“Hong Kong è una vittima dello scontro tra Cina e Usa”

Au Loong-Yu, 65 anni, è un autore marxista di una lucidità rara sul Partito comunista cinese (Pcc). Al momento vive a Londra, mentre la sua città, Hong Kong, subisce una vasta repressione. Il suo ultimo libro Hong Kong in Revolt, uscito nel 2020, analizza il movimento sociale nato nel 2019 nell’ex colonia britannica. Nel suo testo sosteneva che la regione semi-autonoma avrebbe avuto una tregua di cinque a dieci anni prima di essere ridotta in uno stato di asservimento totale alla Repubblica popolare cinese. Invece è bastato un solo anno. La pena è stata doppia: nel 2020 è stata adottata la legge sulla Sicurezza nazionale ed è scoppiata l’epidemia di Covid-19. Attivista per i diritti dei lavoratori di Hong Kong e della Cina continentale, internazionalista contrario ad ogni forma di nazionalismo, è stato tra i fondatori dei siti China Labour Net e di Globalization Monitor, basati a Hong Kong.

Cosa sta succedendo a Hong Kong?

È in corso una grande epurazione. 153 persone sono state arrestate da quando è entrata in vigore la legge sulla sicurezza nazionale. Tra gennaio 2021 e fine settembre, 49 organizzazioni, tra Ong, sindacati e movimenti studenteschi, hanno preferito sciogliersi per timore delle repressioni. Lo scopo dei questa epurazione è di controllare le menti e le anime delle persone. Non c’è da stupirsi che il governo di Hong Kong, dopo aver imposto un giuramento di fedeltà ai dipendenti pubblici, stia cercando di fare lo stesso con gli insegnanti. A ciò si aggiunge la politica di sostituzione del cantonese con il mandarino. Il settore culturale si è trovato in balia della censura, tanto che persino guardare in privato dei documentari sulla rivolta del 2019 ormai è reato.

Questa repressione ha ripercussioni in Cina?

Ciò che accade a Hong Kong ha profonde ripercussioni su tutto il continente. Prendiamo ad esempio la Hong Kong Alliance in Support of Patriotic Democratic Movements of China (HKA). Da più di trent’anni organizza una cerimonia per ricordare le vittime del massacro del 4 giugno 1989 in piazza Tienanmen. Fino all’anno scorso. L’Alleanza ha subito vessazioni tali da parte delle autorità che è stata costretta a sciogliersi il 25 settembre. In due anni, organizzazioni come questa, che da trent’anni operano a Hong Kong nel settore dell’ambiente, del lavoro o sulle questioni di genere, sono state tra le prime vittime della repressione. Quanto alle organizzazioni che intervengono a sostegno dei lavoratori in Cina, stanno sparendo una dopo l’altra dal 2015, da quando, il 9 luglio, le autorità del continente hanno iniziato a perseguitare i 300 avvocati che avevano sostenuto il “weiquan”, il movimento di difesa dei diritti delle classi svantaggiate e dei dissidenti. Tre anni dopo un’altra ondata di arresti aveva investito gli studenti che si erano mobilitati per i lavoratori della Shenzhen Jasic Technology Co., una fabbrica di Shenzhen, al confine con Hong Kong. Per i pochi gruppi rimasti la situazione è sempre più difficile, soprattutto da quando i media del Pcc hanno condannato non solo le organizzazioni che hanno ricevuto fondi statunitensi, ma anche, e per la prima volta, le organizzazioni europee che hanno finanziato dei gruppi a Hong Kong.

Che alternativa resta a questi movimenti sociali?

Sotto le pressioni di Pechino, le opposizioni si sono messe sulla difensiva per evitare nuove vittime. È una ritirata tattica. Ma l’attuale repressione mette a dura prova chi ancora ha la volontà di resistere, anche se solo simbolicamente. La dissoluzione del Ptu, il principale sindacato di Hong Kong, è stata controversa. Tecnicamente, è stata decisa con voto democratico dei delegati dei membri. In realtà la direzione aveva già deciso che il sindacato sarebbe stato sciolto dopo le minacce di un “intermediario” di Pechino. Minacce che il Ptu aveva reso note. Il ruolo di questi “intermediari” è di avvicinare chiunque rappresenti un potenziale pericolo per Pechino, scoprire cosa gli interessa di più (non necessariamente i soldi) e manipolarlo facendogli un offerta irrifiutabile. Ma il regime ha anche altri metodi per manipolare le persone, tramite minacce e ricatti.

Come spiega l’accanimento di Xi Jinping contro Hong Kong?

Pechino vuole concentrare il potere nelle sue mani e appropriarsi delle ricchezze della nazione. L’autonomia di Hong Kong può rappresentare un freno al suo progetto. Ma liberarsi di Hong Kong, vuole dire anche sbarazzarsi dell’influenza politica degli Stati Uniti e del Regno Unito. Hong Kong sta anche diventando uno dei fronti nella lotta globale per l’egemonia tra Cina e Stati Uniti.

Come vede questo scontro, spesso definito come una “nuova guerra fredda?”

Preferisco non parlare di “nuova guerra fredda”, perché rispetto all’epoca della guerra fredda, la situazione ora è molto diversa. L’attuale battaglia che Pechino sta portando avanti contro gli Stati Uniti, non è una lotta contro l’imperialismo, non intende sostituirlo con qualcosa di meglio. In questo dibattito, si dimentica spesso che, come socialisti, dovremmo mettere il benessere delle persone al centro delle nostre preoccupazioni. Gli osservatori che appoggiano Pechino in questa competizione scrivono che il governo del Pcc è riuscito a migliorare l’economia e a sradicare la povertà. Che il governo si è fatto carico del benessere del popolo cinese e che lo stato cinese è progressista, mentre lo stato americano è reazionario. Ma dimenticano l’essenziale, poiché le statistiche ufficiali sono sempre fuorvianti, se non del tutto false, e se si vuole conoscere la realtà bisogna ascoltare la gente comune. Cosa che fanno raramente. A mio avviso, nel definire la situazione della Cina, il primo criterio da prendere in conto non è il benessere economico dei lavoratori, ma il possesso dei diritti politici. Ogni volta che il popolo è stato privato dei suoi diritti, ha perso tutto. Anche se i redditi oggi sono accettabili, non si può stare sicuri. C’è sempre il pericolo di venire espropriati, o dallo Stato o da promotori immobiliari collusi con il Partito. Basta guardare cosa successe ai contadini ai tempi di Mao. Con la riforma agraria dei primi anni Cinquanta ai contadini furono attribuite delle terre, che persero però alcuni anni dopo a profitto dei cosiddetti comuni. Le hanno potute recuperare solo negli anni 80, per perderle di nuovo ora. Il diritto del lavoro non viene applicato dal massacro delle Ong del 2015. I diritti politici fondamentali sono continuamente calpestati dal Partito-Stato. Il regime cinese è profondamente ingiusto e la competizione Cina-Usa dovrebbe essere giudicata sulla base dell’interesse del popolo nella sua lotta storica per l’emancipazione. Certamente Pechino non è forte quanto Washington, ma lo è abbastanza per schiacciare il suo popolo e lo fa da decenni. In Occidente, molte persone rispettabili odiano l’impero americano. Ma non è necessario sostenere Pechino per esprimere la propria rabbia contro Washington. A queste persone vorrei dire che il Partito-Stato cinese non ha bisogno del loro sostegno, il popolo cinese invece sì. Ma chi è il “popolo cinese”? Raramente lo ascoltate, raramente incontrate i suoi veri rappresentanti nelle riunioni internazionali. Perché i veri militanti socialisti spesso sono braccati e messi in prigione. Eppure il silenzio del popolo cinese è il grido più forte del mondo! In passato è già capitato che il popolo cinese fosse ascoltato. Alcuni anni fa, dei media online avevano pubblicato un articolo su una possibile guerra tra Cina e Stati Uniti. Un commentatore aveva scritto che il popolo cinese avrebbe dovuto invitare i membri dell’Ufficio politico del Partito a dichiarare la guerra e a inviare sul fronte prima i membri del Comitato centrale, poi, se non fosse bastato per vincere, tutti i membri del Partito. Alla fine, il popolo cinese avrebbe comunque vinto. Quel commentatore aveva capito che l’eventuale guerra tra Cina e Stati Uniti non è la guerra del popolo cinese. Il popolo ha la sua guerra personale da portare avanti, per ripristinare la propria autostima e i propri diritti e per ottenere la libertà.

(Traduzione di Luana De Micco)

Festa a Downing Street con Johnson in pieno lockdown

Il primo ministro Boris Johnson è sempre più sotto accusa per la sua “cultura di disprezzo delle regole”. L’ultima goccia è un video del Daily Mail: il premier britannico partecipa ad un quiz natalizio online con lo staff, mentre il resto del Paese era sotto rigide misure anti-Covid. Negli ultimi giorni è stata aperta una inchiesta su diversi party di Natale a Downing street nel 2020. L’immagine mostra il premier alla sua scrivania, con accanto due collaboratori. Nessuno porta la mascherina. Il video risale al 15 dicembre 2020, quando è stato organizzato un quiz festivo. I membri dello staff presenti a Downing street avrebbero partecipato accalcandosi attorno ai computer, bevendo alcool e consultandosi sulle risposte. Il primo ministro, per altro, nell’aprile precedente era anche finito in ospedale per aver contratto il Covid. L’opposizione laburista è scatenata: “Boris Johnson crede che ci siano regole per lui e regole per tutti gli altri. È un uomo inadatto a governare”. In quei giorni in Gran Bretagna erano vietati party di Natale e a Londra non si potevano incontrare in casa persone estranee al nucleo famigliare, all’aperto si potevano incontrare sei persone. E proprio ieri Johnson ha annunciato in diretta tv l’innalzamento dell’allerta per la veloce diffusione della variante Omicron.

Pensioni. Dal 2022, con l’inflazione, su dell’1,7 %. Crescono pure le minime e gli assegni sociali

Nel marasma delle pensioni, per ora ci sono due certezze per il 2022, che sono tra l’altro anche positive: le pensioni registreranno un aumento lordo dell’1,7% e Quota 102 sostituirà Quota 100. Andiamo con ordine.

Dal primo gennaio, 23 milioni di pensioni diventeranno un po’ più sostanziose grazie alla rivalutazione lorda dell’1,7% che segue l’inflazione. Come ha spiegato il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, l’adeguamento dell’assegno mensile sarà al 100% (+1,7%) per tutte le pensioni fino a 4 volte il minimo (fino a 2.062 euro). Ma anche quelle superiori avranno un aumento: si tratterà di un recupero rispetto all’aumento dei prezzi del 90% e poi del 75%. Per fare degli esempi, una pensione di 2.000 lordi euro al mese godrà di un incremento lordo di 34 euro mensili, mentre una pensione di 2.500 euro lordi (cioè tra 4 e 5 volte il minimo Inps) otterrà quasi 42 euro in più. Una rivalutazione che ha anche un’altra diretta conseguenza: l’aggiornamento del trattamento minimo Inps che passa così dagli attuali 515,58 euro€ mensili a 524,34 euro, mentre l’assegno sociale sale da 460,28 a 468,10€ euro al mese. Alla fine dell’anno terminerà anche il contributo di solidarietà, previsto dalla manovra 2019 sulle pensioni d’oro, cioè sugli assegni annui superiori a 100 mila euro lordi. Ad anticipare di tre anni la fine della misura, sarebbe dovuta restare in vigore fino a fine 2023, è stata una sentenza della Corte Costituzionale, secondo cui i sacrifici ai pensionati non possono avere una durata superiore ai tre anni. Il prelievo sulle pensioni d’oro prevede una decurtazione del 15% sulla parte di pensione fra 100 mila e 130 mila euro; 25% fra i 130 mila e i 200 mila euro; il 30% fra i 200 mila e i 350 mila euro; il 35% fra i 350 mila e i 500 mila euro; il 40% per la parte eccedente i 500 mila euro.

Altra novità che riguarda il sistema pensionistico. Con la fine dell’anno, verrà meno la possibilità di andare in pensione con Quota 100, la misura sperimentale voluta dalla Lega che si è rivelata un flop con quasi 380 mila uscite in tre anni. Come tutti gli esecutivi che sono succeduti a quello Monti, anche il governo Draghi ha deciso come sostituire la misura: nel 2002 si andrà in pensione con Quota 102 per evitare che entri in vigore la riforma pensionistica targata Fornero che porterebbe l’età pensionabile a 67 anni. Per beneficiarne servono almeno 64 anni di età e 38 di contributi. L’ennesima deroga che, tra l’altro, ha fatto nuovamente finire l’Italia nel mirino dell’Ocse, secondo cui queste toppe alla legge Fornero hanno fatto scendere l’età media d’uscita a 61,8 anni. L’intervento del governo avrà comunque un effetto debole e ridurrà molto le possibilità di pensionamento rispetto a quelle attuali. Secondo la Cgil, solo 34 mila italiani avranno i requisiti per Quota 102 nel 2022, ma di questi appena 8.524 raggiungeranno 38 anni di contributi nel prossimo anno. Tutti gli altri erano già eleggibili per Quota 100 e, se non sono usciti finora, difficilmente lo faranno adesso. Lo sciopero generale proclamato da Cgil e Uil per il 16 dicembre ha messo nel mirino anche la mancanza di altre misure per i pensionati che non beneficeranno abbastanza della ripartizione degli 8 miliardi del fondo taglia-tasse.

 

Il Pnrr ignora la pianificazione territoriale: esperti non previsti

Il Pnrr, il Piano di Ripresa e Resilienza che dovrebbe assicurare futuro e duraturo benessere al Paese, è in realtà un documento che si sta rivelando sempre più segnato da problematicità, contraddizioni e aporie. Spesso evidenziate e criticate da esperti e studiosi, anche su queste pagine. La svolta vera, ecologica ed economica, che dovrebbe sostanziare il piano, nonostante l’enfasi sulla digitalizzazione, non si vede: prevale la riproposizione di logiche vecchie e consolidate, nonché di programmi predisposti in passato, spesso obsoleti e impattanti , in contrasto con lo stesso Green Deal europeo.

La mancata innovazione del Piano si nota anche nella scelta dei tecnici che vengono chiamati a progettare le azioni settoriali e regionali. Una figura innovativa nel panorama professionale di esperti di programmazione ai vari livelli è quella del “Pianificatore Territoriale, Urbanistico, Ambientale e Paesaggistico”. Ebbene: è un paradosso che il Pnrr, nella quasi totalità dei bandi per l’assunzione del personale specialistico che deve disegnare progetti e programmi, non preveda la figura del Pianificatore. Lo denunciava l’urbanista Marina Marino alla recente Conferenza tenutasi a Venezia, all’Iuav, proprio per i 50 anni dalla nascita del primo corso di laurea (oggi sono decine) in Urbanistica e Pianificazione. Denuncia rilanciata da professionisti e docenti.

La struttura professionale del Pianificatore formato nelle università italiane è infatti particolarmente idonea a dispiegare le prerogative del Pnrr e soprattutto a favorirne la territorializzazione, ovvero a trasformare l’allocazione delle risorse del piano in tutela e consolidamento, economico e ambientale, dei contesti regionali e locali d’Italia. Tale figura professionale è stata infatti dotata ab initio della consapevolezza di dover operare in una società “matura e complessa”, e marcata da una crisi ecologica divenuta di recente sempre più emergenziale. Perciò lo specialismo di tali esperti è espressione di una logica aperta trans-disciplinare.

Del resto il Pianificatore deve essere anche “Specialista di secondo livello”, cioè una figura in grado di conoscere, organizzare e comporre in un programma progetti e azioni specifiche, attinenti a specialismi anche assai diversi, che però devono trovare nel piano non la semplice giustapposizione, ma una composizione razionale ed efficace. La relazione con tematiche pluridisciplinari deriva anche dagli elementi di gestione di città e territori che è invece tipica del background del pianificatore, che lo “costringe” a misurarsi quotidianamente con i problemi socioeconomici, amministrativi, decisionali, funzionali e culturali degli ambiti di cui si occupa .

I problemi di ricaduta e inserimento delle singole azioni nei territori interessati assumono un rilievo determinante: i pianificatori tendono sempre all’ottimizzazione di tali localizzazioni, nonché alla mitigazione di eventuali impatti negativi. Questo è dato anche dalle competenze di valutazione, specifica e strategica, ambientale e paesaggistica, ma anche socioeconomica, di cui sono attrezzati. Altra caratteristica è quella di costruire processi di pianificazione “strategica”, che devono tener conto della complessità , spaziale e sociale, ma anche politica e culturale, nel prospettare programmi tesi alla sostenibilità economica e ambientale.

L’ecologia perseguita nel Pnrr sta nel Dna dei pianificatori. Giovanni Astengo, il grande urbanista fondatore e presidente del primo Consiglio di Corso di laurea italiano in Urbanistica, pretese che tutti i docenti componenti dello stesso consiglio si iscrivessero a Italia Nostra (allora unica grande associazione ambientalista presente in Italia). Francesco Indovina , direttore del dipartimento di Analisi Economica e sociale del Territorio, che insieme al dipartimento di Pianificazione organizzava la didattica del relativo corso presso l’Iuav, sancì che “Ambiente e Uso delle Risorse” fosse area tematica strutturante per l’indirizzo formativo dei pianificatori. I futuri pianificatori assumevano il territorio nella sua accezione più completa – sociale, ambientale, culturale, economica – intesa “come patrimonio da tutelare e valorizzare non come risorsa da sfruttare e consumare intensamente”.

In linea con quanto colto, tra gli altri, da Emilio Sereni nella Storia del paesaggio agrario italiano, dove, prima della pervasiva cementificazione degli ultimi cinquant’anni, emergevano i tratti di una coevoluzione virtuosa tra tra paesaggio naturale e antropizzato e il più grande patrimonio storico-artistico del pianeta. Ciò che sarebbe ancora il “Belpaese” che il Pnrr dovrebbe innovare, rafforzandone, non negandone, le caratteristiche.

Non solo Firenze: i lavoratori sotto ricatto grazie alle coop in appalto

Dal 6 dicembre, i circa 90 lavoratori delle biblioteche di Firenze e i 10 dell’Archivio civico hanno proclamato lo stato di agitazione: temono per il loro futuro, con un appalto in scadenza ad aprile che non può più essere prorogato. E con l’intenzione, da parte dell’amministrazione, di investire nell’appalto due milioni in meno rispetto a quanto promesso pochi mesi fa: soldi in meno significa meno lavoratori, o, in alternativa, salari e diritti ridotti. Senza considerare il ribasso che potrebbe imporre la cooperativa entrante.

La situazione lavorativa è già critica. Gli operatori lavorano, nelle stesse biblioteche, con 4 cooperative diverse che offrono gli stessi servizi. Lavorano con contratti diversi – i nuovi assunti hanno di norma livelli più bassi dei “vecchi” – ma la maggior parte con quello del Commercio (anche se sono laureati e parliamo di biblioteche) e con il sistema della “banca ore”: hanno un numero minimo di ore garantite a settimana (16, 12, anche 8) ma possono lavorarne fino a 40, senza straordinari. Per chi ne lavora 40 – pochi – si arriva a 1.200 euro al mese. E mentre il servizio per l’utenza è parcellizzato, la ricattabilità per chi lavora è enorme: si accetta qualsiasi turno per arrivare a un monte ore decente, costantemente minacciati di tornare a lavorare solo le poche ore garantite da contratto. In estate sono stati tenuti tre mesi in cassa integrazione (mentre in tutta la provincia i servizi bibliotecari erano ripartiti), si sono mobilitati, creando il gruppo “Biblioprecari”, e hanno ottenuto la fine della Cig e rassicurazioni sull’appalto in scadenza (prorogato per l’ultima volta a settembre). Ma ora, cambiati assessore e giunta, le promesse sembrano svanite.

La situazione di Firenze non è un’eccezione, ma la regola. A Prato pochi mesi fa una cooperativa ha vinto l’appalto delle biblioteche imponendo un ribasso dell’11%. Nel 2019 a Modena la cooperativa Macchine Celibi vinse con un ribasso del 14%: ma in quel caso una sentenza del Consiglio di Stato, dopo una denuncia dell’azienda esclusa e un’azione sindacale, ha ribaltato l’esito della gara. Il ribasso negli appalti è la norma. Spesso si procede direttamente con l’impiego di bibliotecari a partita Iva: in molte regioni è l’escamotage per avere biblioteche aperte poche ore a settimana. Non pochi si occupano di due, tre o quattro biblioteche insieme. E, secondo l’Istat, il 18% di loro ha visto sospesa la collaborazione durante i lockdown. Qualcuno (l’1%) per sempre.

Il bibliotecario non c’è o è precario: l’agonia di un servizio pubblico

Da un mese la Biblioteca Nazionale di Napoli ha ridotto gli orari di apertura. Apre dalle 10 alle 15, con ingresso soltanto su prenotazione. Il perché è presto detto: il personale, che contava 250 unità nel 2015, è sceso a 80, ed è destinato a calare ancora. “Avrei bisogno di almeno il doppio delle persone: col tempo la situazione peggiorerà” a causa dei pensionamenti, spiega il direttore Salvatore Buonomo. La Nazionale di Napoli è la terza biblioteca d’Italia, il caso è clamoroso, ma non è certo isolato: il numero di bibliotecari in servizio al ministero della Cultura è arrivato ormai a 310, nel 2016 era di 779.

Anche le Biblioteche Nazionali di Roma e Firenze hanno ridotto gli orari stabilmente dal 2020 e già dal 2017 è noto che a Roma alcuni servizi erano garantiti da “volontari” pagati con il sistema dei rimborsi spese in cambio degli scontrini. C’è chi se la passa peggio: la Biblioteca Universitaria di Pisa, chiusa dal 2012, è destinata, in assenza di interventi, a vedere molti dei suoi fondi spostarsi a Piacenza, anche quelli dell’archivio storico più rilevante, che oggi si trova a Lucca.

Non è un trend privo di eccezioni – a Milano ad esempio le biblioteche civiche hanno aumentato assunzioni e servizi – ma il quadro che emerge dai dati raccolti dall’Istat su 7.425 biblioteche italiane (la prima di questo genere, che comprende tutte le biblioteche tranne quelle universitarie e scolastiche) in riferimento al 2019 non è roseo: solo il 9% delle biblioteche riesce ad aprire per più di 40 ore settimanali, mentre quasi il 65% apre per meno di 30 ore settimanali, la situazione della Nazionale di Napoli.

Aperture ridotte, causate da personale ridotto. Solo il 10% delle biblioteche ha un bibliotecario assunto, mentre il 9% impiega bibliotecari esternalizzati. Il 52% degli istituti, invece, utilizza volontari o stagisti. Incrociando i dati, si evince poi che oltre il 70% delle biblioteche è privo di personale interno di qualsiasi tipo. Si tratta di una situazione che cambia anche radicalmente da regione a regione (in Piemonte il 70% delle biblioteche usa volontari, in Valle d’Aosta invece il 70% ha bibliotecari assunti) e che si rispecchia anche nella qualità e quantità dei servizi.

Rosa Maiello, presidente dell’AIB-Associazione Biblioteche Italiane, spiega che la situazione, per la prima volta fotografata con questa precisione dall’Istat per il 2019, con l’inizio dei lockdown è andata a peggiorare: più doveri, più restrizioni, stesso numero (carente) di bibliotecari. “Chi funzionava bene ha reagito prontamente, riuscendo a offrire servizi innovativi, ma si tratta purtroppo di una minoranza: Regioni e amministrazioni locali hanno una rilevanza decisiva nel buon funzionamento del sistema”. In alcune regioni (Sicilia, Puglia, Campania, ma non solo) e in determinate aree e centri (secondo l’indagine, soprattutto quelli tra 30 e 50 mila abitanti) ci sono pochi istituti per bacini d’utenza enormi, senza considerare gli orari d’apertura, che si riducono tra centro e periferia.

Sono le biblioteche più piccole e meno note a soffrire di più, che non hanno ricercatori e studiosi di fama internazionale pronti a prenderne le difese. Biblioteche che non hanno mai riaperto dopo un terremoto o l’ultimo pensionamento. Non esistono dati uniformi riguardo le chiusure. Maiello fa notare che uno dei grossi problemi è l’assenza di un sistema bibliotecario uniforme, in cui poter far confluire tutti i dati di biblioteche statali, civiche, universitarie, ma i dati dell’Iccu, Istituto per catalogo unico delle biblioteche italiane, offrono indicatori preoccupanti: tra 2018 e 2020 registrano quasi 2 mila biblioteche “esistenti” in meno e l’Istat, quando nel 2019 ha svolto la sua indagine partendo proprio dall’anagrafe dell’Iccu, ha ottenuto le risposte da meno di 8 mila biblioteche rispetto alle oltre diecimila censite.

Nel 42% dei Comuni, secondo i dati 2019, non c’è nessuna biblioteca. In molti casi, spiega Maiello, biblioteche aperte poche ore a settimana con personale precario o volontario esistono solo in teoria.

Il paradosso è che – a differenza degli archivi, gli altri grandi malati del ministero dei Beni Culturali – le biblioteche stanno vivendo un momento di disponibiltà economica notevole: da poche settimane sono arrivati 30 milioni stanziati quest’anno, che seguono i 30 dell’anno scorso, per acquistare nuovi libri. “Una manna” dopo decenni di magra, spiega la presidente AIB.

I nuovi acquisti, però, ricadono sulle spalle di bibliotecari che si trovano così ad avere 4-5 mila euro da spendere subito ma il personale contato, gli orari ridotti, la difficoltà di catalogare con le forze rimaste. A volte l’arrivo di questi fondi ha fatto comprendere alle amministrazioni la necessità di nuovi bibliotecari, ma tutto è stato lasciato alla volontà e disponibilità delle singole realtà.

Miliardari all’incasso: forti vendite in Borsa contro ribassi e tasse

L’ultimo è stato Satya Nadella, il potente Ceo di Microsoft. Il 23 novembre scorso ha venduto la metà delle sue azioni Microsoft realizzando, in un solo giorno, un incasso di 285 milioni di dollari. Ma prima di lui si era sbarazzato di parte dei portafogli azionari il Gotha degli uomini più ricchi d’America. Jeff Bezos di Amazon, nel 2021, ha venduto 3,2 milioni delle sue azioni Amazon per un guadagno formidabile di 10 miliardi di dollari. Appaiato a lui il vulcanico Elon Musk che aveva chiesto provocatoriamente a novembre su Twitter, in polemica aperta con il presidente Biden che vuole alzare fortemente la tassazione sui capital gain, se i suoi follower gradissero l’intenzione di vendere il 10% della sua quota in Tesla. Musk nel 2021 ha incassato ben 10 miliardi di dollari ma la sua vendita ha fatto crollare il titolo, mentre lui ricomprava a prezzi più bassi. Poi c’è la famiglia Walton proprietaria di Walmart: ha messo sul mercato azioni per il controvalore di oltre 6 miliardi di dollari. La lista dei Ceo delle grandi corporation Usa si allunga su Tim Cook: il capo di Apple in agosto ha piazzato sul mercato 5 milioni di titoli per un incasso di 751 milioni di dollari. Poi Stephane Bancel, ceo di Moderna che, grazie al rialzo esplosivo del titolo sull’onda del vaccino Covid, vende costantemente piccoli pacchetti per un totale in un solo anno di oltre 200 milioni. Poi c’è Lisa Su, a capo di Amd (semiconduttori), venditrice di azioni Amd per 100 milioni. Tom Rutledge, capo di Charter Communications, con vendite per 59 milioni.

L’elenco non finisce qui. Secondo il sito InsiderScore, citato da Cnbc, dalla vendita di parte dei propri titoli i grandi capi delle multinazionali a stelle e strisce avrebbero incassato solo nel 2021 (non ancora concluso) 63 miliardi di dollari. Un’accelerazione poderosa del 30% sul 2020 e addirittura del 79% sulla media delle vendite nell’ultimo decennio. Due i fattori principali a spingere i capi delle grande aziende (soprattutto hi-tech, pharma e media) a passare all’incasso. La consapevolezza che i rialzi continui delle azioni potrebbero subire una battuta d’arresto con la fine delle politiche monetarie ultra-espansive e con l’incertezza legata alle varianti Covid. Meglio prendere profitto convertendo le ricche stock option dopo rialzi a tre cifre. Si può sempre ricomprare a prezzi più bassi (Musk docet) in futuro. Ma la ragione più immediata ha a che fare con la mossa del presidente Usa Joe Biden, che vuole finalmente tassare di più le ricchezze patrimoniali in azioni. Del resto è confortato dai numeri: gli studi commissionati da Biden dicono che 400 miliardari Usa pagano di tasse meno del cittadino medio, solo l’8,2% sull’imposta federale. Sono soprattutto le plusvalenze da rialzi a sfuggire quasi del tutto al Fisco federale. Il reddito da dividendi e dalla vendita di azioni è tassato al massimo al 20% (23,8% inclusa l’imposta sul reddito da capitale), che è molto inferiore all’aliquota ordinaria massima del 37% (40,8%) sugli altri redditi, quelli da lavoro innanzitutto.

Che le grandi ricchezze patrimoniali sfuggano al Fisco facilmente è sotto gli occhi di tutti. Lo stesso Warren Buffett, uno dei miliardari Usa con il suo fondo Berkshire, ammise pubblicamente la realtà con un provocatorio “pago di tasse meno della mia segretaria”. La sua dichiarazione dei redditi 2015, pubblicata volontariamente, indicava un reddito lordo rettificato di 11,6 milioni. Nel 2015 Buffett ha pagato 1,8 milioni di imposta federale sul reddito delle persone fisiche. La sua Berkshire da sola capitalizza ben 636 miliardi di dollari e l’ottantenne Buffet ne possiede il 16%, con una ricchezza azionaria di oltre 100 miliardi.

Nonostante gli alleggerimenti recenti, il grande venditore Musk può contare su un valore personale della sua Tesla per 172 miliardi. Pur vendendo un piccolo pacchetto, il capo di Apple Tim Cook tuttora possiede 3,28 milioni di titoli per un valore di mercato di oltre mezzo miliardo. Bezos, che è sceso dal 15% della sua quota in Amazon pre-pandemia al 9,8% attuale, ha un patrimonio in titoli della sua azienda per 179 miliardi. Poco meno di tutti i costi (lavoratori compresi) che paga Amazon ogni anno. La stessa Amazon che nel 2020, su 24 miliardi di utili, ne ha pagati solo 2,8 di tasse.

Così la pandemia ha allargato la forbice sociale e ambientale

Lo squilibrio tra ricchi e poveri è la malattia più antica e più fatale di tutte le repubbliche. A distanza di quasi venti secoli, la frase di Plutarco si carica di ulteriore significato perché da due anni è proprio una pandemia ad aver ulteriormente allargato la forbice sociale tra chi può e chi no. Lo confermano centinaia di migliaia di dati contenuti nell’ultima edizione del World Inequality Report, il rapporto sulle diseguaglianze globali, pubblicata nei giorni scorsi. Le tante dimensioni della disparità nel mondo – non solo economica, ma anche di genere e ambientale – sono scandagliate grazie a un database creato e analizzato da un centinaio di ricercatori coordinati, tra gli altri, dall’economista Thomas Piketty.

Come il resto del mondo, anche l’Italia non ne esce affatto bene: dopo lungi decenni di contrazione, dall’inizio degli anni Ottanta le sperequazioni sono ripartite a seguito di una serie di programmi di deregolamentazione e liberalizzazione che hanno assunto forme diverse nei diversi Paesi. L’andamento non è stato uniforme: alcuni Stati hanno registrato aumenti incredibili della disuguaglianza (tra questi Stati Uniti, Russia e India) mentre altri (Unione Europea e Cina) hanno registrato aumenti relativamente più contenuti. Queste differenze territoriali confermano che la disuguaglianza non è inevitabile ma, al contrario, è una scelta politica. Sugli antichi divari, poi, da due anni il Covid ne ha innestati altri che impatteranno a lungo.

L’impatto della globalizzazione, negli ultimi due decenni, ha portato a ridurre le disuguaglianze tra i Paesi, ma ha fatto esplodere la forbice tra diverse classi sociali nella maggior parte delle nazioni. Quest’anno, nel mondo, ogni adulto ha guadagnato in media 16.700 euro, con un patrimonio personale di 72.900. Ma, mentre il 10% più ricco della popolazione mondiale assorbe attualmente il 52% del reddito globale, la metà più povera della popolazione ne guadagna appena l’8,5%. In media, un individuo che appartiene al 10% con le paghe più alte guadagna 87.200 euro l’anno, mentre un individuo della metà più povera appena 2.800 euro l’anno.

Le disuguaglianze patrimoniali a livello globale sono ancora più pronunciate delle differenze di reddito. La metà più povera della popolazione mondiale possiede a malapena il 2% della ricchezza totale, mentre il 10% più ricco addirittura il 76%. In media, la metà più povera ha un patrimonio di appena€ 2.900 euro per adulto, il 10% più ricco invece di 550.900 euro. La disuguaglianza varia in modo significativo tra l’Europa, l’area mondiale più egualitaria, e il Medio Oriente e Nord Africa (Mena), la più diseguale del pianeta.

In Europa, la quota di reddito totale che va al 10% meglio pagato della popolazione è di circa il 36%, mentre nel Mena raggiunge il 58%. La mappa mondiale delle disuguaglianze rivela però che i livelli di reddito medio nazionale funzionano male come indicatori di disuguaglianza: tra i Paesi ad alto reddito alcuni sono molto diseguali, come gli Stati Uniti, mentre altri sono relativamente egualitari, come la Svezia. Lo stesso vale tra gli Stati a basso e medio reddito, con alcuni che mostrano disuguaglianze estreme (ad esempio Brasile e India), livelli piuttosto alti (Cina) e altri moderati o bassi (ad esempio Malesia o Uruguay).

Così, mentre il divario tra i redditi medi del 10% più ricco e del 50% più povero a livello globale è sceso da circa 50 volte a poco meno di 40, allo stesso tempo la forbice tra i redditi medi del 10% più ricco e del 50% più povero all’interno degli stessi Paesi è quasi raddoppiata, passando da 8,5 a 15 volte. Questo forte aumento delle disparità interne ha fatto sì che, nonostante la forte crescita economica dei Paesi emergenti degli ultimi anni, il mondo rimanga particolarmente diseguale.

Il Covid è stato un acceleratore di questi processi. Da decenni i multimiliardari globali hanno catturato una quota sproporzionata della crescita della ricchezza globale: l’1% più ricco della popolazione mondiale ha ottenuto il 38% di tutta la ricchezza aggiuntiva accumulata dalla metà degli anni 90 a oggi, mentre il 50% più povero ne ha percepito solo il 2%. Dal 1995, la quota di ricchezza globale posseduta dai miliardari è passata così dall’1% a oltre il 3%.

Questa disuguaglianza deriva da un’altra, grave disuguaglianza: quella nei tassi di crescita tra le classi superiori e inferiori della distribuzione della ricchezza. Dal 1995 la ricchezza degli individui più ricchi del pianeta è cresciuta a un tasso medio annuo compreso tra il 6 e il 9%, mentre il tasso di crescita media è stato di appena il 3,2% l’anno.

Questo aumento è stato esacerbato durante la pandemia: i dati segnalano che il 2020 ha segnato l’aumento più rapido mai registrato nella quota di ricchezza dei miliardari globali. Mentre pochi individui si arricchivano a dismisura, interi Stati si sono impoveriti.

Negli ultimi quarant’anni pochi cittadini di molti Paesi sono diventati estremamente ricchi, ma la quota di ricchezza detenuta dalle istituzioni pubbliche delle loro nazioni è calata vicino allo zero o è addirittura andata in negativo in alcuni nazioni, come nel Regno Unito. Questo significa che la totalità della ricchezza è in mani private. Una tendenza che è stata ulteriormente amplificata dalla pandemia, durante la quale numerosi governi hanno preso in prestito, essenzialmente dal settore privato, l’equivalente di un ulteriore 10-20% del Pil. L’attuale indebitamento dei governi avrà importanti implicazioni perché limiterà a lungo la capacità degli Stati di affrontare le disuguaglianze e le sfide chiave del 21° secolo, ad esempio quella ambientale.

Proprio sul clima si consuma l’ultima ingiustizia. In tutto il mondo, le disparità di reddito e ricchezza sono strettamente collegate alle forbice nell’impronta climatica. Gli esseri umani emettono in media 6,6 tonnellate di anidride carbonica equivalente pro capite l’anno, ma il 10% più ricco della popolazione è responsabile di quasi il 50% di tutte le emissioni, mentre il 50% più povero produce il 12% delle emissioni totali. Queste disuguaglianze non sono solo una questione di Paesi ricchi contro Paesi poveri, ma anche interne. In Europa, il 50% più povero della popolazione emette circa 5 tonnellate l’anno per persona, in Asia orientale 3, in Nord America circa 10. Invece il 10% più ricco ne emette 29 in Europa, 39 in Asia orientale e 73 in Nord America. Dunque la metà più povera della popolazione nei Paesi ricchi è già vicina agli obiettivi climatici per il 2030: eppure le tasse sul carbonio hanno spesso un impatto sproporzionato sui gruppi a basso e medio reddito, lasciando invariate le abitudini di consumo dei più ricchi.

Quanto all’Italia, il reddito medio per gli adulti è 27.340 euro, ma mentre il 50% pagato meno guadagna 11.320 euro l’anno, il 10% meglio remunerato guadagna in media otto volte di più (87.850 euro€, il 32% del totale). Tra il 2007 e il 2019, per il 50% più povero i redditi medi sono calati del 15%, a fronte di una riduzione del 12% del reddito nazionale per adulto dovuta alle politiche di austerità seguite alla crisi finanziaria.

Ma esiste anche un fronte scarsamente considerato, quello delle disuguaglianze di genere, superiori ad altri Paesi: la quota di reddito del lavoro femminile è del 35%, vicina al Nord America (38%) ma inferiore al 41% dell’Europa occidentale (41%), nonostante sia cresciuta del 6% in 30 anni. La concentrazione della ricchezza è alta, ma inferiore alla maggior parte dei paesi della Ue: quest’anno il 10% più ricco possiede il 48% della ricchezza privata, mentre il 40% intermedio e il 50% più povero rispettivamente il 42% e il 10%. Certo l’ultima manovra di Palazzo Chigi non pare mirata a sanare questa frattura.

Mail Box

 

Un sogno (o incubo?): Casellati al Quirinale

Sarà il silenzio dei media calato sulla nostra nobile presidente del Senato (zitti tutti, si rischia di bruciarla). Ma, a mo’ di Padellaro, anche io ho fatto un sogno. La seconda carica dello Stato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, veniva eletta Presidente della Repubblica. E Draghi restava in sella al governo fino al 2023. Finalmente una donna al Quirinale, e che donna! Carriera luminosa: forzista della prima ora, fedelissima del Caimano; una moltitudine di incarichi istituzionali; già membro del Csm. Per lei, Ruby era nipote di Mubarak, Mangano uno stalliere e Dell’Utri sempre chino sugli antichi testi. Ma tornando al sogno, tutti erano felici e contenti dell’elezione. Prodi in primis, accompagnato da Letta junior. Ai festeggiamenti si univano Meloni, Salvini, Franceschini, Di Maio e comparse varie. Confindustria era soddisfatta. Renzi, dopo aver inciuciato a dritta e a manca, senza vergogna a modo suo, s’intestava il merito di tanta Eletta, pronto a raccogliere i frutti dei suoi intrallazzi: un seggio alle prossime elezioni, non importa in quale cespuglio del centrodestra. Poi, a sera, tutti a teatro, ad ascoltare il maestro Alvise. E noi, popolo bue, rassegnati al settennato di tanta Presidentessa.

Diego Tummarello

 

Ci vuole un limite d’età per essere eletti al Colle

La massima parte dei candidati al Quirinale ha una caratteristica comune: quella anagrafica, un tantino avanzata. Non sarebbe opportuno fissare un limite massimo, come ad esempio fa la Chiesa? Io ne ho 82, il ché mi escluderebbe, ma pazienza…

Gian Ranieri Cuturi

 

Quelli che si lamentano dei toni del “Fatto” su B.

Leggo che c’è chi si lamenta dei toni con cui Il Fatto racconta la biografia di Berlusconi. Suggerirei prima di procedere nell’elencazione delle sentenze e dei fatti, come fanno i preti quando leggono il Vangelo: “Dal Vangelo secondo”. Ecco, potreste scrivere: “Dalla sentenza della Cassazione del… a seguito del processo a carico di Silvio Berlusconi” eccetera. Cosicché possiate mettere a tacere questi signori che vi incolpano di acrimonia e volgarità e invitarli ad andare a leggersi gli atti. Va bene che siamo un Paese che sta andando alla deriva, però non siamo ancora una Repubblica delle banane!

Rosaria Andreoni

 

Un aiuto per Giacomo, affetto da malattia rara

Il mio amico Giacomo ha scoperto di avere una malattia rara. In questi casi devi rimboccarti le maniche e organizzare il finanziamento della ricerca con chi ti dà una mano, perché il mercato non si occupa di trovare la cura per le malattie che riguardano piccoli numeri. Troppi i costi rispetto ai ricavi prevedibili. Giacomo non si è perso d’animo e, insieme a familiari e amici, ha creato la fondazione “Con Giacomo contro la sindrome vEDS”, per raccogliere fondi e avviare un programma di ricerca su Telethon. Se volete potete fare una donazione a questo indirizzo: https://bit.ly/3ExosB2

Massimo Marnetto

 

Anche sulla terza dose troppe contraddizioni

Volevo portare l’attenzione su una bizzarra situazione che sto vivendo da più di una settimana. In quanto soggetto fragile per patologie pregresse, come da indicazioni generali, le prime due dosi di vaccino le ho fatte con Pfizer, considerato in quel tempo da quasi tutti gli scienziati il più idoneo a chi non vive una situazione di salute perfetta. Bene, qui a Palermo accade che prenoto per la terza dose, naturalmente Pfizer, e poi sul posto mi si dice “o Moderna o non abbiamo altro”. Ma dico, dopo tutti gli inviti a vaccinarsi, le chiacchiere nei talk, le raccomandazioni varie a non perdere tempo, tutto questo mi sembra davvero una contraddizione. Lo dico con franchezza: la terza dose la farò solo proseguendo il trattamento con Pfizer – ripeto – a suo tempo consigliato per soggetti con patologie pregresse.

Mirella Corrao

 

Ecco perché, a 17 anni, sono lettore del “Fatto”

Appena uscito da scuola (ho 17 anni), insieme a un mio compagni di classe vado in un’edicola per acquistare la copia del Fatto e confesso al mio amico: “Ho bisogno di leggere Travaglio”. Dopo pochi istanti noto un signore anziano iniziare a bofonchiare e ridere sotto i baffi; non esita dunque a pronunciare il suo astio nei confronti del Fatto, e in particolar modo verso Travaglio. Io, senza dare troppo conto a questo frustrato, difendo per quanto mi è possibile il direttore. Continuate a svolgere il vostro lavoro. Noi lettori ve ne siamo grati.

Michele Fazio

Fiat addio. Perché sono tramontati glorie e posti di lavoro del marchio

 

Gentile redazione, tra le varie ipotesi avanzate per giustificare il calo delle vendite in Italia penso che si possa aggiungere anche la scomparsa della FIAT dallo scenario produttivo. La FIAT ha sempre avuto nel mercato domestico la sua forza; ora che non produce quasi nulla in Italia, a parte la Panda che infatti è in testa alla classifica dei modelli più venduti, anche il mercato ne risente non avendo la maggior parte degli automobilisti le possibilità di comprarsi Ferrari, Lamborghini e Maserati ed è restia a comprare auto prodotte all’estero. Cordiali saluti.

Paolo Antonelli

 

Sono Passati ormai decenni da quando comprare auto in Italia significava acquistare (quasi) soltanto vetture Fiat. E oggi, caro Antonelli, quel marchio è appena poco più di uno dei tanti di una nuova galassia che si chiama Stellantis ed ha il controllo della sua proprietà e il suo cervello pensante nella Parigi di PSA-Peugeot, le sue sedi legale e fiscale spalmate tra Londra ed Amsterdam, il suo mercato più forte (grazie alle intuizioni di Sergio Marchionne) negli Usa di Chrysler e una rappresentanza italiana che non si chiama neppure più Agnelli ed è impegnata con ottime fortune nella finanza internazionale, con sorti tutt’altro che consolanti, invece, sul fronte dell’editoria (Gedi), calcio (Juventus), F1 (Ferrari) . Ecco perché non credo sia più possibile discutere oggi della Fiat che fu e di quella che è rimasta oggi in termini di un mercato “nazionalista” (“prima le auto italiane”). Semmai, la decisione adottata l’altro ieri dal nostro governo di aderire al blocco, a partire il 2035, delle immatricolazioni di nuove auto nell’area Ue che non siano elettriche o a idrogeno, pone adesso interrogativi strategici sulle sorti degli stabilimenti di Stellantis in Italia e sull’intera filiera dell’auto nel nostro Paese. Con ritardi storici e assoluti dell’ex FIAT-FCA sul terreno dell’innovazione e della ricerca legata ai motori che non siano a benzina o diesel. Un gap che ora tocca al cervello francese di Stellantis cercare di recuperare, ma con un’inevitabile attenzione soprattutto alle sorti della sua produzione e della sua occupazione in Francia. Dove, è bene non dimenticarlo mai, lo Stato è azionista (e importante) del gruppo.

Ettore Boffano