Seif presenta la comunicazione di pre-ammissione per la quotazione su Aim Italia

Società Editoriale Il Fatto S.p.A. (“SEIF” o “Società”), media content provider ed editore, tra l’altro, de Il Fatto Quotidiano e di diversi altri prodotti editoriali e multimediali, annuncia di aver presentato ieri a Borsa Italiana la Comunicazione di Pre-Ammissione per la quotazione sul mercato AIM Italia.

Il collocamento è strutturato mediante un’offerta in vendita di azioni proprie per complessive massime n. 6.417.893 azioni (“Azioni”), pari al 25,7% del capitale sociale e warrant denominati “Warrant SEIF 2019-2021” (“Warrant”).

La forchetta di prezzo delle Azioni è stata fissata tra Euro 0,72 ed Euro 0,88 per azione. Verrà assegnato gratuitamente n.1 Warrant per ogni azione di SEIF detenuta da tutti gli azionisti che saranno tali alla data di inizio delle negoziazioni delle Azioni dell’Emittente su AIM Italia.

I proventi rivenienti dalla vendita di azioni proprie serviranno a supportare il piano di crescita di SEIF, che la vede impegnata in una strategia di sviluppo digitale e data driven, e nella diversificazione del portafoglio di prodotti con particolare attenzione alla produzione televisiva e allo sviluppo della piattaforma di contenuti per la Web TV Loft.

Cinzia Monteverdi, Presidente e AD della società, ha commentato: “Con il percorso di crescita che abbiamo intrapreso vogliamo portare SEIF verso un futuro sempre più digitale, per essere protagonisti della transizione storica che oggi sta coinvolgendo profondamente il mercato dell’informazione e dell’editoria.

Vogliamo affrontare al meglio questa rivoluzione, esprimere tutte le nostre potenzialità per superare il publishing tradizionale e assecondare i trend di crescita che stanno interessando le nostre aree digitali e multimediali. Ciò richiede un vero e proprio cambio di mentalità, un rinnovamento che va dalla struttura e metodo di lavoro delle redazioni agli strumenti di fruizione dei nostri prodotti”.

Nel processo di ammissione alla quotazione la Società è affiancata da Advance SIM nel ruolo di Nomad e Joint Global Coordinator, da Fidentiis nel ruolo di Joint Global Coordinator e da Emintad Italy in qualità di financial advisor. Directa SIM è l’intermediario finanziario incaricato della ricezione ordini segmento retail. Nctm agisce in qualità di legal advisor, Kpmg come società di revisione e Studio Gnudi come advisor fiscale. Close to Media è consulente per la comunicazione.

“Così noi Santapaola salvammo quel pm ‘condannato’ da Riina”

Falcone e Borsellino a Palermo, il procuratore aggiunto Mario Busacca a Catania: nel contesto della strategia stragista dell’estate infuocata del ’92 c’era un’altra vittima “eccellente”, come i suoi colleghi del capoluogo siciliano il magistrato doveva essere ucciso all’ombra dell’Etna dai killer di Cosa Nostra. A salvargli la vita, opponendosi alla furia omicida corleonese, furono i vertici della famiglia Santapaola, e a rivelarlo è stato ieri il nipote di don Nitto, Vincenzo, rendendo spontanee dichiarazioni al processo d’appello per l’omicidio di Luigi Ilardo, il confidente ucciso a Catania pochi mesi dopo avere dato preziose indicazioni per la cattura del boss Bernardo Provenzano.

“Fu Natale Di Raimondo – ha detto – a portare l’ordine da Palermo, ma io mi opposi perché eravamo contrari a delitti eclatanti. A Catania si poteva stare tranquilli’’.

I corleonesi divisi tra “falchi e colombe”

Finalizzate a un tentativo di ribaltare la condanna all’ergastolo subita in primo grado (“con il gruppo di Monte Po eravamo avversari, non potevamo uccidere insieme Ilardo) le sue parole riaccendono i riflettori sugli equilibri e le alleanze dei corleonesi, divisi in “falchi e colombe’’, durante le stragi del ’92, segnate da rapporti con esponenti deviati dei servizi. E se da Palermo Totò Riina premeva sull’acceleratore dei delitti eccellenti, a Catania Nitto Santapaola, dopo avere condiviso la strategia stragista decisa a Enna nell’autunno del ’91, frenava e dissimulava in quella fase segnata da sospetti interni e tatticismi: tra Capaci e via D’Amelio, racconta il pentito Maurizio Avola, arrivano a Catania il boss Bagarella “e altri due’’ per illustrare ai catanesi la strategia di attacco allo Stato: “Ci chiesero di uccidere magistrati, esponenti delle forze dell’ordine, di fare attentati e ‘fare rumore’ – ha detto Natale Di Raimondo, poi pentito – ciò dovevamo fare in provincia di Catania. Ricordo che Nitto e Turi Santapaola, in loro presenza, dissero che avrebbero aderito a questa strategia, poi quando i corleonesi se ne andarono, manifestarono ai noi affiliati le loro perplessità’’. In un primo tempo, tuttavia, Santapaola aderì a quell’invito: “Bisognava fare credere ai Corleonesi che seguivamo quelle indicazioni e, per questo, nel luglio 1992, venne ucciso, subito dopo via D’Amelio, l’ispettore di PS Lizio’’, ha aggiunto Di Raimondo.

Il piano per prendersi il vertice “catanese”

Ma l’omicidio di un procuratore avrebbe attirato la reazione dello Stato, e Nitto Santapaola si oppose. Per questa ragione Riina, raccontano più collaboratori, aveva affiliato Santo Mazzei, detto u carcagnusu, avversario storico dei Santapaola, con l’obbiettivo di sostituire don Nitto al vertice della famiglia catanese. “Santo Mazzei era uno dei principali fautori della strategia stragista ed era soggetto dalle forti simpatie di destra, meglio di estrema destra’’ – ha detto il pentito Maurizio Avola, e nell’ottobre del ’92 fu lui a piazzare il proiettile di artiglieria nel giardino di Boboli, a Firenze: il prologo della stagione stragista del ’93.

Il proiettile a Boboli e il prologo del ’93

Glielo aveva consegnato Giovanni Bastone, un massone trapanese che viveva a Torino e lui era andato a piazzarlo sotto la statua di Marco Cautius. “Si vantò con me di avere messo l’ordigno nel giardino di Boboli a Firenze su richiesta dei Corleonesi, – ha rivelato Di Raimondo – la cosa la fece all’insaputa di Nitto Santapaola come lo stesso Santapaola mi disse quando io gli raccontai il fatto’’.

Cogne, morta sugli sci una ragazza di 13 anni. Quinto caso in 2 mesi

Salgono a cinquele morti sulle piste da sci in questi prime due mesi del 2019. Dopo Camilla Compagnucci al Sestriere in Piemonte, Emily Formisano e la madre Renata Dyakowska sul Corno del Renon in Alto Adige e uno studente di 17 anni in settimana bianca con la scuola in Friuli Venezia Giulia, ieri pomeriggio è morta in seguito a una caduta una 13enne francese a Cogne, in Val d’Aosta. La ragazzina e la sorella stavano facendo lezione con un maestro di sci a Sylvenoire lungo la pista numero 2 – una “rossa” di media difficoltà – quando lei sarebbe scomparsa all’improvviso finendo fuoripista e subendo un violento trauma, nonostante indossasse il casco, nell’impatto con un albero. Questa dinamica dei fatti è stata però ipotizzata a posteriori, perché la sorella e il maestro non si erano accorti che lei non era più con loro ed erano arrivati in fondo alla pista dove aspettavano anche i loro genitori. Dopo alcuni minuti di attesa hanno dato l’allarme e sono stati i pisteurs valdostani a trovarla in una zona poco visibile e impervia. Secondo il presidente dell’Associazione valdostana maestri di sci Beppe Cuc, la ragazza potrebbe aver “sbagliato una curva ed è uscita di pista”.

Botte e bimbi lasciati sul balcone per punizione: l’asilo dell’orrore a casa della “Tata Patrizia”

Professava il metodo Montessori ma poi strattonava, insultava e obbligava i bambini a mangiare con la violenza. Per questo Patrizia Madotto, conosciuta come “Tata Patrizia”, è stata arrestata ieri dai carabinieri di Siena con l’accusa di maltrattamenti. La donna, 52 anni e con un precedente alle spalle per lo stesso reato, aveva messo in piedi un nido domiciliare nella sua casa a pochi passi dal centro storico: qui accoglieva sei bambini tra i sei mesi e i tre anni, figli di famiglie agiate in grado di pagare rette fino a 600 euro al mese. L’indagine portata avanti dal Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Siena e condotta dalla Procura locale era partita a gennaio dopo la denuncia di due madri che avevano notato problemi di sonno e di agitazione nei propri figli. Non solo: a incastrare l’educatrice sarebbe stata anche una ex collaboratrice che avrebbe denunciato ai carabinieri “procedure educative poco ortodosse”. Così, fingendosi operai del gas, gli investigatori avevano piazzato microspie e telecamere nella casa della donna.

In un mese sono stati accertati molti casi di strattonamenti, botte e violenze per obbligare i bambini a mangiare con la forza: per costringere i bambini ad aprire la bocca la 52enne tappava loro il naso ed esercitava pressioni allo sterno. Durante un blitz di pochi giorni fa, i carabinieri hanno anche accertato una violenza in flagranza: la donna stava punendo una bambina lasciandola al freddo sul balcone con pianti e urla sentite anche dai passanti. “L’inaudita intensità degli atti di vessazione – scrive il gip nell’ordinanza di custodia cautelare – fanno emergere la volontà dell’indagata di sottoporre le piccole vittime a una serie di sofferenze fisiche e morali in modo continuato e abituale e di rendere alle stesse l’esistenza impossibile in modo da lederne complessivamente la personalità”. Durante una perquisizione gli investigatori hanno trovato anche una fascetta elastica usata dalla donna per legare i bambini a letto obbligandoli a dormire. L’educatrice ora si trova ai domiciliari.

Caos rifiuti, dopo le dimissioni dell’assessore Montanari, Virginia Raggi azzera il cda Ama

Dieci giorni dopo le dimissioni dell’ex assessore all’Ambiente Pinuccia Montanari, ieri è arrivato anche l’azzeramento del Cda di Ama – l’azienda partecipata dei rifiuti del Campidoglio – da parte della sindaca Virginia Raggi. Una mossa a completamento di una crisi che vede ora l’intera filiera di gestione politica e tecnica della raccolta e lo smaltimento dei rifiuti a Roma temporaneamente priva di una guida. La contesa tra il management di Ama e il Campidoglio è iniziata la scorsa estate, attorno al mancato riconoscimento da parte del Comune di una posta contabile di 18 milioni di euro reclamata dall’azienda per la gestione dei servizi cimiteriali. A dicembre scorso era arrivata una parziale schiarita con l’approvazione del bilancio Ama del 2017 da parte dell’azienda, visto che il Comune che aveva autorizzato la società ad accantonare la passività per poter chiudere i conti. Dieci giorni fa però la situazione è precipitata, con la giunta comunale che ha bocciato la proposta di bilancio della società, una vicenda su cui indaga anche la Procura di Roma. Ieri la sindaca e la giunta avrebbero contestato ai vertici di Ama il mancato raggiungimento degli obiettivi fissati dal Campidoglio all’azienda.

L’azzeramento del Cda di Ama cade nel mezzo di una crisi di raccolta e smaltimento che si protrae da due mesi, aperta dal rogo del Tmb Salario a inizio dicembre. Ai sindacati la Raggi avrebbe annunciato un veloce cambio alla guida di Ama, con il nome di Stefano Zaghis (vicino al presidente dell’Assemblea Capitolina Marcello De Vito) che rimane in pole tra i papabili alla guida dell’azienda. Non è escluso però che prima della nomina del nuovo management possa essere il collegio sindacale ad approvare il documento contabile 2017 di Ama. Una soluzione però di cui andrebbe verificata la regolarità procedurale. Nel frattempo resta da trovare anche un nuovo assessore all’Ambiente.

Senza strada da 13 anni, il sindaco chiede aiuto ai vip: “Martin Scorsese, dacci una mano tu”

Per riaprire al traffico la provinciale 119, che unisce Polizzi Generosa (Palermo) a Piano Battaglia, la stazione sciistica dei palermitani, chiusa da 13 anni, il sindaco Giuseppe Lo Verde (Pd) si affida a 10 testimonial vip, da Michele Serra a Martin Scorsese, da Antonio Albanese allo stilista Domenico Dolce: insieme ad altri 6 volti noti legati a Polizzi, sono stati nominati dal sindaco “ambasciatori” del paese nel mondo, per denunciare la chiusura della strada dopo la caduta di un solo masso e mai più riaperta, che taglia fuori il paese dall’economia del turismo della neve.

A loro, ma anche al vescovo di Cefalù, Giuseppe Marciante, al pittore Croce Taravella, al fotografo Luciano Schimmenti, tutti personaggi legati a Polizzi (Scorsese è cittadino onorario, suo nonno, Francesco Paolo Scozzese nacque a Polizzi nel 1886) Lo Verde chiede un appello per la riapertura della strada: “Possono inviarlo a me e io lo farò avere al mio ufficio informazioni per diffonderlo e farlo conoscere”. Il ricorso agli ‘ambasciatori’ per sensibilizzare il governatore Nello Musumeci è l’ultima spiaggia del sindaco che ha deciso di trasferire per protesta le riunioni di giunta in una tenda, a Piano Colla, tra la neve, chiedendosi: “Quali interessi si nascondono dietro questa chiusura? A quale comune giova impedire il collegamento che unisce Polizzi con Piano Battaglia?”. Non è la prima volta che il sindaco ricorre a uno stratagemma mediatico, che in questo caso ha un indubbio valore di denuncia, per richiamare l’attenzione dei media: nel 2017, secondo l’accusa, avrebbe infilzato nel cancello della sua casa di villeggiatura una testa di cinghiale, simulando un’intimidazione mafiosa ai suoi danni. Le indagini dei carabinieri avrebbero accertato, però, che quella testa si trovava a 30 metri dal cancello già nella mattina, abbandonata da qualcuno, e Lo Verde che ha sempre negato ogni accusa, è stato rinviato a giudizio dal gip di Termini Imerese per simulazione di reato.

Croce Rossa in rosso: gli enti non pagano, lavoratori senza stipendio da novembre

Sfrecciano per le strade della Capitale per salvare la vita di quanti chiamano il 118. Lavorano con i migranti nei centri di accoglienza. E poi si occupano di servizi ambulatoriali, assistono chi vive in strada e organizzano corsi di formazione e servizi alla persona di ogni sorta. Da mesi però il loro lavoro non viene retribuito. Sono gli uomini e le donne della Croce Rossa Italiana di Roma, un esercito di oltre 200 persone che dal novembre scorso non percepiscono stipendio. Eppure continuano a garantire un servizio indispensabile per i cittadini. “Si tratta di personale qualificato impegnato in servizi alla persona ed emergenziali”, spiega Massimiliano Marzoli, della Funzione Pubblica della Cisl Lazio, puntando il dito contro “le storture burocratiche che bloccano le risorse” destinate al “personale di ambulanza”. “In realtà, il problema non riguarda solo il personale addetto ai servizi di emergenza e attività di soccorso sanitario, ma tutta la Croce Rossa”, afferma il direttore della Cri di Roma, Pietro Giulio Mariani.

Se i lavoratori non percepiscono il salario un motivo c’è: “Molti enti non hanno pagato o lo fanno in ritardo”, continua il dottor Mariani. Numerosi comuni o prefetture infatti non versano i soldi dovuti alla Croce Rossa per i servizi resi, o li versano in ritardo: “In alcuni casi anche di sei mesi o di un anno”. Questo crea difficoltà ai bilanci dell’associazione, che si ritrova a non poter saldare gli stipendi o le forniture nei tempi previsti. E tra crediti maturati e debiti da pagare ci sono le vite di oltre 200 persone. Per questo il 31 gennaio scorso la Cisl ha scritto alla Croce Rossa, all’Azienda Regionale di Emergenza Sanitaria, all’assessore regionale alla Sanità, Alessio D’Amato, e al capo di Gabinetto del Presidente della Regione, Albino Ruberti: “In considerazione della gravità della situazione, risultano necessari interventi mirati e tempestivi”, si legge nella missiva in cui viene richiesto un incontro urgente. “Sia l’Ares che la Regione sono rimasti in silenzio”, denunciano dal sindacato.

Proprio come accaduto dopo 15 giorni, quando è stata inviata una seconda lettera. Non tutti hanno preferito tacere. La Croce Rossa infatti, riconoscendo le “evidenti criticità” e “l’abnegazione e diligenza” con le quali il personale continua a lavorare, ha spiegato che l’Ares ha saldato tutte le fatture emesse, proprio come la Regione. E ancora: “L’obiettivo primario è quello di tornare a una regolare erogazione degli stipendi”, scrive la Cri rendendosi disponibile a un incontro. A proporre una soluzione è sempre la Cisl: “L’Ares (l’ente committente ndr) deve attivare la procedura di surroga e sostituirsi alla Croce Rossa”, afferma il segretario generale della Funzione Pubblica, Roberto Chierchia. E se così non fosse: “Siamo pronti a mettere in atto tutte le iniziative di lotta necessarie per garantire lavoratori e servizi”.

Le Monde: “Seconda denuncia contro il nunzio Ventura”

Una seconda denuncia è stata depositata ieri a Parigi contro il nunzio apostolico, monsignor Luigi Ventura, ‘ambasciatore’ della Santa Sede in Francia. È quanto scrive Le Monde.fr, lo stesso giornale che venerdì scorso ha rivelato l’apertura di un’inchiesta nei suoi confronti per aggressione sessuale. Questa volta, a denunciare l’alto prelato, è Benjamin G, 39 anni, anch’esso collaboratore del comune di Parigi come la prima vittima presunta. I fatti, questa volta, risalirebbero a metà gennaio 2018, quindi un anno prima dell’altra vicenda, durante la cerimonia di auguri di inizio anno all’Hotel de Ville di Parigi. “All’epoca – racconta Benjamin G., citato da Le Monde – avevo un contratto al Comune di Parigi, che prevedeva precisi compiti da svolgere nell’ambito della cerimonia di auguri alle autorità civili, diplomatiche e religiose. Mi trovavo in prima fila, a due metri (dalla sindaca) Anne Hidalgo, quando è giunta una persona sulla mia sinistra. Ha poggiato la mano sinistra sulla mia spalla e con la mano destra, mi ha afferrato le natiche. (…) Ero stupefatto, (…) me ne sono andato”. I fatti descritti da Benjamin G. assomigliano a quelli della prima denuncia, che però parla di un episodio risalente al 17 gennaio scorso.

“Stuprato da un prete. Ora potrò guardare il Papa negli occhi”

Domani vedrò il Papa. Dopo tanti anni finalmente potrò parlargli. Guardarlo negli occhi.

Francesco Zanardi, lei oggi ha 48 anni. Da ragazzo è stato abusato da un sacerdote. In Italia è il grande “cacciatore” di pedofili. E adesso va in Vaticano per il summit per la Protezione dei minori voluto da Bergoglio da giovedì a domenica. Avrà un incontro riservato con lui.

Lo ammetto: sono emozionato. Trovarsi l’uno di fronte all’altro, guardarsi negli occhi e finalmente potersi parlare.

È stato lei a chiedere l’incontro?

Lo avevo chiesto per anni. Inutilmente. Stavolta invece è stato il Vaticano a cercarci. Forse ha pesato la decisione dell’Onu cui ci eravamo rivolti come Ega (Ending Clergy Abuse, l’associazione che raccoglie vittime di tutto il mondo). Ha puntato il dito contro i Patti Lateranensi e le tutele previste per i cardinali in materia penale.

Dopo tanti anni di attesa che cosa vorrebbe dire al Papa?

Ascolterò, ovviamente. E poi gli esporrò le nostre proposte. La prima: l’obbligo per i vescovi di denunciare i casi di pedofilia. In tutti i Paesi, non soltanto in alcuni. E poi: d’accordo per i processi canonici, ma servono anche quelli dei tribunali. Perché la Chiesa punisce chi trasgredisce il sesto comandamento, cioè la colpa verso Dio. Ma bisogna punire anche la colpa verso i bambini stuprati.

Racconterà la sua storia?

Non sono lì per parlare di me. Sono uno tra migliaia.

Anche lei è stato abusato da un sacerdote…

Sì. Avevo tredici anni. Mia madre era molto devota, mi mandava in parrocchia. A Spotorno (Savona) dove vivevamo non c’era altro. E un giorno il sacerdote… mi ha stuprato. Era il 1981, è andata avanti per anni.

La Curia di Savona cosa ha fatto?

Quel prete è rimasto indisturbato fino a dopo il Duemila, addirittura era stato destinato a una comunità di minori. Poi ha deciso di lasciare la tonaca. Ed è stato condannato a poco più di un anno di carcere, per il resto è intervenuta la prescrizione.

E lei invece…

A quindici anni ero distrutto. Ho cominciato a drogarmi, mi sono ammalato.

La violenza le ha spezzato la vita?

Quasi. Mi sono trovato a trent’anni senza aver avuto una vita affettiva e sessuale, se non con un prete. Poi finalmente sono riuscito a esprimere la mia omosessualità. Ma l’incubo era ancora dentro di me: nel 2010 il pm di Savona che indagava sul prete mi ha convocato. E quello che avevo coperto, rimosso è venuto fuori. È esploso. Il mio compagno mi ha lasciato. Mi sono trovato solo. Così ho dovuto decidere: lasciarmi andare o cercare di battermi per cambiare le cose. Ho scelto questa strada.

Ha fondato retelabuso.org, un punto di riferimento per le vittime di tutto il mondo…

Abbiamo quasi mille aderenti. Stiamo seguendo decine di casi in tutta Italia grazie alla collaborazione di 21 studi legali. Sono partito dalla mia città. Dal silenzio con cui la Chiesa ligure ha coperto le violenze a danno dei bambini. Poi da Albenga, diventata un refugium peccatorum di sacerdoti pedofili provenienti anche dall’estero. Preti che continuavano a celebrare e vivere in mezzo ai fedeli. Denunciando abbiamo creato una rete, trovato altri casi in tutta Italia e in mezzo mondo. Scovato sacerdoti che venivano nascosti dalla Chiesa nonostante le accuse pesantissime.

Ma adesso Bergoglio sembra aver cambiato corso…

Gli sono grato di questo incontro. Sono emozionato. Ho grande rispetto per lui, ma devo anche essere sincero: non vedo grandi cambiamenti in confronto agli anni 90 quando lo scandalo pedofilia emerse in America. Siamo ancora qui a dover decidere le linee guida. So che Bergoglio deve fronteggiare grandi resistenze interne, ma non posso tacere che durante il suo pontificato sono stati nominati vescovi alcuni sacerdoti sospettati di aver taciuto sulle violenze. Non posso tacere quando vedo sacerdoti ridotti allo stato laicale in una settimana perché dichiarano di essere gay, mentre preti pedofili non sono toccati. No, devo essere sincero: è cambiato troppo poco in vent’anni e intanto migliaia di altri bambini sono stati abusati.

Lei da bambino credeva in Dio. E adesso?

No, sono ateo. Ma non odio la Chiesa, la mia non è una crociata contro l’istituzione. E ho rispetto per chi ha fede e per l’idea di Dio. Chi ci ha fatto tanto male non è in cielo, ma in terra. I colpevoli sono persone: i sacerdoti che hanno abusato di noi e chi li ha coperti. Bisogna affrontare il problema subito, per salvare tanti bambini. La loro vita viene prima di tutto. Questo dirò a Francesco.

Il Venezuela è “cattivo”, l’Albania che si rivolta no

Domenica a Tirana l’opposizione ha portato in piazza 50 mila persone, non poche per un Paese con meno di tre milioni di abitanti, proporzionalmente molte di più di quelle mosse dall’opposizione in Venezuela che di abitanti ne ha 32 milioni, contestando il presidente albanese Edi Rama. Alcuni dei manifestanti sono riusciti a penetrare nel palazzo del governo. Ci sono stati scontri con la polizia con un bilancio di cinque o sei feriti. Immediatamente l’Unione europea e gli Stati Uniti hanno condannato l’opposizione e le sue violenze. Curioso. Perché la situazione albanese è quasi speculare a quella venezuelana. Sia Edi Rama che Maduro sono al loro secondo mandato, eletti per la prima volta nel 2013, la seconda nel 2017. Entrambe le opposizioni sostengono che le elezioni del 2017 sono state taroccate, con l’aggravante però per Edi Rama di aver comprato i voti con i soldi dei narcotrafficanti, contestazione che a Maduro non viene mossa. In quanto alle violenze, in Venezuela, prima che gli americani si inventassero il carneade Guaidó ‘presidente ad interim’ che dovrebbe condurre il Paese a nuove e libere elezioni, c’erano stati scontri fra le opposte fazioni, cioè fra i contestatori e i sostenitori di Maduro (non scontri fra oppositori e la polizia o l’esercito) che avevano fatto 147 vittime, equamente divise fra le due parti. Se la matematica non è un’opinione, le violenze dell’opposizione venezuelana sono state di gran lunga superiori a quelle dell’opposizione albanese.

A Maduro come capo d’accusa principale resta quindi il fatto che sarebbe autore di una sorta di ‘colpo di Stato istituzionale’ avendo esautorato il Parlamento in favore di un’Assemblea costituente sotto il suo controllo e che quindi Guaidó sarebbe il legittimo ‘presidente ad interim’. Ma anche questo è controverso. Cioè non è certo che la mossa di Maduro vada contro i dettami della Costituzione venezuelana. Mentre è certo, sempre secondo questa Costituzione, che Guaidó non ha alcuna legittimità come ‘presidente ad interim’.

In ogni caso, Maduro deve essere un dittatore ben strano. L’altra sera in una ricca casa milanese era stato organizzato un collegamento televisivo con una giornalista venezuelana, dell’opposizione naturalmente, che diceva le peggiori nefandezze su Maduro, descrivendolo come un gangster, per soprammercato anche comunista e se non mangiava i bambini poco ci mancava. Le ho chiesto dove si trovasse. “In Venezuela” ha risposto. Le ho chiesto anche se stesse trasmettendo da una Tv locale. Ha risposto affermativamente. Le ho fatto allora notare che evidentemente non tutto il sistema dei media era in mano al regime. Ho sottolineato ancora che in una dittatura vera e propria esponenti dell’opposizione non potrebbero uscire liberamente dal Paese, come hanno fatto quelli che sono venuti in Italia a perorare la loro causa col nostro ministro degli Esteri, e tantomeno potrebbero rientrarvi senza andare dritto e di filato in gattabuia, come succederebbe a Puigdemont costretto all’esilio dalla pur democratica Spagna.

In ogni caso, sia l’opposizione venezuelana che quella albanese chiedono nuove elezioni, libere e al più presto. Ma mentre l’Unione europea e gli Stati Uniti considerano le nuove elezioni un obbligo per Maduro, pena la defenestrazione manu militari da parte americana, nessuno si sogna di imporre lo stesso obbligo al presidente albanese Edi Rama che anzi le ha escluse tassativamente.

In Albania, sia Edi Rama sia il capo dell’opposizione Basha si accusano reciprocamente di corruzione. Ed è probabile, per non dir certo, che abbiano ragione entrambi. L’Albania democratica è infatti uno dei Paesi più corrotti al mondo in cui la criminalità organizzata, sotto varie forme, spadroneggia a tutti i livelli. Dell’Albania comunista, chiusa nel suo maoismo integrale, si è sempre saputo pochissimo. Ma è difficile pensare che, proprio per questa chiusura, potesse intessere traffici di stupefacenti e di armi con i Paesi al di là dell’Adriatico, come avviene oggi con la Sacra corona unita. Inoltre quell’Albania era sicuramente povera ma non miserabile. Tutti, o almeno quelli che hanno l’età per farlo, ricordiamo la prima emigrazione albanese del 1990/91, quando gli abitanti del ‘Paese delle Aquile’, caduto il regime, si riversarono sulle nostre coste attratti dalle bellurie occidentali che avevano potuto finalmente vedere in televisione. Erano contadini, pastori, allevatori, ben nutriti e nient’affatto in male arnese. Oggi in Albania ci sono sperequazioni sociali spaventose fra minoranze criminali, politiche e non, e il resto della popolazione. Inoltre il cancro della criminalità albanese è stato esportato, con varie metastasi, nel resto dei Balcani, in Bosnia, in Kosovo. È una conseguenza della guerra americana a Belgrado del 1999 che intendeva sostituire la ‘Grande Serbia’ sognata da Milosevic con una ‘Grande Albania’. Operazione riuscita. Peccato che Milosevic fosse una sorta di ‘gendarme’ dei Balcani che teneva in qualche modo sotto controllo le organizzazioni criminali, mentre adesso queste organizzazioni (trafficanti di droga, di armi, di uomini) sono concresciute in modo vertiginoso e vanno a concludere i loro primi affari nel Paese ricco più vicino, l’Italia. L’intenzione degli americani era di creare nei Balcani una sorta di filiera di musulmanesimo moderato (Albania + Bosnia + Kosovo) a favore del loro grande alleato di sempre, la Turchia, questa grande portaerei naturale collocata fra Europa e Medio Oriente. Ma oggi la Turchia sembra molto più alleata dei russi che degli americani, che pur vi mantengono la grande base aerea di Incirlik, e che nel cosiddetto islamismo moderato si siano incistate numerose cellule dell’Isis.

Infine una notazione che ci riguarda. Si ribellano i francesi (Gilets jaunes), si ribellano gli albanesi, si ribellano i serbi, si ribellano i rumeni che alcuni mesi fa, con dimostrazioni violente, hanno ricacciato in gola al governo una legge ‘salvacorrotti’. I nostri giovani, pallidi, estenuati, evanescenti, non muovono invece boccia, accettando ogni sorta di sopruso. Io gli manderei a fare degli stage non alla Bocconi, ma in Iraq o in Afghanistan o fra i curdi, per recuperare quello che oggi totalmente manca loro: le palle.