La banda del Nokia e la grande truffa del concorso in Polizia

I tre arresti eseguiti ieri al termine dell’inchiesta del pm di Napoli Giancarlo Novelli e del Nucleo tributario della Finanza partenopea, agli ordini del colonnello Domenico Napolitano, mettono il timbro a un dato: il concorso per agenti di polizia penitenziaria che si svolse dal 20 al 22 aprile 2016 alla Fiera di Roma fu un delirio di imbrogli, tra marchingegni high tech ed espedienti all’antica.

Fu annullato per le gigantesche irregolarità verificatesi, e ripetuto nel luglio 2017 presso la scuola di Formazione della penitenziaria.

I commissari d’esame requisirono 7 telefonini, 37 candidati furono sorpresi con cover di cellulari, magliette, braccialetti, adesivi e penne raffiguranti, con numeri o simboli, le presunte sequenze delle risposte esatte ai quiz di cultura generale.

Si è poi scoperto che 69 candidati riuscirono a comunicare telefonicamente – tramite auricolari e cellulari nascosti – con gli esponenti di un’organizzazione ben strutturata che dall’esterno suggeriva la casella giusta da sbarrare. L’organizzazione era la stessa dei concorsi truccati per entrare nell’esercito (alcuni dei componenti sono stati arrestati il 1 ottobre scorso) e si faceva pagare bene. Dai 20 mila euro in su a candidato. I promotori del sodalizio, venuti in possesso dei questionari e delle risposte esatte, acquistavano i telefonini ‘base’ a pacchetti di decine, tutti uguali, e poi li rivendevano ai candidati pochi giorni prima del concorso.

Le risposte per vincere sarebbero passate da lì, da quei Nokia 130. Erano dual sim: una scheda per la connessione video, l’altra per la connessione audio. Schede attivate pochi giorni prima da teste di legno.

La microcamera nascosta trasmetteva l’immagine del questionario, il suggeritore la guardava e dettava le risposte. A questo punto vi chiederete: per quale ragione, essendo già in possesso dei questionari “comprati” a monte da un consulente della Intersistemi spa, società fornitrice del ministero di Giustizia, l’organizzazione non si limitava a passare dei semplici foglietti con le risposte, da nascondere in tasca?

Essenzialmente per un motivo: un foglietto – oltre a essere facilmente rintracciabile sul banco, con conseguente espulsione del candidato – poteva essere fotocopiato e rivenduto o regalato ad altri in pochi minuti. Bisognava salvaguardare il valore economico delle informazioni, evitare che si spargessero a macchia d’olio.

Come era avvenuto per il mitico “algoritmo” del concorso per l’Esercito. La formula magica, buona per quella prova. Ma non per questa. E comunque esemplare è un sms tra due indagati, dieci giorni prima del concorso: “Io ho tantissime persone… però non so come fare, se glieli diamo quelli potrebbero venderseli… è un cazzo di problema”. Già. Un altro “c…” di problema poteva sopraggiungere in caso di guasti o cadute di segnale, a dispetto delle prove fatte con ampio anticipo.

Le carte riferiscono di un sopralluogo nei pressi della Fiera del giugno 2015, c’è una intercettazione in cui si esulta per la buona qualità del segnale Facetime e si ragiona su come far uscire l’obiettivo della microcamera dai bottoni del polsino.

E così, per essere sicuri, all’high tech si abbinava la cover con gli adesivi delle risposte o le magliette con i simboli matematici. Tutto a caro prezzo. Carissimo. E i clienti non mancavano, sono stati notificati 160 avvisi a concorrenti del concorso e intermediari di vario tipo. Ci sono intercettazioni in cui si accenna a pagamenti di trenta, trentacinquemila mila euro a testa.

Nei cellulari degli indagati sono state ritrovati eloquenti selfie con fasci di banconote in mano, e macchinoni esibiti come trofei. Truccare i concorsi è un business redditizio.

Addio a Ossicini, salvò gli ebrei inventandosi il “morbo di K.”

LÈ morto Eieri al Fatebenefratelli di Roma Adriano Ossicini, 99 anni, ex partigiano, psichiatra, professore universitario, Ossicini è stato anche per lunghi anni parlamentare della Sinistra Indipendente (che contribuì a fondare con Ferruccio Parri) , oltre che ministro per la Famiglia e la Solidarietà Sociale nel Governo Dini. Figlio di un dirigente del Partito Popolare, è stato, dopo il 1938, uno dei più autorevoli dirigenti del Movimento dei Cattolici Comunisti e poi del Partito della Sinistra Cristiana. Durante l’occupazione tedesca di Roma fu il responsabile militare del Movimento con la Banda Ossicini. “La storia di Ossicini – ricorda la Comunità ebraica romana sulla rivista on line Shalom – è legata anche alla storia dell’ospedale nel quale lavorò, dove diede ospitalità a decine di ebrei romani fuggiti dopo la retata nazista del 16 ottobre 1943. Per sottrarli alla deportazione, inventò una malattia contagiosissima il ‘Morbo di K” (K come gli ufficiali nazisti Kesselring e Kappler). Grazie a questa falsa diagnosi le Ss, leggendola, si allontanavano. Ossicini ha raccontato il fatto in un libro e in diverse testimonianze. Fino all’ultimo, a chi veniva a trovarlo da ricoverato, ha ricordato quanto accaduto in quegli anni di resistenza”.

Il lungo viaggio del giudice “rosso” Saraceni

Ci sono storie familiari che raccontano un Paese meglio di molti manuali. Così è il prezioso libro di Luigi Saraceni, tra i fondatori di Magistratura democratica negli anni 60, poi deputato del centrosinistra tra il 1994 e il 2001 e avvocato. Si chiama “Un secolo e poco più” (Sellerio) perché comincia da suo padre, Silvio, “anarco-stalinista” nella Calabria del primo Novecento, antifascista e per un anno “sindaco” di Castrovillari (Cosenza) dove nel 1944 proclamò una “Repubblica” per aprire i granai alla popolazione, affamata dai signori del mercato nero. E finisce con il tormento di Saraceni per l’arresto della figlia, Federica, accusata nel 2003 di appartenenza alle ultime Brigate rosse e concorso nell’omicidio di Massimo D’Antona (1999), “un uomo senza colpe”, scrive, giuslavorista e consulente del governo D’Alema “cui votavo – ricorda – la fiducia”.

Tra Silvio e Federica c’è lui, Luigi, entrato in magistratura quando i giudici mal sopportavano la Costituzione e la Procura di Roma nascondeva i fascicoli sgraditi alla politica in un famigerato Registro “S”, tollerava la tortura dei ladruncoli e obbediva ai Servizi segreti, i quali, peraltro, schedavano i magistrati “sospetti”. Nel libro racconta il suo impegno in Md con Ottorino Pesce, la stagione dei pretori d’assalto, le assurdità dei processi per droga e le difficoltà di quelli per stupro.

Dopo 30 anni, tolta la toga, approda a Montecitorio, dove il garantista Saraceni secondo un verbale è l’unico, nel 1994, a votare contro l’eleggibilità di Silvio Berlusconi in quanto reale titolare delle concessioni tv; si impegna contro il decreto “salvaladri” ma non gradisce la protesta pubblica dei pm di Mani pulite; scrive con Alberto Simeone di An la legge per l’accesso alle misure alternative al carcere e prova a ricondurre alla legalità le intercettazioni dei Servizi. Infine da avvocato, come aveva sempre desiderato, si cimenta con Giuliano Pisapia nell’avventurosa difesa di Abdullah Ocalan, il leader curdo respinto nel ’99 dal governo italiano (ancora D’Alema) nelle mani dei carcerieri turchi, prima che il Tribunale stabilisse che sì, aveva diritto all’asilo nel nostro Paese.

Quando Saraceni esce dal Parlamento arriva la tempesta: l’arresto di Federica. Si interroga, da padre, su una figlia innamorata di Cuba, che come migliaia di coetanei frequentava i centri sociali romani . “Ho sbagliato? Avrei dovuto incatenarla?”. Dapprima incredulo, comprende che sua figlia “in qualche modo ha avuto a che fare” con il gruppetto tardobrigatista. La difende anche come avvocato, racconta con affetto che in carcere si è messa a studiare. E Federica nel libro spiega alcune sue ragioni. Il padre resta convinto che non abbia partecipato all’omicidio di D’Antona, per il quale è stata assolta in primo grado e condannata in appello.

Tre generazioni per raccontare un Paese dal particolare angolo di visuale del rapporto tra politica e giustizia, come osserva Pisapia nella prefazione. Un lungo viaggio nella sinistra italiana, dall’epica degli inizi del Novecento alle battaglie contro i cascami mai epurati del fascismo, fino a cambiare il volto del Paese per poi consegnarlo ai mercati, a Berlusconi e a chi è venuto dopo. Qualcuno ha già detto che potrebbe essere un bel film.

“Coz”, l’autonomo dimenticato da Roma e il poliziotto ucciso

Nome di battaglia Coz, al secolo Raffaele Ventura, 69 anni di Varese. Il suo nome sta in cima alla lista delle nuove richieste di estradizione che il governo italiano ha inviato alla Francia. Prima di oggi, mai l’Italia aveva chiesto per lui l’estradizione. Oltreconfine, Coz ci vive da oltre 30 anni, a metà degli Ottanta ha preso la nazionalità francese. Col tempo si è ritagliato un ruolo da intellettuale con libri e documentari sui migranti. Ora però il suo nome torna a legarsi agli anni di piombo, di cui Ventura fu protagonista. Quell’epoca e la sua storia poco conosciuta gli valsero 24 anni di condanna. Pena mai scontata grazie alla protezione dei governi francesi. Ventura, però, finisce nei guai per una manifestazione di piazza e non per aver partecipato a un’organizzazione terroristica.

La sua vicenda si lega a una delle immagini storiche di quegli anni: l’autonomo incappucciato che in via De Amicis a Milano punta la pistola contro la polizia. È il 14 maggio 1977. Si scoprirà poi che quel ragazzo è Giuseppe Memeo, il quale entrerà nei Proletari armati per il comunismo (Pac) di Cesare Battisti. Quella giornata milanese segnò la morte del vicebrigadiere del terzo Reparto celere Antonio Custra, ucciso a soli 25 anni da un proiettile sparato da una calibro 22. Diversi i feriti, un cittadino perse un occhio. In merito a quei fatti Ventura fu condannato per concorso anomalo in omicidio volontario. Sette anni che saranno cumulati ai 20 definitivi per il processo Rosso-Tobagi, inchiesta che mette insieme i movimenti dell’autonomia operaia milanese rappresentati dalla rivista Rosso e l’omicidio del cronista del Corriere della sera Walter Tobagi. Ventura è già latitante. L’ordinanza-sentenza sull’omicidio Custrà emessa dall’allora giudice istruttore Guido Salvini illumina la scena di quegli anni e fissa le responsabilità di Ventura per quella giornata di sangue. Due giorni prima di quel 14 maggio, a Roma la polizia spara e uccide la studentessa Giorgiana Masi. Il corteo milanese, scrive Salvini, aveva l’obiettivo di “creare una situazione di violenza di piazza”. Ancora il giudice: “Raffaele Ventura era un infaticabile arruolatore e organizzatore, anche in prima persona, in tutte le più significative azioni militari di Rosso, dalle rapine di autofinanziamento in banca alle rapine in armerie, alle manifestazioni armate”. Prima della condanna per i fatti del 14 maggio, “Ventura è stato giudicato con sentenza definitiva per la partecipazione alla manifestazione armata sfociata nell’assalto alla Bassani Ticino di Porta Vittoria e per la rapina di autofinanziamento alla Banca Popolare di Comerio”. In via De Amicis il blocco armato è composto da frange del collettivo Romana/Vittoria e alcuni studenti dell’istituto Cattaneo. Oltre a Mario Ferrandi, poi pentito, è presente anche Marco Barbone che guiderà il commando contro Tobagi. Entrambi spareranno. “Romana fuori!”, è il grido per l’assalto. In quel periodo il gruppo di Corrado Alunni (poi Prima linea e pentito) sta preparando l’evasione del brigatista Roberto Serafini (morto nel 1980 in una sparatoria con i carabinieri).

Rocco Ricciardi, dirigente di Rosso Varese, spiega che Ventura assieme ad altri convinsero Alunni a dirottare le armi per l’evasione sulla “manifestazione di Milano, che sarebbe sfociata in uno scontro armato”. Ventura il 14 maggio era in piazza. Sarà uno degli ultimi a lasciare via De Amicis. Non sparerà, ma impugnerà una 357 Magnum, fatto contestato dalla difesa. La sera del 14, secondo Ricciardi, Coz arrivò nel covo di via Gluck. Ricciardi riporta le parole che disse Raffaele Ventura: “È andato tutto bene, dovremmo averne ammazzato più di uno”. Antonio Custrà in quel momento è in coma. Morirà poche ore dopo. Dal canto suo Ventura, interrogato in Francia, dopo aver detto di essersi definitivamente dissociato da quel mondo, conferma la sua presenza in via De Amicis, smentisce solo in parte le frasi nel covo di via Gluck, e spiega di essersi impegnato per far defluire il corteo oltre De Amicis. La sua è una posizione “pacifista”. Chiude Salvini. “Ventura ha detto di non ricordare nulla della scena di via de Amicis, circostanza che suscita quantomeno perplessità”.

Lite tra Procura e sindacati di polizia su 11 scarcerazioni

Magistrati contro sindacati di polizia. Dopo i comunicati con cui l’Associazione nazionale funzionari di polizia contestava la scarcerazione degli undici anarchici arrestati sabato a Torino nella protesta contro lo sgombero dell’Asilo occupato, ieri il procuratore vicario Paolo Borgna ha definito quei commenti “inaccettabili in quanto contengono affermazioni irrispettose”. Sul merito sono intervenute anche l’Anm e la corrente progressista Area DG esprimendo solidarietà ai colleghi.

La decisione del tribunale, d’altronde, si basa su poche prove: “Sussistono gravi indizi di colpevolezza” solo per la resistenza a pubblico ufficiale fatta al momento degli arresti, quando gli indagati sono stati “identificati con certezza”. Per le altre accuse (devastazione, lesioni e detenzione di materiale esplodente), invece, non si conosce “l’esatto apporto degli indagati” all’interno di “un gruppo di circa 600 facinorosi”. Così la procura prosegue l’indagine per “ricostruire le precise condotte attribuibili a ciascun indagato”, un’opera “assai difficoltosa nell’immediatezza dei fatti”, spiega Borgna.

“Macerie” e il network dell’antagonismo 2.0

La strategia di lotta del gruppo anarco-insurrezionalista torinese aveva come principale veicolo di diffusione il web. Sulle piattaforme note sono passati i manifesti programmatici come I cieli bruciano. Scrive il giudice di Torino: “I più significativi contributi di conoscenza sugli obiettivi si ricavano dagli scritti utilizzati per la propaganda”. La Rete viene utilizzata su due livelli, uno più accessibile e un altro ben nascosto.

Il blog Macerie è la piattaforma privilegiata per rilanciare la lotta “tanto che – spiega il gip – deve essere considerato uno strumento a disposizione dell’associazione”. Dietro a tutto questo esiste l’associazione Investici attorno alla quale si muove una fitta galassia antagonista con triangolazioni anche in Francia, a Milano e a Pisa. Il blog Macerie viene creato nel 2006 quando compare sul sito anarchico autistici.org. Sarà registrato, si legge in un’annotazione della polizia, su un provider francese. Si tratta di Gandi.net con sede a Parigi in boulevard Massena. Il dominio autistici fa capo all’associazione Investici. A questo è legato il nominativo di una persona fisica “con – si legge nella nota – recapito a Torino in via Passo Buole 47, indirizzo del noto posto occupato di matrice anarchica El Paso”. Investici viene registrata nel 2001. La prima sede risulta a Milano in via Calizzano 1. “Rappresentante legale – si legge nel documento giudiziario – è Ronny B. a carico del quale si annoverano numerosi precedenti di polizia, tra cui associazione con finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico”. Ronny B., però, non è coinvolto nell’inchiesta sull’ex asilo. Da Milano ci si sposta a Pisa in Toscana. Qui, il 30 agosto 2014, viene trasferita la sede legale in vicolo delle Donzelle 3. Nuovo rappresentante è Paolo D., anche lui non indagato, “ma con precedenti di polizia” non legati al mondo dell’eversione. Da una nota della Questura di Pisa emerge che Paolo D. ha lavorato all’Università di Pisa come tecnico informatico. Nell’ateneo ha poi fatto carriera “sino a ricoprire ruoli delicati e di rilievo con funzioni di gestione di tutta la rete internet e le comunicazioni dell’università di Pisa”. Sempre dalla nota della Questura di Pisa si legge che il rappresentante di Investici grazie al ruolo ricoperto aveva a disposizione le connessioni “con le reti internet della Questura e del Comune di Pisa”. Non gli viene fatta però alcuna contestazione penale.

Si legge nella nota della Digos di Torino: “L’associazione Investici è attiva nel campo della garanzia dell’anonimato nella navigazione internet”. Inoltre i domini gestiti “sono impermeabili agli accertamenti delle forze dell’ordine”. Lo stesso Paolo D. sentito dalla polizia di Pisa durante “l’esecuzione di un decreto di acquisizione di file di log” ha spiegato che “l’associazione non ha possibilità di fornire tali dati per una precisa scelta di coloro che hanno ideato la rete di server ubicati all’estero”, ovvero la Gandi.net di Parigi. Il manifesto dell’associazione recita: “Vi garantiamo che faremo di tutto per tenere in piedi l’anonymous e tutto ciò che garantisce la confidenzialità delle vostre comunicazioni”. Nel web anarchico un ruolo è affidato anche a Facebook. In particolare, si legge nell’ordinanza, “la messaggistica di Fb è utilizzata per le comunicazioni riservate tra gli associati e gli stranieri” trattenuti nei Cpr”. Diversi profili sono stati chiusi. L’ultimo ancora attivo è No Cie/No Cpr Torino riferibile alla presunta associazione sovversiva. Gli “amici” sono mille. Tra i link condivisi c’è hurriya.noblogs.org, piattaforma di riferimento per la lotta anarchica contro i Centri di permanenza e rimpatrio.

“Arrestano gli anarchici solo per criminalizzare il dissenso”

Lo sgombero del centro Asilo ha riaperto il dibattito su protesta e violenza. Sul Fatto sono intervenuti nei giorni scorsi Donatella Di Cesare, docente alla Sapienza, e Gian Carlo Caselli, ex procuratore a Torino. Lo scrittore Erri De Luca si è sempre schierato con il movimento No Tav: “Lo sgombero del centro Asilo? Una violenza premeditata”.

È inevitabile che la protesta sfoci in violenza?

Trattandosi di anarchici rispondo con una frase di Errico Malatesta, il più valoroso degli anarchici italiani: “Noi dobbiamo ricordarci che la violenza, necessaria purtroppo per resistere alla violenza, non serve per edificare niente di buono: essa è la nemica naturale della libertà, la genitrice della tirannia e che perciò dev’essere contenuta nei limiti della più stretta necessità”. Lo sgombero è stata una violenza premeditata e la reazione rientra nell’ambito di questa frase che risale al 1922.

In Italia c’è la criminalizzazione del dissenso?

In Italia, a Torino in particolare, ci sono state più di mille incriminazioni per gli oppositori della balorda linea Torino-Lione. Credo che questo caso si possa definire criminalizzazione del dissenso.

Donatella Di Cesare ha sostenuto in queste pagine che “sovversivo è lo Stato”.

Allo Stato spetta il monopolio della forza a nome del popolo italiano. Quando applica questa forza a favore dell’interesse di una parte contro un’altra diventa una fazione in campo. In Valle di Susa si è arrivati per esempio a reparti di forza pubblica alloggiati a spese della ditta costruttrice dell’opera. Qui c’è tradimento della pubblica funzione.

L’anarchismo, secondo la professoressa Di Cesare, è la forza che si contrappone al sovranismo.

L’anarchia, come il socialismo, è un pensiero politico che dà precedenza alla fraternità e all’interesse comune dei lavoratori al di sopra delle frontiere. Evidente che sia il contrario di sovranismo, parola ipocrita che nasconde la parola nazionalismo. Il cosiddetto sovranismo non ha neanche il coraggio di pronunciarla.

Gian Carlo Caselli, invece, guardando agli anni Settanta mette in guardia intellettuali e politici, dicendo che tollerare piccole violenze apre la strada al terrorismo.

In Italia si tollerano grandi violenze contro cittadini inermi, lasciati all’oscuro di pericoli micidiali per la loro salute, da Taranto a Casal Monferrato. Ma c’è sempre qualcuno che vede ingrandita la pagliuzza e minuscola la trave.

In Francia il movimento dei Gilet gialli ha dato vita a forme molto forti di protesta.

In Francia ho visto sfilare per le strade un assortimento indistinto di proteste accorpate in corteo, un contenitore generale di una varietà di oppositori, dalle bandiere rosse al Front national. Da noi niente di simile.

Ora l’analisi costi-benefici sul Tav Torino-Lione dà ragione al movimento che da anni si oppone a un’opera ritenuta inutile, ma che è stato spesso accusato di tollerare i violenti. Questo esito è la conferma che la protesta è utile alla democrazia?

La lotta della Valle di Susa è stato il più importante esempio di democrazia popolare degli ultimi venti anni. Una vallata si è battuta a maggioranza mettendo i propri corpi a sbarramento e mettendosi a studiare per contrapporre ragioni a prepotenze di uno Stato che trattava quei suoi cittadini da sudditi di un feudatario. Avevano ragione, hanno e avranno ragione. Alla fine quell’opera inutile e avvelenatrice sta andando alla malora. Un’altra opera pubblica, tra le centinaia lasciate incompiute, che hanno sprecato pubbliche risorse per ingrassare ditte legate ai partiti.

Recal-chic: un po’ di Lacan e un po’ di Carlo Cracco

Come recalca Massimo Recalcati, non ce n’è. Ricalcare, siamo capaci tutti; ma “recalcare” è un’altra cosa, riservata a un unico eletto. Ascoltate come pronuncia il nome del suo nume tutelare, Jacques Lacan. Un fonema inafferrabile per iscritto, in perfetto equilibrio tra Lecan, Locan e Lecon. Da non confondersi né con Alain, né con Elkann, tantomeno con El can de Trieste, che ci porterebbe a Lelio Luttazzi. Come recalca Recalcati, non recalca nessuno. Edita libri a ritmo più veloce di Mauro Corona, è atteso a giorni Sette lezioni brevi sull’amore, titolo in evidente recalco delle Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Rovelli. Chi non stesse nella pelle può averne assaggi sia sui paginoni di Repubblica, dove frigge l’aria meglio di Michela Marzano, sia in Tv con Lessico amoroso (recalco dalla Ginzburg). Recalcati torna a calcare la pedana di Rai3 avvolto in chiaroscuri tenebristi, tra Caravaggio e Mattia Preti. Costì, circondato da un pubblico degno di Osho, in un eloquio solenne, recalcato su Carlo Cracco (che a sua volta si ispira a Clint Eastwood) si recalcano alcune profonde verità. “Quando qualcuno viene al mondo, anche il mondo intero viene al mondo” (chissà dove, se il mondo non è ancora venuto al mondo). “Ai figli non dobbiamo dare rendite, dobbiamo dargli solo il nostro sguardo sul mondo” (questa è recalcata su Zio Paperone). Quanto appaiono obsoleti i maglioni di Crepet, la chioma elettrificata di Andreoli. Basta coi radical: d’ora in poi, solo recalcal-chic.

I pro e i contro dell’autonomia “differenziata”

 

“Con le iniziative sull’autonomia differenziata si concretizza la “secessione dei ricchi”

(da “Verso la secessione dei ricchi?” di Gianfranco Viesti – Laterza, 2019 – pag. 27)

Èun libro a tesi, ma è anche un libro aperto: nel senso che espone ai lettori i pro e i contro; e nel senso che, essendo fornito esclusivamente in versione digitale, sono previsti aggiornamenti in corso d’opera. Ed è, infine, un libro gratis: le 55 pagine si possono scaricare dal sito dell’editore Laterza (www.laterza.it), semplicemente registrandosi con il proprio nome e cognome e l’indirizzo di posta elettronica. Una scelta di marketing editoriale che è innanzitutto una scelta mediatica e civile.

L’ha scritto Gianfranco Viesti, docente di Economia all’Università di Bari, intervistato ieri dal Fatto Quotidiano, per lanciare un allarme su quella che lui definisce la “secessione dei ricchi”: cioè la cosiddetta “autonomia differenziata” che tre regioni – il Veneto, la Lombardia e l’Emilia-Romagna – reclamano in nome di quel federalismo fiscale che è un vecchio cavallo di battaglia della Lega e in forza di quell’infausta riforma del Titolo V della Costituzione introdotta dal centrosinistra nel 2001. Queste regioni generano insieme il 40% del Pil nazionale, versano allo Stato più tributi di quante risorse ricevono e perciò pretendono più competenze, più finanziamenti e più servizi, in particolare per la sanità, le infrastrutture e la scuola.

Alla loro rivendicazione si sono aggiunte poi in varie forme il Piemonte, la Liguria, la Toscana, le Marche e l’Umbria. E come in un contagio virale, iniziative analoghe si registrano da parte di Lazio, Campania, Basilicata e Puglia. Al momento, solo l’Abruzzo e il Molise ne sono rimaste immuni.

Siamo, insomma, su una strada pericolosa che può portare alla disgregazione nazionale, accrescendo le disuguaglianze fra Nord e Centro-Sud, con cittadini di serie A e di serie B. Tanto più che già ora, con le cinque regioni a statuto speciale (Val d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli Venezia-Giulia, Sardegna e Sicilia) le disparità di trattamento con il resto d’Italia, e soprattutto con il Mezzogiorno, risultano rilevanti. Non mancherebbero anzi i motivi per rivedere oggi una tale situazione, stabilita originariamente in base alla condizione periferica di queste regioni, alla debolezza della loro economia e alla rispettiva identità storico-culturale.

Osserva nel suo saggio il professor Viesti: “Vi è poi una prevalenza di studi che mostrano come il decentramento (…) possa favorire processi di divergenza economica fra i diversi territori all’interno di un paese. I risultati sono diversi da caso a caso; ma certamente l’evidenza disponibile non consente di sostenere, al contrario, che un maggiore decentramento favorisce la convergenza economica fra le regioni”.

La partita si gioca, dunque, intorno al “residuo fiscale”: vale a dire la differenza fra quanto i cittadini di una determinata regione pagano e quanto ricevono dallo Stato. In soldoni – è proprio il caso di dirlo – si tratta di spostare risorse pubbliche, togliendo ai poveri per dare di più ai ricchi. Il contrario, insomma, di quanto faceva Robin Hood nella foresta di Sherwood.

Gli interessi economici sono chiari. Ma la vera posta in palio è l’unità nazionale, il senso di appartenenza e di solidarietà che tiene insieme un Paese. Sarebbe già tanto se, secondo l’auspicio di Viesti, si riuscisse ad aprire un confronto pubblico “non da posizioni ideologiche, aprioristiche, a favore o contro”. Il guaio è, però, che purtroppo agli interessi economici più o meno legittimi si sovrappongono anche quelli elettorali.

Fateci votare sulla nuova Costituzione

Due anni dopo la vittoria del No nel referendum costituzionale, che ha bocciato la “deformazione” della Costituzione targata Renzi, la maggioranza Lega-M5S rilancia le modifiche alla Costituzione.

In campo c’è l’introduzione del referendum propositivo, che anziché arricchire la democrazia rappresentativa con una nuova forma di partecipazione dei cittadini, continua a giustapporre cittadini e Parlamento. E poi la riduzione drastica dei parlamentari motivata con mere ragioni di risparmio. Mentre la motivazione che con meno parlamentari ci sarebbe una maggiore funzionalità del Parlamento è ridicola visto che continua come e peggio di prima l’uso a raffica dei decreti legge e dei voti di fiducia. Se si volesse fare una discussione seria si potrebbe partire da una vecchia proposta di Stefano Rodotà: Camera dei deputati e legge elettorale proporzionale con i cittadini che scelgono i parlamentari.

In questi giorni si discute di un regionalismo differenziato che interpreta estensivamente l’articolo 116 della Costituzione, incautamente modificato nel 2001. Nella versione attuativa estrema, anticipata dal ministro Erika Stefani, porterà a una collisione con i principi della prima parte della Costituzione e le leggi sistematiche che ne derivano come il Servizio sanitario nazionale. Diritti fondamentali come istruzione e sanità non avranno più lo stesso significato nelle diverse regioni d’Italia, la parte più debole resterà indietro, realizzando il vecchio traguardo leghista di riportare al Nord i soldi, proprio nel momento in cui Matteo Salvini vorrebbe insediare la Lega nel Sud. Queste decisioni saranno non modificabili senza il consenso della Regione interessata. Aleggia infine la minaccia di imporre ai parlamentari l’obbligo del mandato imperativo nel voto. Il ministro dei Rapporti col Parlamento Riccardo Fraccaro ha un bel dire che le modifiche sono singole e puntuali. Si cerca di sminuire il colpo all’assetto attuale della Costituzione con l’unico obiettivo di evitare i referendum costituzionali che metterebbero Lega e M5S nella stessa situazione del governo Renzi, cioè sottoposti al voto dei cittadini. Da Fraccaro era lecito aspettarsi l’impegno a garantire comunque il referendum costituzionale, non di escluderlo, visto che la modifica dell’articolo 81 votata con oltre i due terzi ha finora impedito la revisione del vincolo di bilancio. Che senso ha introdurre il referendum propositivo e negare quello costituzionale? La contraddizione è evidente.

Il Pd farebbe bene a riflettere. Si farà condizionare dal peso degli errori passati o troverà l’energia per dichiarare con forza il suo voto contrario? Le forze minori faranno una battaglia di principio, non solo per non sparire dalla rappresentanza parlamentare ma soprattutto per garantire che in futuro nuovi soggetti politici entrare in Parlamento? Come è stato per il M5S o la Lega quando erano poca cosa. Un redivivo Montesquieu potrebbe cadere in deliquio di fronte allo svanire della distinzione tra potere esecutivo (governo) e potere legislativo (Parlamento) con la sostanziale dissoluzione di quest’ultimo? Se il Parlamento diventerà sempre più un’appendice obbediente del governo qualcuno inizierà a pensare seriamente che si sono create le condizioni per calare l’asso del presidenzialismo. Questa prospettiva è nel programma del centrodestra. Questa maggioranza dovrebbe pensare a come fare uscire l’Italia dalla nuova crisi, invece dedica la sua attenzione a cambiare l’assetto costituzionale.

Il pericolo è evidente. Occorre resistere, resistere, resistere. Se non bastasse, almeno occorre garantire la possibilità per i cittadini di esprimersi nel referendum prima dell’entrata in vigore di queste modifiche della Costituzione. Le energie per promuoverlo possono esserci.