Periferie allo sbando: solidarietà fai-da-te, la politica è immobile

“Qui sparano per le scale, ormai, e nessuno fa niente”. L’anonima signora è un vulcano in eruzione: “Sono arrivati e hanno sparato contro una porta, si dice per una questione di spaccio. Qui c’è almeno uno spacciatore in ogni abitato”. Milano, zona Molise, a est della città, lungo la circonvallazione esterna. Qui un giorno vennero costruite case popolari che per un po’ furono inno al riformismo meneghino.

Decoro esteriore, cortile in cui far giocare i bimbi, balconi da cui parlarsi. Ma le case popolari sono diventate, in Italia, quasi terra di nessuno. Racconti da brivido si alternano sulle cronache cittadine, soprattutto in estate. Favoritismi, violenze, vendemmie di voti sporchi. Scantinati che diventano ripari o fortini. Cittadini senza potere che invece di godere di quel che fu pensato per loro, si asserragliano in casa impauriti.“Ce l’ha presente via Ciceri Visconti, vicino alla biblioteca Calvairate? E’ stato uno dei gioielli di questa zona. Giardinetti per mamme e nonni e bambini, ma anche per innamorati, libri gratis per studenti. E’ finito tutto. Venga a dare un’occhiata”. La signora si è infilata nel gruppetto appena ha orecchiato l’argomento. “Lo vede? Sono quasi deserti. Niente più mamme, niente più bambini. E chi vuole che stia qui con quello che succede? I colpi di pistola una settimana fa, dopo l’estate un accoltellamento all’aperto. E spacciatori che dilagano. Lo stiamo denunciando da tempo.

Se arrivano dal ‘boschetto’ di Rogoredo, dopo gli interventi dei carabinieri? Forse, ma non credo. E’ da due anni che va avanti così e si continua a peggiorare. Qua ci vorrebbe una bella camionetta di poliziotti o carabinieri che si mette in piazza Insubria e non se ne va più via. E naturalmente che non finge di non vedere”. Dal capannello schiuma la rabbia popolare. Hai voglia a parlare di “deriva securitaria”, perché la sicurezza alla povera gente bisogna pur darla. E qui c’è una Milano che non riconosce più se stessa. Ma che l’osservatore attento conosce benissimo. E’ la Milano che va avanti così dagli anni ottanta. Renitente a darsi da fare quando “piccoli disastri crescono”, calamitata com’è dall’amor di quiete. Ma che poi quando i disastri crescono e le situazioni marciscono è costretta a intervenire in affanno, con spese cento volte superiori a quelle necessarie a intervenire quando il mostro è ancora in erba. Come con il boschetto di Rogoredo, appunto. O come, un tempo, con piazza Prealpi consegnata alla ‘ndrangheta o la via Montello abbandonata agli assassini di Lea Garofalo.

E’ la maledizione di questa metropoli. Reparti speciali, grandi operazioni, indagini dai nomi suggestivi. E al tempo stesso banditi di mezza tacca che tengono in ostaggio famiglie e singoli inermi in intere zone cittadine. Solo che questa rubrica è stata pensata per raccontare il bene che viene fatto, il più delle volte da persone sconosciute. E allora non faremo eccezione. Perché anzi il bene fatto in queste condizioni da tregenda ha un valore ancora più grande. Sono due le stanze a pianterreno in cui, qui in via Molise, alcune persone (il Comitato inquilini case popolari Calvairate-Molise-Ponti) conducono ogni giorno senza nulla chiedere il loro progetto di solidarietà. Un piccolo market per dare viveri di prima necessità alle famiglie disagiate della zona, mentre in altre stanze si insegna la lingua agli immigrati. Hanno nomi diversi, anche se di età più o meno matura: Grazia, Franca, Rossana, Angelo, Massimo, e il più giovane Valerio. Si danno i turni in un’organizzazione che la gratuità dei gesti non rende meno complessa.

Orari, prestazioni, norme, mediazioni. Gli utenti hanno diritto a 70 prodotti al mese, di cui vengono registrate le quantità, per evitare abusi e sprechi, visto che tutto il progetto è programmaticamente anti-spreco. Se li scelgono loro dagli scaffali, in base alle loro esigenze, ma non alla rinfusa, perché a nessuno venga in mente di rivendere quel che si riceve. “Né abusi, né elemosina, è la nostra formula”, spiega Grazia. I viveri sono a breve scadenza e vengono dal Banco Alimentare, una scuola dell’obbligo, una rosticceria siciliana, due parrocchie, la Caritas. Un progetto complessivo aiutato da Fondazione Cariplo e Mani Tese. Che in questo clima di impunità e paura resti qualcuno disposto a fare del bene è quasi miracoloso. Perché però la sfida dei violenti venga raccolta da un manipolo di persone generose e non dalle istituzioni, ecco, questo è un piccolo grande mistero.

Il caso Insigne, insegna: la gelosia malsana non è una questione di sesso

Ho letto l’articolo dell’ottima Silvia D’Onghia sul Fatto a proposito del calciatore Insigne e dello scherzo che gli hanno fatto Le iene, e vorrei dire la mia. La D’Onghia dice che quella di Insigne non è una gelosia “normale”, ma un controllo possessivo sulla donna alla quale impedisce di usare i social network e guarda il telefono tutte le sere. Dice poi che non dovrebbero esistere rapporti così, che sono una coppia da Medioevo perché nessuna donna dovrebbe essere privata dell’autodeterminazione. Sia chiaro che sono d’accordo, ma vorrei portare la mia esperienza da maschio quarantenne che allarga il punto di vista sulla questione e la rende meno di parte. Ho avuto per ben 2 anni, dai 30 ai 32, una donna al confronto della quale Insigne è permissivo e tollerante. Io che non sono mai stato geloso e che fino a quel momento non avevo avuto donne gelose, ne sono rimasto traumatizzato. Lei era una bellissima ragazza, una modella, una nuotatrice quasi professionista, una che aveva tutte le carte in regola per sentirsi sicura di sé e centrata. Invece viveva con l’incubo di essere inferiore, di essere tradita, di non essere all’altezza mia e di qualunque sfida le proponesse la vita. Io che sono ed ero un agente immobiliare non potevo avere clienti donne sotto i 50 anni, ero costretto a giustificarmi per qualche misero like su fb perfino a mia cugina, ero vittima di frequenti sceneggiate pure se per caso dovevo allontanarmi mezza giornata per lavoro e mi facevo sostituire per i lavori che prevedevano trasferte di più di un giorno. Mi aveva allontanato dai miei amici single che vedeva come tentatori e mi aveva messo contro la famiglia perché sapeva bene che mia madre cercava di riportarmi alla ragione sulla nostra relazione. Le mie amiche donne erano il demonio, in particolare Viviana, con cui ero cresciuto. Ero stato il testimone al suo matrimonio, ero molto amico di suo marito. Ma per la mia ex lei era segretamente innamorata di me e io non dovevo frequentarla anche per rispetto a suo marito. Il mio telefono era costantemente monitorato e quando mi sono stufato di accorgermi che era entrata nella mia posta elettronica, nei miei social, nel mio whatsapp ho cambiato password senza dirglielo. Neanche 24 ore dopo l’ha scoperto e pretendeva di conoscere il nuovo codice. Urlava così tanto che i vicini hanno cominciato a battere sul pavimento. Ho sopportato con la mia parte di complicità per due anni, poi l’ho lasciata tra drammi e ritorsioni, e per cinque anni non ho più desiderato una relazione, ero devastato psicologicamente. La gelosia malsana non è solo dei maschi, ma anche di certe donne e che certi uomini ne sono vittime sopraffatte come la moglie di Insigne, magari senza neppure realizzarlo fino in fondo. Oggi ho una quasi moglie che non conosce le mie password ma il concetto di libertà e autodeterminazione, per entrambi.

Luca

Caro Luca, la gelosia morbosa è unisex, sono d’accordo. È però molto raro che un uomo accetti il ricatto “se vuoi stare con me fai figli e stai a casa”, anche per questioni di biologia, mica per altro. È invece ancora pieno di donne che smettono di avere un’identità fuori dalle mura domestiche e che finiscono per essere un prolungamento del marito e dei figli. La moglie di Insigne mi è parsa questo, con l’aggravante dell’inconsapevolezza. Non pareva né infastidita né intristita dalla prepotenza del marito, anzi. Sembrava lusingata, sembrava una di quelle donne “fa così perché mi ama!”. E infatti ha autorizzato la messa in onda, si è divertita. Qui sta il problema. Per uno/a come te che si accorge della tossicità di queste relazioni, c’è sempre qualcuno/a che alla tossicità dà la parola amore.

 

L’odio irrazionale verso il figlio del mio compagno

Cara Selvaggia, questa lettera ha solo il valore e il senso di uno sfogo e la scriverò anonima come le vili lettere dei riscatti e delle offese. Io odio il figlio del mio compagno, con cui vivo da un anno. Fingo quotidianamente di amarlo e di considerarlo un figlio (la vera madre è andata a vivere in Thailandia col suo nuovo compagno e il figlio più piccolo), lo porto a scuola, lo vado a prendere, lo aiuto a fare i compiti e gli pulisco la camera. Mai un grazie. Sempre quell’aria da dodicenne stronzetto e viziato a cui è tutto dovuto, sempre quelle risposte odiose tipo “So da me quello che devo fare” o “faccio come mi pare” o “tu non sei mia madre, non mi comandi”. Odio quel suo separare con la forchetta il cibo buono da quello che rifiuta nel piatto che gli preparo, odio quei baffetti che gli stanno spuntando e che regalano un tocco di inquietante nazismo al modo che ha di guardarmi. Odio il puzzo dei suoi calzini che mi lascia appallottolati tra le lenzuola, il disordine sulla sua scrivania, quella pagella mediocre con i 6 necessari per tranquillizzare il padre, il suo modo sciatto di vestire per ribellarsi alle mie richieste di vestirsi decentemente, odio la sua ingratitudine nei miei confronti che lo cresco al posto della sua vera madre, odio i suoi silenzi e le risposte strafottenti a tavola, odio quelle cuffie per mettere una barriera tra noi e lui, odio quei videogiochi violenti che gli piacciono, le richieste continue al padre, le battute sceme, la superficialità con cui giudica tutto e tutti, il suo schifare i regali che gli facciamo e le vacanze che gli proponiamo. Vorrei che non ci fosse, che il mio compagno non avesse la zavorra di una famiglia precedente, vorrei non dover fingere amore che non provo, vorrei non odiarlo così tanto.

M.

Cara M., vorrei tranquillizzarti. A 12 anni sono tutti così. Tu non odi lui. Odi tutti gli adolescenti del mondo. Passerà.

 

Inviate le vostre lettere a: il Fatto Quotidiano 00184 Roma, via di Sant’Erasmo,2. selvaggialucarelli @gmail.com

Un saggio sulle barzellette ebraiche, che non risparmiano neanche Dio

Le barzellette degli ebrei sugli ebrei (e non solo) sono vecchie quanto Abramo. E lo stesso Abramo, patriarca di ben tre religioni monoteiste, viene trattato come uno sprovveduto, uno shlemiel, dal proverbiale umorismo ebraico, il quale rende al meglio l’idea della “totale immunità comica”. Come spiega bene il protagonista di una vecchia sit-com americana, Jerry Seinfeld. Il suo dentista si è convertito all’ebraismo e Jerry interroga un prete. Jerry: “Ho il sospetto che si sia convertito all’ebraismo solo per le barzellette”. Prete: “E questo la offende in quanto ebreo?”. Jerry: “No, mi offende in quanto comico”. La barzelletta ebraica è proprio il titolo di un breve e acuto saggio di Devorah Baum, che insegna Letteratura inglese all’Università di Southampton (Einaudi, 135 pagine, 12). Baum sviscera tutti i livelli dell’umorismo ebraico e si diletta con vari esempi che non risparmiano neanche Dio. E forse qui sta la forza dirompente di queste barzellette.

Ecco Mosè che “sta camminando in montagna. Scivola. Si ritrova sospeso fra cielo e terra, e chiama: ‘C’è qualcuno qui?’. Dal cielo una voce risponde: ‘Sì. Sono qui. Sono Dio. Non preoccuparti, ti salverò’. Pausa. Mosè: ‘C’è qualcun altro, qui?’”. Chiosa Baum: “Il che non significa che Dio sia un cattivo ragazzo. Per dirla come la dice Woody Allen, “Se viene fuori che c’è un Dio, io non credo che sia cattivo, credo che il peggio che si possa dire di lui è che è sostanzialmente un disadattato”. Ovviamente anche il versante cattolico offre numerose storielle che segnano una differenza notevole tra cristianesimo ed ebraismo. Anche riguardo il confine tra la vita e la morte.

Chiudiamo così: Cohen è sul suo letto di morte e chiede ai figli di chiamare un prete. Vuole convertirsi. Poi però l’uomo si riprende. Passa un anno. “È in perfetta forma: va in sinagoga, osserva la kasherut, celebra le feste. I figli prendono coraggio e gli domandano: ‘Allora sul tuo letto di morte, papà, la conversione… perché mai?’. ‘Mi ero detto, risponde Cohen, meglio uno di loro che uno di noi’”.

Caro Sud ti stanno “fottendo”: ribellati

“Ecco, / io e te, Meridione, / dobbiamo parlarci una volta, / ragionare davvero con calma, / da soli /, senza raccontarci fantasie…”. Anch’io, caro Coen, come Franco Costabile voglio “parlare” al Sud. Lui era calabrese di Lamezia Terme ed era poeta. Io non sono poeta. Non sono nessuno. Ma alcune cose le voglio dire. Sud, ma che stai facendo? Non ti vedo, non ti sento, non ci sei. Ti stanno uccidendo e tu taci. Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, vogliono i loro soldi. Perché loro sono Europa e tu, caro Sud, non sei niente. Né Europa, né Africa. Stai in mezzo, e quelli che stanno in mezzo non hanno mai contato un cazzo.

Loro vogliono il lavoro, le scuole migliori, gli ospedali più efficienti, i treni più veloci, le città pulite, i teatri affollati. La vita. E a te resteranno i paesi morenti, i giovani che partono senza voltarsi indietro per non farsi fottere dalla nostalgia, i vecchi avvelenati dal rancore, le città divorate dalla crisi. Caro Sud, ti stanno rubando il futuro e tu sei l’illuso di sempre. Ora i tuoi occhi brillano per Matteo Salvini, uno che per anni ti ha dedicato solo lo sputo del disprezzo. Eri democristiano nella Prima Repubblica, davi voti e ricevevi briciole, poi ti ha conquistato Berlusconi che veniva da Milano, e finanche Renzi, il giovanotto dalla parlata fiorentina. Volevi cambiare tutto e hai votato in massa per le Cinque stelle del comico genovese, ma pure quelli ti hanno deluso. Ilva, Tap, onestà: chiacchiere al vento. E ora c’è Salvini, con i suoi ascari, vecchi pezzi del peggiore potere. “Non ci raccontiamo fantasie…”, Sud: ti stanno fottendo, e questa volta per sempre. E allora ribellati. Sud “scassa” tutto. Ritrova un pensiero tuo, aggrappati alle tue università, ai tuoi studiosi, ai poeti, ai musici, ai giovani che hanno ancora voglia di fare, ai sindaci ribelli e disobbedienti. Pino Daniele te l’ha detto, Sud, scavame ‘a fossa, voglio muri’ cu’ te…, ma ribellati Sud. Ribellati.

Stop al progetto per far rivivere il Giardino dei Giusti

Chi salva anche una sola vita salva il mondo intero, recita il Talmud: lo ricordano in ogni Giardino dei Giusti. Quello di Milano sta al Monte Stella, collinetta sorta sulle macerie dell’ultima guerra: ci trovi i nomi di chi ha aiutato le vittime delle persecuzioni e dei genocidi. Quando lo percorro, il sentiero del Giardino mi sembra il confine tra Male e Bene. Vedo più ragazzi, scolaresche sempre più emozionate.

Ebbene, a qualcuno tanto successo dà fastidio. Così tanto da voler sfrattare il Giardino. Colpa di un progetto. Gariwo, l’Onlus guidata da Gabriele Nissim che ha creato il Giardino, ha ottenuto cinque anni fa i permessi per riqualificare il parco, rispettando ogni norma: muretti, pietre lungo i cammini della memoria, l’anfiteatro per dibattiti e lezioni di storia e filosofia. Apriti cielo! Nel quartiere si mobilita la fondazione intitolata all’architetto Bottoni, progettista del Monte Stella, guidata dal figlio. Raccoglie firme. Denuncia il mancato rispetto dei vincoli paesaggisti e della memoria storica (nonché artistica). Tardivo e sospetto, questo sussulto di coscienza ambientalistica. Per decenni, nessuno ha trattato il Monte Stella come un monumento alla sofferenza della Milano bombardata. Semmai, come un totem dello sport (jogging, cross, moto, gare di sci: Tomba vinse il parallelo del Natale 1984), senza dimenticare i festival dell’Unità.

Che sia un pretesto? Il dubbio è lecito: il Giardino dei Giusti è bipartisan, si condividono la memoria della Shoah, ma anche delle pulizie etniche balcaniche, della rivolta di Budapest, del genocidio armeno… Poi, succede che qualche giorno fa irrompa nella diatriba Alberto Bonisoli, ministro della Cultura. Blocca i lavori. Vuole “chiarezza sulle polemiche”. Annuncia verifiche, il che crea problemi logistici alla cerimonia del 14 marzo per la Giornata dei Giusti. Nissim è sconcertato: “Il nostro progetto è stato una grande operazione democratica di consenso politico”. Ma agli occhi del grillino Bonisoli, quel consenso sa troppo di centrosinistra…

Atletico-Juventus, sfida “maledetta”

Atletico Madrid-Juventus, ovverosia: la partita del gatto nero. Anche se a dire il vero, incrociando il suo cammino con quello di Atletico e Juventus in Champions League, l’unico autorizzato a fare gli scongiuri dovrebbe essere proprio lui, il gatto. Ebbene sì. Anche se molti non lo sanno, il match che dopodomani andrà in scena al Wanda Metropolitano (lo stadio che ospiterà l’1 giugno la finale) è la sfida tra le due “squadre maledette” del torneo che fino al ’92 si chiamava Coppa dei Campioni. Da una parte c’è la maledetta di lusso, la Juventus, che vanta il record di finali perse, 7 su 9, a fronte di una presenza quasi continua nel torneo (33 partecipazioni su 55), seconda solo a Real Madrid (49 presenze), Benfica (38) e Bayern (35); e dall’altra c’è la maledetta di serie B, l’Atletico, presente solo 14 volte ma che vanta il record di finali perse (3) nell’infausta classifica dei club mai vincitori; unica squadra, tra l’altro, a perdere una finale ripetuta, fatto accaduto una sola volta nella storia.

È il 1974. Allenato da Juan Carlos Lorenzo, l’Atletico (nella cui porta gioca Miguel Reina, papà del Pepe già portiere di Liverpool, Napoli e Milan) arriva a sfidare il Bayern di Udo Lattek nella finale dell’Heysel a Bruxelles. E’ il Bayern più forte di tutti i tempi, quello di Maier, Beckenbauer, Breitner, Muller e Hoeness, lo squadrone che vincerà 3 Coppe consecutive. Ma l’Atletico è un osso duro per tutti: per 90 minuti immobilizza i tedeschi e nei supplementari, al minuto 114, va addirittura in gol con Luis Aragonés. Mancano 6 minuti alla fine, sembra fatta, invece all’ultimo secondo il fato ci mette lo zampino; o meglio, lo zampone di Hans Georg Schwarzenbeck, il rude difensore centrale del Bayern che con un sinistro da fuori area al minuto 120 sorprende Reina sr. e manda le squadre alla finale-bis (a quel tempo non esistevano i calci di rigore). Finale che si rigioca due giorni dopo e vede l’Atletico, depresso per la beffa patita, travolto dal Bayern per 4-0 (due gol Muller, due Hoeness). Tutto per colpa di Schwarzenbeck!

Passano 40 anni (avete capito bene, quaranta!) e sapete cosa succede? Succede che l’Atletico torna in finale per la seconda volta nella sua storia. E’ il 2014 e allo stadio Da Luz di Lisbona i colchoneros di Diego Simeone sfidano il Real Madrid che da 11 anni va a caccia, senza esito, della sua decima Coppa. L’incantesimo che attanaglia i cugini è palpabile, infatti l’Atletico va in gol al 36’ con Godin e per tutta la partita i disordinati assalti del Real vanno a vuoto; ma all’ultimo assalto, minuto 94, ecco materializzarsi in area il difensore centrale dei blancos (do you remember Schwarzenbeck?), al secolo Sergio Ramos, che di testa da calcio d’angolo infila la palla nell’angolo alla destra di Courtois. Mazzata micidiale; si va ai supplementari ma l’Atletico è un pugile suonato, il Real di Ancelotti vince 4-1. E due anni dopo, altro giro, altra finale col Real e altro regalo (ai cugini). Stavolta siamo a San Siro e l’Atletico tiene botta fino alla fine: 1-1 al 90’, 1-1 dopo i supplementari. Si va ai rigori. Segnano tutti, i primi 3 del Real e i primi 3 dell’Atletico, poi è la volta di Ramos (indovinate? Fa gol) e poi di Juanfran: che ineluttabilmente sbaglia. CR7 chiude i conti, finisce 3-5.

Dopodomani, Atletico-Juve. I gatti neri sono pregati di tenersi alla larga.

Il lato oscuro dell’innovazione: ci fa lavorare tutti molto di più

Sembra un paradosso eppure l’attuale “innovazione” fa aumentare il totale delle nostre ore di lavoro. Negli Usa, dove c’è la massima meccanizzazione, da vent’anni si lavora di più, non di meno. Altro che La fine del lavoro (il best-seller del 1995 di Jeremy Rifkin). Da sempre, le macchine riducono certe ore di lavoro, ma ne aumentano altre. Le nuove macchine della rivoluzione industriale raddoppiarono il carico di lavoro individuale (rispetto a quello dei lavori agricoli) e aumentò il carico complessivo, arruolando donne e bambini. Nel secolo successivo il carico di lavoro si dimezzò soprattutto grazie alle lotte e alle leggi sociali, non alle macchine.

Oggi il lavoro risparmiato dalle nuove macchine è compensato dal lavoro per produrre nuovi beni materiali e immateriali e dagli stimoli del marketing per produrre nuovi bisogni. L’effetto netto non dipende allora dai robot ma dal costrutto sociale: contrattazione, legislazione e tariffe del lavoro, marketing e pubblicità, bambini consumatori, più single e meno famiglie, prescrizioni religiose di riposo.

L’ “innovazione” è sempre metà tecnica e metà sociale. Da millenni l’innovazione tecnica ci fa produrre un chilo di pane con sempre meno lavoro. L’innovazione sociale, però, ci induce a spendere in ogni giornata meno soldi per il pane, e più soldi, per esempio, per il digitale (dispositivi, infrastrutture, software, connessione)

Tuttavia, mentre il consumo di pane è saturabile, quello di beni digitali “immateriali” non lo è. Il consumo di pane, inoltre, non è gonfiato da pubblicità e marketing. Non ci sono psicologi e ingegneri che escogitano come farci consumare sempre più pane. E nessuno mangia più pane per moltiplicare i contatti sociali o per giocare. Tutto ciò accade invece per i beni digitali

L’enorme mole di lavoro dei manovali digitali è sottovalutata. Milioni di nuovi dannati della Terra son pagati una miseria per cliccare giorno e notte like, follow e share. Altri sono pagati per lavorare alla tastiera per cercare di insegnare alla “intelligenza artificiale” a essere intelligente. Inoltre, i due miliardi di manovali digitali non pagati (la vera forza lavoro) siamo noi user. Con le nostre corvée alla tastiera facciamo guadagnare due volte i padroni digitali: la prima, lavorando gratis, la seconda come bersagli della pubblicità realizzata col nostro lavoro.

Ogni clic e bit che attraversa lo spazio consuma materia. Sempre più bit e apparati necessari a muoverli per il mondo consumano energia prevalentemente atomica e fossile (tonnellate di uranio radioattivo e milioni di tonnellate di carbone). Anche queste richiedono più lavoro. E ancora di più ne richiedono i materiali per cellulari, computer e infrastrutture digitali. Questo processo richiede più lavoro anche perché l’obsolescenza programmata dei prodotti è sempre più veloce.

Il telefono dei nostri genitori fu usato per cinquant’anni, quello dei nostri figli deve diventare obsoleto in un anno. Per accelerare il ricambio di ogni cosa (non solo dei dispositivi digitali) occorre il crescente lavoro di milioni di pubblicitari. Tutte queste attività richiedono un volume di lavoro crescente e probabilmente più grande di quello risparmiato dai sinistri robot.

Al lavoro monetizzato, vanno aggiunti gli Ikea-work, ossia i lavori che prima erano pagati e ora svolgiamo gratis: montarci i mobili Ikea, scannerizzare i prodotti al supermercato, fare benzina. Anche queste ore di lavoro aumentano, ma non sono occupazione e non compaiono nelle statistiche che “vedono” solo il lavoro monetizzato.

Nel libro En attendant les robots. Enquête sur le travail du clic (2019) Antonio Casilli smonta lo scenario dei “robot che rubano il lavoro”. Il libro più utile però, è La teoria della classe agiata (1899) di Thorstein Veblen. Il grande economista eterodosso descrisse il fenomeno del consumo ostentativo e notò che i crescenti consumi delle élite erano per beni posizionali, acquisiti soltanto per compararsi con gli altri. Oggi però l’innovazione socio-tecnica permette a miliardi di persone di essere “classe agiata”.

Un limite ai consumi dovrebbe essere il potere d’acquisto dei cittadini. Tuttavia, negli Usa, e presto nel resto del mondo, questo limite è relativo. Lo statunitense medio ha una decina di carte di credito. Con l’una molti pagano i debiti dell’altra, spesso per comprare cose di cui non hanno bisogno con soldi che non hanno. Il comprare a debito, esasperato negli Usa, si diffonde altrove e permette a miliardi di persone di comprare più beni di quelli che si possono permettere, la cui produzione richiede più lavoro.

Il numero di ore di lavoro individuale e complessivo non dipenderà dalla innovazione tecnica, che non è una fatalità inevitabile come i terremoti. Dipenderà invece, come negli ultimi cento anni, da come decideremo di regolare il lavoro con la politica e con i lavoratori organizzati. E dipenderà soprattutto dall’aumento o dalla diminuzione della nostra propensione a consumare, produrre e lavorare di più, a scapito della qualità della nostra vita e dell’ambiente globale.

*Docente di politiche ambientali al Politecnico federale di Zurigo (ETH)

Gli altarini del risparmio gestito svelati dalla ricerca di Mediobanca

L’Italia è proprio un Paese anormale. Le rare analisi che smascherano gli altarini del risparmio gestito arrivano soprattutto da una società privata, cioè da Mediobanca. E non solo dal suo ufficio studi, ma anche da una sua branca rivolta agli investitori istituzionali (Mediobanca Securities).

L’ultima ricerca di Gian Luca Ferrari del 5 febbraio 2019 s’intitola Italian Asset Gatherers e analizza le principali società di vendita non allo sportello, bensì porta a porta: Mediolanum, Banca Generali, Azimut, Fineco. Quanti si riempiono la bocca con l’educazione finanziaria dovrebbero tradurla in italiano e darle ampia diffusione.

Sicuri che ciò non avverrà, riportiamo alcune informazioni purtroppo in forma molto compressa.

Poca fatica, molto guadagno. La ricerca fornisce una stima – e questa è una vera novità – dei contatti dei venditori, sedicenti consulenti, coi loro clienti. In molti casi si riducono a qualche telefonata e due-tre visite l’anno; non di rado anche meno (pagina 28). In compenso gli fanno pagare a vario titolo commissioni esorbitanti. Per patrimoni in gestione sui 250 mila euro esse vanno dal 2% al 2,8% annui. Per quelli sul milione di euro dall’1,7% al 2,5% (pagina 27).

Distruzione di risparmio. Di fronte a tali percentuali è interessante porsi una domanda, che gli educatori finanziari si guardano bene dal formulare. Cosa comportano oneri anche solo del 2% per chi si lascia gestire i risparmi dall’età di trent’anni alla pensione? Significano che l’industria del risparmio gestito gli porta via complessivamente il 50% della cifra investita, erodendola un po’ alla volta. Nel caso di un prodotto previdenziale sciaguratamente intestato a un bambino, essa sottrae il 70%.

L’America insegna. Tutto ciò non è scontato. Negli Stati Uniti l’enorme società Charles Swab ha un’offerta diversificata, dove sostanzialmente si paga in base al servizio ricevuto e di regola molto meno, quasi sempre sotto l’1% annuo, a percentuali decrescenti col crescere dei patrimoni (pagine 15-25).

Frottole smontate. È falso che gli italiani abbiano troppi titoli a reddito fisso: non ne hanno mai avuto così pochi. Ma soprattutto è una menzogna che sia ancora poco diffuso il risparmio gestito: col 35% è ai massimi storici. Altra falsità che la quota in fondi comuni sia bassa nei confronti con l’estero. È viceversa fra le più alte (pagine 45-50).

E potremmo continuare. I dati forniti dalla ricerca sono così gravi che in un Paese normale fungerebbero da pietra tombale per le società esaminate. Ma siamo in Italia e così non sarà.

 

Epatite C, salasso per i farmaci

Ci sono oltre 300mila italiani affetti da epatite C che non hanno ancora ricevuto la cura per guarire definitivamente. Se entro quest’anno gli ospedali non saranno in grado di prendersi carico di tutti questi pazienti, la spesa per i farmaci anti-Hcv dal 2020 sarà a carico delle Regioni. Queste preziosissime molecole salvavita, il cui prezzo si aggira tra i 4mila e 6mila euro, usciranno infatti dal fondo speciale per i farmaci innovativi da 500 milioni (istituito nel 2017), andando a gravare sui bilanci regionali e generando quasi sicuramente problemi di spesa. La normativa di Aifa, infatti, prevede che dopo 36 mesi il farmaco perda il requisito di innovatività e ritorni nel budget dei farmaci ordinari. La società italiana di gastroenterologia ed endoscopia digestiva (Sige) ha diffuso un comunicato in cui chiede a tutti gli operatori sanitari coinvolti di impegnarsi per curare il maggior numero di pazienti entro quella data. Quelli già trattati negli ultimi tre anni sono stati 167mila. L’obiettivo dell’Oms è quello di raggiungere entro il 2030 una riduzione globale della mortalità correlata alle epatiti del 65% e una riduzione del 90% di nuove infezioni.

Tariffe telefoniche, le novità tra rincari e rimodulazioni

L’ingresso di Iliad nel mercato italiano sta lasciando il segno. È positivo per i clienti che sono tornati a godere dei benefici di un politica concorrenziale che ha portato a un abbassamento delle tariffe; è negativo per i big telefonici che, a causa dello sbarco in Italia del gruppo fondato da Xavier Niel lo scorso maggio in Italia, hanno perso circa 300 milioni di euro se si confronta il fatturato del terzo trimestre del 2018 con quello dello stesso periodo del 2017. In particolare, secondo l’indagine annuale di R&S Mediobanca, la contrazione più ampia del fatturato l’ha subita Wind Tre, con 158 milioni di ricavi persi, segue Vodafone (-111 milioni) e in misura minore Tim (-33 milioni). Mentre la low cost francese ha conquistato il 2,2% del mercato della rete mobile. Ma ad aver destabilizzato il comparto è stata anche l’asta per le frequenze del 5G che ha visto le compagnie sfidarsi a colpi di rilanci per mettere le mani sulle bande dove si muoveranno le reti mobili del futuro. E se è stata festa grande per lo Stato, che ha incassato 6,5 miliardi di euro, questo enorme investimento degli operatori rischia di abbattersi sui clienti finali.

In che modo? Con l’aumento delle tariffe attraverso una rimodulazione del piano che può avvenire con le solite modifiche unilaterali del contratto o in maniera più subdola attraverso i costi nascosti. Del resto che quella sulla trasparenza è una battaglia persa si è capito bene lo scorso mese quando sono stati stralciati dal dl Semplificazioni quattro emendamenti che avrebbero posto un freno alle continue modifiche imposte. Insomma, una vittoria per le compagnie a discapito degli utenti ai quali non resta che prepararsi alla nuova ondata di ritocchi che si stanno abbattendo.

Iniziamo con Tim. A partire dal 25 febbraio, l’ex monopolista modificherà il prezzo mensile per un numero limitato di offerte mobili non più in commercio: così dal primo rinnovo scatterà una rimodulazione tariffaria con un aumento mensile di 0,99 euro o 1,99 euro in più. Mentre come riporta Modomobileweb, dall’11 febbraio per i nuovi clienti Tim che provengono da Iliad e da alcuni operatori virtuali l’offerta più bassa costerà 1 euro al mese in più rispetto ad oggi. Per chi proviene, invece, da Wind e Vodafone ci vogliono 2,01 euro e ci sono meno giga mensili disponibili.

Sul fronte Vodafone, il rincaro potrebbe chiamarsi “il costo della disattenzione”. Dal 15 aprile, si pagherà 0,99 euro ogni volta che si andrà in negativo con il credito. In pratica, se alla scadenza ci si dimentica di rinnovare l’opzione sulla ricaricabile (senza addebito), questa si rinnoverà automaticamente per 48 ore durante le quali sarà possibile continuare a chiamare e a navigare. Ma Vodafone, al posto di metterla come opzione, l’ha attivata su tutti gli abbonamenti ricaricabili diventando di fatto un nuovo metodo di tariffazione. Chi non accettasse la variazione, può recedere dal contratto o passare a un altro operatore senza penali.

Per quanto riguarda Wind Tre l’attenzione va messa nei dettagli. Anche se l’operatore non prevede modifiche unilaterali nel breve periodo, c’è la questione dei costi nascosti da tenere d’occhio. Dall’11 febbraio al 24 marzo ai nuovi clienti viene offerta gratuitamente l’offerta “200 sms”. Tuttavia, se non si disattiva, al termine del mese l’opzione si rinnova automaticamente al costo di 0,99 euro con addebito sul credito residuo. Stesso meccanismo per l’opzione 4G Lte che prevede il costo di 1 euro con rinnovo automatico salvo disdetta.

Fastweb ha, invece, rimodulato alcune offerte, con aumenti pari a 1,29 euro in più al mese, da inizio anno. Anche in questo caso i clienti avrebbero potuto recedere. Insomma, il vulnus è evidente: fino a quando non si porrà un limite normativo, gli operatori potranno continuare a ritoccare in qualsiasi momento le offerte, in teoria anche il giorno dopo l’attivazione di un pacchetto.

Inoltre, le modifiche contrattuali unilaterali concedono al gestore la possibilità di apportare, a proprio vantaggio, dei cambiamenti alle condizioni iniziali, inviando semplicemente e a costo zero un sms o una mail. Mentre il cliente ha solo 30 giorni – sempre nel caso si accorga della modifica – per comunicare tramite raccomandata (circa 5 euro la spesa) la decisione di recedere dal contratto. Un abuso di queste modifiche che, negli ultimi anni, ha avuto un effetto a catena: per “adeguarsi alle condizioni strutturali del mercato” un gestore inizia e gli altri a ruota si adeguano, proprio come accaduto con le bollette a 28 giorni che hanno portato nelle tasche dei gestori un miliardo di euro l’anno, prima che la politica non bloccasse il meccanismo. Peccato, però, che nessuno abbia pagato: dopo averlo stabilito per Vodafone e Wind Tre, il Tar del Lazio ha deciso che deve essere annullata anche la maxi multa inflitta dall’Agcom a Fastweb.