Donald dal muro alla guerra civile democrat

Donald Trump chiude la crisi dello shutdown, firmando la legge bipartisan sul nuovo bilancio Usa. E apre una crisi istituzionale dalla portata ancora imprevedibile, proclamando lo stato d’emergenza per potersi costruire il muro anti-migranti lungo il confine con il Messico, a dispetto della volontà del Congresso, che non gli dà i soldi. “Siamo di fronte a un’invasione di droga, di gang, di criminali, di persone. È inaccettabile”, dice Trump: “Non è solo questione di promesse elettorali. È una crisi di sicurezza. E dire che il muro non funziona è solo una grande bugia”.

I leader democratici nel Congresso, Nancy Pelosi, speaker della Camera, e Chuck Schumer, capogruppo al Senato, replicano: “È una presa di potere da parte di un presidente frustrato, che ha fallito e che cerca di ottenere quello che vuole al di fuori della legge. E il Congresso non può lasciare che il presidente stracci la Costituzione”.

L’annuncio di Trump non giunge a sorpresa. “Se non usi l’emergenza nazionale per questo, per cosa allora?”, si chiede retoricamente il magnate, che ora conta di potere stornare i fondi necessari per costruire il muro da altri capitoli di spesa. “Vogliamo fermare l’ingresso in America di droga e criminalità”, afferma, dicendosi favorevole alla pena di morte per chi vende droga, come in Cina.

E rivolto ai repubblicani contrari al muro e a questa sua mossa – “Non sono molti” -, ammonisce: “Ricordo loro che se non hai un confine non hai un Paese”.

L’intesa trovata tra i democratici, che controllano la Camera, e i repubblicani, che sono maggioranza al Senato, prevede di realizzare, al confine con il Messico, 88,5 chilometri di barriere e un centinaio di filo spinato, assai meno dei 321,86 chilometri di muro progettati, e mette a disposizione del presidente 1,375 miliardi di dollari, cioè un quarto di quanto chiesto (5,7 miliardi) – e meno degli 1,6 miliardi di dollari proposti dal Congresso al magnate prima che iniziasse lo shutdown, cioè la serrata dell’Amministrazione pubblica, andato avanti per 5 settimane, un record assoluto. Trump, ora, proverà a recuperare le risorse mancanti da altri fondi e programmi federali, varando decreti.

Alexandria Ocasio-Cortez, la deputata democratica stella nascente del suo partito, la più giovane mai eletta alla Camera, intende presentare un provvedimento per sventare le mosse di Trump. In tandem con il deputato democratico Joaquin Castro, la Ocasio-Cortez ha annunciato sui social (così utilizzati da Trump) di voler sottoporre al Congresso una risoluzione per porre fine all’emergenza nazionale”. Il National Emergencies Act dà al Congresso l’autorità di bloccarla, adottando un risoluzione congiunta.

Oltre ad annunciare il ricorso all’emergenza nazionale, Trump, nel giorno in cui viene ufficialmente dichiarato “obeso” dal suo medico, ha pure detto che Usa e Cina, dopo l’ultima tornata di negoziati a Pechino, sono vicini a un accordo commerciale, che porrebbe fine alla guerra dei dazi.

Alla luce dell’andamento delle trattative, il magnate conferma l’idea di prorogare la scadenza del 1° marzo, quando, se non ci fosse l’accordo con Pechino, dovrebbe scattare l’aumento dei dazi su 200 miliardi di dollari di prodotti made in China.

Trump è anche fiducioso, si ignora su che base, che gli scambi commerciali con il Regno Unito aumenteranno “sostanzialmente”, dopo la Brexit. E anticipa un “grande annuncio sulla Siria” – i suoi annunci sono grandi per definizione – “nelle prossime 24 ore”.

Sánchez costretto al voto. Vox si prepara a governare

Si concluderà il 28 aprile il mandato più breve della democrazia spagnola (10 mesi), quello del governo socialista di Pedro Sánchez, che dopo la crisi aperta mercoledì con la bocciatura del bilancio da parte dei catalanisti di Esquerra Rebublicana e PDeCat e della destra, ha convocato elezioni anticipate.

Un mandato anomalo, iniziato con la sfiducia al governo dei Popolari di Mariano Rajoy, accusato di avere troppi problemi giudiziari per dedicarsi a governare, e conclusosi con il “ricatto” dei catalanisti risentiti dell’abbandono del dialogo per l’indipendenza da parte di Sánchez. Restano il ritorno alla sanità gratuita, l’innalzamento del salario minimo a 900 euro e altre 13 leggi a sfondo sociale ottenute a colpi di decreti. Sánchez nel suo discorso d’addio ha rivendicato i risultati, confessando però che vista la vocazione del suo governo a “governare per la maggioranza, unire gli spagnoli e non mettere gli uni contro gli altri, al di là delle ideologie, dando una risposta collettiva alle sfide”, continuare a governare sarebbe andato contro i suoi principi. Così gli spagnoli si troveranno davanti a tre sfide in un mese: elezioni generali, Amministrative ed Europee (26 maggio), nel bel mezzo del processo ai 12 leader catalani accusati di ribellione, sovversione e malversazione che durerà almeno tre mesi. A farla da padrone sarà Vox, l’ultradestra che continua a crescere nei sondaggi, costituitasi parte civile, che al Tribunale Supremo dà libero sfogo alla propaganda. I sondaggi indicano due possibili scenari. Il primo, vede il Psoe di Sánchez, primo partito al 23,7%, che insieme a Unidos Podemos di Pablo Iglesias, che va alle elezioni nel momento di crisi più nera (la rottura interna non è del tutto ricucita) al 15% e agli altri partiti di sinistra otterrebbe intorno ai 170 seggi, sotto di 5 sulla maggioranza. Per arrivare a un risultato migliore Sánchez ha già convocato per lunedì la cavalleria socialista chiamata a oliare la macchina elettorale, anche se la campagna si aprirà solo il 14 aprile. Per iniziare o per finire il mandato, il governo socialista ha approvato proprio ieri la sua promessa: il corpo del dittatore Francisco Franco verrà riesumato e spostato dal mausoleo della Valle dei Caduti nel giro di 15 giorni. A proposito di franchisti, il secondo scenario dei sondaggi darebbe per vincente la somma di Popolari-Ciudadanos-Vox, il triumvirato già collaudato alle Regionali in Andalusia e che soprattutto il leader del Pp Pablo Casado ha tutto l’interesse per riproporre, visto che altrimenti non potrebbe governare con il 23% dei voti, neanche alleandosi con i populisti di Albert Rivera (Ciudadanos), dati al 19%. A dargli la possibilità di andare al governo sarebbero i sovranisti di Santiago Abascal. Vox infatti è dato all’8,9%, in linea con i risultati andalusi di dicembre. Questa coalizione (51,2%) dai 172 ai 189 seggi, sarebbe la prova generale delle Europee, dove anche in altri paesi il blocco di popolari populisti e sovranisti potrebbe vincere. C’è da dire che il modello Andalusia per ora pare foriero di restaurazione con leggi radicali, come quella contro la “Memoria storica”, del 2007 che riconosce e amplia le misure a favori di chi fu perseguitato durante la guerra civile e la dittatura; o quella contro il femminicidio, cavallo di battaglia di Vox in campagna elettorale.

Peculiare in Spagna è la promessa di uno lo stop al dialogo con gli indipendentisti per l’autodeterminazione della Catalogna, già annunciato da Casado: “Questa è una campagna contro indipendentisti e batasunos” (Batasuna è il primo partito indipendentista basco e navarro)”. Intanto i catalanisti iniziano la guerra intestina per intestarsi il secessionismo “puro”, dall’alto dei loro 4,7% (Esquerra) e 1% (PdeCat) dei voti mentre al Parlamento europeo Tajani nega il permesso a Carels Puigdemont di tenere un evento “per motivi di ordine pubblico”.

Il patto Italia-Niger: armi e onori per chiudere le rotte dei clandestini

Joseph Pulitzer, il fondatore dell’omonimo premio, sentenziava argutamente che “non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non viva della sua segretezza”. E così è stato per l’accordo di cooperazione militare tra Italia e Niger ideato dall’amministrazione Gentiloni e firmato, il 29 settembre 2017, dall’allora ministra della Difesa, la cattolica Roberta Pinotti.

Il governo aveva preteso la secretazione di quel documento e difeso caparbiamente questa sua scelta alla quale si erano opposti, davanti al Tar del Lazio, l’Asgi, Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, la Cild, Coalizione Italiana per le libertà e i diritti civili, e la Naga, Associazione di assistenza agli stranieri. Il Tribunale amministrativo ha dato loro ragione e così il documento è stato pubblicato in questi giorni.

Resta valida invece la secretazione, chiesta sempre dal governo, su due lettere inviate da Niamey a Roma. Fonti diplomatiche hanno rivelato al Fatto che quelle due missive contengono altre e importanti informazioni.

A prima vista l’accordo è pieno di luoghi comuni e ilari e gioconde inesattezze, come quel capoverso che prevede uno scambio di visite delle rispettive navi (peccato che il Niger non abbia né marina, né sbocchi al mare, visto che è un Paese incastrato nel Sahara), che fa il pari con la dichiarazione di Di Maio dei giorni scorsi sulla democrazia millenaria francese, ma a ben guardare si tratta di un accordo che ha il preciso scopo di vendere armi e tecnologia militare al Paese africano. Un regalone a Leonardo (ex Finmeccanica) la società che si occupa di difesa in mano al ministero dell’Economia.

La cooperazione tra i due Paesi, c’è scritto infatti in quell’accordo, si potrà attuare in vari settori, come la politica di sicurezza e di difesa, la ricerca e lo sviluppo, il supporto logistico e acquisizione di prodotti e servizi per la difesa, le operazioni di mantenimento della pace e di assistenza umanitaria.

In termini più umani e comprensibili vuol dire che le truppe italiane potranno affiancare quelle nigerine nella caccia ai terroristi che infestano la regione subsahariana, fornire al Paese africano armi e altro materiale bellico (anche non letale, per esempio elettronico), aiutarlo in operazioni per mantenere la pace o in quelle di assistenza umanitaria. Quest’ultimo punto è particolarmente sensibile. Assistenza umanitaria significa, nell’accezione del governo attuale, catturare i migranti che tentano di attraversare il deserto per raggiungere le coste, e rispedirli indietro, a casa nel Paese di origine.

“Colpisce soprattutto la natura commerciale che è il nocciolo di quell’accordo – spiega Alessio Iocchi, dottore di ricerca africanistica all’Istituto Orientale di Napoli. Difficile trovare clausole simili in accordi tra Paesi che hanno scarsi rapporti come è per noi il Niger. Normalmente condizioni analoghe ci sono in trattati con Paesi che hanno rapporti diplomatici profondi. Insomma un accordo grossolano e spaccone con il quale il Niger è stato inserito frettolosamente nell’area strategica mediterranea”.

La popolazione del Niger non è particolarmente affetta dal fenomeno migratorio, ma il Paese è un territorio di transito per chi vuole lasciare l’Africa centroccidentale e raggiungere l’Europa. Dal Niger passano camerunensi, gabonesi, equatoguineani, e, soprattutto, nigeriani. In maggior parte, fino a poco tempo fa, erano migranti cosiddetti economici ma ora che i terroristi di Boko Haram si sono fatti più pericolosi e crudeli, soprattutto nel nord della Nigeria e nel Camerun, dove bruciano villaggi, rapiscono i bambini e le donne e uccidono gli uomini, la fuga di migliaia di persone è indotta dal terrore.

Inoltre in Camerun è in corso una guerra civile tra le popolazioni anglofone e quelle francofone, privilegiate e dominanti. Anche lì, morte, disperazione, villaggi distrutti e fughe bibliche. Il tutto si somma alle incursioni dei Boko Haram dalla vicina Nigeria. Insomma il west-Camerun è diventato un inferno.

Il Gabon è governato da una dittatura dinastica. Il tiranno Omar Bongo, morto dopo 42 anni di regno incontrastato, ha lasciato le redini del Paese al figlio Ali Bongo. Le carceri sono piene e la Francia potenza tutelare del Paese chiude un occhio, anzi tutti e due, sul disprezzo per i diritti umani.

Il peggio del peggio è però rappresentato dalla Guinea Equatoriale. Il regime dispotico è guidato da Theodoro Obiang arrivato al potere dal 3 agosto 1979, dopo aver assassinato lo zio Francisco, naturalmente in nome della lotta alla corruzione, al malgoverno e alla dittatura. La Guinea Equatoriale è un micropaese che letteralmente galleggia su un mare di petrolio. La sua popolazione sarebbe ricchissima e potrebbe vivere ad un livello di vita scandinavo. Senonché la famiglia del dittatore è ricchissima mentre il 99% della gente soffre, in un mare di difficoltà, sotto il livello di povertà. Assieme all’Eritrea è il Paese più repressivo di tutta l’Africa, con galere piene, esecuzioni arbitrarie, squadroni della morte che scorrazzano impuniti.

In queste condizioni l’unico desiderio della popolazione è fuggire. E la via più semplice passa per il Niger. Da qui la scelta di Gentiloni di cercare di accordarsi con il Paese sahariano per bloccare i migranti e costringerli a tornare a casa. E il sistema più semplice non è forse quello di vendergli armi e addestrare le truppe alla caccia al clandestino?

La Ferilli denuncia lo stalker: “Mi sta addosso da 5 anni”

Lettere, fiori e regali, ma anche pedinamenti e appostamenti sotto casa e sui set cinematografici. Sabrina Ferilli è sempre stata abituata all’attenzione dei fan, del resto ha vinto cinque Nastri d’argento, un Globo d’oro, quatto Ciak d’oro ed è stata candidata quattro volte ai David di Donatello, recitando anche nel cast del film Premio Oscar La grande bellezza. Certe volte però le premure degli ammiratori superano i limiti, trasformandosi in molestie. Così l’attrice romana giovedì pomeriggio ha bussato alla porta del sostituto procuratore Daniela Cento, a cui ha raccontato l’incubo vissuto negli ultimi cinque anni. Un periodo lungo, nel quale un uomo le avrebbe rivolto attenzioni eccessive. In un primo momento si sarebbe limitato a inviare lettere, fiori e regali. Poi però avrebbe iniziato a seguire la Ferilli, appostandosi sotto casa della donna e anche fuori dai set in cui recitava. Così facendo però non è riuscito a guadagnare l’affetto dell’attrice, ma un’iscrizione per stalking nel registro degli indagati

Mafia del caseificio, arrestato anche il direttore dell’Agenzia delle Entrate di Salerno

23 febbraio 2018. Al Caseificio Tre Stelle di Eboli (Salerno) c’è un appuntamento elettorale dei candidati locali alle imminenti elezioni politiche del M5s in Campania. I Cinque Stelle al Tre Stelle, pare uno scioglilingua. Ci sono Cosimo Adelizzi, Francesco Castiello e Felicia Gaudiano. Verranno eletti tutti, il primo alla Camera e gli altri due al Senato. I tre, per loro sfortuna col senno di poi, non sapevano che da lì a un anno il Caseificio Tre Stelle sarebbe finito al centro di un’inchiesta per corruzione, ricettazione e turbata libertà degli incanti aggravata dal metodo mafioso. Le accuse per le quali è stato arrestato ieri il proprietario dell’azienda casearia, Gianluca La Marca, insieme al direttore provinciale dell’Agenzia delle Entrate di Salerno Emilio Vastarella e all’ex pentito già affiliato alla camorra, il pluripregiudicato Giovanni Maiale, esponente di un clan che porta il suo cognome ed è attivo nella piana del Sele. Adelizzi (estraneo alle indagini) e La Marca sono cugini: sono figli di due sorelle. Secondo le indagini coordinate dalla Dda di Salerno e condotte dai Carabinieri e dalla guardia di Finanza, La Marca avrebbe corrotto Vastarella con un orologio e un bracciale da donna in oro, ottenendone in cambio un maxi sconto di circa 60 mila euro su una pendenza fiscale dell’azienda, e uno sblocco di un ingente rimborso Iva per il caseificio che per prassi era stato congelato dall’Agenzia delle Entrate in presenza delle controversie tributarie. L’imprenditore caseario inoltre avrebbe approfittato del potere intimidatorio di Maiale per scoraggiare i concorrenti a partecipare alle aste giudiziarie, impossessandosi così di un’azienda di allevamento e produzione di latte di bufala. “L’indagine ha consentito di scoperchiare una realtà inquietante”, commenta il procuratore facente funzioni di Salerno Luca Masini.

Arancia Meccanica in centro Calci a un clochard: nessuno si ferma, però si fanno i video

Lo ha sorpreso alle spalle mentre chiedeva l’elemosina e lo ha steso con un violento calcio sulla schiena. Tutto questo mentre i passanti riprendevano la scena con il telefonino e senza che nessuno si fermasse ad assistere il povero clochard. Il vile pestaggio è accaduto giovedì pomeriggio in pieno centro a Carrara e il video da ieri ha fatto subito il giro dei social network. Le immagini riprendono il mendicante, conosciuto da tutti in città come Umberto, che chiede l’elemosina ai passanti nella centralissima via Roma ma dopo poco viene raggiunto alle spalle da un residente che prima lo colpisce con un calcio marziale e poi torna indietro intimandogli di andarsene. Nessuno però, tra commercianti e passanti, si ferma a soccorrerlo. Così l’uomo, che soffre anche di una disabilità importante, si alza da solo e continua per la sua strada senza chiamare l’ambulanza o denunciare l’accaduto ai carabinieri. Alla fine del video si vedono anche due signori anziani che assistono alla scena ma decidono di cambiare direzione e continuare a parlottare tra loro. Secondo le prime ricostruzioni, l’autore del gesto vile sarebbe stato un residente della via che non voleva più vedere il clochard sotto la sua abitazione. Quest’ultimo non avrebbe ancora mostrato segni di pentimento e tantomeno si sarebbe scusato con il mendicante. Sul caso è intervenuto anche il sindaco di Carrara, Francesco De Pasquale: “Sono rimasto indignato – ha detto ieri –. Colpire alle spalle una persona è un atto ingiustificabile e vile e a questa aggressione si è aggiunto lo sconforto di constatare che nessuno tra i cittadini presenti è intervenuto per aiutare la vittima né per chiamare le forze dell’ordine”. Poi il sindaco si è rivolto direttamente ai suoi concittadini: “Questo comportamento non fa onore alla nostra città che si è sempre distinta nel corso della storia per generosità, spirito di accoglienza e di solidarietà – ha concluso –. Carrara torni a essere la città solidale che è sempre stata”.

Bombe a Milano Ovest, il codice dei clan: “Quella è zona vostra”

“Pioltello è zona vostra”. È l’espressione che, secondo il gup di Milano Guido Salvini, è “assai indicativa” e riassume meglio il “predominio” e la capacità di intimidazione degli appartenenti alla famiglia Manno, legata ai clan della ‘ndrangheta lombarda. Lo si legge nelle motivazioni della sentenza con cui, lo scorso 6 dicembre, il giudice ha condannato 9 imputati a pene fino a 9 anni e mezzo per la bomba esplosa, il 10 ottobre 2017, davanti alla casa di un operaio ecuadoriano in via Dante a Pioltello, hinterland milanese, per un prestito a tassi d’usura non restituito. La pena più alta è stata inflitta a Roberto Manno, figlio del presunto boss della ‘ndrangheta Francesco Manno. Per Roberto Manno e suo cugino Manuel Manno (condannato a 6 anni e 4 mesi), in particolare, il giudice ha riconosciuto l’aggravante del metodo mafioso. L’espressione “Pioltello è zona vostra”, che il gup ha definito “spontanea e quasi ammirata”, fu rivolta dal “gregario” Mario Signorelli (condannato a 2 anni e mezzo) a Filippo Manno (3 anni e 2 mesi), il 13 novembre 2017 proprio riferendosi all’attentato, avvenuto circa un mese prima. Il giudice Salvini ritiene che l’attentato voluto dai Manno fu una reazione che ha avuto “una funzione per così dire didascalica-educativa e di prestigio sul territorio in quanto esprime l’autorità dei componenti del gruppo, in senso ampio, di cui ogni agente fa parte, un’autorità che deve essere ben percepita non solo dalla vittima, ma da tutti affinché non si permettano di ripetere simili comportamenti”. Per Salvini, “quella che deve essere riparata non è solo l’aspettativa economica ma l’affronto portato a persone anche molto giovani ma che, per la loro appartenenza familiare, dovevano essere rispettate”. Insomma, storia di ordinaria presenza mafiosa in Lombardia.

Strangolarono Sana, confessarono il delitto Ma per il Pakistan “mancano prove certe”

La morte di Sana Cheemaresta senza colpevoli. E la comunità pachistana di Brescia scende in piazza per una manifestazione in ricordo della ragazza uccisa per essersi opposta a un matrimonio combinato. Dopo undici mesi di processo, ieri il giudice Amir Mukhtar Gondal, del tribunale di Gujrat nel Punjab ha assolto per “mancanza di prove certe” (questa è la formula) il padre di Sana, Ghulam Mustafa Cheema, lo zio Mazhar Cheema e Adnan Mustafa Cheema, il fratello della giovane 25enne che si era ribellata a un matrimonio combinato nel suo paese d’origine, il Pakistan. Assolti nonostante un’iniziale confessione e i risultati dell’autopsia che avevano detto chiaramente qual era la causa della morte: strangolamento. La ragazza voleva sposare un italiano e continuare la sua vita in Italia, a Brescia, un proposito non condiviso dalla sua famiglia che le voleva imporre delle nozze tradizionali con un loro parente nella loro terra d’origine. Così nell’aprile 2018 l’hanno portata via, nella Repubblica islamica, per obbligarla ad accettare il matrimoni. Lei ha continuato a rifiutarsi, non volendo sottostare ai costumi dei suoi genitori. Secondo i suoi parenti, Sana andava punita “perché aveva disonorato la famiglia”, hanno ammesso in una confessione poi ritirata. La giovane era morta a Mangowal, distretto del Gujrat, a causa di una lunga malattia e per le cure aveva detto il genitore ma gli investigatori non hanno trovate riscontri su un suo ricovero decidendo quindi di far riesumare il corpo di Sana e di sottoporlo a un esame autoptico in un laboratorio forense del Punjab, dal quale era emerso che alla ragazza stato spezzato il collo in seguito allo strangolamento. L’accusa aveva chiesto la pena capitale per il padre e lo zio della ragazza, finché il giudice non li ha rilasciati innocenti. La notizia ha creato sconcerto in Italia. “Avevano confessato, poi ritrattato una volta che hanno compreso che potevano farla franca” ha commentato la sentenza Souad Sbai, presidente dell’Associazione Donne Marocchine in Italia (Acmid). “Ci sono Paesi dove il delitto d’onore è ancora tollerato. È ora di dire basta una volta per tutte” ha dichiarato. È intervenuta, con una nota, anche la criminologa Antonella Cortese, vicepresidente dell’Accademia italiana delle Scienze di Polizia investigativa (Aispis): “Il governo pakistano ha per la seconda volta ucciso la giovane Sana. Serve un accompagnamento psicologico e sociale a tutte quelle famiglie che si trovano in Italia, ancora ancorate a dettami religiosi”. Dal Viminale, il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha annunciato iniziative diplomatiche: “Scriverò al mio collega pachistano, per esprimere il rammarico del popolo italiano”. Mara Carfagna, vicepresidente della Camera dei deputati, ha definito Sana Cheema “una martire della libertà” chiesto al Parlamento di lavorare a una legge contro i matrimoni forzati: “In Italia ci sono altre ragazze che rischiano di finire come Sana. Si discuta la proposta di legge che vieta in Italia il matrimonio forzato e punisca anche i colpevoli di induzione al matrimonio mediante coercizione anche se all’estero”. L’assessore regionale della Lombardia Riccardo De Corato propone di intitolarle una via.

Sentenze “pilotate”, Amara patteggia una pena a tre anni

Arrivano le prime condanne nell’indagine della Procura di Roma su decisioni “pilotate” al Consiglio di Stato. Gli avvocati siciliani Piero Amara e Giuseppe Calafiore hanno patteggiato davanti al gup Alessandro Arturi una condanna a 3 anni di reclusione il primo e 2 anni e 9 mesi il secondo per l’accusa di corruzione in atti giudiziari. Il giudice ha stabilito anche una multa di 73mila euro per Amara e di 30mila euro per Calafiore. I due – al centro delle inchieste di Roma e Messina – hanno iniziato a collaborare con gli inquirenti. Amara viene sostanzialmente definito come il “regista” di una serie di episodi di corruzione per aggiustare sentenze anche davanti ai giudici amministrativi. Le loro dichiarazioni sono alla base anche dei quattro arresti disposti dal gip di Roma nei giorni scorsi e che hanno riguardato anche il giudice (ora sospeso) Nicola Russo, già coinvolto in altre vicende giudiziarie, l’ex presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Sicilia Raffaele Maria De Lipsis e l’ex giudice della Corte dei Conti, Luigi Pietro Maria Caruso. Questo filone di indagine si basa proprio sulle dichiarazioni fatte nei mesi scorsi dai due avvocati siciliani.

Dalla cucina al call center, vita da Lusi

Prima a turno con gli altri detenuti si è occupato della pulizia, poi un passaggio anche in cucina. Ma da due giorni, Luigi Lusi – ex tesoriere condannato di quella che fu la Margherita – ha cominciato a lavorare in un call center di Avezzano, in provincia de L’Aquila. Grazie a un permesso lavorativo per buona condotta, è lì che trascorre qualche ora per poi tornare, nel pomeriggio, nel piccolo carcere abruzzese che ospita 64 detenuti.

Qui il boy scout di 58 anni, dal 20 dicembre 2017 sta scontato una pena definitiva a sette anni di reclusione. È accusato di calunnia nei confronti di Francesco Rutelli, ma anche di essersi appropriato di 25 milioni di euro di soldi pubblici dalle casse del partito, attraverso un sistema di false fatturazioni. Una parte del denaro sarebbe stata portata in Canada, un’altra investita tra le altre cose in immobili. Adesso quei soldi tornano nelle casse dello Stato. Ieri infatti le Fiamme Gialle hanno eseguito il provvedimento di confisca – dopo l’ordinanza della Corte di Appello di Roma – mettendo definitivamente i sigilli a un piccolo impero di 9 milioni di euro. C’è quindi la nota villa di Genzano in provincia di Roma: 1.600 mq su quattro piani. Secondo il Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza vale circa 4 milioni di euro. Poi la confisca ha riguardato anche sei appartamenti, un box e un terreno tra Roma e Capistrello (L’Aquila) per un valore di 3,7 milioni di euro. E poi ci sono 1,3 milioni di euro tra conti correnti, polizze e fondi di investimento.

Si tratta in sostanza degli stessi beni che erano stati sequestrati nel 2012, quando Lusi finì in manette dopo il sì di Palazzo Madama alla richiesta per il suo arresto.

Venne scarcerato. Poi però è arrivata la condanna per appropriazione indebita e per calunnia nei confronti di Francesco Rutelli che della Margherita era presidente. Su Lusi in aula disse: “Era visto da me e dagli altri come una persona integerrima, arcigna, al limite dell’antipatia: godeva della mia totale fiducia. È passato dalla fiducia al ladrocinio, alla calunnia”. La condanna a sette anni in Appello per l’ex tesoriere arriva a cinque anni di distanza dal momento in cui scoppia lo scandalo. Confermata poi in Cassazione a dicembre del 2017. Da poco più di un anno quindi sta scontando la sua pena nel carcere di Avezzano. “Un detenuto modello”, lo descrive il suo legale Renato Archidiacono. Il magistrato di sorveglianza infatti ha concesso a Lusi il beneficio previsto dall’ordinamento penitenziario di trascorrere qualche ora fuori dalla cella per lavorare. E così è arrivato il call center.