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Ocalan e le responsabilità del governo D’Alema

Ringrazio il giornale e Alessandro Mantovani per la bella recensione del mio libro, di cui coglie i punti essenziali con efficacissima sintesi. Una sola osservazione. Scrive Mantovani che Ocalan è stato respinto dal governo D’Alema nelle mani dei carcerieri turchi. Nel mio libro racconto una storia un po’ diversa. Quel governo ha certamente la colpa di non avere avuto la forza di garantire al leader curdo la ospitalità che gli spettava, ma l’accusa di averlo consegnato ai carcerieri curdi va sicuramente molto al di là delle sue colpe.

Luigi Saraceni

 

Malati di Alzheimer, la grazia ai parenti aiuti a riflettere

Concedere la grazia a due anziani, colpevoli di aver ucciso le proprie mogli, non deve essere solo un gesto di altissima umanità, ma deve servire alla classe politica per rivolgere maggiore attenzione verso questi pazienti, affetti da Alzheimer, nella quasi totalità dei casi abbandonati a se stessi e alle loro famiglie.

Pasquale Mirante

 

Dopo Satana e la Raffaele faranno tornare l’Inquisizione

Da quando ci sono Gasparri, Salvini e compagni a difenderci da quella “satanassa” di Virginia Raffaele mi sento piu tranquilla! Ma non hanno argomenti piu seri a cui pensare? Suvvia, signori, un po’ di leggerezza, un sorriso vi faranno vivere meglio (anche a noi). A quando il ritorno dell’Inquisizione?

Anna Maria Bruscolini

 

Diciotti e Tav, il Movimento ora si gioca la faccia

Nel negare l’autorizzazione a procedere nei riguardi di Salvini, come certamente faranno dopo la pulcinellata della votazione on line, i 5S non solo si giocano la credibilità, ma perdono l’occasione d’oro di andare a vedere il bluff dello scomodo alleato pro tempore che, non essendo stupido, mai e poi mai farebbe cadere il governo o romperebbe l’alleanza prima delle elezioni europee. Adesso ci manca solo che si mettano a “dialogare” sul Tav o sulle autonomie per toglierci qualunque speranza che in Italia possa cambiare qualcosa.

Vincenzo Bruno

 

Le cure psichiatriche sono solo per benestanti

Elisabetta ha studiato psicologia e psichiatria lavorando sia in Italia che in America Latina. Nel suo studio di Trieste riceve i poveri che non si possono curare perché la malattia mentale sta diventando un problema che solo chi ha i soldi può permettersi di curare. I centri di salute mentale seguono migliaia di persone a cui se va bene danno una terapia e un saluto poi se tornano bene altrimenti ciao. Elisabetta riceve le persone: chi può paga, chi non può si impegna in qualche forma di restituzione, poi tutto quello che incassa (eccetto 200 euro al mese per lei) lo manda in Africa e America Latina. Con questi soldi ha salvato la vita a Emmanuel in Kenya che non poteva curarsi e i medici avevano detto alla moglie di preparare i soldi per il funerale. Ha tirato fuori dal ghetto di Korogocho Milly che ha aperto una sartoria e nel tempo libero insegna a cucire ad altre donne. Ha fatto studiare e ha garantito le cure ad una serie di bambini della periferia di Nairobi.

Fabrizio Floris

 

Contro la recessione serve anche l’equità sociale

L’articolo di ieri di Giorgio Ragazzi è pienamente condivisibile. Mi sembra tuttavia opportuna una breve osservazione: al fine di creare quel clima di fiducia cui lui fa cenno, sono necessarie politiche volte a realizzare una diffusa equità sociale. Questa è venuta a mancare negli ultimi decenni e ha portato al declino attuale.

Natale Ghinassi

 

Il decentramento è davvero una priorità costituzionale?

Il Decentramento, che definisco incasinamento, è pura utopia. Nessuno mi assicura che le nascenti regole autonomistiche facciano nascere esigenze di nuova amministrazione che seppur regionale va a complicare quella esistente. Ogni regione farà la sua e non in armonia con le altre, farà la sua per interessi regionali! Perché tanta urgenza per realizzare una regola contenuta nella Carta costituzionale che porta necessariamente benefici a pochini pochini quali sono appunto i ricchi e non si realizzano quei molti punti della Carta costituzionale che porterebbero vantaggi a tutti e proprio tutti?

Alessandro Marcigotto

 

Pedofilia nella Chiesa, il Papa detti norme più severe

Nel mese di febbraio, precisamente il 21, ci sarà in Vaticano un incontro importante con 130 capi di conferenze episcopali di tutto il mondo con papa Francesco su il problema degli abusi su minori. Un tema sentito da tanti credenti cattolici che si sentono sbalorditi da storie non positive in questi anni dentro la chiesa cattolica. Regolamenti chiari e norme più severe per abbattere un tema che sta portando un declino di fedeli in tutto il mondo.

Massimo Aurioso

 

I NOSTRI ERRORI

Ieri, per errore, nella rubrica Lo dico al Fatto ho indicato San Giuseppe Jato come paese delle sorelle Napoli e non Mezzojuso, come effettivamente è. Me ne scuso con le interessate e con i lettori.

Pietrangelo Buttafuoco

Vita stupefacente del re dei narcos

Il capo della mafia messicana, Joaquín Guzmán Loera, non è solo il latitante più famoso della giustizia. Ha anche una fulgida carriera come disegnatore di tunnel, è scampato all’assassinio grazie all’aiuto involontario di un alto prelato.

Ha acquisito fama di onnipresente ed è diventato amico delle star di Hollywood per giocarsi alla fine a New York quella che sembra la sua ultima mano prima di passare al ritiro in qualche carcere statunitense di massima sicurezza: fare in modo che il processo contro di lui aiuti i figli del suo socio Ismael Zambada Garcia, detto El Mayo a gestire la transizione del potere nel mondo dei narco, ancora più instabile di quello della politica.

Contro ogni pronostico, poco più di 70 anni dopo la nascita nel paese sperduto di La Tuna, su una remota catena montuosa nel nord del Messico, Joaquin Guzman Loera ha trovato la notorietà nell’inverno di Brooklyn, dove è stato processato e ritenuto colpevole di una decina di reati relativi all’uso di armi da fuoco, riciclaggio di denaro sporco e narcotraffico.

Buona parte dell’esistenza di quest’uomo che non ha neanche terminato le elementari, è sempre ruotata intorno ad avvenimenti improbabili. A partire dal soprannome che si porta dietro colui che è considerato il capo supremo del narcotraffico nel mondo, El Chapo, che nella sua regione natale, Sinaloa, è sinonimo di “piccolo”.

Oltre a essere un criminale, questo successore del capo colombiano Pablo Escobar nell’immaginario – parte mitologico, parte reale – del narcotraffico latinoamericano è stato un copioso produttore di fantasie in un Paese come il Messico in cui la realtà riesce a essere più immaginifica della finzione. Tutto inizia quando viene inviato a trafficare droga a Mexicali. Sono gli anni 80, Ronald Regan lancia la crociata contro le droghe, ed El Chapo riprende una vecchia strategia dei contrabbandieri cinesi degli inizi del secolo precedente che utilizzavano un esteso sistema di piccoli passaggi sotterranei della città di frontiera per far passere oppio e alcol tra Messico e Stati Uniti, noto come La Chinesca. Questa idea trasforma Guzmán Loera in un innovatore del commercio del quale si era occupato fin da piccolo.

Ma il suo volano per la fama arriva intorno al 1993, quando i suoi rivali, i fratelli Arellano Felix, nella foga di assassinarlo, uccidono per sbaglio Juan Jesus Posadas Ocampo, un influente cardinale della Chiesa cattolica che scambiano per El Chapo, il quale resta illeso.

Qualche mese dopo quello strano incidente, Guzmán Loera, arrestato in Guatemala, finì per esser rimandato in Messico senza alcun tramite formale tra un Paese e l’altro. Questo atto di misterioso trasferimento non è il risultato di una magia, ma di un vecchio trucco messicano (e a quanto pare anche guatemalteco): la corruzione.

Nel gennaio 2001, quando il Messico ancora stava celebrando l’inaugurazione dell’alternanza politica con la vittoria di un partito diverso dal Pri alle elezioni presidenziali, El Chapo rovina la festa democratica occupando 8 colonne di giornale con la notizia della sua fuga dal carcere di massima sicurezza del Puente Grande, a Jalisco, nascosto in un carrello della lavanderia, secondo la versione ufficiale.

Da questo momento in poi la sua leggenda inizia a prendere corpo: a Oaxaca o Città Juarez raccontano di averlo visto a pranzo in questo o quel ristorante, o a una serata danzante a Tijuana o circondato da donne in un bar di Cancún. Più passano i giorni senza che lo catturino, più intorno alla sua immagine si rafforza un alone di onnipresenza che finisce per farne un personaggio a cui ispirarsi, ammirato più di qualsiasi senatore della Repubblica.

Eppure il personaggio andava lasciando al suo passaggio una scia di sangue e distruzione corroborata dalle politiche populiste in materia penale, come quella che lanciò l’ex presidente Felipe Calderón sotto l’altisonante nome di “Guerra del narco”, con l’obiettivo di riuscire a conquistarsi un po’ di governabilità durante il turbolento avvio del suo governo.

La suddetta scia di dolore segna anche la famiglia del Chapo, dopo che suo fratello Arturo viene assassinato nel carcere penale di Almoloya e suo figlio Edgar in una piazza del centro di Culiacán. È proprio al funerale del giovane di 22 anni che sono stato sul punto di conoscere di persona il capo, il quale coprì di 50 mila fiori il luogo in cui stavano vegliando suo figlio. L’avvenimento finì in un pezzo che pubblicai su Milenio Diario e che dopo venne ripreso dal cantante Lupillo Rivera per comporre una canzone raffinata.

Passarono vari anni prima che Guzmán Loera fosse finalmente catturato. Addirittura il Pri era già ritornato alla presidenza. E neanche la sua detenzione fu scevra di particolari che sembrano inverosimili ma non lo sono, come quello che ore prima fosse riuscito a svignarsela dalle autorità attraverso un tunnel nascosto nel bagno della sua casa di Culiacan, che univa la residenza con il sistema fognario della città; o quello che per entrare nell’hotel di Mazatlan dove alla fine fu acciuffato, aveva indossato una parrucca e si era seduto su una sedia a rotelle per farsi passare per un anziano malato.

Dopo la sua cattura, sembrava che la storia del fuggitivo finalmente si fosse conclusa. Ma l’anno dopo, El Chapo offre un nuovo colpo di scena scappando dal carcere penale di massima sicurezza di Almoloya per un tunnel costruito sotto la sua cella, in cui lo aspettava una moto modificata per poter percorrere velocemente il chilometro e mezzo di distanza sotterranea che lo separava dalla sua libertà. Inoltre, la tempistica della sua fuga non poteva esser più azzeccata (né casuale): accadeva nel momento in cui l’allora presidente Enrique Peña Nieto e quasi l’intero gabinetto decollavano per Parigi.

Dopo questo episodio sembra che El Chapo avesse raggiunto il limite massimo di produzione di situazioni inverosimili, quando compaiono sulla scena l’attore Sean Penn e l’attrice Kate del Castillo, che rivelano di aver passato una notte con lui per mettere a punto i dettagli per un film ispirato alla sua vita.

Non passa molto tempo che Guzmán Loera viene catturato di nuovo e, contro ogni pronostico, finisce per essere estradato negli Stati Uniti proprio il giorno prima che Donald Trump assuma la presidenza, come se si trattasse di una specie di obolo diplomatico per il politico che ci vuole fare pagare per il muro che El Chapo e il suo seguito hanno attraversato sotto terra per tanti anni.

Una volta a New York, Guzmán Loera ha continuato ad alimentare il suo mito, realizzando un patto stipulato con il suo socio per il controllo del Cartello di Sinaloa: Ismael Zambada, El Mayo, per permettere che la collaborazione della famiglia Zambada con le autorità statunitensi nel processo contro di lui, aiutino Serafin e Vicente, figli di Zambada, a ridurre le pendenze con la giustizia. Chiaro, tutto in cambio dell’aiuto del Mayo ai figli di Guzmán Loera affinché possano continuare a gestire buona parte del commercio a cui diede vita suo padre in Messico.

Un altro impegno di Zambada è quello di produrre il film su El Chapo, di cui addirittura è già stato scritto il copione, anche se, è chiaro – vista la vita del protagonista – il finale della storia può ancora subire variazioni.

Il dibattito post-Sanremo e la guerra civile delle cazzate

Dice: ancora una volta le élite contro il popolo. Dice: ha vinto Maometto e però pure un po’ Soros. Dice: dovremmo far votare la giuria di qualità pure alle Politiche. Dice: la solita sinistra pro-immigrazione ha penalizzato il cantante borgataro. Dice: finalmente un voto per l’integrazione. Dice: la sinistra si prende la rivincita dopo il 4 marzo. Dice: è il segno che il Paese reagisce a Salvini. Dice: violati i diritti dei consumatori, intervenga la magistratura. Il carico di cazzate ascoltate e lette nei due o tre giorni successivi al Festival di Sanremo riverbera in modo sinistro alla luce della notizia letta ieri sul Messaggero: la canzone Soldi di Mahmood – che ha vinto all’Ariston grazie a giornalisti e giuria d’onore, mentre era più indietro nel televoto – è prima anche nelle scelte degli acquirenti di musica secondo le major discografiche, ma pure su Spotify, iTunes e YouTube. Se ne dedurrebbe che il popolo del televoto è contro il popolo del download che a suo volta si oppone al popolo delle urne, il quale è disprezzato dal popolo degli astenuti… una guerra civile. Oppure, ma è una supposizione da confermare, l’idea che su ogni minuzia bisogna fare un coretto di opinioni per dimenticarsene un minuto dopo riempie le vite e svuota i cervelli. Il “popolo” è una costruzione politica: servono valori e interessi comuni, forza organizzativa e storia per crearne uno. Il resto è opinione pubblica o, meglio, “il pubblico sovrano”, che vuol dire che non contate una fava, ma ogni tanto potete scegliere una cosa irrilevante (meglio se a pagamento, ovviamente).

Wanda, Di Maio e gli altri sotto il segno del boomerang

 

“Se mi date da scegliere tra il rinnovo e l’arrivo di uno che gli mette cinque palloni buoni, forse preferisco che lui abbia un aiuto in più”.

Wanda Nara su Mauro Icardi a “Tiki Taka”

 

Sta diventando frequente: una comunicazione errata, improvvisata, sopra le righe che finisce sui denti di chi l’ha maldestramente resa pubblica. Basta guardare cosa ha combinato la moglie-manager di Mauro Icardi che, dopo mesi di uscite provocatorie contro i vertici dell’Inter che non sganciano i quattrini richiesti, sbaglia bersaglio e in una serata televisiva più esuberante delle altre tratta i compagni di squadra del numero 9 come degli incapaci. Reazione furibonda nello spogliatoio. Risultato: per Maurito addio alla fascia di capitano e, probabilmente, addio ai colori nerazzurri a fine campionato. Chi sostiene che la machiavellica Wanda questo cercava, sfasciare tutto, non conosce le regole dei grandi club europei dove una coppia del genere è già in cima alla lista nera. Svalutation, per dirla con Celentano. Naturalmente, quanto a scomunicazione (passatemi il brutto neologismo) la politica non si fa mancare nulla. A cominciare dal duo Di Maio e Di Battista che, meditando un colpo fighissimo in vista delle Europee, si fanno fotografare trionfanti accanto a un gilet giallo golpista che blatera di violenza (lui medesimo sbalordito che il vicepremier italiano sia venuto in pompa magna a omaggiarlo nella botteguccia in Provenza). Risultato: Parigi che minaccia la rottura delle relazioni diplomatiche, Mattarella che si fa in quattro per metterci una pezza, dietrofront dello spericolato vicepremier, ma solo dopo che “Piazzapulita” ha raccolto lo sproloquio del gilet fuori di testa. Un altro “scomunicato” di insuccesso è il leghista Claudio Borghi, temutissimo al ministero dell’Economia perché ogni sua parola ha sullo spread l’effetto del viagra. L’altro giorno, risvegliatosi dal letargo invernale, si è stiracchiato e ne ha sparata una delle sue: “Meglio lasciare l’Ue se resta tossica dopo le elezioni”. Una di quelle uscite che in passato gli avrebbero procurato vasta eco e telecamere sotto casa. Ma sull’orlo della recessione non è proprio aria. Lesto, Salvini gli ficca un tappo in bocca prima che l’effetto Borghi ci costi ulteriori interessi sul debito. E che dire del liberale belga Guy Verhofstadt, protagonista a Strasburgo del j’accuse contro Giuseppe Conte, finito in vacca quando, non resistendo all’insulto facile, ha definito il presidente del Consiglio italiano “burattino di Salvini e Di Maio”. Coalizzando per una volta opposizione e maggioranza, ferite nell’amor patrio. Il fatto è che l’umore del Paese sta cambiando. Che a rabbia e risentimento si sostituiscono preoccupazione e ricerca di punti fermi. Che l’invettiva, la rissa, il colpo di teatro, le urla nei talk, la faziosità, i partiti presi, il guevarismo de noantri, i centravanti ingrugnati, le mogli casiniste non funzionano più. C’è un tempo per ogni cosa, come dice l’Ecclesiaste. Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli.

I comandamenti di Gesù: “Beati voi che avete fame perché sarete saziati”

In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone. Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: “Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno di Dio. Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti. Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione. Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete. Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti” (Luca 6,17.20-26).

Il brano del Vangelo di Luca, oggi, ci presenta Gesù che disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante e qui proclama alla gran folla le quattro Beatitudini e i quattro guai. Notiamolo: con gli occhi alzati verso i suoi discepoli! Mentre, il discorso programmatico di Matteo è composto di nove Beatitudini prive di guai e viene annunciato sulla montagna evocando la consegna dei comandamenti di Dio a Mosè sul Sinai.

Luca mira a sottolineare che la Parola di vita discende a nostro livello, sugli uomini mendicanti di felicità, ci raggiunge nei luoghi della nostra povertà, ci orienta tra le tante contraddizioni della vita. Gesù, con il discorso della pianura, è disceso tra noi e fa conoscere il manifesto del regno di Dio! Le Beatitudini sgorgano dalla relazione di Gesù con il Padre; è un nuovo modo di essere e di agire verso gli uomini, specialmente verso i poveri, gli affamati, gli afflitti, i perseguitati. Beati voi… perché: è nel perché di ciascuna beatitudine che si rileva il riferimento all’azione di Dio, all’intervento del Padre presente pur senza essere nominato.

È Lui, infatti, che dona lo Spirito del Suo regno ai poveri, che sazia chi ha fame, rallegra chi piange, offre compagnia e ricompensa con la pace chi ora è odiato, insultato, umiliato a causa del Figlio dell’uomo che si riconosce in ogni uomo e per sempre!

L’accondiscendenza del Padre è rivolta a tutti, ma con una predilezione particolare per coloro i cui diritti sono oltraggiati, la cui afflizione non interessa gli uomini, e che non hanno cittadinanza nella storia umana. Dio Padre, nel Suo Figlio, si schiera apertamente non dalla parte di coloro che sono autosufficienti, che confidano in se stessi e in ogni sicurezza terrena. In Gesù è venuto il tempo dei poveri, le loro speranze e attese non sono andate deluse.

Dio è qui e interviene a loro favore non perché poveri e diseredati siano migliori dei ricchi, più bravi e generosi dei potenti e dei sazi di una vita felice. Ma perché Dio giusto e fedele s’immerge nelle situazioni della storia umana per trarne fuori gli oppressi, per dare giustizia agli esclusi. Perciò Gesù alle Beatitudini fa seguire i quattro guai, ammonimenti non per impaurire, ma per mettere in guardia dal non confondere il superfluo con l’essenziale.

Le beatitudini aprono il cuore alla buona notizia che Dio ricolma di vita chi diffonde amore, che se uno ha a cuore la felicità di un altro, Dio stesso lo renderà felice. I guai, invece, sono chiusura al futuro, alla novità che è Gesù Cristo: questa è la sventura che sovrasta i beati di questo mondo! I guai smascherano per sempre ogni doverosa consacrazione dell’ingiustizia e della prepotenza umana. Non sono due i modi per vivere una vita felice! Bisogna mettersi decisamente alla sequela di Gesù, la roccia su cui fondare la casa costruita bene… che niente riesce a smuovere.

*Arcivescovo emerito di Camerino – San Severino Marche

Trasporti, il caso di un’autonomia che è già fallita

Con l’autonomia differenziata c’è il rischio che sfugga il controllo della spesa pubblica e che i servizi non aumentino la loro efficienza. Almeno questo è quanto si è già visto per i trasporti e per le infrastrutture. In Lombardia e in Veneto, 15 anni di federalismo ferroviario e autostradale sono già falliti: Trenord è stata ed è oggetto di inchieste giudiziarie, proteste dei pendolari e aumenti di spesa che non hanno avuto riscontro nella crescita dei viaggiatori e nella qualità dei servizi offerti. Le gestioni ferroviarie affidate senza gara dalle Regioni a Ferrovie Nord e Trenitalia non hanno saputo essere all’altezza di quelle nordeuropee a causa della chiusura alla concorrenza che le due Regioni hanno mantenuto.

La possibilità che a una burocrazia statale inefficiente se ne sostituiscano altre regionali che aumentino la spesa pubblica, è grande. La partita cruciale che ora si sta giocando nelle infrastrutture, vista la richiesta di trasferire le competenze amministrative, i fondi statali e pieni poteri su rete ferroviaria, autostradale, aeroportuale e portuale, ignora che la maggior parte delle reti di trasporto hanno caratteristiche sovra-territoriali (nazionali o almeno interregionali) ed escono dai confini amministrativi, seguendo la mobilità delle persone e delle merci. Si rischia di creare nuovi dazi che, anziché avere perimetri comunali, avranno quelli regionali. Lo spezzatino di reti autostradali e la creazione di organismi con poteri concedenti rischia di avere lo stesso risultato che si è già visto il Lombardia e Veneto, con il CAL Concessioni Autostrade Lombarde e il CAV Concessioni Autostradali Venete, che hanno costruito mostri burocratici e poco trasparenti, dando vita ad autostrade inutili e costosissime come la Brebemi, la Tangienziale Esterna Milanese e l’incompleta Pedemontana in Lombardia e la Pedemontana veneta. Opere che hanno visto triplicare i costi, giustificate da una sovrastimata domanda il cui esito sarà (se venissero completate) nuovo consumo di suolo agricolo e un danno all’utenza che si troverebbe a sostenere pedaggi doppi di quelli tradizionali. Così i pendolari dell’automobile, che già pagano un salato bollo regionale di circolazione, si accollano anche un pedaggio elevato per andare a lavoro e i Tir continuano a usare la viabilità ordinaria per risparmiare. La rete sotto la piena gestione della Lombardia comprenderebbe 55 km dell’Autostrada del Sole fino a Piacenza, 93 km della A4 Milano-Brescia, 27 km della Torino-Milano, fino a Magenta, 36 km della Brescia-Padova, 53 km della A7 Milano-Serravalle, 32 chilometri della Lainate-Chiasso. A questi poi vanno aggiunti i 45 km della A8 Milano-Varese, il tratto della A22 Verona-Modena, la Tangenziale Est di Milano, e altre ancora. Su tutte queste autostrade la Regione avrebbe competenza legislativa e amministrativa, affiderebbe e controllerebbe le concessioni, verificherebbe i piani finanziari (difficile che il proprietario e al tempo stesso gestore di una infrastruttura riconosca i suoi sbagli), definirebbe le tariffe massime e ne incasserebbe i canoni. Tutti compiti oggi svolti dal ministero dei Trasporti. Lo stesso varrebbe per parte della rete stradale che oggi fa capo all’Anas.

Meglio sarebbe l’adozione di innovativi e responsabili contratti di servizio tra Regioni e ministero. Già oggi tra tratte autostradali (25), porti, aeroporti e interporti medi, piccoli e piccolissimi, si giustifica la frammentazione della spesa (il più delle volte clientelare) rendendo impossibile qualsiasi economia di scala e di scopo. Con un Paese diviso in due, sia economicamente che elettoralmente, dar vita a nuovi trasferimenti di competenze e risorse alle Regioni sarebbe un disastro.

Lo strano dio del sovranismo

Sono gente ostinata questi due partiti dell’unica maggioranza possibile che si scontrano su tutto tranne che sui porti chiusi, dove c’è un’intesa di ferro, fra un ministro che non può e un ministro che non deve. Ma non sono senza Dio. Lo prova la quantità e l’attivismo dei credenti. C’è l’Ordine dei biologi, tenacemente anti-vaccinazioni, l’assemblea degli esorcisti, che mette in guardia dallo scherzare a Sanremo sul diavolo, c’è il culto della domenica chiusa e deserta, dove puoi passeggiare in belle città morte fra i negozi sbarrati e compatire il 40 per cento degli italiani che hanno deciso di restare single. Certo, non dovrebbero guastare queste belle passeggiate nella città vuota i gender e i trans.

E poi attenti ai valori. Per esempio il Dio del sovranismo comanda lunga vita a chi non può sopportare la pena di un male e tenta di sfuggire facendosi aiutare a morire. Chiede solo che qualcuno lo accompagni, ma il reato di liberare dalla pena a quanto pare è gravissimo. Secondo il Dio del sovranismo a processo deve andare Marco Cappato, che ha accompagnato due persone al fine vita invece di lasciarle prigioniere del loro tormento. E non deve andarci chi lascia per giorni e per notti donne e bambini in mezzo al mare gelato (anche se la barca è italiana e i marinai sono militari italiani) perché i porti italiani sono chiusi, come prescrivono il sovranismo e i suoi cappellani. Quanto al Maligno, come ci hanno avvertito con paterno rigore gli esorcisti che vegliano sul Festival di Sanremo, è un personaggio in vista nel mondo della religiosità sovranista. Per esempio se ne era occupato l’autore di Kerigma, il Vangelo degli ultimi giorni (alias il sottosegretario prima del ministro Boschi, Pd, poi, senza discontinuità, del ministro della Famiglia leghista, Fontana). Cristiano Cerasani scrive, nel suo libro presentato in Parlamento: “Il fatto che proprio il popolo eletto si sia ostinato a non voler accogliere la parola annunciata da Gesù Cristo – inviato nel mondo non per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui – lo ha reso vulnerabile agli attacchi del Maligno che (…) ha potuto imperversare, facendo strage di quel popolo”. Dunque il diavolo (per vendicare Dio?), non Hitler e Mussolini, ha tentato di sterminare gli ebrei. Ma la religiosità del sovranismo non ha solo il problema di liberarsi della Shoah, che ricorda troppo la caccia, la persecuzione strada per strada, casa per casa, degli immigrati.

Ovvio che è ora di cacciarli. Meglio se c’è una legge, e infatti c’è, come quella della razza. Si chiama (il criterio è lo stesso) “di sicurezza”: i migranti non possono essere accolti dagli italiani perché non sono italiani e mettono in pericolo i nostri valori, vedi le Madonne che si inchinano davanti alle case dei mafiosi in certe celebri processioni. Ma ci sono anche versioni più familiari di pregiudizio e di esclusione, nella nuova religiosità della nuova politica. Il filosofo Fusaro nel suo Nuovo Ordine erotico (Rizzoli) scrive: “Il mito politicamente corretto del ‘gay friendly’ (…) viene istituzionalizzato e propagato dal circo mediatico allorché il nuovo capitalismo (…) ha messo in congedo la figura del pater familias e del vincolo etico familiare. (…) Si produce di fatto una decostruzione, dall’interno del concetto della vita etica familiare” in modo che non ci sia più famiglia, nonostante le apparenze. Comprensibile l’allarme, religioso e politico, del ministro Fontana. Certo non possiamo dimenticare, in questa rapida rassegna del sovranismo religioso, il rosario in mano a Salvini (come alle donne polacche del partito di Kaczynski, per sigillare i confini), il rapporto fraterno, tipo 1942, fra Orban d’Ungheria e il cardinale di Budapest, e la foresta di croci che, subito dopo la caduta del Muro di Berlino, era sorta tutto intorno ad Auschwitz prima che una protesta internazionale inducesse il governo di allora a spostare le croci più lontano dal luogo di strage degli ebrei.

Ma funziona intanto a pieno regime, nel corpo stesso della religione cattolica italiana, la lotta senza quartiere a Papa Francesco, che non smette di invocare salvezza e accoglienza per i migranti e ingombra il limpido paesaggio (porti chiusi e basta chiacchiere). Guida le arringhe anti-Francesco il cardinale Viganò (ricordate? L’ex nunzio a New York) intento a creare un oscuro periodo di caccia al Papa. Non temete che l’avventura abbia toccato il suo culmine e stia per finire. Trump, per esempio, ha appena dichiarato lo stato d’emergenza nel suo Paese che, al momento, è primo in tutto. Il sovranismo non ha timidezze. Come vedrete, continua.

“Sodoma”, il libro che rivela i segreti gay del Vaticano

Ho scoperto nel corso di questa lunga inchiesta che essere gay nel clero fa parte di una sorta di norma, l’unica linea da non valicare è la copertura mediatica”. Da mesi in tanti si chiedono cosa ci sarà nel libro di Fréderic Martel, giornalista e sociologo che sta per pubblicare in Italia, Stati Uniti, Francia e mezzo mondo un corposo volume dal titolo inequivocabile: Sodoma. Decine di giornali in tutto il mondo hanno raccontato l’attesa per questo saggio. Un lavoro impressionante per dimensione e ambizione che il Fatto ha potuto sfogliare in anteprima e che pare all’altezza delle attese. Perché nel libro Martel racconta che l’omosessualità nella chiesa non è l’eccezione, ma la norma. Ai vertici come alla base. “Non c’è un nesso tra pedofilia e omosessualità, il grosso degli abusi avvengono in famiglia e tra omosessuali, va ricordato, ma nella Chiesa è vero che tra l’80 e l’85 per cento delle vittime di abusi sono su giovani uomini”, spiega Martel al Fatto. Un nesso comunque c’è, è la tesi forte del giornalista: “La maggior parte dei vescovi che coprono i pedofili sono a loro volta omosessuali e non osano denunciare i responsabili degli abusi perché temono che emergano anche i loro segreti”.

 

IL PROBLEMA. Il grande cambiamento avviene con il pontificato di Paolo VI: prima di allora gli omosessuali dovevano nascondersi ovunque, dentro e fuori dalla Chiesa. Poi, nel mondo civile, iniziano ad acquisire diritti e a perdere stigma sociale. Martel arriva a sostenere che la crisi delle vocazioni si deve anche all’emancipazione degli omosessuali: “Un adolescente gay ha oggi altre possibilità nella vita, anche in Italia, oltre a quella di prendere gli ordini“. Ma la Chiesa non cambia: lì resta un clima di condanna, repressione e copertura di segreti noti a molti che finisce per intersecare omosessualità e pedofilia.

Il cardinal Sodano. Tra le pagine che faranno più discutere del libro di Martel ci sono quelle dedicate al cardinal Angelo Sodano, il segretario di Stato di Giovanni Paolo II. Oggi 91enne, il suo primo incarico importante è stato quello di nunzio apostolico in Cile tra il 1977 e il 1988. In quegli anni il rapporto con il Vaticano era molto prezioso per la dittatura militare di Augusto Pinochet. E Sodano, scrive Martel, forse non si è mosso nel modo più prudente. Il giornalista francese ricostruisce le sue frequentazioni, anche con molti membri della “rete omosessuale di Pinochet”. per esempio Arancibia Clavel, gay, che si occupava di eliminare fisicamente i nemici del regime. Oppure Jaime Guzmán, in pubblico cattolico conservatore e in privato, “secondo gli archivi dei servizi segreti cileni, era omosessuale, ed è stato assassinato nel 1991 dall’estrema sinistra. Entrambi hanno conosciuto Sodano”. Martel trova solo tre spiegazioni per i comportamenti di Sodano in Cile: o condivideva in tutto e per tutto la linea del regime, o era manipolato dai servizi segreti o era “costretto a scendere a compromessi con il regime per proteggere il suo segreto”, cioè l’omosessualità.

 

TRUJILLO. Mentre su Sodano Martel indaga ma non arriva a una conclusione univoca, sul cardinale colombiano Alfonso Lopez Trujillo si sbilancia in modo netto: “Guidava il Consiglio pontificio per la famiglia con Giovanni Paolo II, è stato decisivo per l’elezione di Benedetto XVI, da sempre uno dei più conservatori, a Medellin e poi a Roma, era ossessionato dalla lotta all’omosessualità, alle unioni civili, ai condom. Eppure io ho scoperto che a Medellin era un gay molto attivo”, spiega Martel al Fatto. Seguono, nel libro, una serie di dettagli che è difficile riportare senza rischiare querele.

 

SESSO A TERMINI. Martel non si occupa soltanto di alti prelati, ma anche di comportamenti diffusi nel clero di base. Per esempio raccoglie le testimonianze di giovani prostituti immigrati che lavorano alla sera intorno alla stazione Termini di Roma, zona che Martel conosce per averci anche abitato anni fa: “Nella prostituzione a Roma tra i preti e gli escort arabi, si accoppiano due miserie sessuali: l’enorme frustrazione sessuale dei sacerdoti cattolici trova un’eco nella costrizione dell’Islam, che rende difficili per un giovane musulmano gli atti eterosessuali al di fuori del matrimonio”. Mohamed, uno dei prostituti che accetta di parlare, commenta: “Siamo fatti per andare d’accordo”.

 

COMING HOME. Diversi i comportamenti in Vaticano. Tra le cose che scopre Martel c’è il fenomeno del “coming home”, versione talare del “coming out” degli omosessuali laici. In pratica significa “far venire il proprio amante a casa”. In alternativa ci sono cardinali che scelgono di adottare il proprio amante. Anche se nel clima di segreto e peccato tutto si complica, niente è lineare: c’è un prete, per esempio, che racconta a Martel di aver “adottato” un giovane latinoamericano orfano di cui prima era “cliente”. Poi, “di comune accordo, il rapporto è diventato rapidamente di tipo paterno e ora non più sessuale”.

 

UNIONI CIVILI. Martel si occupa molto anche di politica italiana e racconta, sulla base di testimonianze raccolte, i retroscena dell’approvazione delle unioni civili nel 2016. Perché i vescovi non si mobilitarono? E come mai il mondo cattolico fu così poco ostile? La risposta nel libro: “Matteo Renzi incontra il papa di persona per risolvere direttamente il problema. Diversi incontri ultra-confidenziali si sono svolti, sempre di notte, tra Francesco e il presidente del Consiglio, testa a testa, senza la presenza dei consiglieri dei due uomini (questi incontri segreti, almeno due, mi sono stati confermati da uno dei principali consiglieri di Matteo Renzi)”. Papa Francesco si accontenta di far passare l’approccio “nominalista”: l’importante è che non si parli di “matrimonio”. Renzi trova il compromesso.

 

IL CASO CAFFARRA. Non tutti nella Chiesa italiana però sono così pragmatici come il Pontefice. A Bologna, per esempio, c’è il cardinale Carlo Caffarra, uno dei più inflessibili sul tema dell’omosessualità. Martel parla di una trattativa tra emissari del governo Renzi e Caffarra e rivela un retroscena sorprendente. “Secondo due testimonianze di prima mano, che hanno partecipato alla ‘trattativa’, Caffarra è stato avvicinato per via della sua leggendaria omofobia: gli è stato detto, durante una riunione molto tesa, che circolavano voci sulla sua doppia vita e sul suo entourage gay e che, se si fosse mobilitato contro le unioni civili, con ogni probabilità questa volta gli attivisti gay avrebbero diffuso le informazioni in loro possesso… Il cardinale ascolta, stupito. Nelle settimane successive, il vecchio ragazzo represso sembrerà per la prima volta abbassare la guardia e ridurre il suo ardore omofobico”. Caffarra è morto nel 2017 e quindi non ha potuto dare la sua versione.

Camorra, preso Ciro “My Way” Rinaldi, il teorico delle “stese”

Si deve al clan Rinaldi l’inizio delle ‘stese’ a Napoli, sparatorie senza un bersaglio preciso, in aria o nel mucchio, per seminare terrore e imporre rispetto. Ieri i carabinieri del Nucleo investigativo hanno catturato Ciro Rinaldi “My Way”, il boss del clan che sta animando una faida contro i rivali storici del clan Mazzarella per la conquista del centro storico, tra Forcella e i Decumani, e la bomba carta di un mese fa alla pizzeria Sorbillo sarebbe un tassello della guerra per il controllo del pizzo. Rinaldi era nascosto da parenti a San Pietro a Patierno, da novembre era inseguito da due ordinanze di custodia cautelare per tre omicidi. I magistrati lo ritengono il mandante dell’omicidio del 2016 di Raffaele Cepparulo, giovanissimo boss dei ‘barbudos’ della Sanità che aveva cercato riparo a Ponticelli, nell’agguato fu ucciso per sbaglio Ciro Colonna, aveva solo 19 anni ed una maglietta dello stesso colore della vittima designata. L’omicidio nel 2015 di Vincenzo De Bernardo fu invece un ‘piacere’ agli alleati della ‘paranza dei bambini’, i Sibillo: aveva dato rifugio al nipote, uno dei killer di Emanuele Sibillo per conto dei Buonerba, alleati ai Mazzarella.

Diecimila in marcia contro la riapertura di via Corelli. Flash mob in piazzale Loreto

Quasi diecimila persone in piazza ieri a Milano contro il decreto sicurezza del governo e contro la decisione del ministro Matteo Salvini di riaprire il Centro di permanenza e rimpatrio (Cpr) di via Corelli. Ieri come il primo dicembre scorso, centri sociali, associazioni antirazziste, semplici cittadini hanno sfilato in città. A differenza di tre mesi fa, il corteo si è snodato per il centro di Milano e non verso il futuro Cpr di via Corelli. Un furgone dorato come le coperte termiche dei migranti e la scritta “disobey ingiust laws”. Così si è aperta la manifestazione da piazzale Piola. I manifestanti sono arrivati in piazzale Loreto, un luogo storico della città. E qui c’è stata un suggestivo flash mob con corpi stesi coperti da teli bianchi a ricordare tutte le vittime del mare. In sottofondo sirene di emergenza e le registrazioni di alcune richieste d’aiuto provenienti dalle radio dei barconi con cui i migranti partono dalla Libia. “Ci vogliono disumani, vogliono che i morti in mare siano numeri, ma noi li ricordiamo”, hanno urlato i manifestanti. Il serpentone di persone ha poi attraversato via Padova, la strada più multietnica di Milano. Sui muri una scritta: no al razzismo, Milano come Torino. Unico elemento che ha ricordato i fatti della scorsa settimana e gli scontri tra anarchici e polizia. Ieri in piazza la componente più estrema del movimento non si è vista. Il corteo non ha registrato né scontri né tensioni. In via Padova etnie differenti hanno assistito a un secondo flash mob. Questa volta nel mirino le espulsioni rese più facili dal nuovo decreto. In mezzo alla strada copie di documenti di espulsioni, che saranno poi bruciati. Chiusa questa seconda tappa, la manifestazione ha attraversato il Casoretto, altro quartiere popolare della città, fermandosi davanti alla lapide di Fausto e Iaio, i due attivisti del centro sociale Leoncavallo uccisi da una banda neofascista in via Mancinelli. Era il 18 marzo 1978. Ultima fermata, la stazione di Lambrate. Qui il centro sociale Lambretta, presente con altre sigle dell’autonomia diffusa milanese, ha lasciato un’ultima scritta sulla strada: No Cpr-No Lager.