Ma mi faccia il piacere

Conte conta. “Io, come presidente della Repubblica, sono il garante della coesione nazionale” (Giuseppe Conte, presidente del Consiglio, 11.2). E come Imperatore del Sacro Romano Impero?

Re Sergio I. “Piaccia o no all’avvocato del Popolo Conte e ai due vicepremier dell’allegra brigata gialloverde, per la comunità internazionale il Capo dello Stato, suo malgrado, è ormai anche il Capo del governo. E’ Mattarella il ‘facente funzioni’, il supplente, il garante. E’ a lui che le cancellerie si rivolgono per capire se con l’Italia valga ancora la pena di parlare” (Massimo Giannini, Repubblica, 16.2). Avanti Savoia! (Ma il noto quotidiano si chiama ancora Repubblica, o è diventato Monarchia?).

Mai dire vomito. “Senza la mediazione del Colle, saremmo ancora qui, a strillare ‘vomitevoli’ ai francesi” (Giannini, ibidem). Purtroppo fu Gabriel Attal, portavoce del partito di Macron, dunque inequivocabilmente francese e non sospettabile di grilloleghismo, a definire “vomitevole” il governo italiano.

Boh eri. “L’indipendenza è il primo valore dell’Inps, la politica resti fuori” (Tito Boeri, presidente uscente dell’Inps, nominato nel 2014 dal governo Renzi, Repubblica, 14.2). Infatti lui l’aveva portato la cicogna.

A rotoli. “Matteo Renzi querela Marco Travaglio. Ad annunciarlo è stato l’ex premier, durante la presentazione del suo nuovo libro a San Lazzaro di Savena, nel Bolognese: ‘Il 22 febbraio farò l’elenco di tutti quelli che querelo e a cui chiedo un sacco di soldi di risarcimento, a cominciare da un direttore di un quotidiano che è andato in televisione con la mia faccia sulla carta igienica: pagheranno caro e pagheranno tutto’, ha detto Renzi, sommerso dagli applausi della sala” (Ansa, 16.2). Comunque, in segno di rispetto, non l’ho mai usata.

Il Salvatore. “Solo il Ppe può evitare la deriva gialloverde nel cuore della Ue” (Andrea Bonanni, Repubblica, 15.2). Forza Orbàn, sei tutti loro, salvali tu!

Che schivo. “Sgarbi, lei è uno degli uomini più popolari d’Italia. Eppure di lei come persona non sappiamo quasi nulla” (Aldo Cazzullo, Corriere della sera, 16.2). Uahahahahah.

Chi insulta chi. “Brutto spettacolo quello che il premier Conte ha offerto a Strasburgo… Ha recitato davanti alle poltrone vuote un discorso finto-europeista che non ha ingannato nessuno. E poi, di fronte alla marea montante delle contestazioni puntuali e delle critiche argomentate venute dai deputati di tutti i Paesi, ha perso le staffe, si è dichiarato insultato in nome e per conto del popolo italiano, quindi si è messo a lanciare insinuazioni e veleni, come aveva fatto nelle stesse aule il Berlusconi dei tempi peggiori” (Andrea Bonanni, Repubblica, 13.2). In attesa di scoprire come abbiano fatto le “poltrone vuote” a trasformarsi nei “deputati di tutti i Paesi” e a contestare Conte, registriamo che dare del “burattino” al premier italiano come ha fatto il “liberaldemocratico” Verhofstadt è una “contestazione puntuale” e una “critica argomentata”. Invece e rispondere elegantemente e con calma come ha fatto Conte significa “perdere le staffe” e “lanciare insinuazioni e veleni” come il peggior B. Poi, naturalmente, il problema sono le fake news russe.

Nuove promesse. “Lancio il ‘Conosci Chiampa’, aperitivi a tema con lui e nuove generazioni” (Paolo Furia, segretario Pd Piemonte, Corriere della sera, 11.2). Quel tenero virgulto di Sergio Chiamparino è così nuovo che va fatto un po’ conoscere in giro. Il nuovo che avanza col girello.

Il titolo della settimana/1. “In Abruzzo centrodestra avanti, il Pd insegue, crollo dei 5Stelle” (Repubblica, pag. 1, 11.2). Il Pd è passato dal 25,5% all’11,1. Dunque mica crolla: insegue.

Il titolo della settimana/2. “Abruzzo, centrodestra in vantaggio, i Cinquestelle inseguono il Pd” (Repubblica, pag. 4, 11.2). I 5Stelle al 19,7 inseguono il Pd all’11,1. In retromarcia.

Il titolo della settimana/3. “Il Pd perde ma prende fiato: funziona il modello civico e porta alla pace con Calenda” (Repubblica, 12.2). Alle ultime regionali in Abruzzo aveva il 25,5, alle Politiche il 14,3, ora è all’11,1: prende fiato mentre affoga.

Il titolo della settimana/4. “La scossa di Berlusconi: ‘Italiani, svegliatevi, rischiate la patrimoniale’” (il Giornale, 14.2). Noi? Semmai la rischiate tu e i miliardari come te. E sarebbe pure ora.

Levi ritratto da Roth: “È uno scoiattolo”

“È nato senza dubbio prima il chimico, primogenito, che mi ha mantenuto per una trentina d’anni. Dopodiché è stata una dissolvenza incrociata: avevo cominciato a scrivere dopo la prigionia, perché non potevo farne a meno”. Così Primo Levi (1919-1987) raccontava di se stesso e dei suoi lavori, quello di chimico e quello di narratore, in un’intervista alla Rai.

Proprio dalla palazzina gialla dell’ex fabbrica di vernici Siva, poco fuori Settimo Torinese, dove fu impiegato a lungo fino a diventarne il direttore, hanno preso il via le manifestazioni per ricordare il centenario della nascita dell’autore di Se questo è un uomo, avvenuta a Torino il 31 luglio del 1919.

Levi vi era entrato circa due anni dopo il ritorno dal lager di Auschwitz; la lasciò nel 1977, dopo che, pensionato dal 1974, aveva continuato a lavorare a tempo ridotto come consulente. La Siva (Società industriale vernici e affini) era stata fondata nel febbraio 1945 da Federico Accati, un imprenditore biellese, insieme a un socio, Osvaldo Gianotti; chiuse definitivamente nel 1999.

Recuperata dal degrado grazie alla Fondazione Esperienze di Cultura Metropolitana e al Comune di Settimo, una cittadina alle porte di Torino, la palazzina storica dell’azienda, gli uffici e il laboratorio di Levi, si apprestano a diventare un vero museo a lui dedicato, affiancandosi al Centro internazionale di studi Primo Levi di Torino.

Il mondo del sopravvissuto al lager nazista e del testimone dell’orrore, del chimico e dello scrittore de La chiave a stella sono declinati attraverso mostre e filmati: da un’esposizione di fotografie su Auschwitz-Birkenau, realizzata da alcuni studenti che visitarono il campo di sterminio polacco, a un video con un’intervista allo scrittore, fino a una mostra di materiali dal laboratorio della Siva di Levi: le bilancina da chimico, i libri, gli strumenti di misurazione.

“Il rapporto che lega un uomo alla sua professione”, scrisse Levi, “è simile a quello che lo lega al suo paese; è altrettanto complesso, spesso ambivalente, e in generale viene compreso appieno solo quando si spezza: con l’esilio o l’emigrazione nel caso del paese d’origine, con il pensionamento nel caso del mestiere”.

La “riflessione sulla dimensione più propriamente umana del lavoro”, come rammenta il Centro studi torinese che porta il suo nome, “attraversa tutta l’opera di Primo Levi: dalle analisi sulla condizione di schiavitù imposta nel lager alla convinzione profonda di come ‘l’amare il proprio lavoro’ possa costituire ‘la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra’”. Una riflessione che va “dal racconto della moderna Odissea del montatore di gru Faussone in La chiave a stella all’acuta consapevolezza critica delle straordinarie potenzialità del proprio lavoro di chimico delle vernici presso la Siva”.

E alla Siva, nel settembre del 1986, Levi accompagnò Philip Roth, arrivato a Torino per intervistarlo per The New York Times Book Review. Roth voleva vedere il posto dove Levi aveva lavorato.

Scrisse Marco Belpoliti su Doppiozero: “La visita all’azienda chimica costituisce la prima parte del testo di Roth, un piccolo capolavoro di penetrazione psichica. Vi scopre un Levi che ha ancora la fabbrica nel suo cuore, un Levi che possiede il fiuto di un cane – l’odorato è una delle ragioni, ha scritto, che lo hanno spinto a diventare chimico –, ma anche che ‘è concentrato e immobile come uno scoiattolo’ mentre ascolta i colleghi che gli parlano”.

Orso d’Argento a “La paranza”. Saviano lo dedica alle Ong

Berlino premia la sceneggiatura de La paranza dei bambini con un Orso d’argento ritirato dal trio Saviano-Giovannesi-Braucci che insieme “in amicizia” hanno condiviso la scrittura. “Dedico questo premio alle organizza governative che salvano vite nel Mediterraneo e ai maestri di strada che a Napoli salvano vite. Scrivere questo film – ha dichiarato Roberto Saviano ritirando il premio – ha significato mostrare resistenza perché dire la verità nel nostro Paese è diventato molto complesso”. Da parte sua il regista Claudio Giovannesi ha ringraziato i ragazzi protagonisti, Saviano per averlo scelto a dirigere questo suo romanzo e il cosceneggiatore Braucci. “Dedichiamo il premio all’Italia affinché arte e cultura e formazione diventino una priorità” ha detto il 40enne regista romano. Il napoletano Maurizio Braucci, infine, ha sottolineato quanto l’amicizia sia “l’ingrediente segreto per una bella sceneggiatura, dedichiamo questo premio ai ragazzi del sud Italia loro hanno bisogno del nostro sostegno”. Da una Berlinale “di transizione” a tutti gli effetti esce bene l’Italia, non solo perché premiata anche con il FIPRESCI (premio della critica) a Dafne di Federico Bondi (sezione Panorama) ma anche per il buon riscontro da parte di stampa e pubblico delle cinque opere in programma. L’Orso d’oro è andato a Synonymes di Nadav Lapid: film complesso e sovversivo su un giovane israeliano che sceglie di rinunciare alla propria identità per assumere quella francese, una critica esplosiva al “sistema patria”, tanto quella israeliana quanto quella francese. L’attesa, ora, è tutta per la 70ma edizione (spostata di due settimane in avanti rispetto alla consuete, 20 febbraio – 2 marzo 2020) che segnerà l’arrivo alla direzione artistica di Carlo Chatrian.

Bruno Ganz, l’angelo del teatro brechtiano prestato al cinema

“Mi sento come un uccello di fuoco!” dichiarava il cameriere filosofo Fernando dopo la romantica cena con Rosalba, la moglie fuggita dalla monotonia famigliare verso una Venezia da favola. Era il 1999 e Pane e tulipani diretto da Silvio Soldini aveva consacrato Bruno Ganz al grande pubblico italiano: il suo personaggio del gentiluomo assoluto arrivato dall’Islanda e che si esprimeva nell’italiano imparato dall’Ariosto era diventato parte dell’immaginario collettivo, un’icona di gentilezza a contrastare la brutalità dilagante. E pensare che la battuta dell’uccello di fuoco nasce da un aneddoto per così dire “legato alla volgarità”. A ricordarlo è la sceneggiatrice del film Doriana Leondeff: “Bruno si lamentava perché Fernando parlava senza mai commettere errori, quando ‘persino gli italiani li fanno in italiano, figuriamoci un islandese!’, accusava. Quindi Silvio mi chiese di inserire una battuta un po’ scorretta, a doppio senso. Mi venne l’idea dell’uccello di fuoco che fece ridere Bruno – e il pubblico – come un matto”.

Bruno Ganz, infatti, pulsava di un’ironia viscerale contagiosa, una qualità che accanto all’abilità di aderire con intelligenza e naturalezza a culture e lingue diverse lascia un vuoto profondo dopo la notizia della sua scomparsa per un tumore. Difficile pensare oggi al cinema tedesco (ma non solo) e soprattutto a quel cielo sopra Berlino senza il suo angelo protettore, capace altresì di vestire la maschera del Male assoluto interpretando superbamente l’Hitler de La caduta nel 2004 per la regia di Oliver Hirschbiegel. Si tratta del racconto degli ultimi giorni di vita del Führer prima del suicidio avvenuto nel 1945 nel bunker nei pressi di Hallesches Ufer, casualmente la zona di Berlino ove nei primi anni 70 Ganz aveva fondato la sua compagnia teatrale di stampo brechtiano denominata Schaubühne am Halleschen Ufer. Era il teatro, infatti, il suo luogo dell’anima, spaziando fra i classici di ogni epoca con la punta di diamante sempre fissata sull’autore de L’opera da tre soldi. Il cinema l’ha visto esordire nel 1960 con il film Der Herr mit der schwarzen Melone: nonostante fosse solo diciannovenne, essendo nato a Zurigo nel 1941 da padre svizzero e madre italiana, il giovanissimo Bruno si fa subito apprezzare. Dopo aver recitato per Rohmer ne La marchesa von.. del 1976, a fargli compiere il salto verso la notorietà è Wim Wenders appena più giovane di lui. Nel 1977 lo vuole protagonista con Dennis Hopper de L’amico americano nelle vesti del corniciaio Zimmermann. Da quel momento per Bruno Ganz le porte della cinematografia di qualità sono spalancate con almeno un film all’anno fino al 2018: i grandi autori lo chiamano ripetutamente per la sua versatilità e una partecipazione ai progetti che supera la mera performance attoriale. Fra i primi è lo scrittore e drammaturgo Peter Handke, in seguito arrivano Werner Herzog (Nosferatu, il principe della notte, 1979), il nostro Giuseppe Bertolucci (Oggetti smarriti, 1980), Schlöndorff (L’inganno, 1981) e Tanner (Dans la ville blanche, 1983). In complicità con Handke, è ancora Wenders a segnare il passo nella carriera dell’attore svizzero: in Der Himmel über Berlin (Il cielo sopra Berlino, 1987) il suo angelo Damien guarda i berlinesi divisi da un muro dall’alto della Statua della Vittoria e li omaggia coi versi di Rainer Maria Rilke. Quel film, quelle immagini e quelle parole diventano un classico del cinema e di quel momento della Storia tedesca.

L’amico Wim richiama Bruno in Così vicino, così lontano nel 1993 mentre la sua popolarità è ormai mondiale: a volerlo sono Theo Angeloupolos, Jonathan Demme, Francis Ford Coppola, Ridley Scott, Atom Egoyan e di recente la britannica Sally Potter nella pungente commedia The Party con un dulcis in fundo rappresentato da Lars von Trier. È al controverso regista danese, infatti, che si deve l’ultima interpretazione di Bruno Ganz: un dantesco (e gigantesco) Virgilio ne La casa di Jack presentato all’ultimo Cannes e a fine febbraio nelle sale italiane.

“Attore grazie a un amico, amo il dubbio e rosico se mi danno del fascista”

Con Filippo Nigro la sorpresa è già dalla stretta di mano, decisamente vigorosa; poi la conferma dello stupore arriva da tutto il resto: parole a profusione, sorrisi, incroci di pensieri, incroci di ricordi da bambino, riflessioni sull’oggi, all’improvviso ecco Scerbanenco (“l’ho appena scoperto, un grande”), la citazione di Blade Runner, quindi i figli, i tempi della scuola, di nuovo i suoi cinque anni (“mi spedirono pure dal professor Bollea”), e insieme la soddisfazione per la prossima uscita di Suburra 2, la fiction sul sottobosco romano, in onda dal 22 febbraio su Netflix (interpreta Amedeo Cinaglia, un politico in teoria molto idealista, in pratica molto corrotto).

Insomma, un caos organizzato, un vortice nel quale è piacevole perdersi, e lontano dalla sua sintesi cinematografica, dove spesso ha incarnato ruoli da persona pacata, magari l’omosessuale tormentato dalla situazione o, appunto, il politico alle prese con la propria coscienza: “Ai tempi del liceo in molti mi avevano pure scambiato per fascistello. Forse questa professione mi ha aiutato”.

Frainteso da subito.

Secondo me ero abbastanza decifrabile, in realtà alcuni mi credevano fascista per via di un fisico un po’ pronunciato, ma praticavo atletica e mi allenavo molto.

Se la prendeva?

A Roma si dice “rosicare” (sì, se la prendeva). Però chi mi conosceva sapeva benissimo com’ero, tra questi lo stesso Giovanni Floris, anche lui a scuola con me.

In classe insieme?

Lui più grande di alcuni anni.

Com’era al liceo?

Giovanni? Uno super preciso, già allora con il suo aplomb, più o meno com’è oggi, solo con trenta e passa anni di meno.

Dicevamo la “rosicata”…

L’incasellamento obbligatorio di quegli anni mi infastidiva: dovevi rientrare in certi schemi, dagli atteggiamenti all’abbigliamento, a cosa leggevi o ascoltavi. Se sgarravi qualcosa, era la fine. Anche le mie sorelle ridevano di me.

Botte, mai…

Per fortuna sono sempre riuscito a far credere che fossi pericoloso, e senza dover arrivare allo scontro vero. Se mi fosse capitato realmente non so come avrei reagito.

Perfetto.

Stefano Sollima una volta mi ha definito in un modo stupendo: “Sei il corpo di Bruce Willis con la testa di Woody Allen”.

Calza…

Abbino questa fisicità a un atteggiamento impulsivo e scattoso.

Compreso con Giuliano Ferrara.

Che storia, quella.

Quasi un caso politico.

Con un gruppo di amici stavamo per strada a chiacchierare, a un certo punto vediamo passare Ferrara, da poco nominato ministro del primo governo Berlusconi, a passeggio con la moglie e il cane; e così, a cacchio, abbiamo iniziato a insultarlo.

Cosa dicevate?

Non eravamo lucidissimi.

E questa è la giustificazione.

Detto di tutto, lui come niente fosse, neanche una minima reazione, poi uno di noi balbetta la parola magica: “Ri-riii-riiinnegato!”. Silenzio improvviso. Ferrara immobile.

E…

Molla il cane alla moglie, torna indietro e gli dà una pizza (schiaffo) in faccia.

A quel punto?

Gli siamo saltati addosso, e ricordo la sua mole incredibile, non riuscivo a fermarlo, le mie braccia affondavano nella sua pancia, mentre la moglie piagnucolava: “Ogni sera la stesa storia, non possiamo più uscire di casa”.

E poi?

Il giorno dopo ci siamo ritrovati sui giornali con titoli enormi e dal tono: “Quattro cretini danno del ciccione a Ferrara”.

Lei studioso?

In casa sono cresciuto con il ruolo di scarso, invece mi sono diplomato con un voto migliore delle mie sorelle (e scoppia a ridere, soddisfatto).

Orgoglio.

In generale sono pessimo negli impegni a lungo termine, mentre sono capace di exploit incredibili nelle sfide a breve: a scuola potevo imbroccare la versione del compito in classe, ma toppare l’interrogazione generale. Infatti ero un velocista.

Nell’atletica.

Correvo i 100 metri. Tutto torna.

All’università ha studiato Storia Medioevale.

Dodici esami e mi piaceva tantissimo; a un futuro d’attore non ci pensavo proprio, sono finito al Centro Sperimentale quasi per scherzo, da una serie di battute dentro casa e con gli amici, del tipo “vabbè, sei forte, devi fare l’attore”.

Fino a quando?

Ci ho provato un po’ per caso dopo aver accompagnato un amico ai provini; e li ho passati.

Folgorazione?

Macché: al Centro non mi sono divertito molto, e ho scoperto che è un problema comune; poi negli anni ho incontrato quelli che mi dicevano “che belli quegli anni”, ma chi lo pensa non ha quasi mai proseguito nella carriera.

Mentre lei…

Ricordo delle torture psicologiche per scavare dentro di noi, per acquisire la tecnica, e ogni volta riflettevo dentro: “Ma chi me lo ha fatto fare? Ma che sto a fa’?”. In realtà è stata la miglior scelta della mia vita, presa inconsapevolmente.

Perché è andato avanti?

Per culo, poi altri si sono ritirati e ho deciso di non mollare, e grazie alla mia famiglia.

Genitori complici.

Mio padre diceva sempre: “Non ti preoccupare e prosegui”.

Non si è dispiaciuto per l’università?

Sì, però mi ha incoraggiato sulla recitazione e nonostante l’assenza di tradizione familiare; forse aveva capito quanta influenza positiva aveva sul mio carattere.

Lei nel frattempo…

Piccole parti in alcune fiction come I ragazzi del muretto, girato in Bulgaria, o la Dottoressa Giò, e ancora Un posto al sole. Accettavo qualunque ruolo.

Qualunque….

Almeno lo ammetto, ci sono colleghi che negano l’evidenza per evitare una presunta vergogna.

Anche in Bulgaria.

Pagato in contanti con pezzi da cinquemila lire consegnati dentro una busta.

All’inizio cosa l’attirava di questa carriera?

La solita premessa: ero un po’ strano caratterialmente, un po’ problematico, con tanto di certificato di Bollea (celebre psichiatra).

Un luminare.

C’è gente che quando lo scopre sgrana gli occhi: “Ma davvero sei stato in cura dal grande?”.

Certificato di qualità.

Ero il figlio complicato e pure sonnambulo.

Cosa aveva scritto Bollea?

Ricordo le parole “bicicletta”, “pallone” e “padre”, poi aveva aggiunto di lasciarmi utilizzare la mano desiderata e soprattutto di trattarmi normalmente; pochi anni fa le mie sorelle lo hanno ritrovato, ancor mi prendono in giro.

L’accademia l’ha veramente aiutata…

Eccome. Giocare a entrare nei panni di un’altra persona ti distoglie dalle bolle mentali che ti crei: già a quei tempi l’esperienza mi causava una vaga sensazione di benessere.

Uno attivo come lei come gestisce le lunghe pause sul set?

In realtà mi piacciono e amo i personaggi dove posso stare zitto e ascoltare, un po’ come Cinaglia.

Compromessi?

Sempre.

Compreso sul lavoro?

Però non sono mai stato uno ossessionato, quando da ragazzo mi domandavano “cosa vuoi dal futuro?”, pensavo sempre ad avere figli (il suo braccio destro alza gli occhi al cielo. E Nigro: “Va bene, cosa devo farci? Mi vengono in mente, non voglio mica passare da familyman!”).

Lei ha dichiarato: “Dopo ‘La finestra di fronte’ ho capito che avrei vissuto di questo mestiere”.

È il mio film fortunato, e quasi ogni attore ha il suo: da lì ho iniziato a lavorare con continuità, però se ripenso al me di allora, mi rendo conto di quanta emotività immettevo su ogni lato della vita professionale: anche una conferenza stampa era un’angoscia, magari vedevo un collega più grande di me tutto spigliato, mentre a me sudava anche la mano.

Oggi no…

Non sono il principe della promozione però sono migliorato.

Il suo primo lavoro?

Un cortometraggio girato da Paolo Franchi per il Centro Sperimentale: allora mettevano a disposizione 50 milioni per l’opera, e gli aspiranti registi di solito utilizzavano l’intera somma per ingaggiare attori professionisti. Paolo no. E fu geniale: con quel budget chiamò il top tra direttore della fotografia e la crew generale. Io protagonista: in quel caso diventai per la prima volta calvo.

Maledetta calvizie….

Durante Ris un giorno Ugo Dighero mi guarda e sorridendo dice: “A Filì, guarda che culo che hai: ti stanno venendo due corridoi ai lati della testa”. Uno schiaffo. All’improvviso mi sono guardato allo specchio con un’altra prospettiva negli occhi e ho pensato: “Perché nessuno mi ha mai detto prima come sono messo?”.

Benedetta rasatura.

In una fase ero ridotto in maniera allucinante.

Luca Argentero, con il quale ha lavorato un paio di volte, sembra il suo opposto.

(Sorride) Ha quasi dieci anni di meno, ma sembra mio padre.

Ecco.

Con lui mi sono sempre divertito (squilla il cellulare: “Marcè, sono impegnato… Di che… di che… tranquillo. A dopo”). È mio padre…

Lo chiama Marcello.

Un gioco iniziato anni fa e mai finito; neanche ricordo perché è partito. Una volta mio figlio ha provato a chiamarmi Filippo, gli ho dato una stecca (tradotto: schiaffone amichevole).

È orgoglioso di lei?

Ha 14 anni, è nella fase di uccisione del padre. Che stavamo a di’?

Argentero.

In una scena dovevamo praticare canottaggio, io felicissimo, almeno qualcosa dove potevo sfogare la mia energia. Quindi per allenarci, a Trieste, scendiamo in acqua alle sei di un mattino di maggio. Io, carico, inizio a darci sotto e a parlare a raffica del film, a un certo punto sbaglio una remata, lo schizzo; a quel punto Luca sbrocca: “Basta! Io già ti immagino com’eri a scuola: tutto agitato”.

Lei.

Mi sono girato: “Sembri mio nonno”.

A lei manca il ruolo della vita, con la quale può venir identificato.

È vero, e spero sempre di ottenerlo.

Però…

Nel mondo di oggi in pochi lo trovano, è un po’ complicato. Forse la parte che ho più amato l’ho ottenuta a teatro con Occidente solitario: amo il palco, mi regala sempre delle emozioni bellissime, nonostante molti attori di cinema lo considerino un momento di bassa per la carriera…

Dopo tanti ruoli “calmi” è stato tra i protagonisti in “Acab”, in cui la violenza avvolge.

Dopo quel film mi fermavano i fascistoni per dirmi: “Buttamoli fori ’sti rumeni de merda”. A un certo punto mi sono pure angosciato. Imbarazzante. C’è una scena in particolare, molto violenta, durante la quale ho scorto persone insospettabili goderne oltre la chiave cinematografica.

Salvini le piace?

Per niente, è un furbo, e l’aspetto che mi perplime maggiormente è questo suo appartenere a una destra che non manifesta mai dubbi, solo presunte certezze.

A lei i dubbi piacciono.

Tantissimo.

Dei suoi colleghi, chi ama di più?

Claudio Santamaria e lo dico con affetto: è un caro amico nonostante oramai ci vediamo pochissimo.

Troppi impegni.

In parte è colpa mia, sono pigro, non mi va mai di uscire: da ragazzo, quando andavo alle feste, resistevo pochi minuti e poi me ne andavo… (ci pensa) Forse allora il mio era un atteggiamento, in sostanza mi veniva l’ansia, preferivo stare a casa e godermi un film.

Su Google è il terzo Filippo dopo Inzaghi e Timi…

Davvero? Allora è andata benissimo.

Muro con il Messico, raffica di ricorsi contro lo “stato di emergenza” di Trump

El Paso non ama né il muro né Donald Trump: l’amministrazione comunale e tre organizzazioni non profit locali avviano un’azione in giudizio contro lo stato d’emergenza. E dire che il presidente aveva scelto la città texana al confine con il Messico, separata solo da un ponte da Ciudad Juarez, ricettacolo di violenze e di traffici d’ogni genere, come simbolo dei problemi che l’emigrazione causa agli Stati Uniti. Nel ricorso si afferma che la proclamazione dello stato d’emergenza viola la separazione dei poteri e che danneggerà senza motivo la comunità. Tanto più che un’intesa appena conclusa col Messico, e già operativa, riduce la pressione dei migranti lungo il confine: per coloro che vogliono chiedere asilo, infatti, l’espletamento delle procedure preliminari avviene mentre sono ancora in Messico e precede l’ingresso nell’Unione.

L’iniziativa di El Paso si somma ad altre avviate nelle ore immediatamente successive all’annuncio di Trump venerdì mattina. In attesa che in Congresso l’opposizione democratica s’organizzi e passi da dichiarazioni bellicose ad atti concreti, la California e lo Stato di New York vogliono denunciare come arbitrari il ricorso all’emergenza nazionale e lo storno di fondi federali per finanziare il muro.

Il governatore della California, Gavin Newsom, un ex sindaco di San Francisco che potrebbe forse candidarsi alla nomination democratica, ha annunciato che il suo Stato farà causa. La responsabile della Giustizia dello Stato di New York Letitia James parla di “abuso di potere”. Nella Grande Mela e in altre località dell’Unione, ci sono state manifestazioni popolari contro l’emergenza nazionale. E le proteste intrecciano il tema con gli sviluppi del Russiagate, l’inchiesta del procuratore speciale Robert Mueller sui contatti tra la campagna presidenziale 2016 di Trump ed emissari del Cremlino. Sfilando da Times Square per le vie di Manhattan, i manifestanti newyorchesi invitavano la Camera ad avviare udizioni per accertare se il presidente abbia intralciato la giustizia, un’accusa che potrebbe condurre all’impeachment, cioè alla messa sotto accusa di Trump. Si chiede pure di creare una commissione ‘tipo Watergate’ per indagare sui legami fra Trump e la Russia (e per accertare che cosa si sono detti nei loro incontri Trump e Vladimir Putin).

Albania, un film già visto: assediata la casa del premier

“Il popolo si batte per elezioni libere ed eque, non si torna indietro”. Il leader politico più longevo d’Albania, Sali Berisha, ha sposato la causa delle opposizioni di centrodestra e centrosinistra scese in piazza unite per chiedere le dimissioni del primo ministro, il socialista Edi Rama eletto nel 2013 e accusato di corruzione e collusione con la criminalità. Chi contesta chiede “un governo di transizione per mettere i ministri che hanno rubato dinanzi alla legge” e porti il paese di nuovo alle urne. È durata quasi cinque ore la manifestazione indetta da presidente del Partito democratico albanese Lulzim Basha, forza di centrodestra d’ispirazione conservatrice, e dai socialdemocratici di Monika Kryemadhi davanti alla sede del primo ministro. Per il responsabile dell’Interno, Sanders Llesha la polizia si è ben comportata: “Oggi abbiamo messo in chiaro la differenza tra chi risponde alle proteste con le armi e noi che abbiamo come armi la pazienza e la dedizione per l’Albania europea”, riferendosi alle proteste del 2011 contro l’allora governo Berisha, In realtà tra poliziotti, giornalisti e manifestanti 15 persone sono rimaste ferite negli scontri, per l’uso di lacrimogeni da parte delle forze dell’ordine che hanno causato problemi respiratori su entrambi i fronti. Un gruppo di contestatori è anche riuscito a entrare nel palazzo tirando bottiglie incendiarie, prima di essere allontanato dalla Guardia repubblicana. Il vice premier Erion Brace ha dichiarato che gli autori delle violenze sono stati identificati. I leader della protesta hanno fatto sapere che “la rivolta popolare non si fermerà fino a quando non faremo cadere questo sistema marcio”. Le opposizioni torneranno a manifestare il 21 febbraio.

L’Afghanistan secondo Mosca. I Talebani diventano alleati

Febbraio 1989: sventolavano le bandiere rosse sui carri armati sovietici che tornavano in patria sconfitti. I soldati russi attraversavano per l’ultima volta il “ponte dell’amicizia”, il confine tra l’Uzbekistan e l’Afghanistan sul fiume Amu Darya.

Febbraio 2019: “Compagno, ricordi il Vietnam?”. Forse i russi hanno perso allora, ma non adesso. Oggi sono brindisi, fiction alla tv, fiorire di papaveri rossi ai memoriali dei soldati, note del concerto al centro di Mosca. Suonano i Cascade, un gruppo rock di veterani dell’ultima guerra dell’Armata rossa. In mimetica, chitarra al collo e medaglie che scintillano sotto le luci colorate del palco. L’Afghanistan non è il solco di una sconfitta, ma la cicatrice di un’impresa eroica: è la narrazione in retrospettiva della nuova propaganda del Cremlino. Mosca onora la ricorrenza della storia due volte: aprendo gli archivi, desecretando documenti e dichiarando i vecchi nemici nuovi alleati.

In quel paese che è stato la culla della loro più clamorosa sconfitta, i russi cercano ora la vittoria contro il jihad dell’Isis. A inizio febbraio un incontro tra talebani e leader afghani si è tenuto proprio nella Capitale russa, subito dopo quello svoltosi il 28 febbraio in Qatar sotto l’egida degli americani, che “con il loro approccio unilaterale, vogliono monopolizzare i negoziati di pace escludendo gli altri attori regionali”. È stato questo il j’accuse del ministro degli Esteri Serghey Lavrov. In Tajikistan, – che ha 1.300 km di confine in comune con l’Afghanistan, dove 7500 soldati russi sono stazionati – proprio come in Kyrgyzistan, ha detto il ministro della Difesao Serghey Shoigu, “verrà aumentata la presenza contro i militanti islamici in arrivo dal nord dell’Afghanistan”.

Ieri le bombe, oggi le parole: i russi provano a vincere la battaglia che hanno perso fra le montagne tra i tavoli eleganti e poltrone di velluto dei negoziati. È la regolarizzazione del conflitto afghano nel nuovo formato di Mosca, la danza della sua diplomazia, che tenta di limare un accordo di pace tra Talebani e gli uomini di Kabul sotto la garanzia del tricolore di Putin. Per il nuovo asse da costruire con “gli studenti del Corano”, Zhamir Kabulov, rappresentante presidenziale per l’Afghanistan all’Onu, ha chiesto al Consiglio di Sicurezza di eliminare le sanzioni contro i Talebani. Tornato a Mosca, Kabulov, – che incontrerà il suo omologo americano Zalmay Khalilzad tra cinque giorni ad Ankara per un altro round negoziale -, ha confermato che “ i Talebani sono potenziali alleati nella lotta contro l’Isis, quando un accordo di pace verrà raggiunto tra talebani e autorità di Kabul, la questione dello Stato Islamico verrà risolta ‘alla maniera afgana’ ”.

Secondo un recente sondaggio della statale Vtsion, per il 42% dei russi a quella guerra non si doveva partecipare, secondo le cifre del centro indipendente Levada sarebbero il 68%.

Tra memoria e oblio. Nel 1989 si piangeva e poi si protestava contro le “cargo 200”, le bare di zinco dentro cui i 15 mila soldati russi morti sul campo sono tornati indietro. Chi tornava in patria vivo era un afganez, oggi sinonimo di veterano nella lingua russa. Agli anniversari, come sempre, Mosca ricorda e il Cremlino trasforma: dichiarata ufficialmente “un errore politico” da Gorbacev nel 1989, quella guerra è stata rivalutata da Putin nel 2015: “Errori ci sono stati, ma erano reali le minacce”. Il partito comunista nel 2018 ha chiesto ufficialmente alla Duma di annullare la dichiarazione di Gorbacev perché la situazione di allora laggiù “è la stessa che c’è in Siria oggi”.

Fra l’India e il Pakistan. Allah contro induismo: quei jihadisti in Kashmir

C’è una zona del mondo, il Kashmir, contesa dall’India induista e dal Pakistan musulmano da ben 72 anni, che sta per esplodere e diffondere nuove schegge jihadiste in tutta la regione. Che non è cosa da poco trattandosi del subcontinente indiano e coinvolgendo, nello specifico, due potenze nucleari. Secondo molti analisti, il Kashmir è una pentola a pressione, sempre più vicina al punto di rottura. Lo dimostra sul campo il più devastante attacco – avvenuto lo scorso 14 febbraio – della storia tormentata di questa regione a cavallo tra l’attuale Pakistan e India, che peraltro condivide parte del confine orientale con la Cina. Un kamikaze a bordo di un camion si è fatto saltare in aria portando con sé 44 tra soldati e personale dell’esercito indiano. La responsabilità dell’attacco è stata rivendicata da Jaish-e-Muhammad, l’Esercito di Maometto, un gruppo militante islamico inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche anche dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti. Sebbene il gruppo sia ufficialmente fuorilegge in Pakistan, opera e raccoglie fondi nel paese con nomi diversi, hanno spiegato negli scorsi anni sia funzionari indiani sia americani.

Un portavoce di Jaish- e-Muhammad, Muhammad Hassan, ha detto ai media locali che “dozzine di veicoli delle forze indiane sono stati distrutti perché il popolo del Kashmir non si è mai arreso nonostante abbia visto migliaia di cadaveri”.

L’ultima volta che Jaish-e-Muhammad ha lanciato un attacco ingente fu nel 2016, quando alcuni dei suoi militanti riuscirono a infiltrarsi in una base dell’esercito indiano nella città di Uri, uccidendo 19 militari. Ciò spinse le forze armate indiane ad attraversare il confine per lanciare quelli che venivano definiti “attacchi chirurgici” in Pakistan. L’esercito di Maometto pur avendo legami con i servizi segreti pakistani, ha ormai molti affiliati nati in Kashmir. Da quando, per reazione all’eccidio di Uri l’esercito indiano uccise nel luglio di tre anni fa Burhan Wani, leader dei ribelli musulmani, sono sempre più numerosi i giovani kashmiri, molti appartenenti anche alla classe media, a protestare nelle strade contro gli abusi dei diritti umani perpetrati dagli indiani in divisa contro i civili del Khasmir. Dall’estate del 2016 a marzo dell’anno scorso sarebbero 145 i civili uccisi dai soldati indiani per contrastare le proteste. A causa dell’uso di fucili anti sommossa, molti dimostranti sono rimasti ciechi. Anche il “martirio” di Wani, amatissimo comandante musulmano del gruppo armato Hizbul Mujahidden ha aumentato il coinvolgimento dei giovani autoctoni più istruiti in questa infinita guerra asimmetrica per l’indipendenza dall’India da parte dei gruppi kashmiri filo pakistani.

Per ora il risultato ottenuto dagli indipendentisti si è tradotto in maggiori violazioni dei diritti umani da parte di New Delhi, a partire da uno stretto coprifuoco all’isolamento attraverso il taglio delle comunicazioni per ben 53 giorni. In seguito all’attentato di San Valentino, il premier indiano Narendra Modi ha promesso ritorsioni e ieri ha annunciato che il suo governo ha già deciso di togliere al Pakistan lo status di “partner privilegiato”, che è automatico tra ogni Paese membro dell’Organizzazione mondiale del commercio, come lo sono i due vicini. “Se il nostro vicino che già è totalmente isolato nel mondo – ha detto Modi – pensa di poter destabilizzare l’India attraverso le sue tattiche e cospirazioni, allora sta facendo un enorme errore”. Non sarà facile avviare operazioni militari per le condizioni climatiche proibitive sulle montagne innevate che punteggiano l’area. Modi però ha fretta dato che le elezioni indiane previste per questa primavera si stanno avvicinando. Se non facesse intervenire l’esercito, il primo ministro rischierebbe di apparire troppo debole sul Kashmir e perdere consenso. Un ennesimo intervento però non risolverebbe questa tragica e infinita disputa. Prima dell’indipendenza indiana dalla Gran Bretagna, quella che ora è la regione contesa del Kashmir era uno Stato chiamato di Jammu e Kashmir.

Dopo la nascita del Pakistan nel 1947, seguita alla fine della colonizzazione britannica, allo scopo di dare uno Stato agli indiani di religione musulmana, al Maharaja che governava Jammu e Kashmir venne data la possibilità di scegliere l’indipendenza da New Delhi o da Islamabad. L’autonomia durò però solo due mesi perché i pashtun – la principale tribu pachistana – invasero il nuovo staterello. A quel punto il Maharaja, chiese l’aiuto di New Delhi che intervenne. Da quel momento non c’è più stata pace nell’area oggi in gran parte controllata dall’India. Solo l’anno scorso sono stati uccisi 250 militanti.

Per provare a dirimere diplomaticamente la contesa che ha portato le due potenze nucleari a scontrarsi tre volte, due delle quali sul territorio kashmiro, bisognerebbe far rispettare la Risoluzione 47 dell’Onu che prevede un immediato cessate il fuoco da entrambe le parti, il ritiro delle forze pachistane dalla regione, e la riduzione delle forze militari indiane al minimo.

Alla cessazione delle ostilità sarebbe dovuto seguire un plebiscito, che avrebbe determinato l’adesione del territorio all’India o al Pakistan. In realtà, solo l’1 gennaio del 1949 venne raggiunto un accordo, e la linea di cessate il fuoco divenne un confine de facto, dividendo l’area dell’Azad Kashmir, in Pakistan, dallo Stato indiano dello Jammu e Kashmir. Il referendum non si è finora tenuto né, molto probabilmente, mai si terrà.