Renzi show in Arabia: “Servono emozioni, io tornerò al governo”

“We need Big data, but we also need big emotion”. Per sentirlo parlare al Global Citizen Forum c’è anche chi ha speso fino a 2.300 dollari, necessari ad assicurarsi l’ingresso alle conferenze e alla cena di gala. Per non deludere gli ascoltatori, Matteo Renzi sceglie la strada del sentimentalismo, con un gioco di parole a metà tra la letteratura rosa adolescenziale e lo slogan di un sito di incontri online: abbiamo bisogno dei big data, ma anche di grandi emozioni.

Per essere a Ras al-Khaima, un’oretta d’auto da Dubai, Renzi ha fatto i salti mortali. Subito dopo l’ospitata ad Atreju alla festa di Fratelli d’Italia, sabato è partito per gli Emirato Arabi spostando gli appuntamenti con Matteo Salvini e Giovanni Toti per discutere di Quirinale. Troppo importante l’ennesimo evento tra emiri e sceicchi, anche perché nel board dell’organizzazione non-profit che organizza il Forum ci sono Cherie Blair, moglie di Tony, e Moe Al Thani, membro della famiglia reale del Qatar.

Negli Emirati, Renzi interviene due volte. La prima domenica, con un quarto d’ora di discorso in solitaria. E poi ieri, intervistato in un dibattito sulla crisi delle istituzioni globali insieme all’ecuadoregna Maria Fernanda Espinosa e all’ex presidente delle Mauritius, Ameenah Gurib-Fakim. Ma è nello one-man show che Renzi dà il meglio. Passeggia sul palco, gesticola, carica di mostarda ogni “very very” che gli esce dalla bocca: “Immaginare il futuro da qui al 2030 non è facile, soprattutto per la politica – ammette in un inglese che qui ci permettiamo di profanare –, ma la grande differenza sarà tra quelli che credono nella cittadinanza globale e quelli che credono nel sovranismo”.

Forse gli Emirati Arabi non saranno il nuovo Rinascimento dell’Arabia Saudita, ma di fronte ai componenti del Consiglio federale seduti in platea è meglio non farsi trovare preparati con gli elogi: “Se 30 anni fa mi avessero detto che gli Emirati avrebbero fatto meglio dell’Italia in termini di turismo non ci avrei creduto, invece grazie al grande lavoro che avete fatto oggi ci avete superato in molti aspetti”. Poi arriva il momento più romantico e Renzi non si tiene: “Future is in motion, but also in emotion”. “Andremo nello Spazio, ma dobbiamo anche riscoprire le nostre anime”. Per finire col già citato bisogno di “grandi emozioni”, antipasto di quel che Renzi snocciola il giorno dopo durante la tavola rotonda sulla “governance globale”.

L’ex premier scherza sulla fragilità degli esecutivi italiani, ricordando che “da qui a dieci anni probabilmente avremo altri nove governi” e che “la politica italiana è la cosa più difficile da capire, peggio della scienza e delle istituzioni europee”. L’idea che a fare e disfare i governi in Italia sia lo stesso Renzi non entra neanche di striscio nella lussuosissima sala conferenze del Waldorf Hotel.

Il senatore semplice ha parole al miele per Mario Draghi, grazie al quale “siamo tra i migliori in Europa per numero di vaccinazioni”. Ma quando gli chiedono che ruolo giocherà nei prossimi cinque anni e se ha l’ambizione di tornare al governo, sembra ghignare: “In Italia tutti possono tornare (applausi in sala, ndr) quindi non è un discorso di mie ambizioni, ma di cose ordinarie”. Subito dopo però Renzi torna a volare alto: “Il mio sogno più grande sarebbe lavorare con i giovani, fare qualcosa per le prossime generazioni”. Un involontario déjà-vu di quando Silvio Berlusconi fantasticava di ritirarsi dalla politica per aprire ospedali pediatrici in Africa e costruire università insieme agli amici Vladimir Putin e George W. Bush.

La conclusione del panel è un po’ spiazzante. Chiede il presentatore: “Ti posso dare un dollaro, un euro, una frazione di bitcoin o un pezzetto d’oro. Cosa prendi?”. Visti i tempi che corrono, Renzi ne esce da patriota: “Mi ricordo del debito pubblico italiano, quindi preferisco gli euro”. Nel dubbio, meglio farlo presente ai facoltosi emiri in sala.

Il Caimano ricatta Draghi e ordina ai suoi: “Franchi tiratori contro il premier”

È il paradosso del centrodestra che può contare ma non vuole. Che per la prima volta potrebbe eleggere un presidente della Repubblica gradito, ma rischia di rimanere bloccato di fronte a un muro. Quel muro, oggi, si chiama Silvio Berlusconi. Perché da una parte c’è Matteo Salvini che ieri, anche in chiave anti-Meloni, ha preso l’iniziativa avviando una serie di consultazioni tra i leader di partito per chiedere “un tavolo di confronto” ed eleggere “un presidente della Repubblica condiviso”. Dall’altra però, sia Salvini che Giorgia Meloni non hanno grande spazio di manovra: entrambi sanno – e lo sanno anche gli avversari, che quindi ci giocano – che fino a che la candidatura di Berlusconi resta sul tavolo, qualunque altra ipotesi resta prematura. Anche quella di Mario Draghi. Lo ha detto Enrico Letta una settimana fa ad Atreju e il leader della Lega se lo è sentito ripetere in queste ore nel suo giro di consultazioni ben pubblicizzate: “Finché c’è Silvio, non c’è Mario”.

Anche perché, da Arcore, Berlusconi non fa niente per far pensare a un suo passo indietro. Anzi, ha intensificato le sue manovre per il Colle perché ha capito che quella che fino a qualche mese fa sembrava solo un’ipotesi fantascientifica adesso può diventare concreta. E quindi non solo Berlusconi prosegue con lo scouting parlamentare (nelle prossime ore scenderà a Roma), ma per la prima volta sta portando avanti anche una contro-campagna per sbarrare la strada a Draghi. “E chi ha detto che Forza Italia lo voterebbe al primo scrutinio?” è stata la minaccia che in queste ore il capo ha fatto trapelare parlando con alcuni fedelissimi.

Nel mezzo resta Salvini che ieri, come annunciato sabato, ha sentito tutti i leader per aprire un confronto sul prossimo Capo dello Stato. Una mossa per rispondere a Meloni che la scorsa settimana è stata la madrina del “salotto” di Atreju, dove sono arrivati ministri e segretari di partito. Così ieri Salvini ha sentito in fila Berlusconi, Meloni (uno scambio di sms), Enrico Letta, Giuseppe Conte (un sms per chiedergli un incontro), Matteo Renzi, Carlo Calenda, Lorenzo Cesa, Luigi Brugnaro, Roberto Speranza e ha incontrato Giovanni Toti.

Un modo, quello di Salvini, per prendere con loro i primi contatti ma senza entrare nello specifico, evitando tempi e nomi. Tant’è che, in serata, il leader della Lega è costretto ad accogliere le rimostranze di Conte, Letta e Meloni che separatamente gli avevano fatto sapere che “non è questo il momento” di un tavolo per il Colle invitandolo a parlarne “dopo la manovra”. Così sarà, come fanno sapere in serata fonti del Carroccio. Salvini però fa capire che, per eleggere il prossimo Presidente della Repubblica, servirà un “percorso di pacificazione” come quello di cui il leader leghista “aveva parlato pochi mesi fa con Draghi”. Ergo: una maggioranza più ampia possibile e non spacchi in due il Parlamento. Metodo che porta dritti verso la candidatura larga di Draghi. Ed esclude quella di Berlusconi. Tant’è che nella sua telefonata di ieri con il leader di Fi, Salvini non avrebbe esplicitato il sostegno diretto del centrodestra alla candidatura dell’ex premier. Giancarlo Giorgetti negli stessi minuti dice che non è immaginabile che a febbraio “Draghi non sia nè a Chigi né al Quirinale” e che per eleggere Berlusconi “non bastano i voti del centrodestra”.

E qui si arriva all’ex premier. Quest’ultimo sta alzando il tiro contro Draghi facendo sapere agli alleati che interpreterebbe il loro sostegno al premier in primis come un fatto controproducente per Meloni e Salvini perché, a suo dire, l’ex banchiere dal Colle “non darebbe l’incarico a nessuno dei due”. E poi riterrebbe la sua elezione col sostegno degli alleati come un “tradimento”. Per questo Fi potrebbe staccarsi, facendo mancare nel segreto dell’urna i suoi 127 voti. Pesantissimi perché senza quelli il premier rischierebbe di essere impallinato alla prima votazione. Dal partito azzurro ricordano addirittura il precedente del 1999 quando a Carlo Azeglio Ciampi fu eletto al primo scrutinio, ma con 707 voti sugli 892 a disposizione. Ne mancavano 185. Un potere di ricatto che Berlusconi può avere fino a un certo punto perché nemmeno lui potrebbe opporsi all’elezione di Draghi ma che, nel frattempo, blocca gli alleati. Che per tenerselo buono continuano a nominarlo come candidato. Ma più lo fanno e più rimangono impantanati sul suo nome.

Ripresa diseguale e insufficiente: 500 milioni di ore lavorate in meno

Almeno per questo giro, niente miracolo economico. Nel trimestre estivo, quello in cui erano le aziende a lamentare addirittura di non trovare lavoratori, i dati sull’occupazione dicono che la crescita sta andando avanti – più 121mila occupati rispetto al trimestre precedente – ma non sembra all’altezza delle aspettative ottimistiche generate dall’aumento del Pil (+2,6%), dagli annunci del governo e dal coro dei media sull’Italia “locomotiva d’Europa”: e ora il ritmo della crescita (vedi l’ultimo dato della produzione industriale) pare persino rallentare.

Dai numeri diffusi ieri dall’Istat viene fuori infatti che nel periodo tra luglio e settembre le ore lavorate sono state poco meno di 10,5 miliardi, aumentate dell’1,4% rispetto al periodo aprile-giugno, ma ancora lontane dai livelli pre-Covid, quando si attestavano sempre attorno agli 11 miliardi per trimestre, 500 milioni in meno. Come sempre alla base di questi numeri c’è la natura debole e precaria delle nuove assunzioni.

La situazione varia a seconda del settore: nelle costruzioni, spinte dai bonus, si lavora oggi stabilmente più che nel pre-Covid, l’industria ha quasi recuperato, i servizi invece sono a terra. Vale sempre la pena ricordare che anche prima della pandemia, l’Italia scontava un ritardo di circa 2 miliardi di ore lavorate all’anno rispetto al 2008, il picco prima dell’altra crisi.

Tornando ai dati di ieri, rispetto a un anno prima (il 2020 del Covid), nel terzo trimestre 2021 abbiamo 585 mila dipendenti in più: solo 228 mila a tempo indeterminato, però, e 357 mila a termine. Di questi ultimi, quasi un terzo è pure part time. Contemporaneamente è proseguita la discesa degli autonomi, come succede da ben dieci trimestri consecutivi: questa volta il contatore segna -80 mila, ma anche qui se prendiamo solo i part time c’è invece un aumento di 110 mila. È tornata la cavalcata della cosiddetta “sotto-occupazione”, quella fatta di poche ore e, di conseguenza, stipendi poveri. Fanno riflettere alcuni dati sull’inattività, cioè su chi un impiego nemmeno lo cerca. Rispetto a un anno fa sono nettamente diminuite le persone ferme poiché scoraggiate, e questo era del tutto prevedibile, ma sono aumentate quelle ferme per motivi familiari: tra gli uomini il dato è quasi irrilevante, tra le donne parliamo di 3 milioni e 83 mila ancora inattive sul mercato del lavoro a causa di obblighi di cura familiare.

“Certo che è uno sciopero politico: dà voce a chi sta male e non vota”

Maurizio Landini, dagli anni Ottanta non ricordo un fuoco di sbarramento preventivo contro uno sciopero paragonabile a quello che si sta riversandosi su di lei, segretario della Cgil, e su Pierpaolo Bombardieri della Uil. Vi accusano di irresponsabilità per aver proclamato 8 ore di astensione dal lavoro dopodomani, 16 dicembre. Come lo spiega?

È il segno di una insensibilità che rischia di diventare maggioranza nel Palazzo. Di fronte a un disagio sociale crescente questo è pericoloso, ma ci rafforza nella scelta di chiamare alla lotta chi ha visto deluse le sue aspettative di equità fiscale in un Paese con oltre 100 miliardi di evasione. È un tema sindacale, ma è anche una questione politica di salvaguardia della democrazia.

La vostra protesta contro il governo sembra percepita come un atto di lesa maestà.

Diciamo che la stagione infausta della disintermediazione ha provocato una tale rimozione della questione sociale da far apparire dirompente quello che è un atto di vera autonomia sindacale. Questa è la nostra natura confederale, non siamo solo sindacati di mestiere. Rivendichiamo la necessità di una trasformazione sociale, ineludibile in un Paese colpito dalla pandemia, che acuisce le disuguaglianze e riduce in povertà tanti lavoratori.

La mancata adesione della Cisl delinea una contrapposizione fra sindacato “buono” e sindacati “cattivi”.

Si finge di ignorare che scioperiamo sulla base di una piattaforma unitaria, condivisa anche dalla Cisl. Non andiamo in piazza con proposte diverse e se la Cisl ha scelto di manifestare due giorni dopo è la conferma che il governo non ha tenuto conto delle nostre richieste. L’intero movimento sindacale chiede sia riconosciuto il suo ruolo in una fase cruciale che prevede il buon impiego degli investimenti del Pnrr, transizione ecologica, riconversione industriale e nuove politiche di tutela della dignità del lavoro.

Forse scommettono sul fallimento dello sciopero.

Peggio, rimuovono il malessere diffuso nel Paese che noi abbiamo percepito in un mese e mezzo di assemblee, prima di deciderci allo sciopero. Questo tema interroga anche la sinistra e le forze progressiste. Le ripeto: non temo l’accusa di fare politica, perché è nella natura del sindacato confederale promuovere istanze che richiedono una profonda trasformazione sociale. Il sindacato ha il dovere di rappresentare il disagio e scongiurare lacerazioni sociali, ha il compito di tutelare il lavoro e rafforzare la democrazia.

Le forze politiche sembrano concentrate nella tutela del ceto medio, anche a scapito dei bassi redditi. Forse perché le periferie ormai non votano?

Se la politica non si pone il problema di riportare al voto la maggioranza di quelli che stanno peggio, saranno guai per tutti. Invece hanno posto il veto perfino a quel minimo contributo di solidarietà proposto da Draghi a carico degli alti redditi per compensare il caro bollette dei più poveri. Era un minimo sacrificio di 270 euro, che non cambiano la vita a chi ha un reddito sopra i 75 mila euro.

Come lo spiega? I partiti si battono per il superbonus sulle ristrutturazioni edilizie, ma non per gli sgravi fiscali ai lavoratori poveri.

Non a caso le forze di governo che hanno rifiutato il contributo di solidarietà sulle bollette sono le stesse che ora chiedono la rottamazione delle cartelle fiscali, cioè un’altra forma di condono.

Perché, secondo lei?

Restano aggrappati all’idea sbagliata che il mercato possa affrontare da sé storture che invece si aggravano. Una vera giustizia sociale passa attraverso il patto di cittadinanza fondato sull’equità fiscale, come previsto dalla Costituzione… Ciò che questa legge di Bilancio ha disatteso.

Lei insiste nell’additare le responsabilità dei partiti. Ma il premier le ha assecondate.

So bene che le decisioni alla fine le prende Draghi. Serve un metodo fondato sul confronto preventivo. Non solo informarci dopo che la sua maggioranza ha imposto le decisioni. Se Draghi fa il premier ciò dipende da una crisi della politica. In altre circostanze, non ci fossero stati la pandemia e il Pnrr, saremmo andati a elezioni. Io ho trovato giusta la scelta di Mattarella. Draghi può svolgere una funzione importante per il Paese, con il suo prestigio internazionale. Ma noi lo giudichiamo per quello che fa.

Vi ha delusi?

Non si può tacere che la destra di governo lo ha messo in minoranza, ma c’è una responsabilità collettiva su una manovra iniqua e non certo di giustizia sociale. Se lui ha ceduto, per me questo è un elemento da rendere esplicito.

Come risponde a chi vi accusa di dividere il Paese in un momento difficile?

Lo capirete giovedì dalle cinque piazze delle nostre manifestazioni. Nella storia di questo Paese il sindacato ha dato contributi fondamentali alla tenuta della democrazia. Lo sciopero è uno strumento finalizzato a unire, non a dividere. Ma la democrazia si tutela solo se la politica riconosce la centralità del lavoro, che invece oggi viene svalorizzato.

A caccia di risorse per evitare la stangata

Cercansi miliardi, tra i 3 e i 5 per la precisione, e in meno di due settimane. Questo il compito del governo per disinnescare la stangata sulle bollette che dal primo gennaio si abbatterà su famiglie e imprese con maxi-rincari anche del 40%. Finora l’esecutivo è riuscito a stanziare 3,8 miliardi, ma non basteranno per contenere in modo significativo gli aumenti che l’Arera, l’Autorità dell’Energia, comunicherà a fine anno.

“In assenza di ulteriori correttivi del governo, si profila per il primo quadrimestre 2022 un ulteriore, potenzialmente significativo, aumento dei prezzi per i servizi di tutela che determinerebbe criticità simili a quelle affrontate quest’anno”, ha spiegato il presidente dell’Authority, Stefano Besseghini. Con meno di 4 miliardi non si riuscirà, quindi, a sterilizzare neanche un quarto degli aumenti previsti: servono minimo 7/8 miliardi per contenere la stangata a un più accettabile +15%. Ma dopo aver previsto 2 miliardi in manovra, 500 milioni in arrivo dal risparmio della riforma dell’Irpef, 300 milioni da trovare nelle pieghe del bilancio e un altro miliardo dagli anticipi di spesa stanziati dall’ultimo decreto “Misure urgenti finanziarie e fiscali”, ora sul tavolo del ministero dell’Economia non ci sono molte strade percorribili per reperire nuove risorse. Si starebbe ragionando sulla leva dell’Iva per il gas e degli oneri di sistema per la luce. La loro sterilizzazione avrebbe un effetto diretto sulle entrate dell’Erario, diminuendole ovviamente.

Uno stallo che continua ad agitare la maggioranza. Ieri mattina a tornare a chiedere più soldi per ridurre il costo delle bollette sono stati prima il leader della Lega Matteo Salvini e poi il presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte. “Il presidente Draghi ha trovato quasi 4 miliardi per luce e gas, bisogna trovarne di più e in prospettiva continuare a investire sia sul gas che sulle energie alternative e sicure come il nucleare, come sta facendo tutto il resto del mondo”, ha detto Salvini. Il leghista, che ha chiesto “uno sforzo in più”, investendo anche “una parte dei 9 miliardi destinati al Reddito di cittadinanza”, ha però omesso di ricordare che Lega, Forza Italia e Italia Viva hanno bocciato la proposta del premier Draghi di congelare per un anno lo sgravio Irpef sui redditi sopra i 75 mila euro. Una sorta di contributo di solidarietà da parte di un milione di contribuenti che avrebbe consentito di reperire 248 milioni per sterilizzare la stangata.

“Continueremo a lavorare anche sul rincaro delle bollette, un rincaro che in parte è stato compensato da misure già stanziate e dobbiamo continuare a lavorare non solo per le famiglie ma anche per le imprese che sono in forte difficoltà con questi costi aggiuntivi”, ha invece detto il leader dei 5 Stelle al termine di un incontro con il premier Mario Draghi. “Abbiamo ribadito al presidente del Consiglio – ha aggiunto – di poter recuperare l’extra-gettito dalle aste per l’emissione di CO2, proprio per destinarlo a compensare i rincari”. Altra operazione di sistema che va fatta, per Conte, è rivedere gli oneri generali di sistema per rendere più trasparenti le bollette.

Insomma, l’unico punto in comune è la richiesta di nuove risorse altrimenti la strada è segnata: limitare l’impatto dei rincari solo alle fasce economicamente più svantaggiate. Ma di tempo, per cambiare le sorti di milioni di famiglie e imprese, ne è rimasto poco.

Prelievo ai disabili: Draghi nega, ma l’ha fatto davvero

Un dirottamento di 200 milioni dal Fondo per la disabilità e la non autosufficienza per rimpolpare le coperture del dl fiscale bis e calmierare gli aumenti delle bollette. Questa, in estrema sintesi, è la notizia che Il Fatto ha riportato ieri e che ha spinto il premier Mario Draghi, il ministero dell’Economia, ma anche il leader della Lega Matteo Salvini a smentirla dicendo che “non c’è da preoccuparsi” e che “non sono stati tolti soldi alla disabilità”. Ma davvero le cose sono andate così? Chi ha riportato la versione corretta e chi sta mentendo? È necessario riavvolgere il nastro per trovare le risposte.

Ieri pomeriggio, intervenendo alla Conferenza nazionale sulla disabilità, il premier Draghi ha negato di “aver spostato” i 200 milioni di euro che fanno parte del Fondo per la disabilità, istituito con la legge di Bilancio 2020, e che prevede una dote di 29 milioni per il 2020, 200 milioni per il 2021 e 300 milioni a decorrere dal 2022. “Ho letto che avremmo tolto 200 milioni dalle disabilità per destinarli ad altre cose, non è così: la somma – ha detto Draghi – rimane nell’ambito delle disabilità, non c’è da preoccuparsi e se è necessario si farà di più. La volontà del governo è molto chiara su questo punto”. Ma già in mattinata, il sottosegretario al Tesoro, Federico Freni, aveva sancito che “nessun taglio c’è stato al fondo per le persone con disabilità e che sarà incrementato di altri 200 milioni dal 2023 al 2026”. Poi, senza giri di parole, Salvini ha parlato di “fesseria”. Reazioni sorprendenti, perché qui non si tratta di interpretazioni, ma del testo del “Decreto legge recante misure urgenti finanziarie e fiscali” che giovedì scorso, con l’approvazione del Consiglio dei ministri, ha “liberato” 3,3 miliardi di euro che arrivano da avanzi di spesa (come i vecchi “ristori”), ma anche da fondi non utilizzati (come quello sui disabili) che serviranno per vaccini e farmaci anti-Covid, per Rfi del Gruppo Ferrovie dello Stato e, appunto, per sterilizzare la mazzata del caro bollette in arrivo a gennaio. Proprio come ha spiegato la ministra per gli Affari regionali e le autonomie, Mariastella Gelmini: “Abbiamo trovato un altro miliardo per calmierare l’aumento delle bollette per cittadini e imprese”.

Così, all’articolo 4 (Disposizioni finanziarie), lettera G, si prevede che a concorrere ai 3,2 miliardi ci sono anche “200 milioni di euro mediante corrispondente riduzione dell’autorizzazione di spesa di cui all’articolo 1, comma 330, della legge 27 dicembre 2019, n. 160”. Si tratta proprio del Fondo disabilità. E qui va spiegata la storia: quel fondo non è mai stato usato finora perché non è stata approvata la riforma del settore a cui era legato. La Camera ha finalmente detto sì alla legge delega solo lo scorso 9 dicembre, il Senato dovrebbe votarla entro la fine dell’anno, ma a quel punto ci vorranno ancora molti mesi per i decreti attuativi (la delega, per la precisione, ne concede 20 ai ministeri coinvolti). Il governo, visti i ritardi, ha deciso di collegare direttamente quel fondo – ora passato sotto il controllo del Tesoro – al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), all’interno del quale figura anche la riforma di cui stiamo parlando.

La discreta dote del fondo per il 2022 è stata dunque usata per coprire le spese per 3,2 miliardi dell’ultimo dl fiscale e, ci assicurano fonti parlamentari e dell’associazionismo, proprio per coprire l’intervento sulle bollette per il quale, invece, la maggioranza ha rifiutato lo slittamento di un anno del taglio delle tasse per chi guadagna oltre 75mila euro l’anno (che avrebbe portato alla causa circa 250 milioni).

I 200 milioni sottratti nel 2022, sono – in una classica partita di giro – “restituiti” 50 milioni l’anno dal 2023 al 2026 (ammesso che le prossime manovre li confermeranno). Insomma, le repliche del governo al Fatto sono largamente imprecise in qualche caso, tecnicamente scorrette in altri. Quella del premier appartiene a quest’ultimo caso: i fondi sono stati spostati da un decreto che porta la sua firma neanche una settimana fa. Se dice che “la somma rimane nell’ambito delle disabilità” forse ci ha ripensato: nel caso seguirà emendamento.

Tutta la verità

Ecco il discorso che Draghi non ha (ancora) tenuto.

“Care italiane e cari italiani, abbiamo sbagliato totalmente la comunicazione sul Covid e sui vaccini, un po’ perché disorientati dai continui stop&go della scienza, un po’ perché dire la verità avrebbe scoraggiato molti di voi dal vaccinarvi. Me ne scuso e prometto di non farlo più. Le bugie hanno le gambe corte, smentite ogni giorno dai dati che aumentano la sfiducia nelle autorità e portano acqua al mulino No Vax. La verità è che i vaccini ‘durano’ molto meno del previsto e non immunizzano dal rischio di contagiarsi e contagiare. Quindi abbiamo sbagliato a fissare in 12 mesi la durata del Green Pass e in 9 quella del Super Green Pass: secondo l’Iss, dopo 5 mesi dalla seconda dose ‘l’efficacia del vaccino nel prevenire la malattia scende dal 74 al 39%’. In più ci siamo scordati di rendere revocabile la carta verde, lasciando i vaccinati contagiati liberi di infettare col lasciapassare. Io per primo ho sbagliato a promettere ‘un Natale normale per i vaccinati’, creando l’equazione antiscientifica ‘vaccinato uguale immune’ e l’illusione controproducente di ‘zone protette’ col Super Green Pass, che non protegge nessuno, anzi induce chi lo possiede a trascurare distanze, mascherine e tamponi. Quindi aboliremo il Super Green Pass e il Green Pass per lavorare, inutilmente discriminatori e dannosi. Abbiamo diviso l’Italia in buoni e cattivi, mettendo i vaccinati contro i No Vax (per non parlare dei bimbi), additati come untori e unica causa di un contagio che invece è figlio di molti fattori: i No Vax, i vaccinati “scoperti”, i ritardi sulla terza dose, l’inerzia sulle distanze e l’aerazione in scuole, bus, metro e treni regionali, l’abbandono del tracciamento e la folle revoca dello smart working negli uffici pubblici.

Unici al mondo col Green Pass per lavorare, non siamo affatto i primi della classe: almeno 13 Paesi hanno Rt e decessi più bassi dei nostri. E anche in quelli con più vaccinati di noi la pandemia avanza a prescindere. Quindi diffidate dei fanatici No Vax e Sì Vax e leggete i dati dell’Iss: dal 22 ottobre al 21 novembre (senza Omicron) i ricoverati nei reparti ordinari sono stati 4.402 non vaccinati e 4.532 vaccinati (1.616 da meno di 5 mesi e 2.916 da più di 5 mesi) e, nelle terapie intensive, rispettivamente 618 e 348. Con l’85% di copertura, la percentuale dei No Vax è molto più alta, ma pure quella dei vaccinati in ospedale è spaventosa rispetto all’illusione che abbiamo avallato. Quindi continuate a vaccinarvi, ma respingete la retorica dell’altruismo: quello è un atto di sano egoismo, perché l’unica certezza che dà è abbattere il rischio di Covid in forma gravissima o mortale. Di più non possiamo garantire: di bugie ve ne abbiamo già raccontate troppe”.

Il mondiale all’ultimo giro. Re Hamilton ha abdicato

Pareva ormai un finale già scritto. Conservativo. L’irruente olandese Max Verstappen staccato dal fuoriclasse inglese Lewis Hamilton. L’irrispettoso Giovane Rivale domato dal Vecchio Campione. Il gatto e la volpe. E invece, mai dire mai: l’agguato del destino a cinque giri dal termine. Il pilota canadese Nicholas Latifi perde il controllo della sua Williams-Mercedes. Sbatte contro un muretto. Gara interrotta. L’intervento della safety car cambia tutto. Il distacco tra i due rivali che sono arrivati a pari punti al sontuoso Gran Premio conclusivo di Yas Marina, in quel di Abu Dhabi, è azzerato. Hamilton perde d’amblé il vantaggio di 12”. Le monoposto sono disposte in fila indiana, secondo il piazzamento che avevano in quel momento. Max si ritrova in coda a Lewis. Scalpita.

Si avvicina per innervosirlo. Ha gomme più veloci e questo rende il ventitreenne più spavaldo. Hamilton è consapevole che le possibilità di vittoria sono minime. Spera che sia la safety car a chiudere il Gran Premio, continuando a guidare il gruppo per tutti i cinquantotto giri previsti: è già successo che un Gran Premio finisse in questo modo. Stavolta, però, si opta per la sfida secca. La gara ricomincia per un ultimo giro. La Mercedes farà poi ricorso, anzi più di uno (due già respinti ieri in serata, altri seguiranno).

Tutto un anno, in un minuto. Un drammatico, indimenticabile minuto di suspense che nemmeno Hitchcok. L’ultimo minuto dell’ultimo giro dell’ultimo Gran Premio. Fino all’ultimo respiro. O meglio, all’ultima sgasata. Formidabile spot per la Formula Uno in cerca di nuovi orizzonti di gloria ed audience.

Proprio Lewis aveva temuto, in un sussulto premonitorio, tale eventualità. Con affannoso strapazzo di voce, Lewis Hamilton, sette volte campione del mondo di Formula Uno, aveva chiesto pochi minuti prima al team Mercedes: “In caso di safety car, quale strategia seguiamo?”. Dai box gli avevano risposto di continuare così, senza cambiare gomme, confidando nel suo vantaggio. Lewis non aveva nascosto la sua perplessità: “Non è un po’ un rischio avermi lasciato fuori?”, ossia non aver cambiato le gomme.

In palio, per Lewis, c’era infatti più del titolo iridato. C’era la storia. La leggenda. Lo sport è una fabbrica di idoli. Di memorie che si perpetuano se il campione diventa più campione di tutti gli altri. A trentasei anni Lewis voleva sbarazzarsi dell’ingombrante fantasma di Michael Schumacher, i suoi stessi sette titoli mondiali, ma conquistati prima di lui. L’ottavo avrebbe consacrato Lewis come il più grande di sempre. Il Maradona dei Gran Premi. Il Mohammed Ali del volante.

Il sogno svanisce quando la safety car rilancia la corsa. Lewis è scoraggiato: per lui, quest’ultimo è il giro della morte. Il crepuscolo, rapido, di Abu Dhabi è diventato buio di una sera epocale. La pista è illuminata a giorno, ma gli occhi di Lewis, la vedono scura come la notte. Si affida all’astuzia del veterano. Anticipa il duello. Rallenta. Tenta di farsi superare da Max, se succedesse prima del nuovo via, l’olandese verrebbe retrocesso. Max non cade nella trappola. Al via, la Red Bull di Verstappen schizza in avanti, Lewis cerca di resistere, Max è più rapido nel sorpasso, in tre curve si libera dell’inglese, lo molla. Piomba sul traguardo. Sul primo titolo mondiale mai vinto da un olandese. La tribuna centrale è monopolizzata da migliaia di tifosi “tulipani”.

È il decimo Gran Premio vinto quest’anno da Verstappen. Se lo merita il titolo. Ma anche Lewis merita il suo momento di (quasi) gloria. Hanno sbagliato quelli della Mercedes, dopo che lui era riuscito a scattare al primo via in modo imperioso, superando in tromba Verstappen che aveva ottenuto la pole position.

Lewis rimane impietrito nella sua monoposto mentre Max esulta e saluta i tifosi, abbraccia il padre Ian, la fidanzata Kelly Piquet (sì, figlia del pilota Nelson, tre volte campione di Formula Uno). Si sente vittima di un epilogo spettacolare, forse ingiusto. Di certo, come dichiara Max, “è stato un finale incredibile. Un ultimo giro incredibile”, ha ripetuto frastornato Verstappen, smentendo la fama di “pilota freddo” privo di emozioni. La tensione accumulata si era sciolta in un incontenibile grido appena tagliato il traguardo, il pilota ragazzo che urla “Yeeeeah! Yeees! I’m Champion of the world!!”, perché, spiega, “non avrei mai immaginato un’ultima corsa così folle”. Folle ma ben orchestrata dalla Red Bull e dal compagno di scuderia Sergio Perez che lo ha aiutato rallentando Hamilton in un momento delicato della gara: “È stato insensato, però abbiamo ottenuto l’obiettivo di vincere il campionato, anche se è vero che ho avuto fortuna”.

Quattro minuti dopo l’arrivo, spunta Lewis. Va a complimentarsi con Max. Ha perso la battaglia. Vuole vincere la prossima guerra. Per una domenica, il calcio è andato in soffitta.

Prove tecniche di camicia nera (soprattutto a Verona)

Come sarebbe l’Italia guidata da un governo a trazione Fratelli d’Italia-Lega? Per saperlo basta leggere l’ultimo, terrificante, libro di Paolo Berizzi (È gradita la camicia nera. Verona, la città laboratorio dell’estrema destra tra l’Italia e l’Europa, Rizzoli, 250 pp. 17 euro). E forse dovrebbe leggerlo anche Enrico Letta, che va ad Atreju a legittimare Giorgia Meloni e il suo partito: legati al mondo indagato nel libro da un filo che non conosce soluzioni di continuità.

“Esiste, ormai, una modalità Verona – scrive Berizzi –. Un ‘rito veronese’ che è combinato di elementi interconnessi: patriottismo locale, populismo etnico, tradizionalismo, identitarismo travestito da usanza popolare, ultracattolicesimo, neofascismo, neonazismo”. Un cocktail micidiale, in cui ciò che chiamiamo cultura, patrimonio culturale, viene pervertito, e usato non come strumento di civilizzazione e apertura, ma come una leva xenofoba e razzista. Dice a Berizzi il giudice Guido Papalia, artefice di inchieste fondamentali sulla galassia neofascista e sulle sue filiazioni terroristiche e stragistiche: “Durante il fascismo e nel periodo della Repubblica sociale italiana, Verona [che ne era capitale] aveva un potere enorme (…). Il neofascismo veronese fa leva sulla difesa del territorio, in particolare del centro storico: è, in scala provinciale, la tutela della sovranità della patria esattamente come la intendeva il fascismo. Chi non è bene accetto viene respinto, emarginato, escluso. Dal fascismo in poi il concetto della difesa della razza qui non è mai scomparso: è diventato ideologia. E sa perché sopravvive? Perché chi avrebbe il dovere istituzionale e civile di condannare con fermezza certi episodi – il linguaggio d’odio, l’intolleranza, la propaganda razzista e fascistoide – non lo fa: tollera, lascia passare, o, peggio, strizza l’occhio”. Così, da una parte la città storica si consuma nel marketing usurato e alienante della città di Romeo e Giulietta, dall’altra quella storia straordinaria e tradita viene dolosamente travisata per legittimare una miscela esplosiva di affari e violenza. Con le arche scaligere che sono ormai l’equivalente del fascio, o del saluto romano.

“Ormai è diventato proprio un fatto di costume. A Verona va di moda dirsi fascisti: molti lo sono davvero, c’è una solida tradizione di famiglie molto benestanti e molto in vista della città che erano e sono fasciste, e non lo hanno mai nascosto. Anzi, oggi sono più sfacciate”. A dirlo è Luca Tommasoli, il padre di Nicola: che nel maggio 2008 viene ucciso, solo perché portava i capelli lunghi, da una squadraccia composta da ultras dell’Hellas Verona (quelli che inneggiano a Hitler sugli spalti dello stadio), attivisti di Blocco studentesco (costola giovanile di Casapound), simpatizzanti e candidati di Forza nuova. Di uno di loro, Raffaele Dalle Donne (che ha scontato quattro anni di carcere), “ex studente del liceo Maffei, famiglia benestante veronese, si raccontò che quando la sua scuola organizzò una visita al campo di concentramento di Auschwitz rifiutò di partecipare per protesta”.

È in questo contesto malato che affondano le radici nerissime quasi tutte le formazioni in cui continua a reincarnarsi il partito fascista: Veneto fronte skinheads, Forza nuova, Fortezza Europa, Casapound e altre ancora. In questo continuo gioco di trasmigrazioni sovrapposizioni, alleanze, condivisione di personale “politico” basterebbe ricordare il caso del Fronte nazionale di Franco Freda, sciolto, applicando la legge Mancino, perché scopertamente filonazista ma che “subito dopo il suo tramonto rivive di fatto nel laboratorio neo nazi fascista che porterà alla nascita di Forza nuova”. Quella Forza Nuova che ha dato l’assalto alla sede centrale della Cgil lo scorso 9 ottobre, e che il governo Draghi (paralizzato dalla Lega e dall’anti-antifascismo del potere economico italiano) si rifiuta tuttora di sciogliere: “Aboliremo la legge Mancino», aveva del resto promesso Matteo Salvini dal palco di Pontida, nel settembre del 2017.

Bisogna leggerlo, il libro di Berizzi, per capire cosa tenga insieme la ricca vandea cattolica che distribuisce feti di plastica contro l’aborto e indice i congressi della famiglia; il comitato Anti 89; le celebrazioni di Lepanto; un sindaco (Federico Sboarina, ora in Fratelli d’Italia) apertamente sostenuto da Fortezza Europa, una formazione neonazista fin dal nome hitleriano: “fFascisti, preti, naziskin, leghisti, golpisti che hanno tramato contro lo Stato”. Non una carnevalata, ma un blocco di potere pericoloso e deciso, che ha da tempo in mano una città e un territorio, e che sogna di mettere le mani su tutto il Paese. Liliana Segre dice che la voce di Paolo Berizzi “si alza nel mare dell’indifferenza” per metterci in guardia da tutto questo: ascoltiamola, prima che sia tardi.

Emirati. Troppo stress, meglio il fine settimana “occidentale”

Il governo degli Emirati Arabi Uniti ha annunciato misure destinate a cambiare la vita dei cittadini ma anche della federazione degli Emirati nel suo insieme: si passerà presto al weekend “occidentale”, da sabato a domenica. A partire dal 1° gennaio 2022, il fine settimana sarà composto da venerdì pomeriggio, sabato e domenica, ha spiegato poi via Twitter l’ufficio dei media del governo degli Emirati. Nel comunicato il fine settimana esteso rientra negli sforzi del governo per aumentare l’equilibrio tra lavoro e vita privata e migliorare il benessere sociale, ma con un occhio sempre agli affari.

Gli EAU attualmente seguono la settimana lavorativa islamica in cui venerdì e sabato non sono giorni lavorativi. La maggior parte dei Paesi a maggioranza musulmana aderisce a questa settimana perché il venerdì è un giorno di preghiera nell’Islam. Ma indubbiamente in questo modo si perde un giorno di business, di trading con tutto il mondo occidentale dove il venerdì i mercati azionari sono in piena attività. Anche lo Stato di Israele ha un fine settimana dal venerdì al sabato per via dello shabbat. Un progetto di legge ai tempi di Benjamin Netanyahu premier per adeguare la settimana lavorativa in Israele a quella “occidentale” fu affondato dai partiti religiosi che sostenevano la sua maggioranza. La decisione degli EAU potrebbe rendere più facile fare affari con l’Occidente ma anche, e soprattutto, con i Paesi non musulmani in Africa e Asia che hanno anch’essi un fine settimana sabato-domenica.

Potrebbe anche rendere gli Emirati Arabi Uniti una destinazione più attraente come sede per le aziende internazionali, visti anche i notevoli benefici fiscali offerti alle Company che si trasferiscono. La mezza giornata di venerdì consentirà comunque ai musulmani religiosi che lavorano negli Emirati di continuare a pregare nelle moschee quel giorno. È certo che dopo la sceklta fatta degli EAU anche i Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (CCG) si allineeranno al calendario settimanale adottato a livello internazionale.