvelenata nel dibattito sul Sì, No, Sì-per-dire-No o No-per-dire-Sì, manifesta online tutta la sua fatica per celebrare la nuova epifania di democrazia diretta, una corsa a ostacoli che mette a dura prova la tenacia degli iscritti.

Guido, attivista della prima ora, protesta perché non riesce ad accedere al sistema: “Da quattro giorni contatto l’assistenza, la mia email non è riconosciuta, ma non ho ricevuto risposta. Ho scritto anche su Facebook ad Associazione Rousseau, ma hanno visualizzato senza assistermi”. Un voto in meno, dunque, ma non certo un caso isolato. Franz, alle 16:49, è costretto a rinunciare: “Riproverò dopo. Ora non accedo”. Mario Iantorno, poco prima: “Impossibile votare, al momento di passare sulla pagina mi chiede mail e password che metto correttamente, ma dice che è sbagliato”. Salvatore Liccardo, nel primo pomeriggio: “Non si riesce a votare”.

Ore e ore di aggiorna pagina, apri scheda e apri finestra, poi qualcuno, come l’utente noxmaux, si arrende e quasi rimpiange i vecchi tempi: “La prossima volta gazebo, carta e penna. Una mattinata per votare e non ci sono riuscito, rinuncio… grazie lo stesso”. Maria, presa dallo sconforto, arriva persino a esprimere il proprio voto tra i commenti al post sul blog: “Non riesco a votare, ma il mio voto è Sì, i magistrati rossi fanno di tutto per far cadere il governo”. E giù di repliche pubbliche: “Berlusconi, esci da questo corpo!”.

Per non dire delle pene del mattino, quando gli attivisti hanno sincronizzato le pause caffè in ufficio per l’agognato voto, senza però riuscire nell’impresa. E ai primi fortunati che si sono ritrovati la schermata giusta davanti, ecco la sorpresa del quesito cambiato in corsa. Elena Boldrini, verso le 11, allega su Facebook lo screenshot del quiz: “A parte il fatto che non riesco a entrare su Rousseau, ma chi è entrato mi sta dicendo che la domanda è questa. Scusate ma io mi chiudo in silenzio a riflettere”.

E l’attesa prolungata è perfetta per solleticare teorie del complotto, o quantomeno sospetti su una manina interessata a un Sì-per-dire-No. Many fa sapere di non aver ricevuto mail di conferma del voto – “Esco da quest’esperienza con le ossa rotte e tanti dubbi” –, un po’ come Riccardo, che si lamenta della poca trasparenza: “Come si può avere certezza che il sistema abbia registrato la votazione corretta?”. “A voler pensar male – chiosa Guido – stanno pilotando la votazione”. Gli iscritti possono però consolarsi: i loro patemi sono gli stessi degli eletti, primi inter pares, portavoce senza privilegi e dunque anche loro alle prese con i guai della democrazia diretta. La senatrice “ribelle” Elena Fattori già in mattinata sbotta: “Pago 300 euro al mese per Rousseau, dovrebbe funzionare come un orologio svizzero”. Ma anche Alberto Airola, che pure dissidente non è, ammette di aver sudato per far valere il suo No: “Ci ho provato verso le 14 ma era impossibile accedere, ci ho provato per tre o quattro volte, un po’ come quando chiami qualcuno che sta sempre al telefono”. Tempi moderni. O quasi.

“Il voto sancisce la spaccatura: non dirò sì alla legittima difesa”

Era stata tra i firmatari della email con cui a novembre 18 deputati del Movimento avevano chiesto al capogruppo Francesco D’Uva modifiche al decreto Sicurezza, noto anche come decreto Salvini. “Un testo con molte criticità che si rifletteranno pesantemente sulla vita dei cittadini”, scrissero. Ma dopo quella mini-fronda riassorbita in qualche modo, ora Gloria Vizzini, siciliana ma trapiantata ed eletta in Toscana, non ha smesso di porsi dubbi. E alle 22, appena uscito il risultato su Rousseau con il 59 per cento degli iscritti che ha salvato Salvini, commenta: “Sono numeri che raccontano un M5S spaccato”.

Lei cosa aveva votato?

Io ho votato per l’autorizzazione a procedere, perché ci si deve difendere nei processi e tutti sono uguali di fronte alla legge. E questo è sempre stato un principio cardine del Movimento. Però mi stupisce un fatto: i nostri colleghi del M5S che fanno parte della Giunta per le autorizzazioni avevano spiegato di non potersi esprimere senza prima aver letto le carte sul caso Diciotti, e ora invece hanno fatto decidere chi le carte non poteva proprio leggerle.

Perché ha vinto il no ai giudici?

Il quesito era confuso, ma credo abbia prevalso la volontà di preservare il governo. Dopodiché abbiamo anche altri problemi.

Dica pure.

Il disegno di legge sulla legittima difesa, ora in aula alla Camera, non mi convince, per la sua natura di fondo e per alcune norme. Invece il ddl sul referendum propositivo mi piace: ma mi auguro che sia pienamente condiviso con le opposizioni.

In parte è già avvenuto, tanto che è stato inserito il quorum su proposta del Pd.

È vero. Ma ci sono anche proposte per escludere dai temi sottoponibili a referendum materie come le leggi penali. E queste criticità andrebbero valutate bene.

Il nodo però è la legittima difesa, giusto?

Sì. È un provvedimento targato Lega, ed è inutile e pericoloso, perché può far arrivare un messaggio sbagliato ai cittadini, visto che prevede la legittima difesa in caso di una generica violenza. E poi è esclusa la punibilità in presenza di un “grave turbamento”: ma come lo misuri? È tutto affidato alla discrezionalità del giudice.

La linea del M5S però è di votare il ddl senza toccare nulla.

Ci sono principi irrinunciabili, che vanno al di là del contratto di governo. E poi se un provvedimento non può essere toccato, noi cosa ci stiamo a fare? A fare la semplice ratifica di decisioni prese altrove?

Quanti la pensano come lei?

Il malcontento è diffuso. Ma quello più diffuso tocca almeno una decina di miei colleghi.

Lei cosa farà in aula?

Di certo non parteciperò al voto. Poi valuterò.

E con lei altri non voteranno?

Diciamo che ci sono criticità, tali da far riflettere. Ma non voglio parlare per gli altri.

Potrebbe essere sottoposta a sanzioni dal suo gruppo, ne è consapevole?

Io non agisco in base a ciò che potrebbe accadermi, ma in base ai princìpi del Movimento e alla mia coscienza, perché così dice la Costituzione. Come deputati rappresentiamo tutti.

Il M5S sta soffrendo l’accordo con la Lega?

Il Carroccio è in Parlamento da decenni, ed è composto da amministratori inseriti nella società, navigati. Ed è una differenza con noi, che incide. Dopodiché siamo in una campagna elettorale permanente, basata su temi di pancia come la legittima difesa. Mentre i provvedimenti di noi 5Stelle hanno bisogno di tempo per essere assimilati.

Rivelazione di segreto, per l’ex procuratore di Aosta chiesti 3 anni

Il pm di Milano Giovanni Polizzi ha chiesto di condannare l’ex procuratore di Aosta Pasquale Longarini (ora giudice a Imperia) a 3 anni di reclusione per induzione indebita e rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento. Chiesti 2 anni anche all’imprenditore Gerardo Cuomo, titolare del caseificio Valdostano, e 2 mesi per Sergio Barathier, titolare di un albergo di lusso a Courmayeur, entrambi accusati di induzione indebita. Secondo l’accusa Longarini, “abusando delle sue qualità di pubblico ufficiale”, in quanto stava trattando “un procedimento penale a carico di Barathier, in accordo con Cuomo, sollecitava Barathier ad effettuare forniture di prodotti dal Caseificio valdostano per il suo hotel. Operazione che è andata a buon fine. Quanto all’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento, Longarini nell’aprile 2015, “in qualità di pubblico ministero”, avrebbe aiutato Cuomo “ad eludere le investigazioni condotte dalla Dda di Torino” in un “procedimento penale” in “materia di criminalità organizzata, rivelandogli” di essere “sottoposto ad intercettazioni telefoniche. In cambio Cuomo avrebbe regalato al magistrato una fornitura di mozzarelle e un viaggio in Marocco.

Pro Piacenza radiata, la (tardiva) mossa Figc

Il risultato viene cancellato, la vergogna resta: Cuneo-Pro Piacenza, la partita giocata in 11 contro 7 (6 ragazzini più il massaggiatore) finita 20-0, non è stata omologata. Sconfitta a tavolino ed esclusione dal campionato, la mossa (tardiva) della Lega Pro per mettere una pezza a quanto successo domenica in Serie C: il club emiliano del patron Maurizio Pannella, già indagato per truffa, a un passo dal fallimento e rimasto senza veri giocatori, pur di non far scattare la radiazione si è presentato in campo con una squadra farsa. Nel comunicato del giudice sportivo si parla di “consapevoli, plurime e fraudolente violazioni regolamentari”: su 8 giocatori quattro avevano un tesseramento irregolare. Per questo gara persa 3-0, quarta sconfitta a tavolino ed esclusione, con la Figc che ha già revocato l’affiliazione. I risultati delle partite giocate sono stati annullati, riscrivendo la classifica, quelle ancora da disputare verranno assegnate d’ufficio agli avversari. È il secondo club che salta dopo il Matera, con Cuneo e Lucchese a rischio e 61 punti di penalizzazione totali. Parlare di campionato falsato è riduttivo. Finisce così la brutta storia del Pro Piacenza, su cui come rivelato dal Fatto ci sono ombre di illeciti, tra pagamenti sospetti e bonifici falsi su cui indaga la procura. Resta una domanda: a chi fa comodo che una squadra professionistica si presenti con sette ragazzini rimediando una figuraccia planetaria? Evidentemente al proprietario, il presidente Pannella, già accusato di truffa, appropriazione indebita e fatture false, che non vuole portare i libri in tribunale.

La Sèleco, la sua azienda di televisori che controlla il club, è in crisi e ha chiesto il concordato preventivo: la squadra è un asset prezioso, se fallisse la procedura potrebbe risentirne. I rossoneri dovevano giocare, a qualunque costo. Domenica Damiano Tommasi, dell’AssoCalciatori, ha tirato in ballo anche Claudio Lotito, “presidente presente/assente”. Lui col Pro Piacenza in teoria non c’entra nulla, ma il collegamento è noto: la Sèleco era sponsor della Lazio per 4 milioni a stagione, cifra da capogiro per un’azienda che a fine anno ne avrebbe fatturato appena uno e mezzo. Come è noto che in estate il Pro Piacenza ha contato sull’appoggio della Salernitana (altro club della galassia lotitiana), da cui sono arrivati vari giocatori, prima del fuggi fuggi generale per gli stipendi non pagati. Tra gli artefici del capolavoro di Cuneo, infine, Carmine Palumbo, neodirettore della squadra da qualche giorno: manager di Benevento, il suo nome compare in altre situazioni simili, dall’Orlandina (che nel 2015 in Serie D una volta non si presentò in campo) al Lecco; in estate aveva provato ad aggiudicarsi i titoli sportivi di Cesena e Reggiana (respinto per mancanza di garanzie), prima di spuntare a Piacenza. Sono tanti gli interrogativi su questo disastro sportivo. Le risposte hanno poco a che fare con il calcio.

Lega e Regioni di traverso. Il reddito si arena in Senato

La guerra del reddito di cittadinanza vede il Movimento 5 Stelle impegnato a combattere su due fronti diversi. Il primo è con gli alleati della Lega che stanno cercando di inserire paletti sempre più stringenti alla misura. Il secondo è con le Regioni che non sono disposte ad accettare che sia il governo ad assumere i 6 mila navigator attraverso la società Anpal Servizi. Il cammino di conversione del decretone, insomma, si fa sempre più una corsa a ostacoli. E il 6 marzo, data di apertura delle domande sul sito web, si avvicina.

La giornata di ieri ha prodotto un nulla di fatto in Senato: la seduta della commissione è stata “sconvocata”. Il governatore della Toscana Enrico Rossi, inoltre, ha detto che sta per essere presentato un ricorso alla Corte costituzionale per rivendicare la competenza regionale sul reclutamento di personale nei centri per l’impiego. I lavori parlamentari sono bloccati, perché manca un accordo tra i due partiti di maggioranza. La Lega ha presentato una serie di emendamenti che hanno l’obiettivo di mostrarsi meno generosi al proprio elettorato, in particolare verso quella parte più critica nei confronti di un provvedimento giudicato troppo assistenziale. Uno degli obiettivi del Carroccio è rendere temporaneo il sussidio che, secondo l’Inapp (l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche), ha una platea potenziale di 4 milioni di persone. Il decreto approvato dal governo prevede solo lo stop and go di un mese ogni anno e mezzo, ma se la famiglia ha ancora i requisiti è riattivabile infinite volte. La Lega vorrebbe invece che diventi rinnovabile una sola volta. Tre giorni fa il viceministro dell’Economia Massimo Garavaglia ha detto che “il reddito di cittadinanza non può essere sine die”. La sua omologa pentastellata Laura Castelli ha risposto che non ci sarà “nessuna modifica” e che “se qualcuno vuole mettere in dubbio la formulazione uscita dal Consiglio dei ministri, deve prima parlare con i due vicepremier e con il premier”. Dopo l’annullamento della seduta di ieri, il presidente della commissione Bilancio al Senato Daniela Pesco (Movimento Cinque Stelle) si è lasciato andare a un’ammissione: “C’è qualcosa che non va tra noi e il governo e gli uffici. È una sofferenza – ha detto – dover ammettere che c’è qualcosa di questa portata che non va. Questa volta non me lo aspettavo neanche io che si arrivasse a tanto”. Oggi si farà un nuovo tentativo.

Ancora più complesso è lo scontro con le Regioni, perché qui gli interlocutori sono venti diversi e tra l’altro è ormai all’orizzonte uno scontro alla Consulta. La Toscana ha annunciato il ricorso ma non dovrebbe essere l’unica. “In Toscana – ha detto il presidente della Giunta Enrico Rossi – non ci saranno navigator presi come precari e assunti senza le procedure concorsuali previste dalla Costituzione”.

Il problema è che il governo vuole usare la società per azioni pubblica Anpal Servizi per assumere i 6 mila navigator inquadrati come co.co.co. che dovranno seguire i percettori del reddito di cittadinanza e permettere alle Regioni di assumerne altri 5.600 (4 mila a tempo indeterminato e 1.600 per due anni). Le Regioni si oppongono ricordando che la competenza sulle politiche attive del lavoro è concorrente (sarebbe diventata statale se avesse vinto il sì al referendum costituzionale del 2016). Quindi vogliono assumerli tutti direttamente nei propri centri per l’impiego sui quali hanno la titolarità; al massimo permettere ad alcune Regioni di avvalersi del personale dell’Anpal Servizi stipulando una convenzione con la società. Questa vicenda sarà una patata bollente nelle mani di Mimmo Parisi, prossimo a diventare presidente dell’Anpal. Quello attuale, Maurizio Del Conte, ha già fatto sapere che non intende firmare alcuna assunzione di navigator senza un accordo tra governo e Regioni.