Tav, c’è il via libera alle gare d’appalto (anche dall’Italia)

Martedì 19 sarà il momento della verità sul Tav Torino-Lione. Si riunirà il consiglio d’amministrazione di Telt, la società italo-francese che si prefigge di costruire il tunnel di base tra Italia e Francia. All’ordine del giorno, il lancio dei due bandi di gara per la realizzazione dell’intero tratto francese del traforo, i tre quarti dell’opera, 45 dei 57,5 chilometri totali. Valore: 2,3 miliardi di euro.

Sarebbe la vera partenza del Tav, di cui finora sono stati realizzati solo progetti, scavi preparatori e tunnel geognostici. Sarebbe anche un passo dopo il quale sarebbe difficile tornare indietro, fermando i lavori.

Lo sanno anche al ministero delle Infrastrutture di Danilo Toninelli che, dopo la pubblicazione dell’analisi costi-benefici (pesantemente negativa per la Torino-Lione), tra lo stop e il via libera all’opera sembra ora orientato a imboccare una terza via: lasciare che i bandi vengano pubblicati, per prendere tempo in attesa di una soluzione politica che metta d’accordo la componente leghista del governo italiano (favorevole al Tav) e quella cinquestelle (contraria).

Dentro il Movimento 5 Stelle c’è però chi giudica ambiguo l’atteggiamento del ministro Toninelli, che lasciando partire le gare d’appalto si mette di fatto nella condizione di non poter più fermare l’opera.

La società Telt, interpellata dal Fatto Quotidiano, conferma che il cda di martedì è la normale conseguenza della lettera firmata il 3 dicembre 2018 dai due ministri interessati, l’italiano Toninelli e la francese Elisabeth Borne, e indirizzata al direttore generale di Telt sas (Tunnel Euralpin Lyon-Turin), Mario Virano.

Tradotta dal francese, dice così: “A richiesta dell’Italia, desideriamo domandare a Telt, per suo tramite, in seguito alla decisione annunciata dal governo italiano di realizzare una valutazione aggiornata e dettagliata del progetto della quale la Francia ha preso atto, che la pubblicazione delle gare d’appalto non abbia luogo prima della fine dell’anno 2018, rimanendo inteso che queste gare d’appalto si riferiscono all’attribuzione e alla realizzazione dei primi lotti del tunnel di base. Una tale decisione è necessaria al fine di evitare, conformemente alla richiesta dell’Italia, ogni confusione sull’interpretazione del lancio di queste gare d’appalto, in relazione allo svolgimento in corso della sopraddetta valutazione. È convenuto che la situazione sarà rivista alla luce dei risultati di questo studio e alle conclusioni che ne saranno tratte. Il governo italiano farà di tutto per pubblicare lo studio il più presto possibile”.

Ora la “sopraddetta valutazione”, cioè l’analisi costi-benefici, è stata finalmente pubblicata, non senza ritardi. E la fine del 2018 è arrivata. Telt si sente dunque autorizzata a procedere con la pubblicazione delle gare. Anche perché, nella lettera del 3 dicembre, i due ministri concludevano così: “I nostri governi confermano parimenti con la presente l’interesse a beneficiare dei finanziamenti europei per la realizzazione del progetto (…). Per questi motivi, informeremo la Commissione Europea del rinvio della data di pubblicazione delle gare d’appalto e considereremo, se necessario, la definizione di un nuovo calendario che permetta il mantenimento dei finanziamenti europei previsti, in conformità agli accordi internazionali che esistono tra le parti”.

Quello che viene sottoscritto anche da Toninelli nella lettera del 3 dicembre, dunque, è soltanto un rinvio, con l’impegno comunque “a beneficiare dei finanziamenti europei per la realizzazione del progetto”, quindi di fatto a realizzare l’opera. Alla faccia dell’analisi costi-benefici.

Al ministero delle Infrastrutture fanno presente che, comunque, bandire le gare non significa poi, dopo i 12-18 mesi della procedura, essere costretti ad assegnare obbligatoriamente i lavori: lo garantisce l’articolo 98 del decreto 2016/360 sul codice francese degli appalti pubblici, a cui Telt, società di diritto francese, si deve adeguare.

Peccato però che questo articolo sia stato abrogato ¬ guarda i casi del destino – proprio il 3 dicembre 2018, giorno della lettera dei due ministri a Telt.

È stato cancellato proprio quel giorno dall’articolo 14 del decreto 2018/1075. Dato il via alla gara, dunque, non sarà più possibile fermare l’opera. Possibile che al ministero delle Infrastrutture non sappiano il francese e non siano a conoscenza di questo piccolo particolare?

Martedì a decidere sarà il consiglio d’amministrazione di Telt, formato da cinque italiani e cinque francesi, più due osservatori delle regioni interessate, al di qua e al di là delle Alpi (Piemonte e Auvergne-Rhône-Alpes) e un inviato della Commissione europea senza diritto di voto.

I cinque francesi sono scelti dal governo di Parigi, quelli italiani dal governo italiano. Sono Paolo Emilio Signorini, (capo dipartimento del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti), Oliviero Baccelli (professore dell’Università Bocconi), Stefano Scalera (del ministero dell’Economia e delle finanze), oltre al direttore generale Mario Virano e a Roberto Mannozzi, espresso da Fs, di cui è direttore centrale amministrazione, bilancio e fiscale.

Sono nomi espressi nel 2015 dal governo di Matteo Renzi, quando ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti era Graziano Delrio. Come deciderà il cda martedì prossimo? Darà il via ufficiale al Tav Torino-Lione, con il tacito consenso del ministro Toninelli e in barba sia all’analisi costi-benefici, sia al dibattito politico sull’opera che si sostiene (ipocritamente?) essere ancora in corso?

Ex Moi, la centrale dei “passeur” verso il Nord Europa

Passavano da Torino i traffici dei migranti diretti nel Nord Europa. Decine di clandestini costretti a pagare migliaia di euro per viaggi della speranza. A organizzarli era un sodalizio criminale internazionale, smantellato dalla polizia dopo oltre tre anni di indagini. Nella rete della Squadra mobile sono finite undici persone, la maggior parte di origine somala, altre cinque sono ancora ricercate. L’ex Moi, il villaggio olimpico occupato nel 2015 da profughi e famiglie di migranti, era la loro base operativa. Da lì partivano i passeur per raggiungere Francia, Austria, Germania, Belgio e Paesi scandinavi.

È stata una segnalazione della polizia francese, che aveva intercettato un passeur partito dalle palazzine di via Giordano Bruno, a far scattare l’operazione “Mogadiscio”, come è stata battezzata dalla Squadra mobile di Torino coordinata dal dirigente Marco Martino. In tutto sono 25 le persone indagate a vario titolo per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, contraffazione di documenti d’identità. Ai migranti l’organizzazione, infatti, forniva passaporti e carte d’identità false o contraffatte, che poi si faceva restituire per riutilizzarle.

“Li hanno resi fantasmi e quello è il loro rifugio”

“Ecco, siamo di nuovo qui a parlare di una morte assurda in quell’inferno che è la baraccopoli di San Ferdinando. Una tragedia alla quale ci siamo un po’ abituati, un semplice fatto di cronaca. Come gli incidenti del sabato sera, con la stessa tremenda assuefazione”. Fabio Ciconte è direttore della onlus “Terra”, l’associazione che da anni si batte per una agricoltura pulita e libera da caporalato e sfruttamento.

San Ferdinando, Rosarno e le sue baraccopoli, di cosa ci parlano?

Dell’esistenza di un esercito di invisibili che abitano le periferie di questo paese. Quelle urbane e quelle create dal sistema economico e produttivo. Arrivano a San Ferdinando per la raccolta delle arance e delle clementine, poi si sposteranno in Puglia, in Piemonte, in Trentino. Dovunque servono braccia a costi bassissimi. Ma la sensazione che ho è che il fenomeno stia cambiando. Prima si andava nelle baraccopoli perché si rincorreva una forte offerta di lavoro, ora si va a vivere tra lamiere e cartoni perché non si sa dove andare. In quei tuguri trovi chi si offre sul mercato del lavoro agricolo, e chi è lì solo per un tetto.

La parola d’ordine del ministro Salvini è sgomberare.

La mia e quella di tante associazioni che si occupano di immigrati, della chiesa e dei sindacati, è risolvere il problema partendo dalla dignità di queste persone. Si sono chiusi i porti, distrutto il sistema di accoglienza, soprattutto quello diffuso sul territorio dove si lavorava per l’integrazione, senza porsi il problema della fine che faranno queste persone. Dove andranno, come vivranno, in che modo le strappiamo da una clandestinità che favorisce solo le mafie? Salvini fa finta che il problema non esista e sta creando le basi per aumentare l’insicurezza. Se togli il permesso umanitario, distruggi gli Sprar, aumenti l’invisibilità. Migliaia di persone che si spostano e che vanno dove c’è un salario, anche minimo. Salvini sta gestendo una trattativa con i pastori sardi sul prezzo del latte, e nel contempo con le sue politiche sull’immigrazione tende la mano agli agricoltori che utilizzano caporali e stranieri sottopagati, glieli porta quasi sotto casa.

Caporalato, sfruttamento, da Nord a Sud l’agricoltura italiana sembra reggersi su questi due pilastri.

Il modello agricolo funziona così, aumentare la produttività in un mercato che ti paga poco. Galleggi abbassando il costo del lavoro o aumentando l’uso della chimica. Un quarto dei lavoratori in agricoltura è fatto da stranieri. Senza di loro l’agricoltura crollerebbe. In Calabria l’esasperazione del meccanismo sta portando alla fine di questa parabola, in un futuro prossimo le arance non saranno più raccolte perché è un settore che non funziona più. In un dossier che pubblicammo quattro anni fa, facemmo emergere un dato: l’80% delle arance che servono per i succhi di frutta prodotti in Italia arrivano dal Brasile. Una agricoltura che non riesce ad organizzarsi, a controllare intere filiere, che non è protagonista, cerca di sopravvivere abbassando il costo del lavoro. Ma diciamo pure che alla base c’è anche una certa complicità sociale, e una assuefazione culturale all’idea che gli stranieri debbano vivere in queste condizioni. Nel 2019 hai ancora dei ghetti dove vivono migliaia di persone. Non risolvi sgomberando ma creando situazioni abitative e di accoglienza diverse. Bisogna chiedere a Salvini, che pure da senatore è eletto a Rosarno, perché non mette a disposizione le migliaia di case disabitate in quella zona e le decine di stabili in disuso in quell’area per creare situazioni abitative decenti.

Inferno a San Ferdinando. Il terzo morto in un anno

C’è chi prega attorno a quel che resta della vecchia roulotte dove dormiva Moussa Ba, il senegalese di 28 anni morto ieri notte in un incendio nella baraccopoli di San Ferdinando, in provincia di Reggio Calabria. C’è chi cerca disperatamente qualcosa tra le macerie: una foto, un paio di pantaloni, un caricabatteria del cellulare. C’è chi è stanco di scegliere tra il morire di freddo o carbonizzato come è successo a Ba che, da tutti, nella tendopoli si faceva chiamare “Aldo”.

Forse un braciere improvvisato, forse una piccola bombola a gas scoppiata. Le indagini della polizia e gli accertamenti dei vigili del fuoco verificheranno la causa dell’incendio che ha distrutto una quindicina di baracche costruite con il cartone e la plastica. L’origine delle fiamme, però, non farà ritornare in vita Moussa Ba, in Italia dal 2015 e titolare di un permesso di soggiorno per protezione umanitaria concesso dalla commissione territoriale di Trapani. Un permesso scaduto l’anno scorso, il giovane senegalese non aveva prodotto la documentazione per il rinnovo. Su delega della Squadra mobile di Pisa, alcuni mesi prima era stato arrestato per piccoli episodi di spaccio e, 15 giorni dopo, scarcerato dal giudice.

Arrivato a San Ferdinando viveva nel vecchio camper e per questo dagli altri migranti era visto quasi come un privilegiato. Raccoglieva arance per meno di 20 euro al giorno. Dormiva nel ghetto diventato il simbolo delle istituzioni che, dalla famosa rivolta di Rosarno nel 2010, non riescono a trovare un’alternativa all’inferno della baraccopoli.

Di Ba sono rimaste solo le ossa annerite così come quelle della nigeriana Becky Moses e del gambiano Jaiteh Suruwa, morto lo scorso dicembre. Se a questi si aggiungono i due maliani Saoumaila Sacko, ammazzato a San Calogero mentre stava prendendo alcune lamiere da una fabbrica abbandonata, e Sekinè Traorè, ucciso dal colpo di pistola sparato da un carabiniere intervenuto per sedare una rissa, sono cinque i migranti che, in meno di 2 anni, hanno perso la vita nel ghetto di San Ferdinando.

Vittime dell’indifferenza o dell’incapacità di chi dovrebbe trovare una soluzione e non lo fa, sapendo che lì, durante la stagione della raccolta delle arance vivono qui anche 2 mila persone senza acqua né luce. “A nessuno piace vivere qui. Questa non è vita”. Davanti alle baracche incendiate, un lavoratore stagionali si sfoga: “L’Italia deve fare qualcosa. Siamo tuti uguali. Se tagli il mio braccio nero esce sangue rosso. Non siamo animali, siamo persone come gli italiani”. Jacob era uno di loro. Adesso lavora con la Cgil e cerca di aiutare gli altri migranti: “Ci hanno fatto tante promesse. Non ci sono problemi ad andare via. Ma prima devono dirci dove”. Per i sindacati si tratta di una “tragedia annunciata”. Non ha dubbi Celeste Logiacco della Flai-Cgil secondo cui “è una situazione che non è più accettabile”.

Il tweet di Salvini è arrivato puntuale: “Sgombereremo la baraccopoli di San Ferdinando. L’avevamo promesso e lo faremo. Per gli extracomunitari con protezione internazionale, avevamo messo a disposizione 133 posti nei progetti Sprar. Hanno aderito solo in otto (otto!), tutti del Mali. E anche gli altri immigrati, che pure potevano accedere ai Cara o ai Cas, hanno preferito rimanere nella baraccopoli. Basta abusi e illegalità”. Ma senza sapere dove andranno tutti i migranti (nelle prossime ore saranno “ricollocate” 40 persone), restano parole al vento. Ha ragione Salvini sul fatto che l’aveva promesso. Almeno altre quattro volte nell’ultimo anno. La prima è stata pochi giorni dopo le politiche di marzo quando, a Rosarno, ha dichiarato: “In un Paese civile non può esistere una baraccopoli come quella”. Il 2 giugno se l’è riappuntato tra i suoi impegni: “I ghetti portano inevitabilmente allo scontro sociale. Con calma porteremo la legalità in Calabria”. Due mesi più tardi, il 10 luglio, dopo aver visitato la tendopoli non ha resistito a un’altra frase a effetto: “Il mio obiettivo è arrivare alla fine del mandato senza vergogne di questo tipo”. Il refrain si ripete il 7 agosto: “Svuoteremo progressivamente i ghetti”.

L’altra strada del fu Renzi, signore dei like e del 41%

Abbiamo preso sul serio il nuovo libro di Matteo Renzi, Un’altra strada (Marsilio). Rispetto al precedente Avanti (il memoir romantico di un eroe sconfitto che voleva sottrarsi alla Nazione e che la Nazione ha voluto sottrarre all’eremitaggio), è un’opera di Max Weber. La cultura “umanista” dei bei tempi diventa correttamente “umanistica” e le citazioni di Borges sono di Borges e non di Google. Abbiamo verificato se, come da premessa, “questo libro non serve a rivendicare il passato né a rimpiangere il presente che avremmo potuto vivere”. Purtroppo, no: per 235 pagine Renzi rivendica i successi di un imprecisato “noi” (i fiorentini geniali); frigna sul “fuoco amico”; si prodiga in teorie orecchiate dai libri di Harari; si auto-incorona argine ai populisti; allude a complotti; si lascia andare ai tic ricorrenti (il 40,8%, ormai diventato 41); vagheggia di intestarsi un nuovo Rinascimento. Non si sa a chi parli, a quale “base”: forse, temiamo, ai renziani sparsi nel mondo. Ecco uno zibaldone di pensieri scelti.

 

La narrazione di osservatori e analisti, che poco o nulla sanno di me, delle mie emozioni, dei miei sentimenti, vorrebbe confinarmi nell’angolo del rancore.

Ma no, ma quando mai. Noi, per dire, pensiamo che Renzi sia un leader sereno, pacificato, proiettato nel futuro e tutto fuorché rancoroso.

 

Mi auguro che i prossimi leader del Pd riescano a fare meglio di quel 41% che, forse non a caso, è la stessa percentuale ottenuta al referendum costituzionale.

Vedi sopra.

 

La credibilità non dipende da quanti like prendi, ma dalla tua abilità nello svolgere un ruolo.

“Ho solo lavorato su Twitter, dove ancora sono primo” (Renzi a Corriere, 14/2/2019). “Ho decuplicato i ‘mi piace’ su Facebook” (Renzi, febbraio 2017).

 

Se e quando questa classe dirigente improvvisata e impreparata accetterà di andare a casa… dovremo mostrarci preparati a presentare i nostri progetti… perché davvero possano essere gettate le basi per quello che considero un potenziale secondo Rinascimento… Dobbiamo recuperare lo spirito della bottega.

Come no: al posto di Leonardo Michelangelo Pico della Mirandola Raffaello, Boschi Lotti Bonifazi Romano e Gozi.

 

‘Voglio i politici come me’ ha preso il posto di quel rispetto che si doveva alla classe dirigente.

“Il Nuovo Ulivo fa sbadigliare, è ora di rottamare i nostri dirigenti. Mandiamoli tutti a casa questi leader tristi del Pd” (Renzi a Repubblica, 29/8/2010).

 

Eravamo contro Berlusconi, ma a favore di cosa eravamo, di preciso?

Di Berlusconi.

 

E questa sinistra mi ha fatto la guerra dopo il fantastico risultato del 41% alle europee.

“Questo rimuginare diviene, tuttavia, esemplare per ogni ulteriore lavoro mentale volto a risolvere dei problemi, e tale primo insuccesso ha un effetto paralizzante su tutti i tempi avvenire” (Sigmund Freud, Opere complete).

 

La vittoria di Trump era giudicata pressoché irrealizzabile. Ciò che sembrava impossibile è diventato realtà nel difficile autunno del 2016.

O più precisamente quando Renzi disse: “Da cittadino e da segretario del Pd, nel rispetto della grande democrazia Usa, dico che faccio il tifo per Hillary Clinton” (nel libro ribattezzata “Hilary”).

 

Io non mi sarei mai permesso di portare la legge di bilancio in votazione senza averne prima concordato almeno gli aspetti salienti con la mia maggioranza.

Renzi si permise altro: rimosse dalla Commissione Affari Costituzionali della Camera tutti i 10 esponenti della minoranza Pd che proponevano emendamenti all’Italicum.

 

Il cittadino, specialmente al Sud, che anela al sussidio attenderà… di sapere per chi votare, come quando.

Originale visione del meridionale parassita e furbastro che si vende il voto per 780 euro (cosa che naturalmente non faceva per il Rei e gli 80 euro): è a questi cittadini che Renzi chiederà di tornare a votarlo?

 

La sinistra tradizionale non ha mai visto il 41%, neanche in cartolina.

Forse era tutta una strategia: portare il Pd al 18%, farsi un partito proprio, prendere il 42%. O no?

 

Chi propone di annullarla (la Tav, ndr) non lo fa su base scientifica, ma ideologica: non è una commissione di esperti, ma un meetup di attivisti.

“La Tav? Non è un’opera dannosa, ma inutile. Soldi impiegati male. Rischia di essere un investimento fuori scala e fuori tempo” (Renzi, Oltre la rottamazione, 2013).

 

Questo governo ha invece scelto i condoni… Con i condoni vincono i furbi e perdono gli onesti… Sei credibile se combatti l’evasione, non se fai condoni.

Infatti, nel 2016 il governo Renzi varò un doppio condono: rottamazione delle cartelle Equitalia e sanatoria dei capitali esteri sommersi detta voluntary disclosure.

 

Probabilmente uno degli errori più clamorosi che mi si possano imputare è proprio questo: ho sottovalutato la portata del fenomeno fake news.

Nel senso che se ne avesse compreso appieno il potenziale ne avrebbe prodotte di più.

 

A me non interessa il controllo della ditta, io preferisco cambiare l’Italia.

Posto che ha già perso entrambe, che ci vuole? Basta vincere le elezioni, avere i numeri per fare un governo e magari, perché no?, proporre un referendum costituzionale.

 

Il 41% delle europee è stato un risultato poco studiato.

In effetti ci è parso di sentir parlare di questo 41%, ma di sfuggita.

 

Salvini passa, Virgilio resta.

Frase che soppianta tutte le precedenti epocali insensate massime renziane, e è tutto dire.

 

Foto di cibo postate a ogni piè sospinto, fette di pane e nutella, polenta e pizzoccherri della Valtellina… Hanno trasformato Salvini in un influencer… posta anche la marca dei prodotti che mangia. Salvini che diffonde le foto delle sue cene è un aspirante webstar, è una Chiara Ferragni che non ce l’ha fatta.

“Torno a casa dopo aver registrato Porta a Porta e trovo la tavola apparecchiata così dai miei. Che bello: la vita è più grande della politica!” (Foto di crostata, Instagram di Matteo Renzi 11/1/2018). “Un caffè macchiato nel bicchiere e una cioccolata di qualità… Sotto un sole meraviglioso” (Instagram 8/11/2017). “Sorella (e mamma) preparano due torte per recuperare dopo tre giorni di duro scoutismo” (Instagram, 25/4/ 2017). 29/8/2014, cortile di palazzo Chigi: Renzi mangia un gelato dal carretto di Grom. “Matteo Renzi inaugura il nuovo punto Eataly a Firenze insieme a Farinetti” (Ansa, 17/12/2013). “Pd: pranzo al sacco per segreteria, panini da Eataly” (Ansa, 4/1/2014). “E alla fine dopo una due giorni tra parenti e amici, la famiglia si ritrova davanti alla sfida decisiva: i Renzi e la Nutella” (Foto di tre barattoli di Nutella coi nomi dei figli, Instagram 26/12/2017).

 

Tutto sommato, Matteo Renzi è un Matteo Salvini che non ce l’ha fatta.

Renzi vs Gentiloni: “L’autonomia così io non l’avrei fatta”

L’autonomia differenziata per le regioni Emilia Romagna, Lombardia e Veneto fa litigare tutti. Si discute con una certa durezza all’interno del governo, tra 5 Stelle e Lega, all’interno del centrodestra (con Berlusconi che prevede su questo la caduta del governo) e si litiga anche nel Pd, che potrebbe per una volta starsene a guardare. I piedi nel piatto, come spesso gli capita, li ha messi Matteo Renzi, che continua nel suo tour per vendere il nuovo libro Un’altra strada: “Non ho mai apprezzato quel disegno sull’autonomia – ha detto ieri mattina vicino Bologna – e di conseguenza rispetto il percorso che stanno facendo, ma è un percorso che non ho fatto e non avrei fatto. È un tema che si pone non da oggi, è una discussione aperta col governo Gentiloni, non col governo Renzi…”. Un’accusa in piena regola a Gentiloni e al governatore emiliano del Pd Stefano Bonaccini (che ha chiesto più poteri per la sua regione), a cui ha replicato Gianclaudio Bressa, l’ex sottosegretario che il 28 febbraio 2018 pose la sua firma sotto le pre-intese con le Regioni: “L’intera trattativa è cominciata il 16 maggio del 2016 con una lettera dell’allora ministro Enrico Costa, quindi in pieno governo Renzi”.

Quelle pizze col guerriero Umberto

Mentre scrivo, Umberto Bossi lotta fra la vita e la morte all’ospedale di Varese. Oltre ovviamente ai familiari, tutti, anche coloro che gli furono acerrimi avversari, si augurano che se la cavi e credo che sia un augurio sincero perché di fronte ai “nuclei tragici dell’esistenza”, fra cui la morte sta al primo posto, la politica passa in secondo piano mettendoci di fronte a una di quelle questioni radicali di cui si sostanzia la nostra vita. Io no. Spero che la Nobile Signora se lo porti via, magari in qualche suo particolare paradiso indipendentista. Mi fa male al cuore che “il guerriero”, come lo chiamano ancora nel suo entourage, debba trovarsi definitivamente ridotto alle condizioni di malato terminale.

L’Umberto era venuto a trovarmi a casa mia nella primavera del 2016, così come aveva fatto tanti anni prima quando, senza i filtri a cui sono usi i politici, era venuto da me, invece di chiedermi di andar da lui, per propormi la direzione dell’Indipendente. In quell’occasione, un po’ impressionato dalla mia biblioteca, volle fare il fenomeno e indicando lo scaffale più alto disse: “Quella è La Ragione aveva Torto?

!”. Non lo era. Ma gli risposi: “Sì, sì, Umberto, è proprio La Ragione”.

Nell’incontro della primavera del 2016, seduto sul mio divano rosso, aveva qualche difficoltà nella parola ma era lucidissimo. Parlammo a lungo. Di politica naturalmente. Era un po’ amareggiato per certe prese di distanza che avevano assunto alcuni di quelli che un tempo erano stati i suoi fedelissimi. Solo pochi mesi dopo ai funerali di Casaleggio era un altro uomo. Assente. Quasi non mi riconobbe e non riconobbe nemmeno la bella ragazza che mi stava accanto e che non gli era mai stata indifferente.

Considero Umberto Bossi, l’unico, vero, uomo politico italiano dell’ultimo trentennio. Purtroppo per lui, e non solo per lui, era troppo in anticipo sui tempi. La sua idea delle tre “macroregioni”, molto lontana dal pallido autonomismo su cui si esercita oggi la nuova Lega di Salvini, prevedeva un’Europa politicamente unita di cui i punti di riferimento periferici non sarebbero stati più gli Stati nazionali ma, appunto, aree geografiche che, superando i confini, fossero coese dal punto di vista economico, sociale, culturale, climatico (“le piccole Patrie”). Quell’Europa unita non si è realizzata se non nella forma economica, che non era, checché se ne pensi, ciò che più gli interessava, quello che soprattutto gli premeva era l’identità, e quindi la sua idea preveggente e antiglobalizzazione mondiale non ha potuto avere seguito.

Ho frequentato parecchio il “senatur” negli anni della prima Lega. È un uomo semplice, dai gusti e dai modi semplici, un vero figlio del popolo, ma ha, o aveva, la capacità di assimilare dalle sue poche letture e dal mondo che lo circonda ciò che gli interessa e di utilizzarlo ai suoi fini, che a parer mio è la vera forma dell’intelligenza.

Quante volte insieme a Daniele Vimercati, mentre, di notte, stavamo in qualche posto a mangiare una pizza, situazione che l’Umberto prediligeva, Daniele gli ha telefonato perché si unisse a noi. E lui, se non aveva altro da fare, veniva senza tenere alcuna distanza. Lo si è sempre ritenuto un uomo rozzo. Non lo era affatto. Basta rileggere l’intervento alla Camera del dicembre del 1994, quando preannunciò la caduta del primo governo Berlusconi, perfetto nello stile e nel linguaggio. Quel discorso si concludeva così: “Oggi finisce la Prima Repubblica”. Purtroppo si sbagliava.

Una notte, seduto accanto a lui davanti alla solita pizza, gli chiesi a bruciapelo: “Senti, Umberto, tu sei più di destra o di sinistra?”. “Più di sinistra”, rispose, “Ma se lo scrivi ti faccio un culo così”. Ai giornalisti, si sa, non bisogna mai raccontar nulla perché prima o poi lo scrivono. E così ho fatto anch’io, anche se alcuni anni dopo quando ne ricostruii il ritratto. Adesso che è nelle condizioni in cui è all’ospedale di Varese gli sono vicino con tutto il cuore. Ma a modo mio.

Bossi ricoverato, in ospedale vanno solo Giorgetti e Fontana

“La politica va così, per gli amici dell’Umberto oggi c’è la scomunica”. Umberto è lui, Bossi, ricoverato all’ospedale di Circolo di Varese a causa di un malore che lo ha colto nel pomeriggio di giovedì nella sua casa di Gemonio. Se non fosse per gli articoli di giornale e il piantone all’ingresso, la sua vicenda si confonderebbe con quelle delle decine di degenti che ogni giorno fanno dentro e fuori dai reparti. Per il vecchio capo solo pochi nostalgici e una manciata di colonnelli decaduti si prodigano in messaggi di vicinanza. “Umberto è forte, è qui per una caduta in casa”, si affretta a chiarire Francesco Enrico Speroni, figura della vecchia Lega, con il Nord nel nome e nel cuore. Niente a che vedere con quello che era capitato nel 2004: “Per fortuna non sono state riscontrate lesioni al cervello”, ha raccontato mentre venerdì pomeriggio lasciava il reparto di rianimazione dove ha incontrato la moglie e i figli del Senatur.

Poco prima era arrivato Giancarlo Giorgetti, entrato dalla porta principale, uscito dal retro. Oltre al sottosegretario s’è fatto vedere solo il governatore Attilio Fontana. L’elenco termina qui, nessuna sfilata di volti noti. Qualche messaggio di sostegno, un paio di comunicati, roba di circostanza: “Ho parlato con la moglie – dice ancora Speroni – mi ha detto che hanno scritto tutti, privatamente, anche Salvini. Del resto i medici dicono di non disturbarlo”.

La sostanza è che Matteo Salvini, impegnato nella campagna elettorale in Sardegna, non ha voluto “inquinare” la sua bacheca Facebook con un messaggio pubblico dedicato al fondatore del Carroccio e nessuno dei luogotenenti ha fatto capolino. “Sono uomini. È normale. Hanno paura di finire sulla lista nera”. Parola di Giuseppe Leoni, al fianco di Bossi fin dai tempi delle Lega autonomista lombarda e primo deputato leghista nel 1987. E lui la “scomunica” la sta scontando da tempo: “Per me un amico è un amico sempre, anche quando le cose si mettono male”. Poi mette le mani avanti: “Bisogna dare atto a Salvini che ha saputo portare il partito a un livello mai raggiunto. Purtroppo adesso che abbiamo i numeri non si fanno le riforme che volevamo”. E, continua: “Nel partito c’è gente che andava all’asilo quando noi facevamo la rivoluzione. Gente che si metteva le mutande verdi e ora non ricorda nemmeno il colore. Avevo una nonna saggia che mi diceva sempre ‘se vuoi la riconoscenza, devi comperare un cane’. Aveva ragione lei”.

Umberto Bossi, per la sua eredità politica, gli eccessi personali e i guai giudiziari, non è certo un fardello facile da portare per la Lega a trazione salviniana. Sarà per questo che da quando è caduto in disgrazia è sempre stato tenuto ai margini del partito. Un padre tutt’altro che nobile, uno di cui meno si parla, meglio è. Mica che ci si ricordi dei 49 milioni scomparsi e di tutte quelle storiacce che hanno insozzato il partito in cui è cresciuta l’attuale classe dirigente. La canottiera, il sigaro, le ampolle e tutto il bagaglio dell’epopea bossiana appartengono ormai a un passato lontano. Bossi è incompatibile con la nuova Lega: è quello che odia i terroni. Quello che ha fatto gli inciuci con Berlusconi. Quello dei diamanti in Tanzania. Bossi è il parente scomodo da tenere fuori dalla porta.

“Son sempre andato a trovarlo alla Vigilia di Natale, per gli auguri – racconta Leoni con una vena di amarezza nella voce –. C’erano anni in cui non riuscivi a entrare in casa per i regali e le persone che c’erano davanti alla porta. Negli ultimi tempi però siamo solo in due. Io e lui. L’ultima volta ci sono andato per l’Epifania. Era provato, pensieroso per la questione del processo di Milano. Anche i figli erano preoccupati. I magistrati non scherzano. Se vai in mano a quella gente lì non sai mai come va a finire. Poi è giusto che se qualcuno ha sbagliato paghi”.

A ricordareche all’ospedale di Varese è ricoverato uno dei protagonisti della politica degli ultimi trent’anni, ci sono i cronisti. Telecamere, taccuini, microfoni. Uno dei pochi volti da inquadrare è quello di Giuliano Burtini. Bicicletta e bandana verde in testa. Ha portato i cimeli della vecchia Lega. Sfodera una maglietta col volto di Bossi e la scritta 100% Varesòtt: “Questa è originale! Avrà più di 20 anni”. È di un verde un po’ slavato, consumata da sole e sudore. Il leghista 1.0 mostra anche la patacca della Guardia nazionale padana (altra epoca, altre divise): “È quella delle camicie verdi. Bei tempi quelli. Andavo a Pontida in bicicletta e per strada tutti mi salutavano, suonavano il clacson. Una festa continua. Non ho smesso di andarci, ma non c’è più l’entusiasmo di quando avevamo la speranza che qualcosa potesse cambiare”.

Un presidente pastore

Negli anni d’oro Silvio Berlusconi era “presidente operaio”, tra le tante cose. Alle decine di mitiche auto-attribuzioni dell’ex Cavaliere mancava quella di presidente pastore. Ma Silvio non finisce mai. E quindi eccolo correre ad abbracciare la protesta che ha attraversato la Sardegna ed è finita sulle prime pagine del Paese. Il nostro torna all’ovile. Letteralmente: oggi Berlusconi sarà a Mamoiada, nel nuorese, per una visita privata in un allevamento di pecore. Prova a sfidare sul campo e nei campi Matteo Salvini: domenica prossima si vota, “il Capitano” si prepara a un lungo tour sardo per convincere i disperati dei 60 centesimi al litro (di latte). La partita del centrodestra – e nel centrodestra – riparte dall’isola. Silvio è già carichissimo: non è mai stato presidente pastore, ma presidente satiro sì. Ieri non ha perso occasione per ricordarlo a tutti: “Sono passato alla mia villa a Porto Rotondo e ho avuto una brutta sorpresa: ho trovato completamente spoglia l’orto in cui tenevo le mie 120 piante medicinali”. La colpa, scopriamo, è “di un gruppo di pensionati che hanno letto su un cartello la scritta ‘viagra” e se lo son mangiato tutto”. Poi B. si è rivolto al candidato presidente del centrodestra, Christian Solinas: “Tu non mangiare viagra… Ti regalo le pillole che ho io…”

La questione apotropaica e la “Patente” di Renzi

La questione apotropaica non ammette strumentalizzazioni propagandistiche perché poi la parabola della sfiga è vendicativa e può ritorcersi a danno di chi l’ha tirata in ballo a sproposito.

Accade dunque che l’altro giorno, l’ex premier Matteo Renzi ha accusato il governo di portare sfortuna. Per chi se la fosse persa l’infelice frase è questa: “Sono arrivati questi e nel primo semestre siamo alla recessione. Come minimo portano sfortuna”. La diagnosi renziana desta più di qualche dubbio perché proveniente da un noto patentato in senso pirandelliano, certificato da numerose sciagure. Con Renzi a Palazzo Chigi è stato infatti intenso il flusso negativo propagatosi su tutta Italia, e non solo. Qui al Fatto, nel corso degli anni, abbiamo indagato accuratamente su questo flusso, senza mai venir meno alla fede nella ragione. E certe cose sono successe. Coincidenze, diciamo così. Tutto cominciò significativamente a Firenze, la città del sindaco d’Italia diventato premier. Nel giro di poche settimane sulla povera Florentia si abbatterono le piaghe bibliche che già flagellarono l’Egitto: blatte e zecche agli Uffizi; il terremoto; infine una voragine lungo l’Arno. Quest’ultimo segno si manifestò dal Grande Aldilà Rosso dopo che Renzi, in maniera improvvida, arruolò Berlinguer, Ingrao e Iotti nell’esercito del sì al referendum istituzionale. Ma dove l’allora premier si guadagnò il riconoscimento della novella di Pirandello fu in occasione delle Olimpiadi di Rio, nel 2016. In tuta, chiese al ciclista Vincenzo Nibali di vincere l’oro e Nibali si schiantò in curva; tampinò con taluni sms la sexy-schermitrice Rossella Fiamingo, candidata alla vittoria, e Fiamingo conquistò solo l’argento; andò allora da Petra Zublasing, campionessa mondiale di carabina 10 metri aria compressa, e Zublasing rimase fuori dalla finale; infine si rimise la tuta e posò con Federica Pellegrini, che concluse i 200 metri giù dal podio.