Una pallottola per 50 Cent. Lo “scherzo” di un poliziotto

Se incontrate il rapper 50 Cent sparate a vista. A dirlo non è stato il componente di un gang rivale in una faida interna alla scena musicale rap statunitense – che vanta vittime illustri, come Tupac Shakur nel 1996 e Notorius B.I.G. Ma, come riporta il quotidiano on line Daily News, sarebbero le parole del viceispettore della polizia di New York Emanuel Gonzalez. Comandante del 72esimo distretto a Brooklyn, Gonzalez è sotto indagine con l’accusa di minaccia alla vita del musicista e attore di colore newyorkese, come ha rivelato alla Cnn il sergente del New York Police department (NYPd) Jessica McRoire.

La frase incriminata risale allo scorso 7 giugno. Durante una chiamata alla stazione di polizia, l’investigatore avrebbe consigliato ai suoi agenti di fare fuoco sul rapper. In seguito non ha smentito l’accaduto ma ha sostenuto si trattasse di una battuta detta per scherzo. Postando sui social l’articolo del Daily News, 50 Cent ha scritto: “Questo Emanuel Gonzalez è un poliziotto corrotto che abusa del suo potere. La cosa triste è che quest’uomo ha ancora un distintivo e una pistola”. Ha aggiunto inoltre che si muoverà per vie legali. Le parole di Gonzalez non brillano per tempismo. Da cinque anni a questa parte la società americana è più attenta e sensibile di fronte agli episodi di violenza della polizia nei confronti delle persone di colore. Le morti di Trayvon Martin nel 2012, Michael Brown, Eric Garnier soffocato durante l’arresto e Tamir nel 2014, quella di Saheed Vassel nel 2018 uccisi da agenti di polizia hanno scosso l’opinione pubblica e portato alla nascita, nel 2013, del movimento di protesta afro-americano “Black Lives Matters”, che si batte contro la brutalità delle forze di sicurezza e la schedatura razziale.

Frana Labour su Corbyn: 7 dimissioni

Stretto tra troppe pressioni, lacerato su troppi temi, aspramente diviso su Brexit. Il Labour oggi è un partito attraversato da mille tensioni, e ieri è accaduto quello che si pronosticava fin dall’ascesa di Jeremy Corbyn a segretario generale, nel 2015: un gruppo di parlamentari si è dimesso e ha creato l’Independent Group, che non è ancora un partito a sé ma nelle intenzioni dei ribelli potrebbe diventarlo presto.

Per ora i transfughi sono solo 7 contro 248; una formazione di giovani parlamentari e veterani di più lungo corso, uniti dal disgusto per due dossier scottanti, la gestione della Brexit e la crescita del bubbone dell’antisemitismo.

“Non posso più restare in un partito istituzionalmente anti-semita” sono le parole acuminate di Luciana Berger, giovane deputata di Liverpool di origine ebraica, già ministro ombra per la salute mentale. Un’esperienza che deve esserle tornata utile negli ultimi mesi, quando, incinta, è stata oggetto di pesanti abusi online a sfondo antisemita da parte di elettori laburisti. Come su altre accuse di antisemitismo nel partito, la leadership è accusata di aver reagito senza la necessaria fermezza.

Il leader dei ribelli è Chuka Umunna, quarantenne enfant prodige del Labour, un Obama britannico in rotta di collisione con Corbyn fin dalla elezione del segretario, e più che mai sulla Brexit – è un Remainer convinto della necessità di un secondo referendum. Ma le ragioni della rivolta sono più ampie. La veterana del partito Ann Coffey: “Qualsiasi critica alla leadership viene accolta con abusi e accuse di tradimento”. Angela Smith, ex capogruppo ombra ai Commons: “La maggior parte della gente è come la mia famiglia. Non vuole farsi fare la lezioncina da intellettuali di sinistra convinti che essere poveri e di estrazione operaia sia uno stato di grazia”.

Corbyn si è detto “deluso che questi parlamentari abbiano sentito di non poter continuare a lavorare per politiche che hanno ispirato milioni alle ultime elezioni e hanno visto il maggior aumento di elettori dal 1945”.

John McDonnell, ministro ombra per l’Economia e vicinissimo al segretario, ha dichiarato che dovrebbero dimettersi da parlamentari e affrontare elezioni locali. Ma a riprova di quanto il partito sia lacerato è arrivata la voce di Tom Watson, il vicesegretario, che in un videomessaggio su YouTube ha avuto toni concilianti, ha invitato tutti al rispetto per la scelta dei colleghi, ha condannato abusi e accuse di tradimento e ha ammesso: “Amo questo partito, ma a volte stento a riconoscerlo”.

La guerra interna si è fatta più violenta negli ultimi mesi, con la recente accelerazione proprio su antisemitismo e Brexit, argomenti tossici in un Labour spaccato fra moderati centristi e corbynisti.

Ieri mattina il Daily Mail scriveva di un piano di repulisti già avviato per rimuovere almeno 25 candidati moderati o in dissenso con la segreteria dalle liste elettorali del partito.

Fra questi anche Yvette Cooper, una delle deputate laburiste più attive nel tentare di impedire, con accordi bipartisan, una hard Brexit.

Macron non è Mitterrand. Diserta il corteo antisemita

Partirà alle 19 da Place de la Republique a Parigi la marcia contro “la banalizzazione dell’odio”, organizzata da 14 formazioni politiche in risposta agli episodi di antisemitismo delle scorse settimane. Non ultimo, quello che ha coinvolto i Gilet gialli sabato scorso, quando durante il 14° sabato di proteste, è stato aggredito con minacce e insulti il filosofo Alain Finkielkraut. In corteo anche il partito di maggioranza di governo, En Marche!, e il Partito socialista.

Non ci sarà invece il presidente Emmanuel Macron nonostante l’invito del segretario socialista Olivier Faure a “incarnare la Repubblica”, alla manifestazione. “Spero che il presidente sia presente per dimostrare che la Repubblica condanna fermamente, assolutamente qualsiasi forma di odio che includa l’antisemitismo”, era stato l’appello del leader socialista all’origine dell’iniziativa.

Faure ci ha tenuto a ricordare che un gesto simile lo fece François Mitterrand partecipando alla grande manifestazione contro il razzismo e l’antisemitismo del 14 maggio 1990 a Parigi, in seguito alla profanazione del cimitero ebraico di Carpentras. Assenti anche l’estrema destra di Rassemblement National e l’estrema sinistra, con Marine Le Pen che ha motivato la sua scelta dicendo di non essere stata invitata, così come Jean-Luc Mélenchon, che pur avendo firmato l’appello ha accusato i socialisti di aver commesso una “volgare provocazione” lasciando fuori la France Insoumise. Perché oltre alle gravi cifre che danno in aumento del 74% gli atti antisemiti in Francia nel 2018, la convocazione della manifestazione è diventata terreno di scontro politico, uno scontro che coinvolge parte del governo Macron. La ministra della Salute, Agnès Buzyn, infatti, ha accusato la leader di Rn di “correre dietro” ai neonazisti “facendo il doppio gioco”. “È contro l’antisemitismo ma poi ha tanti neonazisti nel suo entourage”, ha affondato il colpo la ministra, proprio il giorno dopo gli insulti a Finkielkraut. “Non appena può andare in Austria o a Bruxelles per raggiungere i neonazisti e i movimenti di estrema destra d’Europa o del mondo intero, ci va di corsa”, ha concluso. Le Pen di tutta risposta ha minacciato querela: “Sono parole infamanti. Madame Buzyn dovrà risponderne dinanzi alla giustizia”, ha replicato la leader in un tweet. Mentre nei giorni scorsi aveva definito l’aggressione al filosofo “detestabile e scioccante”.

Ma non c’è solo la protesta, l’obiettivo è riconoscere l’antisionismo come una nuova forma di antisemitismo: a proporlo sono una trentina di deputati francesi, guidati dal parlamentare della maggioranza Sylvain Maillard insieme a un gruppo di studio sull’antisemitismo riunitosi ieri. Secondo France Info, questa iniziativa potrebbe tradursi sia in una risoluzione del parlamento – come fu nel caso del riconoscimento dello Stato palestinese da parte dell’Assemblée Nationale nel dicembre 2014 – che in una legge vera e propria.

La questione comunque non è a dibattito dalle ultime settimane. Già nel 2017, Macron considerò l’antisionismo come una “forma reinventata di antisemitismo”. E non è detto che nonostante l’intenzione di disertare la manifestazione, il capo dello Stato non decida di tornare sulla questione domani stesso, in occasione del suo discorso annuale alla cena del Crif, il Consiglio rappresentativo degli ebrei di Francia. Anche perché “il problema dell’antisemitismo in seno ai Gilet gialli non si può più ignorare”, come ha sottolineato il politologo francese Jean Yves Camus, che ha parlato di un “antisemitismo ciclico” in Europa, aggravato nel caso dei Gilet “dalla diffusione di teorie complottiste e di una forma di odio verso il presidente Macron, per il suo passato di banchiere d’affari di Rothschild”.

Papà Regeni: “Dateci almeno i vestiti”

Le indagini sono a un punto morto. La lista elaborata dalla Procura di Roma sui nove uomini della sicurezza nazionale che avrebbero avuto un ruolo nella morte di Giulio Regeni, il ricercatore inviato al Cairo da Cambridge per uno studio sui movimenti sociali, è rimasta senza una risposta adeguata dei magistrati egiziani. Il corpo di Regeni era stato ritrovato il 3 febbraio 2016 dopo nove giorni di silenzio; in seguito magistrati e polizia hanno fornito solo depistaggi. In tre anni sono stati innumerevoli gli appelli dei familiari del ricercatore. L’ultimo, ieri, su Rai1 durante la trasmissione Che tempo che fa. “Il 6 dicembre 2016 abbiamo incontrato il procuratore generale del Cairo, Nabil Ahmed Sadek, a Roma – ha detto Claudio Regeni – e in quell’occasione ci disse, guardandoci negli occhi, che avrebbe catturato tutti i responsabili del rapimento, della tortura e dell’uccisione di nostro figlio. Quindi io da uomo a uomo, da padre a padre, gli chiedo di rispettare quella promessa e di incontrarci di nuovo a Roma: in quell’occasione ci farebbe piacere riavere i vestiti che Giulio indossava nel momento in cui lo hanno ritrovato”. Molti tasselli del puzzle sembrano al loro posto: Regeni è diventato individuo sospetto per i Servizi egiziani a causa dei suoi contatti con il mondo dei venditori ambulanti. Proprio uno di loro, informatore dei Servizi, lo aveva segnalato. Arrivano anche notizie positive: Shawkan, il fotoreporter in carcere per cinque anni e mezzo perchè sospettato di far parte dei Fratelli Musulmani, a giorni dovrebbe tornare in libertà.

Al potere per sempre. La carriera di al-Sisi, da generale a faraone

“Se questo disegno di legge verrà approvato per il mio Paese sarà una catastrofe”. Non usa mezze parole Ala al- Aswani, il più noto intellettuale egiziano a livello internazionale, per spiegare al Fatto la recente iniziativa che potrebbe rendere l’attuale capo dello Stato, l’ex generale Abdel Fatah al-Sisi, presidente fino al 2034.

“Non solo, al-Sisi diventerebbe anche ufficialmente un vero e proprio Sultano o un dittatore, se vogliamo usare un termine che voi italiani conoscete purtroppo molto bene, perché avrà nelle sue mani tutti i poteri dello Stato”, aggiunge al-Aswani. Una settimana fa, il Parlamento egiziano ha votato in prima seduta a favore del disegno di legge che modifica la Costituzione abolendo il limite dei due mandati per quanto riguarda i candidati alle elezioni presidenziali. Il disegno di legge conferisce inoltre nuovi poteri politici alle forze armate, di cui al-Sisi è massima espressione, e il controllo presidenziale sulla magistratura. Insomma il presidente della Repubblica sarà legibus solutus e potrà decidere della vita e della morte dei propri concittadini senza doverne rendere conto ai giudici .

Uno dei pochi deputati che ha avuto il coraggio di criticare il disegno di legge e votare contro durante il dibattito in aula ha definito queste riforme medievali e ha affermato che sono state create su misura per assicurare poteri assoluti e illimitati ad al-Sisi, l’ex capo delle forze armate egiziane che ha preso il potere nel 2013 deponendo con un golpe militare l’allora presidente Mohammed Morsi, espressione della Fratellanza musulmana. Il disegno di legge è stato presentato ai parlamentari il 3 febbraio e lo scorso giovedì 485 deputati su 596 hanno votato per farlo avanzare. Per indorare la pillola a un Parlamento sempre più debole e tenuto al guinzaglio dal presidente, nel pacchetto di riforme ve ne sono state messe alcune sacrosante – la creazione della vicepresidenza e di una Camera Alta in Parlamento e l’obbligo di una quota del 25% di rappresentanza femminile in entrambe – che però finiscono per essere la classica foglia di fico allo scopo di nascondere una realtà impossibile da digerire per tutti coloro che volevano e vogliono la democrazia. L’opposizione ha le mani legate a causa della brutalità delle repressione messa in atto da al-Sisi. Una coalizione di 11 partiti e di figure politiche di spicco è riuscita a unire le forze per organizzare una campagna per il ‘No’ in vista del referendum che dovrebbe sancirne l’entrata in vigore dopo un secondo voto del Parlamento, previsto a marzo. “Ci aspettavamo che questo sarebbe successo. L’uomo (al-Sisi, ndr) non lascerà mai il potere di sua sponte, lo sappiamo tutti”, ha detto Anwar Sadat, nipote dell’ex presidente egiziano e membro della nuova coalizione. I deputati che hanno votato a favore giustificano il cambiamento della Costituzione sostenendo che il presidente ha bisogno di più tempo per attuare le riforme economiche con cui intende far uscire il paese dalla devastante crisi economica peggiorata drasticamente dopo l’entrata in scena della Fratellanza Musulmana. Gli oppositori di al-Sisi hanno un’unica speranza concreta, ovvero che la Corte costituzionale si metta di traverso: “Alcuni degli avvocati costituzionali che abbiamo all’interno della nostra coalizione esploreranno la possibilità che ciò che il governo sta facendo viola la Costituzione e quindi porteremo il caso davanti ai giudici supremi”, ha precisato Sadat. Secondo al-Aswani invece “non vi è alcun dubbio che questo pacchetto di riforme sia illegale”. Khaled Dawoud, da tempo figura di punta dell’opposizione, spera di riuscire a portare avanti una campagna pre-referendum: “Considerando che ci viene impedito l’accesso ai media, faremo del nostro meglio per usare i social. Il nostro obiettivo è aumentare la consapevolezza tra gli egiziani a proposito delle conseguenze della dittatura che abbiamo già sofferto negli ultimi 60 anni”.

Mail Box

 

L’autonomia regionale porta danni per i cittadini

Vorrei rivolgere un invito a chi ci sta governando: in Italia abbiamo già parecchi problemi da affrontare e risolvere, cerchiamo di non aggiungerne altri, per favore! Va bene il cambiamento ma, possibilmente, in meglio, senza creare ulteriori motivi di disaccordo e ingiustizia sociale. L’Italia è e dovrebbe rimanere “intera”; non è concepibile che le regioni si comportino come tanti staterelli, legiferando ognuna per proprio conto. Le autonomie locali vanno contro la Costituzione che ha unificato tutti i cittadini italiani con parità di diritti, in tutti i settori. Se passasse la proposta di legge sulla autonomia delle Regioni il primo settore penalizzato sarebbe quello della Sanità, ovviamente, visto che è anche quello che suscita le maggiori avidità. Intorno ai servizi sanitari ruotano: appalti, esternalizzazione dei servizi (anche quando non è necessario), inutili e abbondanti uffici di staff (dove possono essere sistemati amici, compagni di partito, ecc.), consulenze, ecc., insomma “gli affari”. Quindi alcune regioni vogliono potersi gestire i propri “affari” senza interferenze né controlli statali e con leggi “ad regionem”, creando grandi differenze di trattamento tra i cittadini, perché, sia chiaro, non è affatto detto che questo possa diventare un vantaggio per le persone. Magari una Regione del nord, per es. la Lombardia, potrebbe cercare di togliere sempre più prestazioni sanitarie ai malati (come peraltro sta già facendo con le numerose delibere degli ultimi anni) rendendo sempre più difficile l’utilizzo del Sistema Sanitario Nazionale e inducendo le persone, quelle che possono ovviamente, a rivolgersi al privato pagandole una seconda volta di tasca propria.

Albarosa Raimondi

 

Il Rinascimento non fece larghe intese col Medioevo

Del vostro articolo dedicato a Renzi, nulla mi ha più irritato della pretesa di farsi promotore di un secondo Rinascimento. Questa straordinaria epoca che con onore possiamo definire italiana non fu di certo in continuità con il passato ma una rottura, per la prima volta drastica e permanente, con i secoli precedenti. L’antichità classica non fu sbertucciata bensì rinnovata, e nessuno scese a compromessi o fece le “larghe intese” con il Medioevo.

Ma, e soprattutto, non fu il prodotto di qualche potentato locale che calò dall’alto qualche starlet con abili mosse mediatiche, fu una controcultura all’inizio profondamente contrastata. Il Rinascimento fu un cambiamento patrocinato da intellettuali e artisti il cui lavoro “di mano” nelle biblioteche e nelle botteghe, quelle di cui ciancia il nostro – per fortuna – ex premier, veniva considerato da clero e nobiltà qualcosa di inferiore rispetto alla vita religiosa o guerresca. Qualcosa che non ha nulla a che vedere con chi si proclama élite. Per creare la bellezza Michelangelo ha dovuto consumarsi gli occhi, spaccarsi le mani e sudare senza sconti. Matteo Renzi con queste cose non ha nulla a che vedere, è solo quello che impalla il Tondo Doni nei documentari.

G.C.

 

Avviate una campagna per il ritorno delle preferenze

Zingaretti: “Se cadesse il governo, vorrei le urne”. Ma è possibile che nessuno voglia più che a scegliere i parlamentari siano i cittadini, con la preferenza? Sarebbe solo l’attuazione dell’articolo 1 della Costituzione: “La sovranità appartiene al popolo”. Da appassionato lettore, fin dal primo numero, nonché abbonato al Fatto Quotidiano, mi piacerebbe che questo giornale avviasse una campagna, come ha fatto contro la riforma costituzionale Renzi-Boschi, per restituire la “scelta” dei parlamentari agli elettori, che dal 2005 non sono più tali, ma sono diventati solo “popolo bue”, obbligato a mantenere questa costosa casta di nominati e autonominati. In un Paese in cui nessuno è mai responsabile di quello che fa, col ritorno dall’esilio della preferenza, almeno ci sarebbe un “responsabile” se le cose vanno male: il Popolo che ha scelto male!

Lorenzo Filippi

 

Reddito di cittadinanza, scontro tra navigator

Apprendo che presso i Centri per l’Impiego vi sarebbero ben 654 dipendenti precari assunti dall’Anpal, un carrozzone politico che avrebbe dovuto coordinare il lavoro dei Centri per l’Impiego, divenuti nel tempo segreterie politiche dei vari amministratori. Nessuno sapeva dell’esistenza di questi 654 miracolati dal clientelismo politico, assunti in modo precario e senza alcuna esperienza presso i Centri per l’Impiego, che non hanno mai funzionato.

Essi, solo ora, danno segno di vita protestando perché vorrebbero essere assunti a tempo indeterminato, come Navigator ancor prima dei futuri Navigator.

Dovrebbero trovare un lavoro a quei disoccupati, atti a ricevere il Reddito di cittadinanza prima ancora di essere formati per mansioni utili e ricercate dal mercato del lavoro. Ciò, nonostante la carenza di seri Enti di Formazione, per i quali sono stati inutilmente sperperati miliardi visto le carenze di migliaia di qualifiche, richieste inutilmente dalle aziende.

È bene che in futuro tutte le assunzioni pubbliche siano fatte solo in tempo utile e per concorso senza più le solite scappatoie.

Mario De Florio

Torino-Lione. Sul Tav è ancora possibile un compromesso o è ora di scegliere?

 

Gentile dottor Feltri, Le scrivo perché vorrei rivolgerle una domanda a proposito del Tav. L’analisi costi-benefici, ha dato un responso chiaro. Penso che il Movimento 5 Stelle debba mantenere il punto sull’argomento. Un cedimento o un compromesso sarebbero, secondo me, persino meno comprensibili delle oscillazioni sul caso Diciotti. Il M5S potrebbe ricordare agli alleati di aver sempre rispettato le valutazioni tecniche quando contrarie alle sue aspettative. Adesso tocca alla Lega fare altrettanto. Tutt’al più sarebbe opportuno che il Movimento presentasse un piano dettagliato per destinare i fondi del Tav ad altre opere di maggiore. Ma come dobbiamo intendere l’espressione di Toninelli “dialogo senza pregiudizi”? Il dialogo è sempre un’ottima cosa, ma in questo caso mi sembra che siamo di fronte a due alternative nette, che non contemplano una via di mezzo.

Antonio Maldera

 

Gentile Antonio, è difficile pensare a compromessi, in effetti. Anche se, come stiamo raccontando in questi giorni, proprio oggi la società costruttrice del Tav potrebbe bandire appalti per 2,3 miliardi, un segno concreto che non basta un’analisi costi-benefici a produrre effetti, serve una decisione politica. I Cinque Stelle finora hanno rinviato il problema. A proposito di Tav Torino-Lione, il contratto di governo impegna il M5S e anche la Lega “a ridiscuterne integralmente il progetto nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia”. Un’espressione difficile da tradurre ora in concreto. Perché per fermare l’opera ci vorranno dei passaggi parlamentari, bisognerà cambiare i trattati che ne hanno definito il quadro giuridico, eventualmente deliberare le spese per il ripristino dei luoghi e così via. L’analisi costi-benefici, come spiega meglio di me nella pagina a fianco il professor Marco Ponti che l’ha redatta, è uno strumento di supporto alla politica, non un’esenzione di responsabilità. Il furioso dibattito di questi giorni ha confuso le idee a molti ma ha anche reso esplicito che il giudizio sull’utilità dell’opera e sul suo possibile senso economico si basa su stime di traffico merci che cambiano al variare delle ipotesi di contesto. Ora si tratta di decidere una volta per tutte se vogliamo impegnare oltre 7 miliardi di euro per un progetto dalle così incerte prospettive (nel migliore dei casi, se ha ragione Ponti sono prospettive disastrose) o se si vuole evitare il rischio. Con la consapevolezza, su questo Lei ha ragione, che se si risparmiano sul Tav i soldi si potranno spendere altrove.

Stefano Feltri

Il (sesto) senso di Gasparri per le cazzate

Ogni epoca ha il suo punto definitivo di ricaduta. Quello, per intendersi, dopo il quale tanto vale staccare la spina. L’epoca attuale, in questo senso, è quasi rassicurante: il disastro è così continuo che, ormai, quasi non ce ne accorgiamo neanche più.

Accade però che alcuni eventi brillino per surrealismo e mestizia. In questi casi bisogna stare attenti, perché quando tali Water(loo) Moments si verificano è interessante notare chi gli dia retta e chi no.

Se voi foste in un bar, entrasse Marattin e raccontasse a tutti gli astanti che lui ha appena vinto il Nobel per l’Economia e già che c’era ha sposato Abigail Sinclair, voi non gli credereste. E lo prendereste pure un po’ per gli zebedei. Eppure, in quel bar, qualcuno ci crederebbe: c’è sempre qualcuno che ci crede. Ed ecco il Waterl(loo) Moment di quest’epoca così ridicola.

Una comica molto brava fa uno sketch. La gente ride: tutta, o quasi. Poi, giorni dopo, un esorcista dice che “quella che apparirebbe una gag spiritosa” non lo è, “perché sembra non tenere conto della sensibilità di tante persone che soffrono a causa della presenza del maligno”. Purtroppo il virgolettato è reale. Appartiene a Don Aldo Buonaiuto, sacerdote della Comunità Giovanni XXIII, che ha poi aggiunto: “Il ridicolizzare o, ancor più grave, inneggiare il nome di satana in prima serata su Rai1, penso sia stato uno scivolone sconcertante”. Quindi: Virginia Raffaele satanista, Boldi frontman dei Megadeth e Ric & Gian protuberanze postume dell’Apocalisse.

In un mondo normale, e quindi non certo il nostro, qualcuno avrebbe parlato a Buonaiuto di Basaglia. Da noi, no. La politica, o quel che ne resta, ha espresso vicinanza a Buonaiuto. In prima fila, gli statisti Salvini, Fioroni, Pillon e Cesa. Spiace per l’assenza del Poro Asciugamano, Gigi Il Merda e la Menca del poro Beppe. In compenso, a dar forza alla Combriccola del Bigotto, c’era Gasparri. Un’antica garanzia: lui ha proprio un radar sofisticatissimo quando c’è da captare una cazzata. Non sembra, ma Gasparri & simili sono ancora in politica. L’era del Salvimaio li ha resi più inutili della prima “r” di Marlboro, ma sono pur sempre vicepresidenti del Senato (daje) e pascolano stancamente nei programmi televisivi antelucani (in quelli in prima serata non li chiamano più).

Gasparri dixit: “Ho letto le considerazioni di Don Aldo Buonaiuto, persona che conosco e reputo di assoluta serietà, ho visto il filmato in cui in effetti, a scopo satirico?, Virginia Raffaele a Sanremo in uno sketch sembra citare Satana varie volte. Equivoco acustico? Modo di dire che potrebbe capitare a chiunque? Altro? Sarà la stessa Raffaele, ormai celebrata artista, a svelare il mistero. Così almeno questa coda, diabolica…, sanremese uscirà dal campo delle controversie festivaliere e resterà in campo solo la musica”. Contenuti irrisolti, punteggiatura a caso e parole buttate lì come parmigiano rancido sulla Sacher: sì, è proprio Gasparri. L’uomo che diede il nome a una legge (orrenda) che probabilmente deve ancora capire. L’eroe indomito che insultò una fan di Fedez perché secondo lui troppo in carne. Lo statista che scrisse “chiesimo” e conquistò la moglie perché, a sentir lei, Maurizio somiglia ad Al Pacino (e La Russa a Richard Gere). L’esperto che litigò col Puffo Brontolone, scambiò Jim Morrison per uno zingaro rapinatore e credette alla bufala del sesso durante la prigionia di Greta e Vanessa. Eccetera. Ambulanza, portali via. O, se proprio non ce la fai, manda in tua vece anche solo un meteorite. Per lui ma più che altro per noi, che da decenni sopportiamo “politici” così.

Un azionariato popolare per i beni comuni

La fine politica del berlusconismo nel 2011, a seguito dei referendum del giugno, e quella del renzismo nel 2016 a seguito del referendum costituzionale, mostrano quanto possa il popolo sovrano se messo nelle condizioni di parlare con una sola voce, oltre le contrapposizioni di partito. In effetti, nel mondo contemporaneo, più dell’antica distinzione fra destra e sinistra rimane rilevante quella fra alto e basso (élite e masse popolari se si preferisce). Questa contrapposizione, non più mediata da quella fra partiti di destra e di sinistra, è una miscela esplosiva, come dimostra meglio di ogni altra cosa la vicenda dei Gilet gialli in Francia i quali non sono comprensibili con il vecchio schema. Nell’Italia del salvinismo, la terza involuzione autoritaria, ben poco possono le vuote esternazioni sui valori costituzionali, se non si affronta di petto, con intelligenza e fantasia il nodo della legittimazione politica negli attuali rapporti di forza fra pubblico e privato. In una parola, che spazio c’è per la democrazia in un mondo in cui il Cda di Google o di altra grande corporation multinazionale conta infinitamente di più dell’intero Parlamento di un paese come il nostro? La concentrazione di capitale, prodotta dalla globalizzazione e dalla trasformazione tecnologica, ha purtroppo travolto (in tutto il mondo, certo non solo in Italia) il costituzionalismo liberale e i suoi rituali, anche se tanti autorevoli costituzionalisti faticano ad accorgersene. Di qui al 30 luglio il Comitato Rodotà per i beni Pubblici e Comuni (www.benipubblicisovrani.it) proporrà una strada (forse un primo sentiero) per rigenerare la democrazia, al di fuori dalle vecchie contrapposizioni, cercando piuttosto un comune sentire costituente sulla tragedia sociale e ambientale che stiamo vivendo. La campagna, in ideale continuità teorica con quella referendaria del 2011 (due sì per l’acqua bene comune) si fonda sull’idea di due firme per i beni comuni. Vogliamo costruire una infrastruttura permanente per l’esercizio della democrazia partecipativa in cui tutti i cittadini che si riconoscono nei valori ecologici possano cooperare attraverso l’esercizio di un voto telematico davvero libero, anonimo e determinante, garantito dalla migliore tecnologia blockchain. Il fine ultimo è trasformare il capitale sovrabbondante in beni comuni, le cui utilità siano funzionali “all’esercizio dei diritti fondamentali della persona” e da gestirsi “nell’interesse delle generazioni future” come recita il testo del ddl del 2008 che ora proponiamo sotto forma di legge di iniziativa popolare per la riforma del Codice Civile (la prima delle due firme che stiamo chiedendo ai cittadini). Il mezzo prescelto è una Società Cooperativa di Mutuo Soccorso ad Azionariato Popolare Intergenerazionale, uno strumento giuridico privo di precedenti al mondo che offre quote di Azione Popolari da un euro (la seconda firma che cerchiamo) a ogni firmatario della Legge. Al termine di questi mesi di discussione, avremo un soggetto organizzato che, crescendo fino a diventare economicamente solidissimo, potrà rendere effettiva e continua la battaglia per i beni comuni e i diritti fondamentali, determinando l’agenda futura, proprio come oggi fanno le grandi corporation ma producendo una forza uguale e contraria. La nostra corporation delfino (dotata di un Dna di cura e non di predazione come le attuali multinazionali squalo) agirà: 1) con gli strumenti della democrazia diretta previsti in Costituzione; 2) con l’azione giuridica, offensiva e difensiva, per le generazioni future; 3) con l’azione nella scuola, università e ricerca; 4) nella comunicazione, dotandosi di media indipendenti; 5) nella conversione ecologica, ristrutturazione e governo popolare di spazi e aziende in crisi. È il più ambizioso progetto avanzato da un fronte democratico in qualunque paese del mondo. Si può essere scettici sulla sua riuscita, ma come esserne avversi? Meglio rimboccarsi le maniche.

I cantieri sono utili ma hanno un costo

In questi giorni si è scatenato un dibattito ideologico sul Tav Torino-Lione, progetto relativamente piccolo rispetto ai 132 miliardi di (scarsi) soldi nostri che si vorrebbero spendere in progetti di incerta utilità. Tv e giornali sono pieni di servizi, principalmente con linea pro-Tav (i quattro maggiori quotidiani, Repubblica, Stampa, Corriere e Sole 24 Ore, sono esplicitamente schierati). Tra i sostenitori dell’opera che appaiono più spesso ci sono Piero Fassino, Sergio Chiamparino, Stefano Esposito, tutti del Pd, e altri parlamentari, tutti piemontesi. Il problema è che l’opera, per la parte italiana, sarà pagata al 100% dallo Stato, cioè anche dai contribuenti toscani e siciliani, mentre i benefici (per quanto modesti rispetto ai costi) saranno goduti principalmente dai piemontesi. L’ovvia obiezione è: l’opera serve di sicuro tutto il Paese, quindi s’ha da fare (“senza guardare ai costi”, secondo un articolo del Sole 24 Ore).

Ma anche in Veneto chiedono a gran voce l’Alta Velocità Brescia-Padova (che costa il doppio del Tav e che anch’essa deve essere pagata da tutti gli italiani). E pure questa non è una manifestazione di egoismo, servirà a tutti! E questo sarà di certo vero anche per il molto discusso ponte sullo stretto di Messina, per l’Alta Velocità fino a Palermo, poi ci sarebbe un bel progetto di tunnel sottomarino tra Trapani e Tunisi, presentato qualche anno fa…

Chi può dubitare che l’Alta Velocità sia una cosa meravigliosa? Abbiamo già speso 35 miliardi di euro negli ultimi vent’anni, pagati quasi per intero dallo Stato, cioè da tutti, anche da chi non la userà mai. Ma l’economia del Paese non è cresciuta in modo esattamente fantastico. Costruire ancora molte tratte, come ovunque si chiede, ci porterebbe sì velocemente alla meta, ma in Grecia, data la situazione dei nostri conti pubblici.

E ora veniamo alla vituperata analisi costi-benefici (ACB). Strumento economico universalmente accettato come metodo relativamente semplice e rapido per supportare le decisioni pubbliche. Cosa dice, in sintesi? Meglio investire in progetti che costano poco allo Stato, e dove ci si aspetta molto traffico e molti benefici ambientali, che viceversa.

L’ACB deve “supportare” le decisioni pubbliche, non sostituirle. Ci possono essere altre variabili da considerare: per esempio il supporto a territori svantaggiati, tipo il Mezzogiorno. Ma proprio qui viene più utile l’ACB: costringe, se è negativa come spesso accade in aree marginali, a confrontare la perdita di benessere collettivo che quel progetto genera in generale con alternative che, a pari costo, potrebbero anch’esse aiutare lo sviluppo dell’area. Celebre un caso olandese: il governo chiese un’analisi costi-benefici comparativa per lo sviluppo di una regione svantaggiata, la scelta era tra un’autostrada e una ferrovia. Gli analisti conclusero però che era più efficace, a parità di spesa pubblica, intervenire sul mercato del lavoro di quell’area, che non costruire infrastrutture di trasporto. Il governo si mosse nel senso raccomandato, almeno quella volta.

Il settore delle grandi opere civili, tunnel soprattutto, per ogni euro pubblico speso genera pochissima occupazione diretta e indiretta. Sul cantiere Tav, per esempio, lavoreranno in media circa 500 persone per 10 anni, poi stop. Il grosso lo fanno enormi “talpe” e macchine di movimento terra.

Immaginiamo invece di spendere quei soldi in ristrutturazioni edilizie, scuole e ospedali compresi, e manutenzione delle scassatissime infrastrutture esistenti. È evidente che non solo si occuperà molta più gente in modo diretto, ma anche molto più in fretta.

Poi parliamo dell’occupazione indotta: nel caso del Tav si attivano soltanto macchine di scavo e movimento terra, magari neppure prodotte in Italia. Nel caso delle ristrutturazioni e manutenzioni, invece, fornitori di vetri, di serramenti, di impianti elettrici idrici e di riscaldamento, di produttori di vernici e mobili e apparecchiature. In alcuni studi settoriali si parla di 15-17 mila posti di lavoro creati per miliardo investito, per esempio, nelle riqualificazioni degli edifici (Cresme, Ance, ecc.)

Non sembra esserci confronto. E infatti i difensori delle grandi opere confronti non ne fanno: calcolano cifre mirabolanti di occupazione indotta, ma sempre in perfetto isolamento. I confronti sono pericolosi.

Queste considerazioni valgono per tutte le opere sul tavolo: molte sono di certo utili, ma è sempre meglio fare i conti invece che affidarsi all’ “arbitrio del principe”, soggetto destinato spesso a cambiare e a prendere nuove decisioni arbitrarie. L’ex ministro Graziano Delrio aveva promosso questo approccio, prima di cambiare idea per tutti i progetti definiti da lui come “strategici”.