Let’s get lost. Ruth Young e Chet Baker si sono persi un giorno di fine settembre del 1982 al culmine di nove anni di complessa relazione, per ritrovarsi idealmente sul set del film-documentario di Bruce Weber. Lei, raffinata cantante jazz, grande interprete, perfetta musa ispiratrice e unica in grado di tener testa alle follie del più grande trombettista della storia della musica. Un bianco capace di fare cose da nero, meglio dei neri. Artista maledetto la cui vita è volata giù dalla finestra di un hotel di Amsterdam il 13 maggio del 1988. In mano teneva la sua tromba.
Ruth Young non ha alcun dubbio sulle cause della morte: “No, non è stato suicidio. È successo e basta. Quel giorno ero a Boca Raton, in Florida, ed è come se avessi percepito qualcosa di malvagio. Poi arrivò la telefonata di Bruce Weber: ‘Sentito cosa è successo?’. Avrei voluto sapere della morte di Chet da qualcun altro, non da Bruce. Da chi ha rovinato l’immagine mia e di Chet, chi ha prodotto un film totalmente lontano dalla verità, chi non mi ha garantito alcuna royalty per Let’s get lost. E pensare che lui era di casa, considerava mio padre (vicepresidente della United Artists, ndr) un mito e fino a pochi mesi fa continuava a mandarmi bigliettini di auguri e fiori per Natale. Da lui ho solo avuto 3.500 dollari per le foto originali di Marilyn Monroe scattate in casa nostra. Quando ero bambina da noi giravano personaggi come Jane Russell, Warren Beatty, Barbra Streisand. Marilyn l’ho conosciuta quando avevo 7 anni ed è morta quando ne avevo il doppio”.
Il nastro della vita di Ruth Young si riavvolge e torna a New York, un altro venerdì 13, stavolta di luglio, nove anni prima rispetto alla disgrazia di Amsterdam: “Stavo andando a cena con mio padre, un pessimo uomo. I miei si erano appena separati. Il vestito che indossavo quella sera non gli piacque e mi ordinò di tornare a casa e cambiarlo. Lo mandai a quel paese e decisi che me la sarei spassata. Ero depressa, avevo bisogno di bere e scelsi un locale di Lower Manhattan, l’Half Note. Facevano musica jazz dal vivo. Quando lessi la locandina all’ingresso fu uno choc. Chet suonava lì. Sapevo chi fosse. Lui era seduto a un tavolino, si sarebbe esibito più tardi. Ci incontrammo al bar: ‘Come va?’ mi disse ‘saliamo di sopra a bere qualcosa?’. Quando ci salutammo con un bacio lui mi disse ‘non perdiamoci di vista’. Capii in quell’istante che mi sarei compromessa e infatti il giorno dopo era a casa mia. Chet, un uomo affascinante, lo trovavo molto bello, il suo carisma unico. Quando lo conobbi aveva 42 anni, il doppio dei miei. Non sapeva mai cosa stesse facendo, lo faceva e basta. Sono stati gli anni più intensi della mia vita, la storia più importante, l’unico uomo che io abbia mai amato”.
Ruth Young oggi ha 68 anni e sopravvive a Tarpon Springs, Florida. Sono passati più di trent’anni dalla morte di Chesney Henry Baker jr. I suoi ricordi sono indelebili e li snocciola senza indugi, con la sua voce invecchiata, ma suadente, unica. Della Ruth ammirata e osannata oggi resta solo l’ombra. Gli ultimi sette anni della sua vita sono stati un inferno e adesso le presentano il conto. Improvvisamente, dopo decine di concerti in giro per il mondo e un lp inciso nel 2005, This is always, si ritrova nel fango. La sua lucidità è al limite dell’angoscia: “La mia travagliata parabola di vita è sfociata in una seria instabilità. Mi sono infilata in un buco nero da cui non so uscire. Sono sola, ammalata e con grossi problemi economici. Il mio pensiero più grande, adesso, è trovare 900 dollari prima del 28 febbraio per evitare di essere buttata fuori dal mio appartamento, diventare una homeless. Non esco quasi mai di casa, camminare mi fa male, ho problemi ai denti, l’artrite, febbre continua e rischio un collasso nervoso. Non sono pazza, sono soltanto a pezzi. Del resto chi non lo sarebbe nei miei panni. Dopo aver regalato emozioni e gioia per anni, ritrovarmi sola e abbandonata, senza neppure un amico ad aiutarmi. Mi sono sempre circondata di persone sbagliate. Mi sono presa gli insulti di tutti, delle mogli di Chet. Carol, la terza, mi ha addirittura dato della ‘puttana’ e scaricato su di me la responsabilità della morte di Chet, affermando che lui avrebbe iniziato a distruggersi dopo aver conosciuto Ruth Young. Ridicola. E bugiarda. Il mondo si sta imbarbarendo, la gente ha perso le buone maniere, la gentilezza e io di questo mondo ho paura. Forse non conosco più le regole del gioco. L’unico mio pensiero di salvezza è cambiare aria, trascorrere gli ultimi anni della mia vita in Italia. Ho contatti e amici a Soverato, in Calabria. Se riesco a trovare qualche soldo compro una casa lì”.
La parola magica. Young ha passato nel Belpaese una larga fetta della sua vita e della sua carriera: “Ho cantato ovunque, da nord a sud, in Sicilia, con e senza Chet, con i vostri migliori musicisti jazz: Enrico Rava, Amedeo Tommasi, Paolo Fresu, Roberta Gamberini, Giovanni Tommaso, Pepito Pignatelli, Romano Mussolini, Mario Lanza, Fabrizio Bosso. Il più grande resta Franco Cerri. Mentre parlo con lei tra le mani mi è finita questa locandina di un concerto al teatro comunale di Lucca, il 25 febbraio 2006. Quanti applausi e quante lacrime di gioia. Ora non riesco più neppure a emozionarmi”. Prima di interrompere l’intervista, Ruth ha un sussulto: “E comunque ne sono certa: prima di esalare l’ultimo respiro Chet ha pensato a me”.