Diciotti, la memoria di Salvini non regge

Il ministro dell’Interno Salvini – imputato del delitto di sequestro di persona aggravato di cui all’art. 605 del codice penale per avere “nella sua qualità, abusando dei suoi poteri, privato della libertà personale, dal 17 al 25 agosto 2018, 177 migranti giunti al porto di Catania a bordo dell’unità navale di soccorso U. Diciotti della Guardia costiera italiana – ha presentato alla Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato una memoria difensiva i cui principali argomenti possono così sintetizzarsi.

In primo luogo egli chiama in causa il grave comportamento di Malta che, violando gli impegni derivanti dalle Convenzioni internazionali, aveva rifiutato di accogliere, quale “primo porto sicuro” i migranti soccorsi dalla nave italiana, così inducendo il suo comandante a far rotta verso l’Italia. Sul punto si può tuttavia osservare che va certamente stigmatizzata l’illegittima e disumana condotta delle Autorità maltesi, ma ciò non toglie che “di fatto” la Diciotti (considerata come territorio italiano ex art.4/2 del codice penale) il 20agosto 2018 era attraccata nel porto italiano di Catania, sicché i suoi passeggeri si trovavano, da quel momento, sotto la protezione della legge italiana che punisce “chiunque privi taluno della libertà personale”. Sostiene poi il ministro che l’autorizzazione a procedere dev’essere negata “per la possibilità che i flussi migratori possono rappresentare il veicolo per l’arrivo di soggetti infiltrati allo scopo di compiere azioni violente”. Ma la mera eventualità di una tale emergenza non autorizzava il ministro a sequestrare i 177 migranti, tra cui donne e bambini non accompagnati. Secondo il Tribunale dei ministri, Salvini “ha agito al di fuori delle finalità proprie dell’esercizio del potere conferitogli dalla legge e “in assenza di un problema cogente di ordine pubblico… poiché nessuno ha riferito della possibile presenza, tra i soggetti soccorsi, di persone pericolose per la sicurezza e l’ordine pubblico nazionale”. I giudici hanno inoltre evocato l’indirizzo della Corte costituzionale per la quale nella gestione dei fenomeni migratori “la discrezionalità incontra chiari limiti nel bilanciamento di interessi di rilievo costituzionale, nella ragionevolezza e, soprattutto, nel diritto inviolabile della libertà personale (art.13), trattandosi di un bene che non può subire attenuazione rispetto agli stranieri in vista della tutela di altri beni costituzionalmente tutelati”.

Date queste premesse, sembra assai difficile per il ministro poter invocare l’applicazione delle esimenti previste dall’art. 9 della legge costituzionale n.1/1989 e cioè “avere agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante’’ (quale? A difesa della sicurezza pubblica? Senza che vi fosse alcun pericolo di atti criminali o terroristici?), ovvero “per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio delle funzioni di governo’’ (a Salvini viene appunto contestato di avere esercitato in modo illegittimo, abusando dei suoi poteri, le funzioni di governo tenendo rinchiusi, senza ragioni di ordine pubblico, i 177 profughi stranieri). Né su questo quadro potrebbe incidere la proposta formulata nella seduta del 13 febbraio scorso dal presidente della Giunta Gasparri, secondo cui l’azione di Salvini sarebbe stata ispirata da un “movente governativo”, cioè dall’intero governo, nel perseguimento dell’interesse pubblico. Infatti il senatore Gasparri non ha tenuto conto che per l’art. 95/2 della Costituzione “I ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri (che non risultano mai stati formalmente assunti nel caso Diciotti) e individualmente degli atti dei loro dicasteri” (nella specie: l’ordine di Salvini di tenere bloccati sulla nave, manu militari, i 177 profughi).

Mail Box

 

Tav, basta l’analisi costi-benefici per capire da che parte stare

Direttore, mi sono deciso a scriverle perché, da affezionato lettore, da qualche tempo provo un certo fastidio e disagio nel constatare con quale accanimento lei attacca sistematicamente i difensori del Tav. Non ho la competenza per dissertare sulla logistica italiana ma chiunque si avvicini al tema delle ferrovie scopre che quelle italiane non brillano per essere un modello di riferimento per il trasporto delle merci. La parte del leone la fa la svizzera Hupac che di fatto è il principale attore in Italia e gestisce gli scali di Busto Arsizio, Piacenza e fra non molto Pordenone. Credo che un poco di prudenza (a volte definita umiltà) giovi a migliorare la qualità della nostra vita e lei, ne sono convinto, può fare molto in questo senso.

Luigi Carmine

 

Caro Luigi, dia un’occhiata all’analisi costi-benefici. Poi, se ha 7 o 8 miliardi sull’unghia da buttare, ci faccia sapere. Cari saluti

M. Trav.

 

Aperture domenicali dei negozi: sì, ma a rotazione

Il Parlamento con grande difficoltà sta esaminando il decreto legge relativo alle chiusure domenicali degli esercizi commerciali senza tener in gran conto le necessità dei cittadini. Credo che per non danneggiare il commercio specie quei piccoli esercizi commerciali ancora esistenti nei centri cittadini, che vanno sempre di più svuotandosi sarebbe meglio adottare il criterio della rotazione fra gli esercizi disponibili all’apertura, specialmente in periodi particolari e nei centri turistici, ove la suddetta apertura è vitale. Ovviamente, i lavoratori dipendenti – sempre quelli disponibili a lavorare sette giorni su sette – dovrebbero essere pagati regolarmente secondo quanto previsto dal Contratto nazionale di lavoro, tenuto conto che ciò molto spesso non avviene anche nella grande distribuzione, compresi i supermercati alimentari.

Mario De Florio

 

La metamorfosi 5S: se salvano l’alleato diventano “casta”

Il Movimento 5 Stelle è nato urlando due vocaboli: uno, “vaffanculo”, voleva significare l’esasperazione del popolo verso la “casta” che gozzoviglia alle sue spalle, l’altro, “onestà” era il mantra per pretendere di far piazza pulita di tutto il marcio che impastoia il Paese. Appena otto mesi di governo e del M5S iniziale è rimasto ben poco, il fascino della poltrona li ha sedotti. Se, come tutto lascia presagire, salveranno, con il loro voto determinante, il loro alleato Matteo Salvini, dal processo per sequestro di persona aggravato, ammaineranno, metaforicamente, ogni loro bandiera, si autodichiareranno “casta che protegge gli appartenenti alla Casta”.

Mauro Chiostri

 

Il “Rigoletto”, la modernità e la lezione di Monicelli

Ho letto in questi giorni vari articoli sulla cialtronesca rappresentazione del Rigoletto al Metropolitan di New York. Quindi, di un Rigoletto tristemente lontano anni luce dall’originale e rutilantemente vestito di quella forzata e presuntuosa modernità che, da almeno trent’anni a questa parte, viene adottata nell’allestimento di vari melodrammi. Costantemente ad opera di illusi sperimentatori del nuovo che, frantumando la sacralità di un passato, credono sia cool privarlo oggi, e nel sempre, della sua meravigliosa e vitale attualità. La frequente cattiva abitudine di deturpare le opere liriche con malformazioni sceniche e “malversazioni interpretative” dovrebbe essere “sonoramente” contestata e ripudiata da chi ama la musica e dai loggionisti di tutto il mondo. In una delle recensioni lette su tali temi e in particolare sul Rigoletto, si citava il paradossale sguardo del pubblico del Metropolitan che, nel drammatico finale, anzichè partecipare al dolore di Gilda morente fra le braccia del gobbo padre, era attratto dalla fiammante Cadillac azzurro-metallizzata, fredda e piantata là, che le stava accanto. Questo mi fa ricordare un colloquio telefonico, datato 12 dicembre 2002, che ebbi con Mario Monicelli. Al Maestro domandai cosa pensasse della moda nascente di presentare melodrammi con artiste e ballerine svestite. Rispose che non c’era poi troppo da stupirsene perchè non era raro che ciò avvenisse anche ai tempi di Mozart. “Ma – affermò – l’importante è mostrare la misura più che i corpi, poichè pur essendo vero che qualunque tipo di bellezza femminile inserita nella totalità dell’arte faccia parte della perfezione assoluta, se non si è capaci di porre dei limiti e di non saper favorire il senso dell’immaginazione alla spietatezza deludente del reale “prendi tutto”, il buon gusto va a farsi friggere”.

Gianni Basi

 

Mugello, chi voto a maggio? Un giro a Barbiana mi aiuterà

Elogi per l’inchiesta sul Consiglio di Stato, sul Csm che perseguita Woodcock e per la solidarietà nei confronti dei due giornalisti, Borzi e Bonazzi, vessati da una procura per le loro inchieste coraggiose. Sarà bene seguire lo sviluppo di questa vicenda, anche per non isolare chi è meritevole. Mi sa che dovrò andare Barbiana, a parlare col priore, perché non so che fare alle Amministrative. Se mi arriva un solo segnale, in quel luogo in cui pare di percepire “qualche disturbata divinità”, forse prenderò la decisione giusta.

Adriana Rossi

Mafia. Tocca reagire al silenzio, all’antimafia farlocca e ancor più all’abbandono

Caro Buttafuoco, concordo su quanto lei dice nell’articolo “Meridione” (31 gennaio), ma dimentica il punto più importante: il Meridione d’Italia è strozzato dalle mafie! Le mafie, è vero, sono dappertutto anche nel Nord, anche in Germania, ma l’imprinting che la mafia lascia sulla popolazione del Sud è tale per cui anche ora, negli anni Duemila, vediamo la processione e l’inchino del paese davanti alla casa del boss, vediamo che accanto alle sorelle Napoli non c’è nessuno di quel paese, mentre quasi tutti, deliberatamente o involontariamente, stanno con i parenti di Provenzano. Pertanto io spero in un’Italia mite e prospera, ma qualcuno si deve pur dare una scossa e far riaffiorare la propria dignità.

Adriana Bertoni, 84 anni e senza computer

 

Gentile signora Bertoni, lei spera in una scossa di dignità in tutti ed è qualcosa di più di un auspicio, è un vero progetto politico che non può prescindere però dalla necessità di separare – nei fatti di ogni giorno – la carne dall’osso. Esco subito dalla metafora e mi spiego: c’è al Sud un danno perfino peggiore della mafia. Parlarne, quando la criminalità organizzata ha i suoi fatturati stellari altrove, è solo un attardarsi nel pittoresco: s’è scoperto che le cosche di Palermo, prontamente sgominate dalla polizia, s’erano ridotte a controllare il mercato degli alcolici nei locali della movida. Ed è ben altro – e ne converrà – che il Sacco di Palermo dei Ciancimino&C.

Le sorelle Napoli di San Giuseppe Jato, le donne in lotta contro la mafia dei pascoli difese dai carabinieri del maresciallo Pietro Saviano e dalle telecamere di Massimo Giletti non trovano nessuno in piazza, è vero, e non perché i paesani siano mafiosi ma per diffidenza: ne hanno viste troppe di antimafie farlocche.

L’ultima delle quali – la mafia dell’antimafia – un paravento per gli affarucci di imprenditori col bollino della legalità.

C’è di peggio, gentile signora Bertoni, ed è l’abbandono cui è costretta metà Italia: relegata in un deserto; con i ragazzi – i figli di famiglia – costretti ad abbandonare i propri paesi e le proprie città per trovare il futuro altrove. Un inaudito contrappasso se si pensa che tutto quel Mediterraneo – con le sue risorse – è il transito del futuro per tutti gli attori della scena internazionale, dagli Usa alla Russia, dalla Cina alla furbissima Francia, ma è periferia solo per noi.

Pietrangelo Buttafuoco

I magistrati contabili lanciano l’allarme sulle infrastrutture

Controlli insufficienti, strutture inadeguate, rischio vuoti negli organici a causa della quota 100, pessimismo per il futuro. La foto scattata dal procuratore generale della Corte dei Conti Alberto Avoli rappresenta un’Italia in difficoltà, che rischia di perdere terreno rispetto agli altri paesi europei. La denuncia è arrivata durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte dei Conti. “L’Italia non dispone di un patrimonio infrastrutturale adeguato al suo sistema economico e produttivo”, ha detto Avoli, sottolineando che l’effetto si avverte anche sulla qualità di vita dei cittadini in termini di trasporti, viabilità, rifiuti e manutenzione del territorio. Inoltre, “la mancanza di congrui investimenti rischia di accrescere ulteriormente il gap” con l’Europa. Poi i timori su quota 100. “Le disposizioni in materia previdenziale suscitano notevoli preoccupazioni circa le ricadute sull’organizzazione degli uffici per i vuoti negli organici che presumibilmente si apriranno copiosi”, ha sottolineato Avoli, spiegando però che questi “vuoti” potranno rappresentare “un’occasione unica da non perdere per promuovere il ricambio generazionale con l’introduzione di specifiche professionalità aperte all’innovazione”.

Un buco non ferma la recessione

Il calo del Pil che ci ha fatto entrare “ufficialmente” in recessione è stato causato dalla debolezza della domanda interna. Le due principali misure economiche di questo governo – Reddito di cittadinanza e Quota 100 – non saranno sufficienti a invertire la tendenza recessiva, comune anche alla Germania e ad altri Paesi europei. Ecco allora un coro di voci – dalla Confindustria ai sindacati – che sostiene occorra rilanciare gli investimenti pubblici, “riaprire i cantieri” delle molte opere pubbliche in stallo per ostacoli amministrativi o contestazioni.

Tutti si rifanno alle vecchie ricette keynesiane (banalizzandole) per invocare maggior spesa pubblica. Il problema è che l’Italia, col debito pubblico che si ritrova, non può permettersi di aumentare la spesa pubblica in disavanzo, mentre questo già tende a crescere per effetto della recessione.

Un governo responsabile dovrebbe porsi la domanda: come si può stimolare una ripresa della domanda con il minimo aumento di spesa pubblica? La via migliore, senza alcun aumento di spesa, sarebbe quella di ristabilire un clima di fiducia che induca un aumento della propensione al consumo delle famiglie e della propensione a investire delle imprese. Un recente sondaggio ha chiesto a un gruppo di giovani come impiegherebbero un aumento del reddito disponibile. La prima scelta è stata “aumentare i depositi in banca”. L’incertezza sulle prospettive dell’economia e della finanza pubblica nel prossimo anno spinge alla prudenza nella spesa, sia i privati che le imprese; la forte caduta della ricchezza finanziaria contribuisce a deprimere la propensione al consumo. Serve a ben poco aumentare la spesa pubblica se non si invertono queste tendenze.

Altri modi per stimolare la domanda senza costi per lo Stato sono le liberalizzazioni e altri interventi normativi; ci sono poi spese pubbliche che hanno effetti moltiplicativi elevati, come ad esempio l’accelerazione degli ammortamenti o gli incentivi alla ricerca. Aumentare la spesa per investimenti è invece uno stimolo molto costoso per la finanza pubblica, e può risultare addirittura controproducente per i riflessi del maggior deficit sullo spread e sugli oneri per interessi sul debito pubblico.

Chi invoca l’aumento della spesa per le grandi opere pubbliche, quelli come la Confindustria che non ha dubbi sul Tav Torino-Lione solo perché genererebbe subito 50 mila posti di lavoro (numeri di fantasia) sembrano dimenticare che il problema vero della nostra economia non è quello di aggiustare la domanda al ciclo bensì quello della stagnazione “secolare”, della insufficiente crescita della produttività e del Pil da decenni. Avendo risorse scarse, si dovrebbero scegliere gli investimenti che possono contribuire maggiormente alla crescita della produttività e del reddito invece di quelli che hanno una maggior effetto immediato sulla domanda.

Scavare buche per terra, o nei monti, genera un immediato aumento del valore aggiunto nella contabilità nazionale, specie se la componente d’importazione è modesta, anche se non c’è un reale aumento nel benessere collettivo. Si ha poi un effetto moltiplicatore sulla domanda, quando il reddito di chi “scava” viene speso, come avverrebbe per una distribuzione di soldi gratuiti (helicopter money). Ma non migliora la produttività e le prospettive di crescita. Per queste occorrerebbe investire in istruzione, ricerca, reti, settori ad alta tecnologia.

Che prospettive può mai avere un Paese che investe in opere pubbliche con redditività stimata negativa persino ex ante? Qualunque opera pubblica può venir approvata perché “strategica” o sperando che “l’offerta creerà la domanda”, tanto, anche se tra 20 o 30 anni se ne dovesse dimostrare l’inutilità, chi si ricorderà mai di chi ne fu il fautore?

I tecnici Ue non credono al Tav: “L’Alta velocità è uno spreco”

È come se Bruxelles parlasse due lingue. Da un lato quella politica, che spinge per i corridoi europei dell’Alta velocità ferroviaria a qualunque costo. Dall’altro quella dei tecnici, che bocciano i progetti in termini di costi e benefici. Ieri la Commissione ha lanciato l’ennesimo avviso a Roma: il Tav “resta un progetto importante per l’Italia, la Francia e l’Ue” perché è un “progetto transeuropeo necessario per unire le Regioni e rafforzare la coesione: è un progetto di solidarietà e unione”. Insomma, l’Italia rischia di essere tagliata fuori dalle super reti ferroviarie europee. È quello che da 20 anni raccontano i fan dell’opera e ora ripete la Commissaria ai Trasporti Violeta Bulc: la Torino-Lione sarebbe l’anello mancante del Corridoio che inizialmente dal confine ucraino doveva arrivare a Lisbona (oggi ridimensionato) e che Bruxelles pretende.

Sarà vero? A giugno la Corte dei Conti europea (Eca) ha pubblicato un corposo rapporto in cui spiega che le cose stanno diversamente: “La rete ferroviaria ad Alta velocità in Europa non è una realtà, bensì un sistema disomogeneo e inefficace”, si legge nell’incipit. Oggi Bruxelles non dà peso all’ultima analisi costi-benefici che stronca il Tav. Eppure per l’Eca di questi dossier ce ne sarebbe assai bisogno: “L’idea di costruire queste linee si basa spesso su considerazioni politiche, non su analisi credibili, ed è raro che ci si avvalga di analisi costi-benefici per approdare a decisioni efficienti in termini di costi”.

Il rapporto non menziona la Torino-Lione, ma boccia l’idea che sta alla base dell’opera. Dal 2000, l’Ue ha investito 23,7 miliardi in infrastrutture ferroviarie ad Alta velocità, ma non esiste un piano realistico a lungo termine né una vera rete europea ad alta velocità, bensì un sistema disomogeneo e inefficace di linee nazionali mal collegate fra loro. Quelle transnazionali spesso non rientrano tra le priorità dei Paesi – nonostante gli accordi bilaterali – e per questo “l’obiettivo di triplicare le linee (fino a 30 mila km) entro il 2030, completando i corridoi della rete centrale europea, non sarà raggiunto”. Fra 12 anni, attraverso la Torino-Lione non si andrà in tutta Europa ad alta velocità. Da Venezia verso Est non c’è nulla, mentre l’Eca ricorda che la tratta Lisbona-Madrid non esiste. È stata considerata “eccessivamente onerosa” e ridimensionata. Il governo portoghese non la vuole. Al momento “non è disponibile nessun collegamento ad alta velocità transfrontaliero”: il Portogallo ha ricevuto 43 milioni per gli studi preparatori, mentre la Spagna ha fermato i lavori. Non va meglio altrove. Molte linee transnazionali sono strozzate. La Germania, per dire, non vuole costruire la tratta nazionale che collegherà Monaco al tunnel del Brennero tra Francia e Italia prima del 2040. E, quindi, “1,5 miliardi Ue saranno praticamente considerati inutili per oltre 20 anni”.

In generale per l’Eca vi sono dubbi circa l’efficienza, in termini di costi, di queste reti. Ha effettuato un’inchiesta in sei Stati (Francia, Spagna, Italia, Germania, Portogallo e Austria) e analizzato la spesa per oltre 5 mila km di linee. Il primo dato emerso è che sono troppo costose: il costo medio per chilometro è di 25 milioni. Per 4 delle 10 linee analizzate, ogni minuto di tempo di percorrenza risparmiato costerà più di 100 milioni, in alcuni casi (Stoccarda-Monaco) si arriva a 369. Se si considerasse seriamente l’alternativa di potenziare le linee convenzionali esistenti – spiega la Corte – si potrebbero risparmiare miliardi.

Non sempre, infatti, le linee ad alta velocità sono necessarie “dati i costi elevati e il fatto che le velocità medie raggiungono solo il 45% della capacità massima, mentre gli sforamenti di costo e i ritardi di costruzione sono la regola”. La loro sostenibilità “è bassa e l’efficacia degli investimenti insufficiente, dato il basso numero di utenti registrato”. Secondo i tecnici dell’Eca, perché abbia successo, una linea ad alta velocità deve raggiungere i 9 milioni di passeggeri l’anno. In tre delle 7 completate e analizzate il dato è assai inferiore, nonostante i 10,6 miliardi spesi, di cui 2,7 messi dall’Ue, che quindi sono stati usati “in modo inefficace”. Per nove delle 14 linee e collegamenti transfrontalieri controllati, il numero di potenziali passeggeri “non era sufficientemente elevato da decretarne il successo”.

Dal dossier si capisce anche perché, a fronte di questi risultati, Bruxelles spinga lo stesso per andare avanti: i controlli dell’Agenzia per le reti transeuropea che gestisce i fondi “si focalizza sulla costruzione in quanto tale e non guarda né i risultati né l’utilizzo delle linee, che non vengono valutati”. Non esiste neppure “un organo che possa stabilire se i progetti cofinanziati dall’Ue sui corridoi della rete centrale abbiano raggiunto gli obiettivi basati sui risultati”.

L’urlo dei pastori nell’isola dell’oro bianco: non siamo pecore

C’è una patina bianca sull’asfalto della strada statale E25, la lingua di cemento che taglia la Sardegna da Sassari a Cagliari. Ettolitri di latte versato a terra hanno schiarito il colore della carreggiata, come una mano di tinta. Sono i giorni dei pastori: l’intera isola sembra assorbita dalla protesta. Non è la prima: qui la rabbia sale e scende con il prezzo di quello che chiamavano “oro bianco”. Vale talmente poco, per quanto è pagato, che lo buttano via. Ma stavolta qualcosa è diverso. Lo dicono tutti, nei picchetti e nei blocchi stradali: “La gente non aveva mai reagito così”. Tutta la Sardegna è dalla stessa parte. Il filo che unisce l’isola è sul manto sbiadito delle strade come nelle lenzuola bianche appese ai balconi per appoggiare il movimento, negli striscioni sui cavalcavia (A innantis pastoris) e nelle serrande abbassate dei negozi chiusi per solidarietà. Tutti con i pastori: studenti e insegnanti, commercianti, cittadini comuni, persino i calciatori.

Così non si sopravvive, “rischiamo tutti”, continuano a ripetere. Piccoli allevamenti e grandi aziende. Quella di Gianfranco Mangatia, tra Alghero e Sassari è un gioiello. Una storia che inizia con il nonno – 11 ettari di terreno e 100 pecore – e prosegue fino ai nipoti (ora gli ettari sono 500 e le pecore 1.500). Quattro anni fa i Mangatia hanno acquistato un macchinario di avanguardia assoluta, si chiama SG300 DeLaval. Sono stati i primi in Italia. La produzione di ogni ovino è registrata al momento della mungitura: è una app a organizzare ed elaborare i dati. I tempi per la raccolta del latte sono così dimezzati (da 5 a 2 ore e mezza) e si tiene sotto controllo il rendimento di ogni singolo capo di bestiame. Così nel tempo si forma un gregge straordinario: le pecore che producono meno latte vengono vendute, le altre restano. “Ma con una crisi così rischia anche un’azienda come la nostra”, spiega Gianfranco. “Abbiamo programmato e investito, ma con il latte a 60 centesimi è come lavorare gratis”.

Mangatia ha iniziato ad aiutare il padre pastore a 11 anni, ma pensa e parla come un economista: “È ciclico, ogni 5 o 6 anni si ricomincia con la storia del pecorino. Noi ci siamo evoluti, chi produce il formaggio, no. Non fanno innovazione, si vende sempre e solo il benedetto ‘romano’. E il prezzo così crolla”. Accanto a Gianfranco c’è il figlio piccolo, Francesco. Affonda le mani nel mangime delle pecore, corre avanti e indietro, pende dalle labbra del papà. “Già ci dà una mano, pulisce le corsie e segna gli agnellini. Quando lo sveglio per andare a scuola ci mette un quarto d’ora per tirarsi su, ma quando deve passare la giornata in campagna scappa dal letto in un minuto. Qualcuno ti dirà che spera che suo figlio diventi medico o avvocato, ma il sogno di ogni pastore è che continui la tradizione”.

A qualche chilometro dai Mangatia ci sono i campi di Giuliano Sanna. Un grande uomo sorridente, spalanca le porte del suo allevamento all’imbrunire, mentre inizia la mungitura. La fa ancora a mano, è rimasto tra i pochi. “Un anno così e chiudiamo tutti”, dice. La sua vita è tra i campi dei pascoli e i campi di calcio. “Faccio il direttore sportivo dell’Ottava, una squadra di seconda categoria. Ma quest’anno li riporto in prima, promesso. Mi chiamano il Moggi di Sassari”, ride. Parte dal pallone e arriva al latte: “Io sono del Milan ma voi a Roma avete Totti… è un grande! Poteva andarsene, è rimasto sempre fedele alla sua terra. Come noi. Io non voglio soldi, non voglio fare il mantenuto. Voglio che ci paghino il latte al prezzo giusto”. Pure Giuliano ha ereditato il lavoro del nonno. Oggi ha 50 anni, a fare figli non ci pensa. Il senso del futuro svanisce: “Ti guardi alle spalle e vedi che gli antichi ci hanno dato delle lezioni. Iniziavano con 15 pecore, costruivano le loro vite pezzo per pezzo. Hanno creato queste aziende. E noi stiamo tornando indietro… Mi ha scritto mio nipote dall’Irlanda, è lì per uno scambio culturale. Dice che alla tv hanno parlato dei pastori sardi. Siamo una notizia mondiale”.

Le immagini della protesta sono virali: tv, giornali, web

È come se l’ennesima ingiustizia, la più plateale, subita da questo popolo sfinito, lo avesse fatto sussultare e riunire. I pastori sardi rovesciano a terra il loro latte, gettano via il loro lavoro, perché “meglio darlo ai maiali” o alla strada, che farsi umiliare. L’industria lo paga 60 centesimi al litro: meno di quanto costa produrlo. Eppure, “l’oro bianco” è il prodotto di pecore portate al pascolo, non esistono allevamenti intensivi qui. Ed è cresciuto negli anni di qualità, tanto da essere considerato tra i migliori al mondo (specie per l’alta concentrazione di CLA-Acido linoleico coniugato che impedisce la crescita del colesterolo).

È una crisi questa che ha un nome: pecorino romano. Su 12 mila imprese pastorali sarde, circa 10 mila vendono latte che serve a fare il “romano”. Da sempre. Per i caseifici è il prodotto perfetto: la lavorazione è semplice, può essere conservato molto a lungo e va a ruba negli Stati Uniti. O meglio, andava a ruba: nel 2018 le vendite sono crollate, le esportazioni calate del 46% (Istat). La sovrapproduzione è diventata clamorosa: sono stati lavorati 60 mila quintali di romano in più rispetto a quelli programmati dal consorzio di tutela. Risultato: il formaggio resta nei magazzini, il prezzo crolla e i produttori scaricano sui pastori. E inizia la rivolta. L’odio per gli industriali passa di bocca in bocca. I blocchi vanno avanti in ogni angolo della Sardegna da giorni, sulle strade statali e davanti ai cancelli delle industrie di trasformazione. Il picchetto più grande è a Thiesi (Sassari) davanti allo stabilimento dei fratelli Pinna, una nota famiglia di produttori. I cancelli sono presidiati notte e giorno: non passano i crumiri, nessuno può più portare il latte qui.

Uno vale uno: un movimento senza né capi né padroni

L’organizzazione è fluida, si coordina su whatsapp, ha molte anime e alcune figure di riferimento ma nessuno che la controlla: non c’è un leader né una direzione precisa. Naturale è il paragone con i Gilet gialli francesi: anche qui tutto è iniziato con i blocchi stradali, e non mancano forzature e atti violenti (i tir a volte vengono inseguiti, e costretti a svuotare cisterne da centinaia di litri di latte). Il movimento ha una richiesta chiara: “Il prezzo del latte dev’essere fissato a una cifra minima di 1 euro più iva”. Roberto Congia è uno dei portavoce dello storico Movimento Pastori Sardi. Sono quelli diventati celebri con le loro magliette blu e decenni di proteste clamorose. Negli anni 90, per dire, brandivano e lanciavano le carcasse delle pecore sgozzate contro il palazzo della Regione. Il loro “capo” è ancora lo stesso di allora, Felice Floris, protagonista (anche mediatico) di tutte le crisi degli ultimi 30 anni. Ma stavolta le t-shirt blu le hanno lasciate nel cassetto: questo nuovo movimento non riconosce autorità. “Senza una guida la protesta può prendere qualsiasi forma – sostiene Congia – e può succedere anche il peggio. È vero che può scapparci il morto. Ma chi sarebbe a quel punto il responsabile: il pastore o chi ha creato questo sistema?”.

Barba incolta, coppola di lana in testa, è stremato da queste giornate divise tra i presidi e la fattoria di Sanluri, 40 chilometri a nord di Cagliari. “Salvini ha detto che avrebbe trovato una soluzione in 48 ore (sono scadute, il tavolo al Viminale non è stato risolutivo, ndr). Le pare un problema che si chiude in due giorni?”, prosegue. “Una volta eravamo di sinistra, quando c’era la sinistra. La Lega disprezzava la Sardegna. Io non dimentico che Maroni ci ha fatto prendere a manganellate a Civitavecchia, nel 2010. E non dimentico chi è Salvini. Ma si prenderà tanti dei nostri voti, qui, alle Regionali di domenica prossima”. “Ho iniziato a lavorare da bambino, intanto studiavo”, racconta Congia. “Mi sono diplomato, ho iniziato l’università e ho mollato. Erano gli anni 90, amavo questo mestiere e pensavo che avrei avuto una vita dignitosa. Quanto mi sono pentito…”. E il suo sguardo tradisce mesi di angoscia: “Sul cellulare ho bloccato il numero del direttore della mia banca. Una crisi come questa ti toglie 50 mila euro in un solo anno”. C’è un senso ricorrente di malinconia e decadenza. Anche Roberto si guarda indietro: “La nostra azienda l’ha fatta nascere papà. Ci ha fatto studiare, ha tirato su casa. Io non riuscirò a fare una casa per i miei figli, spero di conservare almeno quella che ho”.

“Io, posseduta fin da piccola: giravo i piedi all’incontrario”

Pronto, Virginia Raffaele?

Sì, un attimo soltanto ché c’ho una vergine sul fuoco e non vorrei si scuocesse.

Ecco, proprio di questo volevo parlarle. Con lo sketch di Sanremo in cui nomina per ben cinque volte Satana fingendosi un grammofono inceppato sulla canzone Mamma di Beniamino Gigli, lei ha gettato la maschera: come minimo è una satanista, per non dire una strega. Lo dicono fior di esorcisti e ne parlano vari esperti del ramo. Tipo gli onorevoli Salvini, Gasparri, Fioroni, Pillon.

In effetti, ora che ci penso, da piccola riuscivo a girare i piedi all’incontrario. Tant’è che ho ancora le rotule allentate. Avrei pure delle foto, ma non gliele do, sennò sono spacciata.

Sarebbe importante averle: è la prova documentale, la pistola fumante della sua possessione fin da tempi non sospetti.

Impossibile. Le ha mia madre in soffitta. E quella è veramente l’inferno, quarto girone: quello dei disordinati. Però se dovessi ritrovarle all’improvviso qui in casa da me, vorrebbe dire che c’entra Satana. Nel qual caso, sarà mia cura mandargliele.

Vedendola coi piedi girati, i suoi genitori hanno mai pensato di portarla dall’esorcista?

Non proprio, che io ricordi. Però mi mandarono a scuola dalle suore. Come vede, sono in pieno conflitto d’interessi: ex allieva delle monache e satanista.

Non faccia la furba. L’Associazione Nazionale Esorcisti l’ha sgamata: lei ha “trasformato il palco di Sanremo in un inquietante pulpito da cui per ben cinque volte si invoca il nome di Satana e si ridicolizzano le persone che soffrono a causa del demonio”.

A me dispiace sempre, quando qualcuno soffre, o si offende, o ci rimane male. Ma sono troppo ironica per lasciarmi trascinare in una polemica così tetra e lugubre, oltreché surreale. Io preferisco farmi una risata, ovviamente satanica, e raccogliere tutti i fotomontaggi che girano in Rete sull’argomento: il mio preferito è quello con me a testa in giù accanto a Maria De Filippi, con un esorcista che scende le scale all’incontrario e la scritta: ‘Tutte coincidenze? Io non credo’.

Lei ha usato l’incolpevole Beniamino Gigli e la sua innocente Mamma per evocare Belzebù.

E questo rende tutto molto rock and roll. Non solo era rock il mio sketch, che ironizzava con un back musking, un’illusione uditiva, sugli esperimenti anni 70 di chi ascoltava certi brani a rovescio, dai Beatles ai Rolling Stones, dagli Eagles agli AC/DC, dai Pink Floyd ai Led Zeppelin, ad Alice Cooper a Ozzy Osbourne, e vi trovava tracce di invocazioni demoniache e incitamenti a strani riti. E io ho usato il cantante meno rock di tutti, Beniamino Gigli, che invece si è rivelato a mia insaputa super-rock. Ma ora diventa rock anche questa polemica surreale, che è un bel reperto del costume della nostra epoca. Fra qualche anno, spero, diremo: guarda tu che succedeva nel 2019.

Illusione uditiva un corno (senza offesa). È intervenuto anche il vicepremier Salvini. Dice che “condivide le preoccupazioni” degli esorcisti e che “non bisogna sottovalutare il problema”. Dica la verità: lei mi sottovaluta il problema.

Chi, io? Ma nemmeno per sogno. Solo che ho un problema: non ho proprio capito qual è il problema.

Lo vede che sottovaluta? L’ex ministro del Pd Beppe Fioroni e il senatore forzista Maurizio Gasparri si attendono da lei una risposta chiarificatrice.

Ma volentieri. Solo che non ho capito la domanda. Se me ne fanno una normale, magari la capisco e rispondo. Lei l’ha capita?

Io no, ma non faccio testo: sono posseduto da un bel pezzo. E comunque Gasparri dice che è lei che “deve chiarire il mistero”.

Ma i misteri non si svelano, sennò che misteri sarebbero.

Dica la verità: quando si riunisce con le sue colleghe streghe per i sabba?

Solo di sabbato.

Avrà in casa il kit delle messe nere, spero. Tipo le candele nere.

No, solo rosa: sarà grave?

Il senatore leghista Pillon trova grave che lei invochi Satana “davanti a tanti minori”.

A me, più che i minorenni, preoccupano certi maggiorenni in circolazione. Roba che i minori non dovrebbero più uscire di casa. Ma poi che vogliamo fare: vietare ai minori pure L’esorciccio? O Il marchese del Grillo per l’esorcismo a Gasperino il carbonaro? O Amici miei-atto III con il Sassaroli-Adolfo Celi travestito da diavolaccio che spaventa a morte il Righi-Bernard Blier? Io mi ammazzo dal ridere.

Tutta qui, la sua autodifesa?

Massì, perché non capisco l’accusa! Oddio, potrei anche dire che sul palco dell’Ariston non ero io. In fondo l’ho sempre detto che sono posseduta dai miei personaggi. Forse ero la Vanoni, anzi la Fracci, o magari Belén, o meglio la Bruzzone.

La criminologa dark.

La Bruzzone sarebbe un ottimo alibi. Ora che ci penso, nei miei vecchi sketch, la mia Bruzzone parlava spesso di diavoli. La fiammiferaia di Satana, la maestra di Belzebù, la lavandaia del Demonio che smacchia male le camicie… Dev’essere partito tutto di lì.

Sul palco dell’Ariston lei era posseduta.

E che ne so. C’è stato quel momento di meta-televisione in cui c’eravamo insieme io, la vera Vanoni e la vera Patty Pravo. Forse lo spiritello ne ha approfittato per entrarmi dentro in quell’istante lì. Sa come sono fatti: sono tremendi.

Ah, non lo dica a me.

È inutile che insista, tanto neanche lei riuscirà a farmi perdere l’ironia e il buonumore. Io spero di essere posseduta – e su questo participio non accetto battute – soltanto dal sacro fuoco del mio lavoro. Ora vado, perché ho Belze a cena. Quello mangia tutto alla griglia, sennò poi chi lo sente… Tremate, tremate, le streghe son tornate!

Più insulti gli immigrati, più ti invitano nei talk

Giovedì sera a Piazza Pulita è andata in onda una delle scene più avvilenti a cui mi sia capitato di assistere in questi tempi già piuttosto barbari per il livello (infimo) del dibattito su italiani e stranieri. Il tema era l’assegnazione delle case popolari a Sesto San Giovanni, roccaforte rossa crollata nel 2017 con l’elezione del sindaco di centrodestra Roberto Di Stefano, che sulla scia di quello accaduto a Lodi con le mense scolastiche, ha di fatto impedito alla maggior parte degli stranieri di poter ottenere una casa popolare.
L’escamotage burocratico è il solito: si chiede una documentazione che attesti l’assenza di altre fonti di reddito nel Paese di origine, ma tale documentazione è di complessa reperibilità e gli stranieri, pur risultando tra i primi in graduatoria, vengono tagliati fuori.

Gli ospiti invitati a dibattere erano, tra gli altri, il sindaco di Sesto San Giovanni Roberto Di Stefano e il consigliere regionale nonché moglie di Di Stefano, Silvia Sardone. Il servizio sulle condizioni di vita di alcuni stranieri a Sesto era impressionante. Rania, egiziana, vive in pochi metri quadri con i suoi figli di cui uno con la talassemia e la necessità di un trapianto di midollo. Hanno un bagno condiviso con 90 persone, in una vecchia fabbrica occupata, da cui a marzo tutti dovranno andare via. I bambini raccontano degli scarafaggi, del freddo, dei compagni di scuola che scrivono la lettera al sindaco perché anche loro possano avere una casa di mattoni.

Il dibattito inizia con toni normali finché non prende la parola Silvia Sardone, che al grido di “prima gli italiani” inizia a schiamazzare contro chiunque abbia posizioni orribili, estremiste, anti-democratiche quali “prima le persone” o “restiamo umani”. Se qualcuno parla, lei consulta il telefonino, interrompe con la petulanza della Santanchè e il populismo da bar di Salvini, tant’è che a un certo punto perfino il mite conduttore, Corrado Formigli, perde la pazienza e le dice che quei toni sguaiati gli fanno schifo, che non è facile come dice lei avere quella documentazione. La Sardone gli punta il dito contro: “Mi sta dicendo che sto mentendo?”, il pubblico rumoreggia, gli altri ospiti sono annichiliti. Tutti, compreso il marito, che probabilmente pur di scappare dalla casa che condivide con la moglie, farà richiesta di una casa popolare pure lui (ieri sera abbiamo capito chi dei due è il vero sindaco di Sesto San Giovanni).

L’egiziana Rania, quella col figlio malato, le spiega con calma che per avere la documentazione richiesta dovrebbe spendere 30.000 euro e avere documenti da 27 regioni egiziane. La bionda consigliera si stizzisce: “Signora, lo sa che lei sta commettendo un reato perché sta occupando abusivamente una palazzina?”. A nulla serve spiegarle che sta parlando con una donna in difficoltà, che se non fosse impantanata in questa burocrazia strumentale avrebbe diritto a una casa popolare. Formigli è così disperato che si rivolge a Pietro Senaldi, direttore di Libero, ripeto, di Libero, chiedendo a lui di riportare un po’ di saggezza sul tema stranieri nella discussione, che è tipo chiedere a Cristiano Malgioglio di riportare un po’ di sobrietà a una festa. Gli domanda addirittura se tutto questo odio non sia pericoloso. Al direttore del giornale che titolò “Bastardi islamici”. E il bello è che Pietro Senaldi, dopo le farneticazioni rabbiose della Sardone, finisce per sembrare davvero Gino Strada.

Ora, a parte l’agghiacciante disumanità del teatrino, a parte la tesi ridicola e sottintesa secondo la quale Rania e il marito nasconderebbero trilocali vista piramidi in Egitto per vivere in Italia in un buco con gli scarafaggi giusto per il gusto di fregare gli italiani, quello che fa effetto è il pulpito. Silvia Sardone, l’italiana integerrima, ex frequentatrice del Circolo del Buongoverno di Marcello Dell’Utri, militante in Forza Italia fin da giovanissima (ora fuori da Forza Italia e poco amata perfino dalla Lega che non la vuole), a 27 anni diventò presidente di Afol (Agenzia per la formazione del lavoro) fortemente voluta da Guido Podestà, allora presidente della Provincia. Qui, tra nomine riservate ad amici incapaci e spese contestate, fece tali e tanti casini che venne denunciata dai revisori dei conti. Proprio la Corte dei conti, a distanza di anni, la ritiene ancora responsabile di un danno erariale di 244.000 euro e l’ha più volte invitata a fornire documentazione in sua discolpa. Ahimè, la signora che ritiene facile per uno straniero procurarsi i documenti di decine di regioni in Ecuador, fatica a procurarsi dei documenti a Milano.

Ma la Sardone è anche colei che quando si diffuse la fake news del bar di Pioltello dove alcuni marocchini avevano festeggiato l’attentato di Manchester, postò la notizia su Facebook invitando tutti a condividere. Quel bar subì un attentato incendiario nella notte. È quella che nel 2014, in piena emergenza profughi, fotografò dei bambini che dormivano per terra in stazione e pubblicò tutto su Facebook gridando allo scandalo. E subito dopo inviò email ai programmi tv chiedendo di essere invitata “perché ho avuto risalto sui media per la foto dei bambini siriani a terra nella sporcizia!”. Cosa che si è ripetuta anche dopo l’edificante partecipazione a Piazzapulita. Sul telefono di molti conduttori e autori tv infatti, ieri è apparso il seguente messaggio: “Buongiorno, sono Silvia Sardone, consigliere regionale in Lombardia, uscita da Forza Italia e ora vicina alla Lega (la Lega lo sa!? ndr). Questa settimana sono stata ospite a DiMartedì e Piazzapulita, le scrivo per segnalarle che sono disponibile a venire ospite in trasmissione!”. Insomma, è convinta di aver fatto una bella figura.

Del resto, c’è chi chiede una casa popolare e chi, forse con la medesima disperazione, cerca di essere popolare e basta.

Pil, anche Fitch taglia le stime di crescita nel 2019: da 1,1% a 0,3%

Dopo il Fondo monetario internazionale e la Commissione europea anche l’agenzia di rating Fitch e la società di consulenza e ricerca economica Prometeia tagliano le stime di crescita del Pil italiano per il 2019. In particolare, Fitch rivede al ribasso tutta l’eurozona – dall’1,7% all’1% – spiegando che “negli ultimi mesi i dati sull’attività economica si sono deteriorati in modo più drastico che in altre parti del mondo”. Ma l’Italia è il Paese che frena di più, con le previsioni sul Pil ridotte dall’1,1% allo 0,3%, assieme alla Germania (dall’1,7% ad appena sotto l’1%). Per la Francia la revisione è dall’1,7 all’1,4% e per la Spagna dal 2,3 al 2,1%. Mentre Prometeia ha tagliato le stime sulla crescita italiana, aspettandosi un 2019 in espansione dello 0,1% contro lo 0,5% di appena un mese fa. La società nota come i dati più recenti indicano che la debolezza evidenziata dalla recessione nella seconda perte del 2018 “è continuata nel primo trimestre”. Secondo Prometeia, tuttavia, “la stabilità del ciclo internazionale e la realizzazione delle misure a sostegno dei redditi riporteranno la crescita del Pil in territorio positivo più avanti”, passando da un -0,3% su anno a gennaio-marzo a un +0,7% nell’ultimo trimestre.