“Io, il loro Sgarbi: in Italia bullizzato, in Cina osannato”

Parlantina sciolta, 34 anni, aspetto curato, con in testa l’idea di ispirarsi a Maurizio Costanzo: “Eppure qui sono visto un po’ come il loro Vittorio Sgarbi”. Riccardo Moratto è italiano, cresciuto tra la Toscana e Roma, ma da quasi dieci anni gira tra la Cina continentale e Taiwan, dove ha lavorato come interprete simultaneo, insegna all’università ma dove soprattutto ha fatto fortuna davanti alla telecamera: presentatore televisivo, opinionista, persino produttore di un suo show e autore di un bestseller.

Riccardo Moratto, ci vuol dire che a Taiwan si guarda una trasmissione condotta da un italiano?

Da oltre un anno produco e presento un programma tutto mio, si chiama Face2Face. È un talk show in cui protagoniste sono le storie, sia delle celebrità che delle persone comuni. Il mio modello è L’intervista di Maurizio Costanzo, cerco di portare in televisione temi di cui i cinesi non vogliono mai parlare in pubblico, come la sieropositività o le discriminazioni sessuali.

Come è riuscito a diventare un personaggio televisivo in Cina?

Sono arrivato qui come interprete nel 2008. Ho lavorato a Taiwan, poi a Shanghai e poi di nuovo a Taiwan, seguendo anche il vicepresidente e diverse figure diplomatiche, dato che conoscevo bene la loro lingua e l’inglese. Nel frattempo ho iniziato a lavorare all’Università dove ancora mi occupo di traduzione e interpretazione.

E la tv?

Nel 2011, come opinionista. Qui danno molta importanza alla figura dello straniero che magari ha alcune competenze specifiche, sono interessati a un punto di vista diverso. E così hanno cominciato a invitarmi in alcuni programmi di attualità, finché sono diventato il protagonista di una trasmissione mia.

Di che si trattava?

È andata in onda per circa tre anni: io e l’equipe andavamo in giro per Taiwan a cercare nei cartelli e nelle insegne gli ideogrammi meno conosciuti e li raccontavamo alla gente, spiegandone la composizione e il significato. Teniamo conto che neanche un madrelingua laureato cinese può conoscere tutti i segni del suo idioma, che sono più di 300 mila.

Una specie di maestro Manzi dei cinesi.

Più che altro adesso somiglio a Sgarbi. Non perché io urli o faccia risse in tv, ma perché qui per essere considerato oltre le righe basta dire le cose in faccia, non avere quei filtri che la loro cultura sociale richiede. Per esempio: se sei vestito male, un cinese non ti dirà mai che fa schifo quello che hai indosso, ma magari ti inizierà a parlare di quel nuovo negozio di abbigliamento in fondo alla strada.

Uno stile provocatorio quindi.

A loro dà fastidio se saltano queste convenzioni, crea disagio. Per questo cito Sgarbi, anche se poi sarei più un misto tra Sgarbi e Platinette.

Platinette?

Sì, apprezzo molto quello che ha fatto nella tv italiana. Con la sua apparente dimensione da clown ha veicolato messaggi molto importanti che hanno avuto un peso nell’opinione pubblica. Mi piacerebbe se venisse da me a Taiwan per un’intervista.

Quanto guadagna a Taiwan una star della tv?

Io guadagno bene rispetto a uno stipendio medio italiano, ma devo dire che c’è una certa gerarchia nella tv cinese. Ci sono pochissimi presentatori che prendono cifre spaventose, diciamo 50mila euro al mese in una società in cui però il costo della vita è molto inferiore e lo stipendio medio è inferiore a mille euro. Gli altri, a scendere. Nei confronti degli stranieri però c’è una specie di razzismo velato per cui non arriveranno mai a quelle cifre e anche per questo ho deciso di produrmi uno show tutto mio.

Dal suo percorso sembra le stiano particolarmente a cuore i temi sociali.

Raccontare la mia storia è una testimonianza, una specie di Me Too personale. Ho avuto un’infanzia terribile, sempre in lotta con il bullismo di provincia italiano.

Violenze?

Di ogni tipo, anche nei confronti di mia madre non vedente. Una volta qualcuno mise persino del liquore dentro la caldaia della stanza dove stavamo. Ho avuto compagni di liceo che per le stesse cose, in quegli anni, si sono suicidati.

Traumi difficili da superare.

Me li sogno ancora, per questo vedo la mia carriera come una lunga salita.

Mai pensato di proporre uno show in Italia?

Premetto che non faccio tv tanto per farla, per me è un mezzo, non un fine. Però mi piacerebbe, sarebbe una missione interessante avvicinare il pubblico italiano alla cultura orientale, troppo spesso si creano falsi miti e stereotipi sbagliati sulla Cina o si fa un pastone unico tra tutta l’Asia.

Così il belvedere di Capri è diventato proprietà privata

“Il Comune di Capri, responsabile di un patrimonio naturale consacrato dalla storia, si propone al mondo come luogo di incontro delle genti per ricercare, attraverso il valore della bellezza, l’ideale dell’amore, della solidarietà e della pace tra i popoli”. Non solo turismo di lusso, dunque: l’articolo 1 dello Statuto del Comune di Capri esalta il ruolo politico, nel senso più alto, di quello straordinario bene pubblico che è il suo paesaggio. Un messaggio universale, una battaglia necessariamente locale: contro la privatizzazione progressiva di quella bellezza.

Quando si percorre un sentiero tanto antico da essere associato al nome dell’imperatore Tiberio e ci si trova improvvisamente di fronte un cancello, e a una scritta in vernice bianca che ammonisce, dal selciato, a non violare la terribile “proprietà privata”, ebbene la sensazione è quella di subire un’amputazione. Alla bellezza come “luogo di incontro” evocata dello statuto comunale, subentra la bellezza come luogo di esclusione.

Quel sentiero porta all’Arco Naturale: un tratto di costa che aiuta a capire cosa intendesse Concetto Marchesi quando, rifacendosi alla costituzione di Weimar, propose all’Assemblea Costituente un primo embrione di quello che diverrà l’articolo 9, in cui la Repubblica si impegnava a proteggere i “monumenti naturali, e le vedute panoramiche”. Un monumento naturale: nessuna definizione è più adatta a questo stupefacente Arco, che sembra uscito da un quadro di Salvator Rosa.

La battaglia per l’Arco che oggi infuria nei tribunali della Repubblica, non comincia ora. La ricercatrice Alessandra Caputi ha trovato, nell’archivio dell’Istituto Croce, una splendida lettera di Raffaele La Capria a Elena Croce del 10 ottobre 1981. Lo scrittore invitava la figlia di don Benedetto, e fondatrice di Italia Nostra e del Fai, a inviare al Corriere della sera, a Repubblica e al Mattino “una lettera corredata da una decina di firme” in cui si denunciasse la “speculazione dei privati” sul terreno che “copre tutta la conca dell’Arco Naturale”. “Io stesso – aggiungeva La Capria – ho visto la casetta, l’antenna, i lavori sospesi e la strada ‘nuova’ iniziata per una decina di metri: … quello che ho visto con i miei occhi è abbastanza eloquente e non offre altre spiegazioni”. Cos’era dunque successo? La bozza della lettera da inviare ai giornali, stesa da La Capria, è esplicita: “La signora GV che abita a Roma compra a Capri per centomila lire nel 1940 settemila metri di terreno. Nel 1970 con un successivo acquisto quei metri diventano 15 mila. È nuda roccia scoscesa, coperta qua e là di arbusti e macchia, ma è uno dei luoghi più belli e intatti e selvaggi dell’isola, quello che si può ammirare dalla stradina che porta all’Arco Naturale. A pochi metri dal belvedere … c’è una casupola, anzi un cubo di pietra che una volta serviva come deposito per la legna, una costruzione non più grande di tre metri per tre. La signora GV, ben sapendo come vanno le cose in Italia, dove quel che è fatto poi resta, pensò di trasformare il deposito di legna in una stanza, e vi aggiunse un altro cubetto per i servizi. E così ecco l’embrione di una casa, sulla quale (quasi a svelare le intenzioni della signora) già svetta l’antenna della televisione. Poiché anche l’Arco Naturale è incluso nel territorio della signora, dunque è suo (o per lo meno tale essa lo considera) la proprietaria decide di correggere il tracciato della stradina che a zig zag porta al Belvedere, tagliandone fuori una curva, in modo da riservare tutto per sé e per la sua futura casa uno dei due belvederi dell’Arco Naturale”.

La profezia di La Capria, manco a dirlo, si è rivelata esatta: e i cancelli e le scritte apparsi pochi mesi fa sono l’estrema conseguenza di quell’acquisto del 1940 e soprattutto del modo “in cui vanno le cose in Italia”.

In quella lettera del 1981 si prospettava una soluzione radicale, in effetti l’unica possibile: lo Stato avrebbe dovuto decidersi “a comprare, sottraendola ai privati, quella parte di Capri, Arco Naturale compreso, che dovrebbe essere patrimonio di tutti”. Non andò così: e oggi la battaglia per l’ambiente di Capri si è fatta difficile. Nel giugno 2018 il Tar ha dato ragione alla proprietaria della villetta (oggi diversa da quella che realizzò l’abuso edilizio), smentendo che la via Arco Naturale si biforchi. Il Comune di Capri, nonostante le ottime intenzioni, si è difeso male – come ha evidenziato il giudice –perché ha sbagliato la qualificazione del tipo di abuso. Ma non c’è alcun dubbio, come dimostrano cartografie e perizie dei primi del Novecento, che il sentiero fosse demaniale e che la biforcazione cancellata dalla villetta di cemento invece esistesse eccome.

Ora si aspetta la sentenza del Consiglio di Stato: se fosse avversa al Comune e agli ambientalisti sarebbe una specie di ‘bomba libera tutti’. Mimmo Oliviero, fondatore del Comitato pro sentieri di Capri, teme che il sentiero demaniale scompaia definitivamente, attraverso la privatizzazione anche del ramo che conduce al belvedere, dove già era comparso il cartello “proprietà privata” nel 2018, poi rimosso dopo le proteste di associazioni e comitati. Cosa deciderà il Consiglio? C’è solo da sperare che resti fedele a quanto ha affermato in una sua sentenza del 29 aprile 2014: “Il paesaggio rappresenta un interesse prevalente rispetto a qualunque altro interesse, pubblico o privato”. Così sia.

Joe Petrosino, il detective antimafia a New York

Poco prima delle nove di sera del 12 marzo del 1909 l’esplosione di quattro colpi di arma da fuoco risuonò tra le mura dei palazzi che circondano piazza Marina a Palermo. “Per proditoria mano mafiosa, tacque la vita Joe Petrosino”, recita la targa posta sul luogo del delitto di cui quest’anno ricorre il centodecimo anniversario. Giuseppe Petrosino era emigrato da Padula, nel Salernitano, dove era nato nel 1860, a New York nel 1873. Piccolo di statura, robusto e forte, era uno dei meridionali che i transatlantici che facevano spola tra il vecchio e il nuovo continente vomitavano a migliaia in quegli anni successivi all’Unità d’Italia nei quali il Sud impoverito si svuotò. In quell’ultimo scorcio di Ottocento, gli italiani arrivano al cospetto della Statua della Libertà con cinque dollari in tasca in un Paese di cui poco o nulla sanno, affollano gli edifici del quartiere di Little Italy, tra Mulberry Street, la strada dei napoletani; Elizabeth Street, una piccola Sicilia e Mott Street, che si riempie di calabresi e pugliesi.

Vivono stipati in appartamenti affollati e poverissimi. Si spaccano la schiena per un dollaro al giorno o meno, scavando la metropolitana o scaricando merce al porto. Manodopera a basso costo, per lo più “briccolieri”, storpiatura dell’inglese bricklayer, muratore. Qualcuno si fa strada, è il sogno americano, mettendo su un’attività. Ma tra i tanti disperati che sbarcano ai piedi della Statua della Libertà non mancano i delinquenti con tanto di pedigree criminale. Si diffonde così la “Mano Nera”, la chiamano così perché le bande inviano lettere minatorie con il disegno di una mano nera. Ma tra le bande di marioli che ricattano (e la parola ricatto, anglicizzata diventa “racket”) piazzando bombe ai danni di chi non vuole piegarsi, si fa strada anche la prima famiglia della mafia newyorchese, quella con a capo Joe Morello, don Piddu, un corleonese detto l’Artiglio, per via di una mano deforme con un solo dito, il mignolo. Giuseppe Petrosino dopo essersi guadagnato da vivere come lustrascarpe e spazzino, entra in polizia. È uno dei pochi italiani nel dipartimento a capire i dialetti meridionali, a poter interpretare i segnali, i codici e le regole della criminalità che ha già buttato i suoi semi a Manhattan. Ed è per questo che all’alba di un piovoso giorno di aprile del 1903, quando una domestica di origini irlandesi trova in un barile sul marciapiede in una strada del basso East Side un cadavere orribilmente mutilato, viene incaricato del caso.

Il tenace italoamericano, insignito del grado si sergente, niente di meno che da Teddy Roosevelt, commissario della polizia newyorkese prima di diventare presidente degli Stati Uniti, è già noto per essere abile nei travestimenti e nell’infiltrarsi tra i bassifondi di Little Italy. Mentre indaga sul misterioso cadavere nel barile va a sbattere proprio su Joe Morello e sulla sua ghenga, una banda con numerose ramificazioni, un’organizzazione piramidale sorretta dall’omertà. Petrosino indaga sul caso anche grazie alla collaborazione con i servizi segreti, all’epoca specializzati nel contrasto del contrabbando di banconote false. Come nella migliore tradizione, Joe, per arrivare alla soluzione del caso pesterà molti piedi. E si metterà contro il temibile Vito Cascio Ferro, destinato a diventare Capo dei capi. Il mafioso palermitano era approdato negli Stati Uniti all’inizio del Novecento, preceduto dalla sua fama. Leggenda vuole che fu lui a esportare a New York il sistema del “pizzo”, ossia l’idea di estorcere in modo capillare piccole somme di denaro a titolo di “protezione”. Ai commercianti taglieggiati, i mafiosi non chiedevano più somme esorbitanti ma si accontentavano di “bagnarsi il becco”, il “pizzo” appunto. Nell’indagine sul morto del barile finì anche Cascio Ferro, che pensò bene di togliersi di torno riparando in Louisiana. Da lì, il boss rientrò in Sicilia portandosi dietro, si narra, proprio una foto di Petrosino. Un dettaglio che riemerse quando nel 1909, il poliziotto di Padula, diventato tenente, trovò la morte per mano mafiosa a Palermo.

Fino al momento della sua morte Petrosino si distinse per intelligenza e fiuto investigativo, la stampa gli attribuì l’appellativo di Sherlock Holmes italiano, diventò l’incubo di gangster e malavitosi e dopo i numerosi successi investigativi dette vita alla mitica Squadra Italiana, un pugno di detective incaricato di combattere la crescita esponenziale della malavita arrivata da oltreoceano. Accanto alle vessazioni dei criminali loro connazionali, gli italiani d’America in quegli anni dovettero fronteggiare altri più subdoli nemici: il razzismo, il pregiudizio, la discriminazione. Un clima ostile che nel 1891 era esploso nel tragico linciaggio di New Orleans, dove una folla inferocita fece irruzione nella prigione locale e massacrò undici detenuti italiani.

Petrosino sperimentò sulla sua pelle il pregiudizio contro gli italiani di quegli anni, emblematica fu la sua indagine che permise di salvare la vita, pochi giorni prima dell’appuntamento con la sedia elettrica, a un immigrato siciliano condannato per omicidio dopo un processo sommario.

Una pagina oscura e dolorosa, quella delle sofferenze dei nostri emigranti, di cui l’Italia degli ultimi tempi rischia di perdere la memoria. E furono proprio uomini come Petrosino, fieramente italiano e americano, della cui storia si è innamorato anche Leonardo Di Caprio in procinto di realizzarci un film, a permettere di superare quella stagione, facendo sì che in breve tempo la comunità italiana diventasse un pilastro della società newyorchese. Un esempio ancora in grado di ispirare, 110 anni dopo la sua morte.

Dopo 7 anni di errori, mille operai a spasso per Termini

Una crisi industriale che si trascina da otto anni ma che è diventata ora per i 5 Stelle una mina innescata, in una terra dove il Movimento ha raccolto quasi il 50% dei consensi alle ultime elezioni politiche. Si tratta dello stabilimento ex Fiat di Termini Imerese: mille lavoratori, tra diretti e indotto, a cui nel dicembre scorso sono scaduti gli ammortizzatori sociali, con le prospettive del sito produttivo che sono oscure e la protesta che monta. Una delegazione di sindacalisti e sindaci siciliani mercoledì scorso è andata a protestare davanti al ministero dello Sviluppo Economico, ma non ha avuto le risposte che voleva. Quanto basta all’opposizione per parlare di fallimento della politica industriale: “Il ministro dello Sviluppo passa il tempo a distruggere posti di lavoro, fra una gita con Di Battista e un caffè coi gilet gialli”. Ha affermato mercoledì la vice capogruppo del Pd, Chiara Gribaudo, dopo il question time alla Camera col ministro Luigi Di Maio. Dimenticando, forse, che si parla degli sviluppi del generoso accordo del governo Renzi con Blutec, firmato dalla allora ministro dello Sviluppo, Federica Guidi. “Anche questo questo è jobs act” aveva scritto tronfalmente su Twitter l’ex premier lodando l’accordo.

L’affare Blutec. L’impianto siciliano fa capo dal 2014 alla Blutec, società del gruppo Stola/Metec, della famiglia Ginatta, storico fornitore e partner della Fiat (poi Fca). E’ il risultato di un accordo firmato nel 2014, dopo il fallito tentativo di accollare la fabbrica, chiusa nel 2011, a un altro nome italiano del settore automotive, la Dr Motors. L’accordo tra l’agenzia governativa Invitalia e Blutec prevedeva la proroga della cassa integrazione per quattro anni e l’esborso di 350 milioni di euro di fondi, dello Stato e della Regione Sicilia, in cambio di una re industrializzazione che avrebbe comportato il progressivo riassorbimento di circa mille lavoratori, tra ex dipendenti Fca e dell’indotto, a partire dal 2016. A termini Imerese si sarebbero prodotti e assemblati motori elettrici per i furgoni Doblò (prodotto da Fca in Turchia) e per nuovi veicoli a tre ruote delle Poste, ed altri motori e componenti per il mercato internazionale dell’auto. Con un peso degli ordinativi Fca attorno al 60% del totale.

Ritardi e inchieste. Solo che le cose non stanno andando secondo i piani. Di Doblò elettrici, che sarebbero dovuti entrare in produzione alla fine dell’anno scorso, finora se ne è assemblato, con il contributo dei tecnici venuti da Fca, solo qualche esemplare per i test, il resto delle produzioni sono più che altro sulla carta. Con il risultato che i lavoratori riassorbiti sono stati finora 130, mentre 570 sono a spasso, come a sono spasso i circa 300 dell’indotto.

Il problema è che Blutec non sembra in grado portare avanti il piano, almeno nei termini stabiliti. La società ha problemi di cassa, tanto che non è chiaro come abbia speso una trance da 21 milioni di euro del finanziamento stanziato dalla Regione Sicilia. La Procura di Termini Imerese nell’ottobre scorso ha aperto un’inchiesta, la Guardia di Finanza è entrata in fabbrica e ha sequestrato documenti e i file dei computer.

“Blutec si è impegnata a restituite quei soldi”, spiega Roberto Mastrosimone, segretario della Fiom siciliana, “ma è in una difficile situazione finanziaria, è in ritardo con i pagamenti delle quote al fondo pensione dei lavoratori e non sappiamo se è in grado di restituire neppure i primi 5 milioni del contributo contestato, che sono la condizione per rivedere il piano industriale con Invitalia, come ha chiesto l’azienda, e accedere al resto dei finanziamenti”.

Grana ministeriale. Il 26 ottobre scorso davanti ai cancelli di Blutec è arrivato il ministro Di Maio. Sorrisi, pacche sulle spalle e rassicurazioni sul rinnovo della cassa integrazione e degli altri ammortizzatori sociali, per una sessantina di lavoratori in mobilità. Il 19 un nuovo incontro, al ministero, con i sindacati. Ma ad oggi, però, il relativo decreto ministeriale non s’è visto.

Al ministero fanno sapere che il provvedimento è all’esame dei tecnici. “È una crisi molto complessa”, dicono in via Veneto, “lo spiegherà Di Maio, quando andrà di nuovo a Termini Imerese il 23 febbraio prossimo”. Una visita programmata per tenere buoni gli animi, in anticipo rispetto al tavolo di confronto che era stato fissato per il 5 marzo.

“Oltre agli ammortizzatori sociali, c’è un problema industriale”, spiega ancora Mastrosimone, “e se Blutec non è in grado di portare avanti il piano, deve intervenire la Fca che oltre ad essere il primo cliente, è l’azienda che ha fatto la regia di tutta l’operazione. Fca non avrebbe potuto fare le mille assunzioni a Melfi nel 2015, se non si fosse trovato un accordo su Termini Imerese, ora si deve prendere le sue responsabilità”. Un approccio che del resto condivide lo stesso ministro dello Sviluppo: “Io sono di Pomigliano d’Arco”, ha detto ai lavoratori di Termini Imerese a ottobre, “abbiamo visto la Fiat prendere i soldi e poi un po’ alla volta togliere le produzioni. Quello che voglio fare è chiamare Fca alle sue responsabilità. È un mondo legato alla Fca, a cui dobbiamo chiedere di mantenere gli impegni”.

Vista l’ecotassa sui motori inquinanti introdotta con la legge di Bilancio 2019, e visto il ritardo di Fca rispetto ai concorrenti sui motori elettrici, il sito di Termini Imerese avrebbe delle grandi potenzialità, ma il problema, per il governo, è di metterle in atto rapidamente. In Sicilia alle elezioni politiche del 4 marzo il Movimento 5 Stelle ha sbancato, e in particolare a Termini Imerese, dove è arrivato al 47%; ma sono elettori a rischio delusione: “Qui diventano tutti salviniani”, dice il segretario della Fiom.

“Il Pd ha deragliato, bisogna fermare il cemento sulla costa”

Fra le più grosse partite in gioco alle Regionali in Sardegna c’è quella sull’ambiente e il paesaggio. Lo sa bene Francesco Pigliaru, che ha rischiato di cadere qualche mese fa sulla bocciatura di una proposta di legge Urbanistica contestatissima dagli ambientalisti e dai difensori del Ppr, il Piano paesaggistico regionale varato nel 2006 dalla Giunta Soru e che ha rivoluzionato la gestione dei beni ambientali in Sardegna dopo la grande stagione del Master Plan e delle colate di cemento sulle coste dell’isola. Gian Valerio Sanna è stato assessore della Giunta Soru e protagonista della genesi del Ppr, ancora oggi uno dei cardini della gestione del territorio nell’isola. “Nel 2004 la Regione Sardegna si trovò senza una tutela paesaggistica per la bocciatura di 13 dei 14 piani territoriali paesistici da parte dei Tribunali. L’isola era totalmente vulnerabile alla speculazione edilizia – ricorda Sanna – Subito adottammo un provvedimento d’urgenza, la famosa Legge Salva-Coste, dando lo stop al cemento selvaggio. Nel frattempo a livello nazionale veniva approvato il Codice del Paesaggio, meglio noto come Codice Urbani: era il contesto ideale attraverso il quale la Sardegna poteva voltare pagina attraverso una visione che poneva il territorio e l’ambiente come protagonisti centrali di un’idea di sviluppo. Fu costruito un comitato scientifico e vennero organizzate 25 conferenze di servizi in tutti i territori, con una discussione approfondita”.

Che resistenze avete incontrato, prima e dopo il varo del Ppr?

Il Piano Paesaggistico è stato chiamato 120 volte innanzi al Tar e tutte le volte ne è uscito indenne. Anzi, i giudici hanno riconosciuto che mai in Sardegna si era avuto uno studio così dettagliato ed approfondito del territorio. I detrattori c’erano e ovviamente ci sono ancora perché c’è sempre chi prova ad anteporre l’interesse temporaneo di qualcuno al benessere collettivo e permanente della collettività. L’operazione culturale del Ppr è però servita per invertire l’attitudine delle amministrazioni locali all’uso del territorio. Oggi sono i primi alleati della tutela e della valorizzazione del paesaggio. È chiaro che a quasi 15 anni dal varo di questo strumento c’è bisogno di una messa a punto. Ma soprattutto c’è bisogno di completare il percorso del Ppr estendendolo alle aree interne rurali ed incardinandolo dentro un’adeguata cornice urbanistica.

La giunta Pigliaru ha cercato di dare compimento a questo percorso portando avanti una legge urbanistica molto contestata e bocciata prima di arrivare in aula.

Nell’ultima legislatura il centrosinistra ha deragliato rispetto all’idea del Ppr soggiogando la legge urbanistica a delle inaccettabili cessioni di sovranità che dietro la veste dei “progetti strategici” nascondevano operazioni non chiare, se non l’idea di espandere gli alberghi in costa e di costruirne di nuovi. Teniamo presente che negli ultimi anni il comparto alberghiero ha potuto incrementare del 75% le proprie volumetrie. Non si può accettare che questo sia un processo che vada all’infinito.

Dietro le insidie della Legge Urbanistica andata a monte c’è già un altro rischio: alcuni nel centro destra hanno promesso che in caso di vittoria elettorale aboliranno il Ppr.

Sanno bene anche loro che l’eliminazione del Ppr è impossibile perché si tratta dell’attuazione di una legge nazionale di livello costituzionale e non c’è nessuna legge regionale che potrà cancellarlo”

Il bianco del latte, il nero del futuro

I pastori scioperano, la politica tratta. La guerra del latte ha riportato la Sardegna in prima pagina. Blocchi stradali, picchetti, dieci giorni di proteste senza capi, ma segnate da un gesto collettivo: ettolitri di latte rovesciati per terra. Per disperazione. La crisi del pecorino romano ha portato il prezzo a 60 centesimi al litro. Una cifra inaccettabile, che manderebbe all’aria migliaia di imprese (oltre 12mila in tutta l’isola). Domenica ci sono le elezioni regionali, le migliori alleate di chi protesta: i voti dei pastori non possono essere ignorati.

Da una settimana si cerca la mediazione. Ai tavoli con allevatori e industriali si sono seduti – a turno – il premier Conte, i ministri Lezzi, Centinaio e Salvini. Trattativa a oltranza sul prezzo. I pastori vogliono un euro al litro. “Altrimenti facciamo la guerra, come i Gilet gialli in Francia”, il grido di un manifestante fuori dalla prefettura di Cagliari, sabato pomeriggio. Quando Centinaio ha presentato l’ultima offerta: 72 centesimi e una serie di garanzie per far salire il prezzo nei prossimi mesi, fino al fatidico euro. I pastori hanno preso tempo. La crisi del latte è solo una delle tante, nella Sardegna che si avvicina al voto.

Il deserto sociale dal Sulcis a Porto Torres

C’è il deserto sociale che si è spalancato da anni nelle ex aree industriali. Vertenze infinite, un futuro sospeso, fatto di attese e di promesse.

Il Sulcis è ancora la provincia più povera d’Italia, quella dove il miraggio dello sviluppo economico negli anni 60 e 70 del secolo scorso ha lasciato più macerie. Sono 3.000 lavoratori in cassa integrazione, il 35% dell’intera regione. La maggior parte di loro, circa il 20%, sono operai e specializzati dell’indotto che ruota intorno alle grandi industrie di Portovesme: Eurallumina, ex-Alcoa, Portovesme srl, ex-Ila.

Poi ci sono i giovani: il 40% dei ragazzi non studia, non lavora, non è impegnato in alcun modo. Sono i “figli della crisi”, per cui l’unica prospettiva credibile è quella dell’emigrazione in un territorio in cui la denatalità si aggiunge alla povertà dilagante. E dove la lotta dei padri per la riapertura delle fabbriche sembra una chimera. È passato esattamente un anno dalla firma al ministero dello Sviluppo economico del passaggio di proprietà dello smelter ex Alcoa alla Sider Alloys, ma tutto si è fermato di nuovo: “I lavori di revamping degli impianti non sono nemmeno iniziati, l’avvio delle produzioni si allontana” racconta Bruno Usai, rappresentante della Fiom Sulcis. “Per il 20 febbraio era previsto un incontro al Mise per la presentazione del piano industriale, ma è slittato. Nel frattempo i lavoratori attendono di essere riassorbiti: per ora sono rientrati in 60, fra dipendenti diretti e riassunti tramite una società collegata ai lavori di manutenzione. Rimangono fuori ancora 350 fra i diretti e altri 200 degli appalti”. Sono senza paracadute: “A dicembre sono finiti gli ammortizzatori sociali, siamo in attesa del rinnovo per il 2019”, dice il sindacalista.

Una boccata d’ossigeno che è arrivata, invece, per i lavoratori ex Eurallumina: il 14 febbraio è stato firmato il decreto per la cassa integrazione straordinaria. Ma il futuro rimane un’incognita, specialmente dopo la promessa del governo di completare la decarbonizzazione entro il 2025. Per questo, una settimana fa, la delegazione della Rsu aziendale è andata a Cagliari a contestare Conte nel giorno della sua visita in Sardegna: “Noi siamo il primo anello della filiera dell’alluminio in un comparto strategico per la nazione. Il nodo dell’energia è fondamentale: chi investe se non c’è una prospettiva? Se si fermano le centrali di Fiume Santo e di Portovesme tutte le aziende dovranno chiudere” spiega Antonello Pirotto, storico rappresentante dei lavoratori ex Eurallumina. “Qui nessuno tifa per il carbone, nessuno vuole continuare a produrre attraverso combustibili fossili. Ma bisogna investire immediatamente per far arrivare in Sardegna un rifornimento alternativo: metano o gas che sia. Siamo l’unica regione in Italia a non avere il gas”.

A nord, oltre Sassari, c’è Porto Torres. Anche qui degli anni dello sviluppo industriale non è rimasto niente. Tino Tellini è uno straordinario testimone di questa storia, un uomo dalle mille vite: ex calciatore, ex amministratore pubblico, ex operaio della Vynils, il petrolchimico che dava lavoro a centinaia di famiglie della zona. Quando gli impianti sono stati chiusi nel 2010, Tellini e altri compagni di lotta si sono inventati “L’isola dei cassintegrati”: hanno occupato il carcere abbandonato di Asinara per inscenare un reality di protesta. Oggi, a 55 anni, Tino si riscopre scrittore e giornalista. “Qui non c’è più nulla. Del vecchio petrolchimico, il secondo più grande d’Italia, è rimasto un piccolo impianto di elastomeri, producono pneumatici. E poi c’è il ‘contentino’ di Eni: un polo industriale di chimica verde, si chiama Matrica. Nel protocollo d’impresa erano previsti 8 impianti, ne hanno aperti solo 3. Impiegano non più di 250 persone”. Nel tempo il lavoro è scomparso. “Per capirci – continua – nel 1975 nel petrolchimico lavoravano 21mila persone. Oggi tra chimica verde, bonifiche ed elastomeri non più di mille unità”. Che prospettive ci sono qui? “La disoccupazione giovanile è sopra il 50%. O si vive con i risparmi dei nonni o si scappa via”.

Crisi demografica e isolamento

Così i ragazzi cercano fortuna fuori dalla Sardegna. Quelli che restano abbandonano il centro della Regione per la costa, che vive di turismo: i paesi si spopolano. La natalità crolla: ogni anno – fonte Istat – nascono in media 485 bambini in meno del precedente. L’isola invecchia e si svuota a una media di 5mila abitanti ogni 12 mesi (dati Acli, anno 2017). Il quadro complessivo è in una proiezione del centro ricerche Cresme: entro il 2036 la popolazione dovrebbe ridursi del 10%, da 1.653.135 abitanti a 1.483.952.

Partire dalla Sardegna è facile, tornare meno. È il tema della continuità territoriale, la leva attraverso cui lo Stato garantisce un numero adeguato di tratte aeree a prezzi fissi per i residenti sardi. A gennaio Alitalia si è aggiudicata tutte le rotte per i prossimi tre anni: sarà l’unica a operare da Roma e Milano verso gli aeroporti di Cagliari, Olbia e Alghero.

Potrebbe non essere una buona notizia per i turisti (o per i sardi che non risiedono più sull’isola): il monopolio può far lievitare le tariffe. Non è una buona notizia nemmeno per i lavoratori di Air Italy di Olbia, visto che la compagnia, dopo aver rinunciato ai bandi della continuità territoriale, ora minaccia di smobilitare dalla Costa Smeralda: un pericolo che riguarda circa 500 dipendenti dell’azienda. Che hanno già iniziato a scioperare.

Non va meglio in mare: anche qui la continuità territoriale con la Sardegna è affidata in monopolio a Tirrenia. La compagnia è stata contestata ferocemente dal ministro dei Trasporti Danilo Toninelli: “Porremo fine al dominio di Tirrenia – ha detto in un recente comizio sull’isola–. Svolge un’utilità sociale fondamentale, utilizza tanti soldi pubblici, 72 milioni di euro, e non può far schizzare così i prezzi. A luglio del 2020 supereremo questa situazione con la nuova gara per la continuità territoriale”. Replica altrettanto ruvida dell’armatore di Tirrenia, Vincenzo Onorato: “Toninelli non sa di cosa parla. Le tariffe sono stabilite dalla convenzione firmata con lo Stato e spesso sono al di sotto dei limiti fissati dalla stessa”.

Le spiagge occupate dai militari

In un’isola che vive di turismo e del suo splendido mare, c’è un altra controversia pubblica che aspetta risposte concrete: quella delle servitù militari. Oltre 35mila ettari di territorio sardo appartengono al ministero della Difesa, al servizio delle forze armate o della Nato. Sono occupati da poligoni missilistici, aeroporti militari, depositi di carburanti, caserme, comandi. All’interno di questi spazi ci sono anche alcune delle più belle spiagge della Sardegna. La giunta dimissionaria di Francesco Pigliaru nel dicembre del 2017 ha siglato un accordo con l’ex ministra Roberta Pinotti per una prima riduzione della presenza della Difesa. Un accordo giudicato da più parti insufficiente, visto che la Sardegna da sola si carica sulle spalle oltre il 60% delle strutture militari italiane.

A gennaio l’attuale ministra Elisabetta Trenta ha annunciato di aver finalmente “liberato” la meravigliosa spiaggia di Porto Tramatzu, al limite del poligono militare di Porto Teulada. Non è ancora uno spazio pubblico in senso stretto: la Difesa la concede in “condivisione periodica”, ovvero sarà aperta ai civili per il periodo estivo. Un primo passo. Il prossimo governatore dell’isola sarà chiamato a compierne altri.

Il Movimento e i migranti: la svolta a destra nel 2013

Il voto sul caso Diciotti della base del M5S è incentrato su due temi: quello dell’immunità, al centro del dibattito da settimane, e quello sulle politiche dell’immigrazione, che è passato invece in secondo piano. Il quesito posto dal blog è fuorviante perché fa riferimento, come causa legittima del no all’autorizzazione a procedere contro Salvini, all’interesse pubblico. Il quesito non include però la parola “preminente” che darebbe un senso diverso al suddetto “interesse pubblico”.

Invece l’interesse pubblico perseguito da Salvini impedendo ai 177 migranti di sbarcare dalla nave Diciotti della Guardia Costiera per essere degno di tutela costituzionale deve essere “preminente”. Rispetto a cosa? Agli altri interessi garantiti dalla legge e dalla Costituzione, tra i quali rientrano gli obblighi assunti per tutelare i diritti dell’uomo in sede internazionale. E tra questi doveri c’è quello di assistere i migranti salvati dalle nostre barche in acque internazionali, anche se la competenza su quel salvataggio in zona Sar sarebbe stata di competenza di altri Paesi, più disinteressati ai migranti, come Malta. Dalla finestra del “preminente” ecco che rientra la questione della scelta tutta politica tra l’interesse pubblico del rispetto dei diritti dei naufraghi e l’interesse pubblico della chiusura rigida dei confini. L’interesse preminente dell’Italia è quello del rispetto delle norme internazionali sul salvataggio in mare delle vite umane e dei diritti dei migranti (soprattutto dei minori) oppure l’invalicabilità del confine, anche per i minori, anche per chi stava morendo in mare?

Le risposte del premier, del vicepremier e del ministro dei Trasporti a questa domanda, nelle relazioni alla Giunta per le autorizzazioni del Senato, sono state identiche a quelle di Matteo Salvini. Non è scontato però che la risposta di Conte, Di Maio e Toninelli sia condivisa dalla base. In fondo c’è un precedente. Nel gennaio 2014 una votazione del blog smentì la linea di Beppe Grillo e Roberto Casaleggio sull’abolizione del reato di clandestinità. Allora la base si mostrò più a sinistra del vertice. Sei anni dopo lo spirito grillino delle origini potrebbe essere svanito. Però vale la pena, alla vigilia del voto dei militanti, ricordare le posizioni assunte nel tempo dal M5S sul punto.

2002-2004 Beppe Grillo è un cittadino comune e scrive prima sul quotidiano svizzero Il Giornale del popolo e poi nella prefazione del libro di padre Alex Zanotelli I poveri non ci lasceranno dormire, edizioniMonti, parole nette sul tema: “Vengono in Europa per cercare lavoro e pagano le nostre pensioni al posto dei figli che non facciamo. Eppure c’è chi riesce lo stesso ad odiarli. (…) In Europa siamo il paese che consuma di più e si riproduce di meno, tra pochi anni avremo discariche strapiene e asili semivuoti. Eppure, con una percentuale di stranieri molto più bassa di quella svizzera (2 su 10) o tedesca (uno su 10), in Italia (uno straniero ogni 30 italiani) c’è ancora chi fomenta una psicosi da Paese invaso. E chi, come padre Alex, ha condiviso davvero la vita dei poveri, anche quelli così poveri da non riuscire nemmeno a pensare di emigrare in Europa, grida quasi nel deserto che su questa strada non c’è futuro. Il futuro non sarà migliore se ci difenderemo alzando steccati o prendendo impronte, ma se saremo capaci di integrazione e di condivisione”.

Gennaio 2012 Beppe Grillo è ormai un politico ma mantiene la linea: “È gente che va via per non morire – dice il leader M5S in un’intervista – va via perché c’è una guerra, un maremoto e come fai a fermarli? Bisogna creare delle strutture intelligenti, inserirli pian piano a far delle cose perché è gente straordinaria. È un processo di cui non si può fare a meno: arrivano a riprendersi un po’ di quel che gli abbiamo tolto in 200 anni”.

Ottobre 2013 Svolta a destra e mal di pancia della base. I parlamentari M5S Buccarella e Cioffi propongono un emendamento che abolisce il reato di immigrazione clandestina. Beppe Grillo reagisce: “Questo emendamento è un invito agli emigranti dell’Africa e del Medio Oriente a imbarcarsi per l’Italia (…). Lampedusa è al collasso e l’Italia non sta tanto bene. Quanti clandestini siamo in grado di accogliere se un italiano su 8 non ha i soldi per mangiare? (…) se durante le elezioni politiche avessimo proposto l’abolizione del reato di clandestinità, presente in Paesi molto più civili del nostro, come la Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, il M5S avrebbe ottenuto percentuali da prefisso telefonico”.

Gennaio 2014 La linea, motivata anche con fini elettorali, viene smentita dal voto degli iscritti al blog: 15 mila e 839 votano per l’abrogazione del reato. Solo 9 mila e 93 per il mantenimento. Salvini esulta perché il voto dimostra che solo la Lega è un baluardo contro i migranti.

Ottobre 2014 Grillo scavalca a destra Salvini con la minaccia di Ebola: “In questi mesi qualcosa è cambiato sul tema immigrazione: lo Stato Islamico sta producendo flussi migratori insostenibili, negli ultimi mesi sono arrivati in 100mila. E in futuro con l’espandersi della guerra, la situazione peggiorerà. Ebola sta penetrando in Europa, è solo questione di tempo perché in Italia ci siano i primi casi”.

Giugno 2015 Dopo l’inchiesta Mafia Capitale, Luigi Di Maio sposta l’asse dello storytelling sul business dell’accoglienza: “La gestione dell’immigrazione in Italia è stata folle perché c’era una classe politica che voleva fare business anche sugli immigrati”. La soluzione? “Dopo averli cacciati (democraticamente dalle istituzioni) andremo noi in Europa a farci valere”.

Dicembre 2016 Grillo insiste sul cambio di linea: “Fino a oggi è stato il tempo del dolore, della commozione, della solidarietà adesso è il momento di agire e proteggerci”.

Aprile 2017 Luigi Di Maio ingaggia una polemica con Saviano: “Le organizzazioni non governative sono accusate di un fatto gravissimo, sia dai rapporti Frontex che dalla magistratura, di essere in combutta con i trafficanti di uomini, con gli scafisti, e addirittura, in un caso e in un rapporto, di aver trasportato criminali. Vogliamo vederci chiaro, sapere chi le finanzia”.

Febbraio 2019 Voto sull’autorizzazione a procedere per il reato di sequestro di persona contestato dal Collegio dei reati ministeriali al ministro dell’interno Salvini. I colleghi Toninelli e Di Maio scrivono alla Giunta del Senato una memoria nella quale sostengono (come anche in un separato atto il premier Conte) che le scelte fatte da Salvini sui migranti della nave Diciotti sono “riconducibili a una linea politica condivisa da tutto il governo”.

Lo sberleffo di Grillo: “Se voti Sì vuol dire No…” Ma i vertici minacciano: “Il governo è a rischio”

Il quesito a cui è aggrappato il prossimo futuro del M5S e forse del governo suona come uno scherzo. E allora graffia perfino il Garante: “Se voti sì vuol dire no, se voti no vuol dire sì. Siamo tra il comma 22 e la sindrome di Procuste!”.

Così Beppe Grillo infierisce sul suo Movimento, che dalle 10 alle 19 di oggi chiamerà al voto i circa 100mila iscritti alla piattaforma web Rousseau sul caso Diciotti. Ovvero, sulla richiesta di processo per sequestro di persona per il ministro dell’Interno e leader della Lega Matteo Salvini. E il quesito, così come è raccontato sul blog delle Stelle, è una vertigine surrealista: “Il ritardo dello sbarco della nave Diciotti (sic, ndr) per redistribuire i migranti nei vari paesi europei è avvenuto per la tutela di un interesse dello Stato? Sì, quindi si nega l’autorizzazione a procedere: no, quindi si concede l’autorizzazione a procedere”. Un’inversione logica delle risposte che fin dalla mattina agita i favorevoli all’autorizzazione a procedere. “È una presa in giro” sibilano nei messaggi incrociati molti ortodossi della vecchia guardia. E rimane sconcertato anche Grillo, che nel pomeriggio commenta giocando di citazioni.

Perché il comma 22 è una norma immaginaria dell’aviazione americana, descritta in un libro di Joseph Heller, Catch 22: “Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo”. Tradotto, non c’era vera scelta. Mentre la sindrome di Procuste (personaggio della mitologia greca, ndr) in psicologia indica il disprezzo che una persona avverte per quegli individui che hanno maggiori capacità e talento. Ma fuori di traduzione resta il rumore della critica di Grillo: ormai distante dal M5S di governo. “Però così rischia di sfasciare tutto” sbuffa un big. Mentre irrompe Roberto Saviano: “Sul quesito i 5Stelle hanno fatto un trucco da trastolari (leggi: imbroglioni)”. E l’impatto è tale che in serata il M5S sforna un secondo post: “La risposta chiesta agli iscritti è uguale a quella che sarà chiesta ai martedì ai senatori della Giunta per le autorizzazioni”. Una toppa che convince pochi, mentre tutti notano l’assenza sul blog del previsto video di presentazione di Mario Giarrusso, capogruppo del M5S in Giunta. Ieri, dopo l’anticipazione del Fatto di venerdì, lo stesso Giarrusso aveva raccontato al Giornale di aver preparato due discorsi per gli iscritti, “uno per il sì e uno per il no”. Ma il video non si è visto, pare perché fosse “piuttosto confuso”. E di certo c’era e c’è il nervosismo dei favorevoli al processo, consapevoli che Giarrusso è contrario all’autorizzazione. Così niente presentazione, almeno sul blog, che invece rimanda a un video di Piercamillo Davigo su La7, in cui il magistrato “faceva chiarezza” sul processo a Salvini. Ma il post lascia perplessi. Soprattutto quando racconta “dei 137 migranti che si trovavano sulla Diciotti”, mentre in realtà erano 177. E dentro i 5Stelle si preoccupano: “Ci stiamo incartando”. Invece dai piani alti spingono per il sì, paventando alle agenzie “una probabile crisi di governo” con il via libera ai giudici. Ma c’è anche chi parla in chiaro per Salvini, come il senatore Gianluigi Paragone, già vicinissimo alla Lega: “Il governo ha agito nell’interesse nazionale? È la domanda che poniamo su Rousseau. E io dico di sì”.

Invece sul fronte opposto c’è la veterana Roberta Lombardi, ora capogruppo in Regione Lazio: “Invito a votare a favore dell’autorizzazione a procedere, non posso dimenticare che abbiamo lottato per 5 anni per tutelare quel sistema di contrappesi tra i poteri dello Stato che garantisce la tenuta della democrazia”.

E poi ci sono due senatrici dissidenti, Paola Nugnes ed Elena Fattori, che in una lettera dell’8 febbraio scorso inviata a Di Maio e Grillo, pubblicata ieri dall’Huffington Post, chiedevano chiarimenti sul caso Diciotti. “Abbiamo appreso leggendo il Fatto – scrivevano – che prende corpo l’ipotesi di votare on line, ma una simile consultazione esula dalle prerogative previste dallo Statuto”. Però è andata diversamente. Mentre Salvini giura: “Dormo tranquillo, ho difeso il bene del mio Paese. Poi ognuno voti secondo coscienza”.

Dire No all’impunità: legge uguale per tutti (e il governo reggerà)

Oggi il M5S tenta il suicidio. E i suoi 100 mila e più iscritti hanno l’onore e l’onere di salvarlo da morte certa, votando No all’impunità per il ministro Salvini sul caso Diciotti. Per almeno 6 buoni motivi.

1. La furbata del quesito alla rovescia – per dire sì al processo bisogna votare No e viceversa – ha indignato molti iscritti e militanti, a cominciare dal fondatore Beppe Grillo. È lo stesso ribaltamento logico che gli italiani patiscono a ogni referendum abrogativo, che i 5Stelle avevano sempre contestato e che Giorgio Gaber sbeffeggiava così: “Per fortuna devi dire solo Sì se vuoi dire No, e No se vuoi dire Sì. In ogni caso hai il 50 per cento di probabilità di azzeccarci”. L’ennesima prova dello stato confusionale dei vertici del M5S: solo un No secco potrà aiutarli a rinsavire e a ritrovare la strada maestra.

2. Ancor più gravi sono gli errori contenuti nel preambolo al quesito, talmente suggestivo e fuorviante da non poter essere altro che doloso. Il primo, il più veniale, è il numero dei migranti sulla nave Diciotti: non 137, ma 177. Il secondo punta a trasformare il caso Salvini-Diciotti in un evento eccezionale: “Mai in passato si era verificato che la magistratura chiedesse al Parlamento di autorizzare un processo per un ministro che aveva agito nell’esercizio delle sue funzioni e non per azioni fatte per tornaconto privato e personale (tangenti, truffa, appalti, etc)”. Ma è vero il contrario: se i giudici ritengono che un ministro agisca per tornaconto privato e personale, procedono senza chiedere alcuna autorizzazione, riservata ai casi in cui il reato è commesso nell’esercizio delle funzioni (tra cui non sono comprese tangenti, truffe, appalti ecc.). Il terzo, il più imperdonabile, è la traduzione della norma costituzionale nella domanda agli iscritti: “Il ritardo dello sbarco della nave Diciotti, per redistribuire i migranti nei vari Paesi europei, è avvenuto per la tutela di un interesse dello Stato?”. Un quesito fatto apposta per sollecitare una risposta affermativa. Ora gli iscritti devono dire No anche al tentativo maldestro di raggirarli. Ciò che si tenta di nascondere loro è che la norma costituzionale sui reati ministeriali consente al Parlamento di negare l’ok al processo solo in caso di “interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” (e la Costituzione non vieta lo sbarco di naufraghi salvati da una nave italiana in un porto italiano, anzi due trattati lo imporrebbero) o da un “preminente interesse pubblico” (e qui l’interesse pubblico c’era, ma non era “preminente”: nessuna causa di forza maggiore impediva al governo di autorizzare lo sbarco prima del quinto giorno).

3. I sindaci M5S Appendino, Nogarin e Raggi indicano agli iscritti la via maestra: chi governa e sa di essere innocente si difende nel processo, non dal processo. La Raggi l’ha fatto ed è stata assolta. Nogarin ha avuto due archiviazioni. L’Appendino è ancora sotto processo. E sempre per atti commessi nell’esercizio delle funzioni, non per tornaconto personale. Nessuno di loro ha mai detto una parola contro il diritto dei giudici a processarli. È chi sa di essere colpevole che ha paura dei giudici e fa di tutto per non affrontarli. Chi ha la coscienza a posto non vede l’ora di essere giudicato e assolto (dai giudici, non dalla propria maggioranza parlamentare). Come diceva, prima della cura, anche Salvini.

4. Chi fosse tentato di salvare Salvini nel timore che salti il governo, può votare tranquillamente No. Ancora ieri il capo leghista ha detto di essere “tranquillissimo” e che “il governo non rischia”. Non è la prima volta né sarà l’ultima, in Italia e non solo, che un ministro viene processato e il governo resta in piedi.

5. La solidarietà fra alleati non è in discussione: Conte, Di Maio e Toninelli si sono addirittura autodenunciati e, in virtù di quell’atto, sono ora indagati dalla Procura di Catania. Probabile che i pm, come già per Salvini, chiedano la loro archiviazione. Possibile che, come già per Salvini, il Tribunale dei ministri sia di diverso parere e chieda per tutti e tre l’autorizzazione a procedere al Parlamento. Nel qual caso, dopo aver salvato Salvini dal processo, i 5Stelle autorizzerebbero il proprio: col risultato paradossale che, per un atto del ministro Salvini, verrebbero processati al suo posto Conte, Di Maio e Toninelli. I quali, sulla crisi Diciotti, potendo decidere autonomamente, avrebbero agito ben diversamente da Salvini. L’unica strada è il No all’impunità per tutti: oggi per Salvini, domani per Conte, Di Maio e Toninelli. Tantopiù che, al processo, la Procura di Catania per non contraddirsi chiederà quasi certamente l’assoluzione per tutti.

6. Se gli iscritti salvano Salvini, i senatori M5S voteranno allo stesso modo di Forza Italia per bloccare un processo a un ministro. Regaleranno al Pd l’esclusiva della legalità. E se lo sentiranno rinfacciare finchè càmpano. Se invece votano No ricompattano il M5S, altrimenti spaccato per sempre. Tutti i dubbi sono comprensibili, anche perchè chi oggi voterà non ha potuto leggere le carte processuali, diversamente dai senatori che le hanno lette e non le hanno (o fingono di non averle) capite. Ma, in caso di dubbio, c’è un solo sistema per non sbagliare e non doversi poi pentire: ascoltare la propria coscienza e agire con coerenza.

Appendino, Nogarin e Raggi: “Chi governa va processato”

Negare l’autorizzazione a procedere nei confronti di un ministro significa rendere insindacabile il suo operato e questo rende, di fatto, questo ministro più uguale degli altri. La questione, nello specifico, è complessa, ma non è diversa dalle situazioni che si trova a vivere quotidianamente un sindaco.

Nel 2016 sono stato indagato dalla procura di Livorno per tre ipotesi di reato legate ad alcune scelte che avevo compiuto in qualità di sindaco. Scelte che hanno permesso di salvare una municipalizzata in dissesto e tutelato decine di posti di lavoro. Io non avevo alcun “paracadute parlamentare”, ma la storia ha dimostrato che si trattava di una scelta corretta, sia dal punto di vista della gestione aziendale, sia dal punto di vista penale. Tutte le accuse sono cadute e l’azienda è stata salvata. Se il ministro Salvini è certo, come ha detto, della coerenza e della correttezza del suo operato, non avrà problemi a dimostrarlo davanti ai giudici. E Luigi Di Maio, che in questi mesi ha svolto un lavoro eccellente, portando a casa risultati storici per il Movimento come la legge Spazza-corrotti e il reddito di cittadinanza, affermerà nuovamente che ci si difende nei processi e non dai processi.

Filippo Nogarin

 

Non entro nel merito della questione perché so quanto sia complesso governare e perché non voglio dare un giudizio politico sull’atto alla base della richiesta di autorizzazione a procedere. Ritengo corretto, però, che a esprimersi nel merito siano i giudici, nei diversi gradi di giudizio. Non è obbligatorio condividere le accuse dei pm, anche perché non è assolutamente detto che portino a una condanna ed è sempre bene ribadire che ciascuno è innocente fino a sentenza definitiva. Il nostro ordinamento prevede che il luogo corretto per difendersi dalle accuse e far valere le proprie ragioni siano le aule di tribunale e credo che questo debba valere per tutti.

Chiara Appendino

 

Io non dico agli altri che cosa debbano fare. Posso dire però che io un processo l’ho affrontato a testa alta e sono stata assolta. Avevo già annunciato che avrei rimesso il mio mandato in caso di condanna. Ma ero fiduciosa della assoluzione perché mi sono sempre comportata onestamente. È una questione strettamente personale. Le responsabilità, anche quelle politiche, devono restare personali.

Virginia Raggi