A una settimana dalle proteste violente, gli antagonisti sono tornati sulle strade di Torino per manifestare contro lo sgombero del centro sociale “Asilo” e contro i sei anarchici ancora detenuti. Ieri un centinaio di persone ha cercato di girare intorno alla “zona rossa” in cui si trova l’edificio, base da cui partivano azioni contro i Centri di permanenza per i rimpatri. Quel centro sociale era frequentato dagli indagati per gli invii di pacchi esplosivi alle Poste e alle aziende che lavoravano per il Cpr. “Ma quali 5 stelle, ma che periferia, siete il partito della polizia”, era il coro rivolto all’amministrazione di Chiara Appendino il cui programma puntava alla riqualificazione delle periferie e ora sta proseguendo l’opera nell’area di Porta Palazzo, progetto contestato dagli anarchici. Anche ieri le forze dell’ordine hanno chiuso la zona impendo al corteo di avvicinarsi all’Asilo e alla “Nuvola” della Lavazza, edificio che per loro è simbolo della riqualificazione di un quartiere “povero”. Le proteste proseguiranno oggi al Cpr di Torino e mercoledì alla Circoscrizione 6, quella del consigliere della Lega Alessandro Sciretti che sabato scorso ha scritto: “Ci vorrebbe un po’ di scuola Diaz”.
Mose, salvata dalla prescrizione ma non dalle motivazioni: dovrà pagare le tasse sulle tangenti
Un celebre aforisma rende certe, nella storia della civiltà, soltanto la morte e le tasse. Se della prima non vi è bisogno di conferme, sulla perseveranza del sistema fiscale arriva ulteriore garanzia da Venezia, dove Giovanna Piva, ex presidente del Magistrato alle Acque indagata nello scandalo Mose, ha da poco saputo di dover aggiungere all’imponibile alcune tangenti che il Tribunale ritiene abbia percepito.
Una sorta di “tassa sulle tangenti”, appunto, recapitata dalla commissione tributaria regionale alla Piva in contrasto con quanto stabilito, tre anni fa, dalla sentenza di primo grado della commissione provinciale.
Come riporta il Corriere Veneto, nel settembre del 2017 Giovanna Piva era uscita indenne dalla sentenza sul caso Mose, grazie ad alcune accuse cadute in prescrizione e ad altre per le quali è stata riconosciuta innocente.
“Nessuno mi restituirà questi tre anni di vita”, aveva gioito la Piva, senza immaginare che cinque mesi più tardi il Tribunale, nelle motivazioni della sentenza, avrebbe messo nero su bianco che la testimonianza di Giovanni Mazzacurati, ex presidente del Consorzio Venezia Nuova (il pool di imprese incaricato di realizzare il Mose), era stata credibile anche nella parte in cui accusava la Piva di aver preso tangenti.
Nonostante l’assoluzione, quindi, il fatto è agli atti del Tribunale. Un’occasione d’oro per la commissione tributaria, che non si è fatta sfuggire l’occasione per ribaltare il precedente verdetto del 2016, che riteneva “non provata la percezione da parte della ricorrente di elargizioni di denaro da parte del Consorzio”. Adesso invece, anche se non dichiarate per evidenti ragioni, le tangenti della Piva dovranno essere ritenute dei redditi. Con tutti gli oneri del caso.
Tutta la vita (ancora) davanti, ma con 25 euro per Amazon
Sono passati undici anni da Tutta la vita davanti, il film di Paolo Virzì che rivelò al Paese le condizioni, infime, di vita dei lavoratori di un call center. Oggi Sabrina Ferilli non canta più, adesso per motivare i dipendenti si regalano buoni Amazon da 50 e 25 euro. “Inizia il primo Amazon campaign day! Le premiazioni saranno eseguite a fasce orarie, in competizione Bologna, Torino e Brindisi quindi il gioco si fa duro, portiamo a casa il risultato mi raccomando!” Il testo del messaggio, girato in diverse chat di centralinisti di Koinè, ha lasciato piuttosto sorpresi i lavoratori: “Ma come cazzo stiamo messi! È uno scherzo?”
Il buono Amazon (detassato per l’azienda fino a un massimo di massimo di 258,23 euro) è solo l’ultima trovata motivazionale dell’azienda veneta dopo i biglietti per il cinema e la colazione offerta. In concomitanza con il lancio della campagna, sui muri del call center bolognese che impiega più di trecento persone, sono apparsi anche messaggi galvanizzanti come “se il cliente il deposito cauzionale non vuol pagare almeno un Iban ti dovrà dare”. Koinè tra i suoi clienti ha anche diverse municipalizzate, tra cui Hera a Bologna, per cui gestisce dalle bollettazioni ai cambi utenze. “Regalie” o al più “americanate” le definisce Gianluca Barletta, sindacalista Scl-Cgil: “È un’iniziativa recentissima presa dall’azienda, sono regalie che nella mentalità di qualcuno diventano premi. Ho già fatto presente che azioni simili possono irritare, in una dimensione lavorativa già di per sé molto stressante la colazione offerta o un buono da 25 euro non sono azioni che tutelano la dignità del lavoratore, è come mettere la polvere sotto il tappeto, un’americanata di cui non condivido né lo spirito né il modo, non è la strada giusta. Stiamo ridiscutendo l’accordo sul premio di produttività, come sindacato abbiamo chiesto che le erogazioni unilaterali aziendali vengano messe nel ‘montepremio’ collettivo di produttività: basta con i concorsi in cui vince uno, i soldi spesi per i buoni Amazon potrebbero essere redistribuiti a tutti i dipendenti”. Nel 2017 Koinè firmò con la Cgil l’accordo anti Jobs act, un unicum nel panorama nazionale: reintroduzione dell’articolo 18, assunzione a tempo indeterminato di un quarto dei precari, maggiorazioni per chi lavora il sabato pomeriggio, part-time agevolati per le mamme. E anche il divieto di usare in chiave disciplinare le registrazioni delle telefonate degli operatori.
La legittimità dei controlli a distanza fu introdotta dall’allora premier Matteo Renzi e sottoscritta invece da Almaviva uno dei più grandi gruppi che operava nel mondo dei call center prima della crisi e dei 1.666 licenziamenti. Nel caso di Koinè la precedente ipotesi di accordo integrativo sul tavolo a opera di Cisl e Uil avrebbe tolto ai centralinisti persino la possibilità di chiedere due permessi in caso di ritardo.
Il mondo dei servizi telefonici rimane ancora una giungla di diritti guadagnati a spinta e con fatica, utile forse anche per un secondo capitolo di Tutta la vita davanti.
La battaglia in nome di Katya, uccisa solo perché voleva legalità
Kateryna “Katya” Handzyuk, consigliera comunale e attivista anticorruzione, a novembre è morta in Ucraina dopo 96 giorni di agonia: aveva subito un’aggressione con l’acido, che l’ha prima sfigurata, lasciando ustioni tanto gravi da procurarle la morte. Il motivo per cui è stata aggredita, ritengono i suoi amici, è stata la sua attività di denuncia di casi di corruzione a Kherson, la sua città. Era anche impegnata nella campagna contro i separatisti filo-russi. Ha continuato sul letto dell’ospedale, come testimonia l’intervista alla tv ucraina Hromadske. “Chi ha ucciso Katya Handzyuk?”, il gruppo di cui l’amico Oleskyi è uno dei portavoce, si è costituito dopo l’aggressione, prima per raccogliere i fondi per pagarle le cure e il trasporto in strutture più adeguate, poi per organizzare dieci manifestazioni contro il governo, pretendendo delle indagini della polizia su esecutori e mandanti.
L’11 febbraio questa pressione ha smosso le acque: il procuratore generale ha annunciato che il presidente del consiglio regionale di Kherson, Vladyslav Manger, appartenente al partito di Julia Timoshenko, è indagato per l’omicidio dell’attivista. L’aggressione, si legge nella nota della Procura, sarebbe stata pagata “non meno di 4mila dollari”, cifra considerevole in Ucraina. La Hadzyuk, scrive su Facebook il procuratore, sarebbe diventata nemica di Manger svelando casi di “disboscamento illegale” nella regione. L’avvocato del politico ha respinto ogni accusa, sostenendo che l’assistito non conoscesse nemmeno la vittima.
Trentatré anni, Handzyuk era un volto noto nella politica locale dal 2006, quando è stata eletta con il partito Patria, di Julia Timohenko. Ha sostenuto la rivoluzione del 2014 e poi ha lasciato il partito nel 2015, per spendersi come volontaria a sostegno dell’attuale sindaco Volodymyr Mykolayenko. Dal 2016 era manager del Comitato esecutivo del consiglio comunale della città. Aveva acquistato sempre più popolarità grazie ai suoi messaggi sui social network.
“L’omicidio di Katya mi ha fatto rendere conto che in Ucraina, fuori dalla capitale, c’è una guerra nascosta contro gli attivisti fatta da imprenditori con business discutibili, politici corrotti e forze di polizia deviate”, spiega Oleskyi. Katya è l’ultima delle 56 vittime di aggressioni, in sei casi mortali, contate dagli attivisti di “Chi ha ucciso Katya Handzyuk?”. Questa segreta alleanza, sostiene Oleskyi, sarebbe uno degli assi portanti su cui poggia anche il suo consenso elettorale il governo di Poroshenko.
Oleskyi assicura che il gruppo non sostiene però nessun candidato alle elezioni. Nonostante questo, c’è un nome tra gli attivisti di “Chi ha ucciso Katya Hadzyuk?” che è molto ingombrante. È Nazar Kravchenko, ex vice presidente del Battaglione Azov, gruppo paramilitare d’ispirazione neonazista che si è convertito in partito politico e parteciperà alle elezioni. In Italia si è incontrato con militanti di Casa Pound. Foto dell’organizzazione neofascista in Donbass testimoniano che alcuni militanti hanno poi combattuto insieme al Battaglione Azov. “Non è più nel partito e non parteciperà alle elezioni”, sostiene Oleskyi, che difende la reputazione di Kravchenko come “veterano di guerra” che mai ha avuto a che fare con episodi di corruzione. Anche lui stava partecipando al tour europeo organizzato del gruppo ed è stato arrestato al suo rientro dalla Spagna il 10 febbraio. In contemporanea, riportano i gruppi di attivisti, altri 21 manifestanti sono finiti in manette.
Tra le vittime delle violenze del governo c’è anche l’Anti Corruption Action Center. La direttrice esecutiva Daria Kaleniuk racconta quando a luglio 2018 il suo capo, Vitaliy Shabunin, è stato aggredito con un antisettico urticante spruzzato in faccia durante un comizio. La manifestazione chiedeva le dimissioni del magistrato che segue il caso di peculato in cui è sotto processo Arsen Avakov, il ministro dell’Interno. “Si sono infiltrati al nostro evento paramilitari di un’organizzazione che fa parte della polizia ma è fedele ad Avakov – dice –. Quest’organizzazione è legata a uno degli alleati più vicini al ministro, Ilya Kiva. Abbiamo raccolto le prove di tutto questo, ma l’indagine giudiziaria è stata bloccata dal ministro”. Visto che l’Anti Corruption Action Center non si aspetta di trovare giustizia in patria, spera che nel resto d’Europa si inizi a indagare sull’origine della ricchezza del ministro.
Tutti i misteri di villa ucraina
Il 6 febbraio 2019, un gruppo di attivisti ucraini ha organizzato un flash mob in via delle Batterie, a San Felice Circeo (Latina). Al civico 19, infatti, c’è una delle residenze del ministro dell’Interno dell’Ucraina, Arsen Avakov. A Kiev il ministro, tra i più contestati del governo Poroshenko, è uno dei simboli della rivoluzione mancata dopo la caduta di Viktor Yanucovich, l’ex presidente costretto a lasciare il Paese nel 2014 in elicottero. Cinque anni dopo le promesse di cambiamento sono ancora disattese. La corruzione continua ad essere il tema in cima alla campagna elettorale in corso a Kiev, dove il 31 marzo si andrà al primo turno delle elezioni. “È un argomento molto sentito, anche se l’attuale al governo rispetto al passato è più sensibile. C’è molta aspettativa, visto che il tema è stato al centro della rivoluzione del 2004 e del 2014. Certo, cambiare il sistema è molto difficile e la popolazione fatica a vedere dei cambiamenti”, spiega Eleonora Tafuro, ricercatrice di Ispi. L’esito del voto è incerto.
Il tour per le ville dei politici ucraini in Europa
Gli attivisti davanti alla villa di Avakov hanno appeso le fotografie di 42 attivisti anticorruzione rimasti uccisi o feriti, senza che il governo abbia indicato i responsabili. Davanti all’ingresso hanno poi steso uno striscione: “Qui vive il capo corrotto del ministero degli Interni dell’Ucraina, che nega giustizia agli attivisti e ai giornalisti che sono stati uccisi o sono diventati vittime di attacchi e persecuzioni”. Le foto dell’evento sono finite sui social e nel giro di qualche ora gli attivisti hanno lasciato il Circeo. Avevano in programma altre tappe in Europa, dove altri parlamentari hanno i loro possedimenti (Francia e Spagna erano i primi Paesi sulla lista), ma sono stati costretti a rientrare a causa di alcuni imprevisti. Il tour era stato finanziato da una campagna di sottoscrizioni private e dalla vendita di t-shirt e gadget anche durante partite di calcio, anche con l’aiuto di ultras, tradizionalmente vicini agli ambienti di estrema destra.
“Un’alleanza improbabile, ma necessaria”
Gli organizzatori del flash mob appartengono a un gruppo che vive su Facebook, per timore di diventare un bersaglio per il governo nel caso in cui formalizzasse la sua esistenza. Si chiama “Chi ha ucciso Kateryna Handzyuk?”, in memoria dell’ultima attivista ad aver perso la vita a novembre, dopo tre mesi di agonia. Tiene insieme attivisti che provengono da estrazioni politiche molto diverse: dalla destra più estrema, a un moderato centrosinistra. “Siamo cittadini arrabbiati che in condizioni normali starebbero insieme – spiega Oleskyi (preferisce che non si scriva il suo cognome, ndr), uno dei portavoce del movimento – ma in questo momento dobbiamo occuparci prima di tutto di cambiare il sistema. Vogliamo che il destino di chi ha commesso questi crimini resti nell’agenda politica”. Oleskyi era molto amico di Kateryna Handzyuk e prima del suo omicidio non aveva mai partecipato alla vita pubblica. “La nostra azione non è un attacco personale contro Avakov, è che lui fa parte del sistema che combattiamo. Sappiamo che quelli come lui pensano di potersi godere i loro soldi in pace, lontano dall’Ucraina. Con queste azioni vogliamo dire loro che non sarà possibile. Vogliamo che i loro figli si vergognino di ciò che hanno fatto, tanto da desiderare di cambiare cognome. Li verremo a cercare ovunque, non importa dove scappino”.
Le vacanze romane di Arsen Avakov
La villa di Avkov a San Felice Circeo in Ucraina è di dominio pubblico da quando l’ha scovata una trasmissione d’inchiesta ucraina, Nashi Goshi. Già nel 2016 il deputato Serghii Leshenko (del Blocco Poroshenko) lo aveva accusato di avere attività economiche non dichiarate in Italia. Spesso Avakov, in particolare ai tempi di Yanucovich, si ritirava in Italia, dove suo figlio Oleksnder, come dichiarato dal ministro, aveva già attività almeno dal 2015. Per la legge Ucraina, però, il ministro avrebbe dovuto dichiarare introiti e proprietà all’estero. L’Anti Corruption Action Center (Antac), una Ong anticorruzione, partecipa ogni tanto ad azioni organizzate da “Chi ha ucciso Katya Handzyuk?”. L’Ong ha proseguito l’indagine su Avakov in Italia, scoprendo insieme alla trasmissione Nashi Goshi la villa di San Felice Circeo: un caseggiato di 488 metri quadri, 26 vani con piscina dalla rendita – secondo la visura catastale – di 6,7 milioni di euro. Non è chiaro a quanto l’acquista, ma è certo che la transazione avviene a febbraio 2017, in un modo insolito. L’acquirente è Ferdico srl, società con un capitale sociale di appena 30 mila euro. A dicembre dello stesso anno, Ferdico viene inglobata da Avitalia srl. “Sembra un tentativo di nascondere la proprietà di Avakov”, spiega Daria Kaleniuk, direttrice esecutiva di Antac. Ferdico, infatti, non è direttamente riconducibile a Avakov: è di proprietà di Amiryan Ashot, imprenditore azero di nascita e ucraino di passaporto ormai trapiantato in Italia. Avitalia srl però è al 100% controllata dal ministro, insieme a moglie e figlio. Amiryan Ashot è ritenuto da Antac l’uomo di fiducia di Avakov in Italia. Dirige Europomella Spa, azienda che esporta formaggi all’estero e che tra il 2004 e il 2005 ha avuto lo stesso Avakov come presidente del Cda. Proprietaria di Europomella, dal 2018, è una fiduciaria con sede a Cipro.
Quando in Ucraina è stato chiesto conto ad Avakov della casa, il ministro ha risposto: “Diventerà un mini hotel. È uno dei progetti turistici di mia moglie”. Ma in quelle che dovrebbero essere da visura camerale le sedi di Ferdico e Avitalia e negli indirizzi di residenza della famiglia Avkov a Frosinone, tutti in viale Mazzini, non c’è nulla. E sui muri delle case si vede che i civici sono cambiati con frequenza. A uno di questi, in un complesso di palazzi dall’aspetto popolare, si trova un citofono con il nome “Amyrian”. L’unica traccia delle persone dietro l’acquisto della villa.
È dal 2002, riporta Antac, che Avakov ha interessi commerciali in Italia, nella produzione casearia. Frequenta da allora il Lazio. Nel 2012 viene arrestato a Frosinone: all’epoca su di lui pendeva un mandato di cattura dell’Interpol per corruzione. Erano gli anni della ribalta di Julia Timoshenko, la donna della Rivoluzione arancione che sembrava dovesse cambiare il corso della storia a Kiev, abbattendo il corrotto Yanukovich. Avakov già all’epoca aveva avuto ruoli in politica. La richiesta di arresto fu considerata come un tentativo politico di fermare l’azione del ministro, così è stato rilasciato poco dopo (a firmare un’interrogazione parlamentare per chiederne il rilascio, Benedetto Della Vedova). Da ministro poi frequente in Italia soprattutto Angelino Alfano, negli anni che ha passato a capo del Viminale. I guai giudiziari in patria, però, non si fermano. Il ministro è ancora sotto processo per appropriazione indebita, così come il figlio, arrestato e immediatamente scarcerato nel 2017. Secondo Avakov, è una persecuzione politica. Per Antac, invece, non si è mai arrivati a sentenza per la pressione indebita del ministro. “L’autorità italiana – afferma Daria Kaleniuk – dovrebbe indagare sull’origine dei soldi che il ministro ucraino ha portato nel vostro Paese”.
* Investigative reporting project Italy
La diocesi di Brooklyn pubblica i nomi di 108 preti accusati di abusi
Una lista con 108 nomi di sacerdoti sospettati di aver abusato di ragazzini. È il clamoroso atto d’accuso reso pubblico ieri dalla diocesi di Brooklyn, una delle più popolose degli Stati Uniti con una popolazione di circa 1,5 milioni di cattolici. L’annuncio, accompagnato da una lettera del vescovo di Brooklyn Nicholas DiMarzio, è l’ultimo in una lunga serie di rivelazioni che hanno evidenziato la vastità del problema pedofilia per la chiesa cattolica americana. Nei giorni scorsi le cinque diocesi del New Jersey hanno pubblicato i nomi di 180 preti credibilmente accusati di pedofilia. E 14 diocesi del Texas hanno diffuso i nomi di 286 sacerdoti sotto accusa, la maggior parte già deceduti. L’annuncio fatto ieri a New York riguarda decenni di abusi che sarebbero stati commessi da preti nelle principali parrocchie della diocesi, ma anche in alcune delle scuole religiose dell’area che comprende Brooklyn e il Queens. “Noi sappiamo che questa lista provocherà grande emozione per le vittime che hanno sofferto in modo terribile, e per questa sofferenza chiedo profondamente scusa”, ha scritto il monsignor Nicholas DiMarzio, vescovo Brooklyn.
La spiritualità si fa mercato. Così sopravvive la Chiesa
Sempiterna e indistruttibile, Santa Romana chiesa sopravvive a tutto. Alle crisi di vocazioni e agli scandali sessuali, all’anoressia del popolo credente e all’anacronismo del celibato, alla crisi economica e alla Secolarizzazione. Perché? Senza velleità sociologiche, ma con buon senso, Salcher Werner da Ortisei, produttore di presepi, spiega: “Per fortuna la gente al sacro ci crede ancora. Magari a messa non ci va, ma la fede non tramonta. E sa il segreto? Basta che succeda qualcosa in famiglia e tutti corrono a pregare…”. Tutt’attorno allo stand, nell’esposizione fieristica Koinè a Vicenza, è un tripudio di crocifissi e madonne, Gesù sanguinanti, santi e papi benedicenti, calici dorati e paramenti di ogni foggia e colore. Un bazar gigantesco, la spiritualità fatta mercato, il trascendente che si oggettivizza, si materializza, diventa bene di consumo. Il riflesso commerciale dell’assoluto, banalizzazione dell’ultraterreno, esorcismo di massa, ma anche manifestazione di buoni sentimenti e sani pensieri, comunque una realtà con cui siamo a contatto tutti i giorni.
Nel trentennale della sua attività, l’appuntamento espositivo per oggetti liturgici, edilizia del culto e turismo religioso, si trova al crocevia di una doppia crisi, religiosa ed economica. Qualcuno lo ammette: “Nel passato c’erano molti più espositori. La crisi dura da 15 anni”. Il problema dell’incidenza della scristianizzazione sull’industria del sacro è reale, anche se non può non colpire il formidabile apparato che la religione è riuscita a creare. Protagonisti, non solo gli italiani, ma anche i polacchi, una vera potenza. Ce n’è per ogni esigenza. Nei santuari le candele puzzano? Basta rivolgersi a un brevetto irlandese, la candela che non fa fumo. Le campane causano scosse ai campanili e rischiano, in caso di terremoto, di farli collassare? Ci pensa una ditta padovana con un sistema meccanico che ammortizza pesi fino a 15 tonnellate. Un parroco è stanco dei soliti paramenti? Ci pensa padre Marek Wocik, polacco con la passione per l’arte moderna e il suo design non convenzionale.
E poi ci sono i prodotti commerciali. Un sacchetto con 500 particole (fatte solo di farina e acqua) costa al grossista 1 euro e 90 centesimi. Beniamino Gatto, trevigiano che vive in Australia, ha le idee chiare: “Le ostie le compravamo dalle suore, a Milano. Ma costavano troppo, adesso andiamo in Polonia”. Un nigeriano si è portato a casa un tabernacolo monumentale in ottone e rame, placcato d’oro, da 10 mila euro. Un calice costa 600 euro, un porta ostie 115, una patena 270 euro. Una statua grande di Sant’Antonio o della Madonna, in tiglio dipinto a mano, della Val Gardena, si paga anche 4 mila euro, ma per un santo da altare in vetroresina bastano 800 euro. Ma bisogna distinguere tra madonne di Lourdes (con rosario), Fatima (con pendaglio), Medjugorje o Ausiliatrice (con il bimbo Gesù in braccio).
Il capitolo degli abiti talari è sconfinato. Una casula può costare anche 200-300 euro (prezzo da grossista, il ricarico arriva a raddoppiare la spesa). Il made in China qui non è ancora arrivato e, anche se di meno, “i prelati acquistano capi più belli e in fibre naturali”, dice Elisabetta Bianchetti, titolare di una storica ditta. Per Enrico Orsini, grossista di Ascoli Piceno, “c’è un ritorno alla tonaca con 33 bottoni da parte dei giovani preti”. Poi c’è il turismo religioso: nel mondo più di 300 milioni di persone (il 27 per cento dei viaggiatori) nel 2017 ha visitato un santuario o un luogo di culto. Con i suoi 1.600 santuari e 30 mila chiese, l’Italia muove un volume d’affari enorme. La novità sono le vie dei pellegrini, che ripercorre le strade dei romei. “Per fortuna si muovono in gruppi organizzati”, sottolineano alla Rusconi di Lecco. “Le mete principali? Roma, Assisi e Padova”. Fede o consumismo? “Non fermiamoci agli oggetti – risponde con severità il segretario generale della Cei, monsignor Stefano Russo – dobbiamo andare più in profondità, come testimoni di Cristo. Solo così potremo affrontare la crisi religiosa”. Quella economica si percepisce allo stand della Lauretana di Forlì, produttrice di rosari. “Con i tempi che corrono, la gente prega ancora, ma il rosario lo vendiamo soprattutto in Sudamerica e Africa”. In Italia? “Ci salva Roma, perché è ormai diventato un souvenir”.
Pedofilia, il Papa caccia il cardinale McCarrick
Colpevole di pedofilia, finisce spretato colui che fu il cardinale più potente d’America, Theodore Edgar McCarrick. Il Congresso della Congregazione per la Dottrina della Fede ha reso pubblico l’esito del processo penale all’arcivescovo emerito di Washington. E Papa Francesco certifica “la natura definitiva”, senza possibilità di appello, della decisione di ridurre il prelato allo stato laicale: da cardinale a spretato, un percorso senza precedenti nella storia moderna della Chiesa cattolica.
La notizia chiude una vicenda ecclesiale e giudiziaria durata anni. E arriva – non a caso – alla vigilia dell’incontro in Vaticano dei presidenti delle Conferenze episcopali di tutto il mondo, voluto dal Papa per discutere della protezione dei minori nella Chiesa. È anche una risposta alle polemiche sull’inefficacia dell’azione di Francesco in merito: tante parole, pochi atti. La Sala Stampa vaticana dettaglia i reati di McCarrick: sollecitazione in confessione – ci sono testimonianze di sesso con minori in un confessionale – e atti impuri con minori e adulti, con l’aggravante dell’abuso di potere.
Quello di McCarrick, 89 anni, è uno dei casi più gravi di abusi e pedofilia. Ordinato prete nel 1958 dal cardinale Francis Spellman, in odore di papato in due conclavi, vescovo ausiliario di New York, poi vescovo di Metuchen nel New Jersey e arcivescovo di Newark, diplomatico e consulente vaticano, McCarrick fu arcivescovo di Washington dal 2001 al 2006, a stretto contatto con presidenti e potenti d’America, negli anni in cui la Chiesa Usa viveva il trauma dei casi di pedofilia a Boston svelati dall’inchiesta del Boston Globe e divenuti poi un film da Oscar, Spotlight.
Fatto cardinale da Giovanni Paolo II, McCarrick, ormai in pensione, finì sotto accusa per rapporti omosessuali con seminaristi e per abusi su minori: fatti risalenti agli anni 70, quand’era sacerdote a New York. Nell’estate scorsa, il prelato, ritiratosi in un monastero del Kansas, presentò al Papa le dimissioni da cardinale: Francesco ne dispose la sospensione dall’esercizio di qualsiasi ministero pubblico. Non avveniva dai tempi di Pio XI che un Papa togliesse la berretta rossa a un cardinale. Nel 1927 toccò a Louis Billot, reo di aver aderito a un articolo dell’Action française critico verso la Chiesa. Negli Usa, la catena degli scandali ecclesiali è senza fine. A succedere a McCarrick a Washington fu il cardinale Donald Wuerl, 53 anni, rimasto alla guida dell’arcidiocesi fino al 2018, ma poi coinvolto nelle indagini su abusi e pedofilia in Pennsylvania: Wuerl, vescovo di Pittsburgh dal 1998 al 2006, avrebbe coperto in quel periodo numerosi preti predatori. Sotto la spinta del cardinale di Boston, Sean O’Malley, un francescano, chiamato a fare pulizia dopo la rimozione di Bernard Law, morto a Roma nel 2017, ancora titolare di Santa Maria degli Angeli, la Chiesa Usa ha adottato una linea di ‘tolleranza zero’.
“Grossolane bugie”: Toninelli contro la stampa pro-Tav
“Grossolana patacca”, “falso clamoroso”, “grave inquinamento del dibattito”, “pacco in piena regola”. Così una nota del ministero delle Infrastrutture attacca le cifre, pubblicate da alcuni quotidiani, che ribalterebbero i risultati dell’analisti costi-benefici sulla Tav Torino-Lione fatta dalla commissione Ponti. Quei numeri sarebbero un’altra “fake news che meriterebbe l’attenzione dell’ordine dei Giornalisti”. Nel mirino c’è una “scheda” che sarebbe frutto di un’elaborazione economica fatta sulla scorta della contro-analisi consegnata dal professore dissidente Pierluigi Coppola al Ministero delle Infrastrutture comunicando il suo dissenso e nel rifiutarsi di partecipare all’analisi. Il dicastero guidato da Danilo Toninelli bolla come “falsi” i dati relativi ai benefici economici e ai costi che la realizzazione o la non realizzazione della Torino-Lione comporterebbe. “Nei giorni scorsi – tuonano da Porta Pia – la grande stampa pro-Tav ha sparacchiato numeri a casaccio, dai 3-400 milioni fino addirittura a 2,4 miliardi di presunti benefici del progetto, collegandoli, in alcuni casi, all’appunto inviato dal professor Pierluigi Coppola a chiosa della analisi costi benefici” redatta dalla commissione Ponti.
I numeri: la Commissione Ponti
Costi che superano i benefici per circa 7-8 miliardi di euro sia nello scenario più ottimistico sia in quello considerato realistico, un saldo non poco inferiore nel caso si realizzasse solo la cosiddetta “mini-Tav” e il rischio di dover pagare fino a 1,7 miliardi tra penali e rimborsi nel caso di scioglimento del progetto. Sono alcune delle indicazioni che emergono dall’Analisi costi-benefici sulla Tav Torino-Lione. Due gli scenari considerati. Nel primo, che parte dalle valutazione costi-benefici dell’Osservatorio Torino-Lione del 2011, il valore attuale netto economico (Vane), ossia la differenza tra costi sostenuti e benefici conseguiti, risulta negativo per 7.805. Nel secondo scenario, quello definito “realistico” il Vane risulta pari a -6.995 milioni. Nelle conclusioni, poi, si spiega che, a fronte di effetti complessivi del progetto pari a 885 milioni (l’effetto negativo dei flussi merci per 463 milioni viene compensato dal beneficio positivo di 1,3 miliardi per i passeggeri) e costi attualizzati di investimento “a finire” e gestione per 7,9 miliardi, il Vane risulta pari a 7 miliardi: tolti anche i costi di ripristino delle opere realizzate finora e quelli della messa in sicurezza, rimane un saldo di -5,7 mld.