Denunciò le vacanze di Matteo: rischia il processo

“Vacanze renziane”. Si intitolava così il post con cui quattro anni fa Paolo Nicolò Romano, deputato M5S Stelle, denunciava sul suo blog l’utilizzo di un volo di Stato per portare in vacanza in Valle d’Aosta Matteo Renzi e la sua famiglia. Oggi, per la diffusione di quella notizia, Romano rischia il processo: la procura di Milano gli ha notificato un avviso di chiusura delle indagini e il deputato potrebbe dover rispondere in tribunale per concorso in rivelazione di segreto d’ufficio.

I fatti risalgono al Capodanno 2015. Il premier Renzi passa qualche giorno in vacanza a Courmayeur, accompagnato dalla moglie e dai figli. Ma il 3 gennaio Romano denuncia sul suo blog che Renzi ha raggiunto Aosta di ritorno dalla visita ufficiale a Tirana con un volo di Stato, proprio come il resto della famiglia imbarcato a Firenze. Romano sul suo blog parla di un Falcon 900, un aereo “che ha un costo notevole per muoversi, 9mila euro all’ora”, e accusa la famiglia Renzi di essere andata in vacanza “a spese degli italiani”.

Quattro anni dopo, Romano deve rispondere della diffusione di quelle informazioni: “Mi contestano che non potessi divulgarli”. In effetti, già allora Renzi e Palazzo Chigi non avevano smentito la notizia, precisando che il viaggio di Stato fosse stato parte “obbligata” di una misura di protezione. “Gli spostamenti aerei, dormire in caserma, avere la scorta, abitare a Chigi – twittò l’ex premier – sono frutto di protocolli di sicurezza”. Che, avevano spiegato fonti della presidenza del Consiglio, “riguardano anche la famiglia del premier quando si muove con lui”. Del caso si era occupata anche la Corte dei Conti, che aveva archiviato l’indagine avviata su esposto di M5S.

“Io ho denunciato un abuso – racconta ora Romano – per il quale ritenevo che l’interesse pubblico fosse superiore a ogni eventuale necessità di mantenere il segreto su quelle informazioni”. E nonostante la possibile richiesta di rinvio a giudizio – che pende anche per un dipendente dell’Enav di Linate – l’avvocato di Romano, Alberto Pasta, mostra sicurezza: “Esistono in commercio decine di app, anche gratuite, che mostrano informazioni in tempo reale sugli aerei in volo. Dati che sono pubblici e che devono essere accessibili a tutti e in particolare agli aeroclub”. E ancora: “È giusto che la magistratura faccia il suo lavoro, ma ritengo sotto il profilo giuridico che difetti del tutto la qualifica di segretezza o riservatezza e che l’onorevole debba essere prosciolto, come già sancito da diverse sentenze in casi analoghi”.

Versione opposta alla tesi della procura, che accusa il deputato di aver violato “doveri inerenti al servizio” e di aver “abusato della sua qualità, rivelando al pubblico notizie d’ufficio che dovevano rimanere segrete”. Il riferimento è alla pubblicazione dell’immagine del tracciato del Falcon 900, diffuso da Romano sul blog insieme ai piani di volo relativi agli spostamenti di Renzi. “La mia denuncia è arrivata quando l’ex premier e la famiglia erano già atterrati”, è la difesa del 5 Stelle. Che aggiunge: “Dunque non c’è motivo per considerare la rivelazione di quel tracciato un pericolo per la sua sicurezza”.

Ultimo e Scafarto, raffica di querele per il libro di Renzi

Tiziano Renzi si costituirà parte civile in udienza preliminare del processo Consip contro Gianpaolo Scafarto che a sua volta denuncerà Matteo Renzi già querelato dal capitano Ultimo. Intorno al libro dell’ex premier che allude a presunti complotti di Sergio De Caprio e del maggiore dei carabinieri Scafarto ai suoi danni, si sta scatenando una guerra di iniziative giudiziarie incrociate. Un’altra strada, il titolo del volume edito da Marsilio. Al momento questa strada porta dritta ai tribunali. Ma andiamo con ordine.

Dopo Ultimo, che ha reso noto di voler denunciare Renzi, tocca a Scafarto. Anche l’assessore di Castellammare di Stabia (Napoli), imputato di falso, depistaggio e rivelazione di segreto nel processo Consip con l’accusa tra l’altro di aver manipolato una intercettazione per aggravare la posizione del padre dell’ex premier, Tiziano Renzi (per il quale la Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione delle accuse di traffico di influenze illecite), preannuncia querela contro l’ex segretario del Pd tramite il suo avvocato, Attilio Soriano: “Siamo sorpresi nel leggere che l’ex premier invochi ancora la tesi del complotto fondandola peraltro su dichiarazioni, come quelle della dottoressa Musti (procuratore capo di Modena, ndr), pubblicate erroneamente su un quotidiano e smentite dalla stessa il giorno dopo. Per porre la parola fine a queste ripetute suggestioni, con il collega Giovanni Annunziata presenteremo querela per diffamazione”. La replica dell’avvocato Federico Bagattini, storico difensore della famiglia Renzi, è altrettanto polemica: “Avendo letto il libro, mi risulta incomprensibile il possibile contenuto della querela preannunciata dal colonnello De Caprio. Sarà comunque un piacere difendere il senatore dall’accusa che il colonnello intende muovergli”. E su Scafarto aggiunge: “Prendo atto delle intenzioni del maggiore che incontrerò all’udienza preliminare del processo che lo riguarda allorquando ci costituiremo parte civile contro di loro”.

La panna delle querele è montata su alcuni passaggi del libro di Renzi. E in particolare quelli con i quali l’ex premier sostiene che i servizi segreti, dove era transitato De Caprio insieme ad altri carabinieri del Noe (Nucleo operativo ecologico), sono stati usati contro di lui. Renzi afferma che De Caprio e i suoi uomini passarono all’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (Aise) con l’obiettivo di catturare Matteo Messina Denaro, ma poi il gruppo di lavoro avrebbe “sbagliato Matteo”. Dura la replica di Ultimo: “Di Renzi – sottolinea De Caprio – non me ne sono occupato prima e non me ne occupo ora. Non ho mai attribuito ad altri le cause dei miei fallimenti personali e professionali. Ho dato mandato al mio avvocato Francesco Romito di agire nelle sedi competenti contro le persone che mi attribuiscono cose che non ho mai detto e azioni che non ho mai compiuto”.

Allo stesso modo, nel libro non manca un attacco durissimo a Scafarto: “È lui che tecnicamente avrebbe manipolato le prove (…) Ed è lui che qualche mese prima dei fatti contestati esplicita la sua linea a un magistrato di Modena, Lucia Musti, che sotto giuramento al Csm riporterà le parole testuali: ‘Dammi le prove per arrivare a Renzi. Devo arrestare Renzi’.(…) E perché Scafarto, sotto processo, verrà poi investito del ruolo di ‘assessore alla legalità’ in un comune campano, smettendo la divisa per fare politica in un’amministrazione guidata da avversari politici”?

Scafarto in realtà avrebbe detto altro: “Scoppierà un casino, arriviamo a Renzi”. Inoltre ha smentito di aver pronunciato quelle parole. E a oggi, ancora carabiniere, ha esaurito le ferie accumulate e ha ripreso servizio. A Napoli.

Ci sono le elezioni e il Giornale minaccia lo sciopero

Per paradosso, l’uomo che è sceso in campo nel 1994 con un grande dispiegamento di forze televisive e giornalistiche rischia di far campagna elettorale per le elezioni europee di maggio senza uno dei suoi cavalli di razza. Il Giornale di proprietà della famiglia Berlusconi ha minacciato lo sciopero perché l’azienda Società europea di edizioni s.p.a. ha prospettato un taglio degli stipendi del 30% per far fronte alla crisi del quotidiano. Il comitato di redazione avverte che “nei mesi che abbiamo davanti cadono importanti scadenze elettorali, è fondamentale che in edicola i lettori trovino sempre il nostro quotidiano, un riferimento irrinunciabile” per quella fetta d’opinione pubblica di orientamento moderato e “di forti convinzioni liberali”. Il comitato in una nota ha lamentato come l’editore si limiti a chiedere sacrifici ai giornalisti invece di continuare ”la trattativa in corso che dovrebbe portare il quotidiano fuori dalla grave situazione economica in cui si trova”. Crisi dovuta al “calo degli introiti da vendite e da pubblicità, ben più consistente rispetto alla media complessiva dei quotidiani nazionali”.

B. fa l’anti-italiano perché non lo votano più

Arriva sempre un momento in cui lo Spirito assoluto della Storia, per dirla alla Hegel, dà un senso completo agli eventi. E stavolta questo Spirito implacabile e razionale si è posato sul parrucchino color marrone di Silvio Berlusconi, il quale da padre padrone di un movimento che si chiama Forza Italia ha cominciato a sparare a zero contro gli italiani.

Così il grande piazzista che per un quarto di secolo ha raggirato gli italiani con toni da populista primordiale e semplificatore all’ennesima potenza si è ritrovato a cavalcare la tigre che un tempo fu dei suoi avversari, increduli di fronte a un Paese che votava in massa per un tycoon da Repubblica delle banane. Cioè: gli italiani non capiscono una mazza. L’ex Cavaliere Ottuagenario ha cominciato domenica scorsa nel salotto pop-trash della fedelissima Barbara d’Urso, sugli schermi di casa: “Quando c’è da votare, in quanti votano Silvio Berlusconi? Mi vergogno di dirlo, 5-6 italiani su 100. E mi sembra una cosa assolutamente fuori dal mondo. E penso che gli italiani siano quasi tutti fuori di testa, perché hanno affidato l’Italia a qualcuno che non la conosce, che non ha mai lavorato, non ha mai studiato. Ma gli italiani dove hanno messo la testa? Si guardino allo specchio”.

Da quel momento in poi, B. è si è appalesato ogni giorno in tv (anche tre trasmissioni al dì) per ripetere lo stesso concetto, offrendo ulteriori varianti ancora più offensive: “Non ho mai raggiunto il 51 per cento, all’inizio pensavo che fosse un mio problema. Invece adesso ho capito che non è colpa mia, ma degli italiani che non mi hanno capito”. Pure incompreso, dunque. Non solo incazzato. In fondo c’è chi invecchia bene e chi no. E B., oltraggiato dalla sanguinosa successione nelle urne del giovane Salvini, mena fendenti contro il popolo bue che il 4 marzo ha tributato il 32 per cento al Movimento 5 Stelle.

Al netto però dello Spirito hegeliano e finanche del contrappasso dantesco, chi ha consigliato questo canovaccio al leader dell’ormai minuscola Forza Italia? I suoi consiglieri dicono in privato che è “il presidente a fare di testa sua”. Non solo. Attorno a lui si rendono pure conto che il refrain può essere controproducente. Anche perché la nuova occupazione di B. manu militari di Rai, Mediaset e La7 alla fine fa filtrare proprio questo messaggio, non positivo e decisamente poco adatto a una campagna elettorale: gli italiani sono fuori di testa. Senza dimenticare, poi, che l’ex Cavaliere è partito lunghissimo nella campagna per le Europee. Certo, è vero che il 24 febbraio ci sono le Regionali in Sardegna, ma da qui al 26 maggio mancano ancora tre mesi abbondanti. È lo stesso errore che commise un anno fa, partendo a gennaio per le elezioni politiche di marzo.

In ogni caso la tv è l’unico mezzo che Berlusconi ha per contrastare il suo vero avversario, Salvini, il quale invece dispone di piazze vere e social. Nel suo piccolo, l’ex premier spera almeno di compattare e fidelizzare i suoi elettori di Forza Italia. Ché la verità è questa: in questo Paese ci sono ancora tre, massimo quattro milioni di italiani che votano ancora Berlusconi. Questi sì fuori di testa.

Voto di scambio e mafia: la norma ora è più severa

Cambio in corsa per una legge fondamentale nella battaglia – vera – contro tutte le mafie, quella che punisce il voto di scambio, ovvero il patto tra mafiosi e politici che vogliono essere eletti a qualsiasi prezzo (articolo 416 ter).

Il 25 febbraio l’aula di Montecitorio esaminerà il testo così come è stato cambiato giovedì pomeriggio dalla commissione Giustizia presieduta da Giulia Sarti (M5S), dopo il patatrac avvenuto in Senato a fine ottobre.

Per capire la modifica importante avvenuta alla Camera, dobbiamo, però, fare un passo indietro e spiegare in sintesi quanto successo a Palazzo Madama.

La modifica si è resa necessaria dopo un emendamento targato Fratelli d’Italia, approvato anche da M5S e che ha stravolto la legge.

E pensare che il testo del relatore Mario Giarrusso (M5S) voleva essere più determinato di quello approvato nel 2014 dal centrosinistra, che ha dato il via sia a condanne sia ad assoluzioni per interpretazioni controverse della normativa.

Tutto è accaduto prima del voto finale del 24 ottobre quando, grazie all’emendamento di FdI, è passata la classica “parolina” che ha vanificato tutti gli sforzi per una legge stringente, efficace.

Il testo Giarrusso, senza la modifica al netto del ribasso, recitava così: articolo 416 ter: “Chiunque accetta, direttamente o a mezzo di intermediari, la promessa di procurare voti da parte di soggetti appartenenti alle associazioni di cui all’articolo 416 bis, in cambio dell’erogazione o della promessa…”. Invece, con l’emendamento di Fratelli d’Italia era arrivato alla Camera così: “Chiunque accetta… da parte di soggetti la cui appartenenza alle associazioni di cui all’articolo 416 bis sia a lui nota“.

È proprio quel dover essere un’appartenenza “nota” che, come ha detto Libera, la nuova legge sarebbe stata “un’occasione sprecata”, dopo quella approvata nel 2014. Con un’intervista al Fatto, Domenico Gozzo, sostituto procuratore generale di Palermo, da anni magistrato antimafia, pochi giorni dopo il voto del Senato aveva messo a fuoco il pericolo: “Con questo disegno di legge, così come formulato, si rischia di arrivare a un paradosso e cioè di favorire la mafia e i politici che scendono a patti con i clan” dato che si pone “l’accento sull’appartenenza, termine che può aprirsi alle più diverse interpretazioni giurisprudenziali, unita al fatto che deve essere nota a chi conclude il contratto illecito politico mafioso”. E quindi aveva suggerito di mettere nel testo le varie forme con le quali l’associazione mafiosa può stringere il patto elettorale con il politico, anche attraverso chi “non è necessariamente” un membro interno.

Anche il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, sentito in Commissione Giustizia alla Camera, si è mostrato preoccupato: “È di difficile interpretazione il fatto che l’appartenenza all’associazione mafiosa debba essere l’elemento che connota la figura di colui che promette: questo elemento sicuramente determinerà difficoltà applicative” e “ci sarebbe un restringimento dell’area di punibilità”.

Osservazioni e suggerimenti che sono stati ascoltati anche se non del tutto, dalla commissione Giustizia, che giovedì ha cancellato quel famigerato riferimento al fatto che il politico debba sapere che sta parlando con un membro dell’associazione mafiosa (quel “a lui nota”).

Ed ecco il testo con la nuova modifica del 416 ter: “Chiunque accetta… la promessa di procurare voti da parte di soggetti appartenenti alle associazioni di cui all’articolo 416-bis o mediante le modalità di cui al terzo comma dell’articolo 416-bis… “. Cioè si è punibili anche se si riceve voti da soggetti che non sono ancora stati condannati per mafia ma che ne usano i metodi. Ma il riferimento al metodo mafioso è troppo stringente? Può dare adito a interpretazioni diverse? È un dubbio che diversi addetti ai lavori si stanno ponendo e che vogliono approfondire. Resta, invece, intatta l’equiparazione delle pene a chi è condannato per associazione mafiosa: il minimo passa da 6 a 10 anni e il massimo da 12 a 15 anni di carcere.

Ancora liti sui rinnovi del reddito. Castelli: “Ditelo a Conte”

Le schermaglie tra i due partner di governo sul reddito di cittadinanza continuano. In Senato i leghisti non risparmiano gli emendamenti per contenere il provvedimento bandiera del Movimento Cinque Stelle. Prima ci hanno provato con le modifiche per disincentivare a i tranelli su divorzi, Isee e reddito. Adesso puntano a limitare i rinnovi. Dice chiaramente il sottosegretario all’Economia Massimo Garavaglia che non possono essere “sine die, per definizione le politiche attive sono fatte per trovare lavoro”. Attualmente il reddito di cittadinanza non ha limiti di tempo: dura 18 mesi, prorogabili per altri 18 dopo una pausa di un mese. La Lega vorrebbe portarli a un solo rinnovo e aspetta la risposta in merito della Commissione bilancio del di Palazzo Madama. Intanto è il sottosegretario al ministero dell’Economia Laura Castelli a dare una risposta alla proposta di modifica: “Il reddito è il reddito. Se qualcuno vuole mettere in dubbio questa impostazione, deve rivolgersi ai vicepremier e al premier”. Come a dire: loro hanno deciso così, sussidi senza limiti di tempo. Ed è inutile insistere.

Sì o no a Salvini? Lunedì il voto online della piattaforma 5S

Il giorno del giudizio on line sarà lunedì. Dopodomani gli iscritti alla piattaforma web del M5S, Rousseau, voteranno sulla richiesta di processo per sequestro di persona per Matteo Salvini, su cui il Movimento sarà chiamato a esprimersi nella giunta per le Autorizzazioni del Senato e poi in Aula. La votazione sulla vicenda relativa alla nave Diciotti sarà indetta domenica sul blog delle Stelle, e gli iscritti verranno preparati al voto da un video del senatore Mario Giarrusso, il capogruppo del Movimento in giunta. Lunedì sera, probabilmente a votazione conclusa, Di Maio incontrerà i parlamentari per discutere delle nuove regole da lui proposte mercoledì scorso con un post, con cui ha aperto ad alleanze con liste civiche e alla cancellazione del doppio mandato per gli eletti a livello locale. Ma sul tavolo c’è anche l’ipotesi di creare una segreteria politica. Si parlerà anche della decisione da prendere sul caso Diciotti. Intanto la presidenza del Senato ha trasmesso alla Procura di Catania le lettere di Conte e Di Maio allegate alla memoria difensiva di Salvini.

Il governo litiga sul tennis: lo sgambetto ad Appendino

Tensioni, ricatti, ripicche. E a rimetterci è Torino: il sogno di portare in Italia dal 2021 al 2026 le Atp Finals di tennis, il prestigioso torneo tra i migliori 8 giocatori al mondo, probabilmente è sfumato sul più bello. La candidatura presentata a novembre era in vantaggio sulle rivali ma ieri scadeva il termine per le garanzie e il governo non le ha firmate: Lega e M5S non hanno trovato l’accordo.

Come anticipato dal Fatto, sul tavolo di Palazzo Chigi c’era una letterina dal valore di 78 milioni chiesti da Atp. L’ostacolo principale non era neanche economico, quanto politico: evento prezioso per i 5 stelle (e la sua sindaca Appendino, in cerca di rilancio dopo l’esclusione olimpica), poco utile alla Lega che chiedeva qualcosa in cambio. Ad esempio un sostegno ai Giochi 2026 di Milano-Cortina, su cui il Movimento è sempre stato intransigente e non ha cambiato idea. L’errore è stato non affrontare subito la questione, lasciar passare mesi. E al momento decisivo non ha aiutato il clima di tensione in maggioranza, alle prese con ben altri problemi del tennis. Così niente garanzia. Il sottosegretario Giorgetti ha prospettato altre soluzioni, più tortuose per non dire impraticabili: come un ddl ad hoc, che però sarebbe stato pronto in primavera quando l’aggiudicazione è a marzo. Oppure un decreto, che però avrebbe dovuto essere convertito in parlamento e su cui lo stesso M5s non avrebbe garantito la copertura politica, temendo una “trappola”. Formalmente non è ancora finita, l’Italia non è fuori. Ma la garanzia era un requisito fondamentale, senza le chance si azzerano. La FederTennis proverà a convincere Atp, difficile. L’ultima carta della Appendino invece è un appello a Conte, contattato ieri: il premier potrebbe sbloccare in extremis la situazione. Altrimenti le Atp finals le vincerà qualcun altro: in pole Tokyo o la conferma di Londra.

Gli strani rapporti fra il ministro Tria e l’ubiquo Bannon

Alla fine di gennaio, il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, durante la sua missione negli States, non ha incontrato solo figure di alto livello dell’amministrazione americana, come il segretario del Tesoro, Steven Mnuchin, e il capo dei consiglieri economici della Casa Bianca, Kevin Hassett, ma ha avuto “contatti” anche con Steve Bannon, l’ex stratega di Donald Trump, adesso impegnato a costruire il suo The Movement a Bruxelles. Progetto che molti traducono con la volontà di indebolire l’Europa, a favore sia degli Usa sia della Russia di Trump. In realtà, raccontano che Tria con Bannon ci sarebbe addirittura andato a cena, alla presenza di Armando Varricchio, l’ambasciatore italiano. Cena o no, quel che è certo è che Bannon e Tria si sono parlati. A che titolo? È piuttosto singolare che il ministro dell’Economia italiano senta l’esigenza di conoscere il guru internazionale del sovranismo.

Bannon, comunque, infaticabile, tesse la sua tela. Il mensile Wired ha appena dato la notizia del suo incontro con Davide Casaleggio intorno ai primi di giugno del 2018, mentre stava nascendo il governo di Giuseppe Conte. D’altra parte dopo il 4 marzo disse a caldo, al New York Times, che l’alleanza tra le due forze populiste era “il sogno finale”, suo e di suoi tanti amici. In quei giorni, Bannon era in Italia e in contatto con mezza Lega, da Matteo Salvini a Guglielmo Picchi, il sottosegretario agli Esteri che all’incontro con Casaleggio era presente.

Tra gli altri, incontrò Armando Siri, uno degli economisti di seconda fila del Carroccio, con un valore aggiunto ai suoi occhi: Siri è l’uomo della flat tax, ​progetto al quale il guru americano crede molto. Tanto che pare si fosse spinto a consigliare al leader della Lega di non partire dall’immigrazione, ma dalla flat tax. Per dire quanto cerchi di dire la sua sull’economia italiana. In Italia, lo stratega è venuto anche a settembre, proprio mentre si giocava la partita del Def, nel momento di massima tensione per i conti pubblici. E in Italia tra i suoi uomini di riferimento, oltre a Benjamin Harnwell, presidente della Fondazione Dignitatis Humanae Institute che ha scelto la Certosa di Trisulti come sede della scuola dei quadri sovranisti, c’è anche Federico Arata, ex banchiere del Credit Suisse.

Ufficialmente dallo stratega americano tutti prendono le distanze, a partire dallo stesso Trump, per arrivare ai vertici leghisti, che ci tengono a sottolineare come il loro progetto e il suo non siano sovrapponibili. Però, Bannon continua di fatto a giocare un ruolo, di raccordo e di raccolta di fondi. Negli States, una serie di diocesi conservatrici, in polemica con Papa Francesco, hanno deciso di non dare l’obolo al Vaticano, ma di destinarlo ad altri. Tra questi, anche a lui. E continua a costruire rapporti con i partiti della destra che crescono: in Europa, non ha fatto mancare i suoi consigli agli spagnoli di Vox. E ora vuole sbarcare in Medio Oriente. A proposito di internazionale sovranista, intrattiene rapporti con il presidente brasiliano Bolsonaro, e soprattutto con Filipe Martins, suo consigliere strategico. Proprio quello che ha incontrato giovedì Picchi, partito per una missione in Brasile, della quale il titolare della Farnesina, Enzo Moavero Milanesi, non era esattamente entusiasta.

E se i fili si fanno partire dal passato, si capisce come certe reti fossero in costruzione da anni. Da ben prima che il governo giallo-verde e il sovranismo fossero di attualità: Wired racconta che nel gennaio 2015 in visita alla Casaleggio associati a Milano, andarono Nigel Farage, allora leader del partito pro Brexit, Raheem Kassam, storico stratega del partito e oggi editor all’edizione britannica di Breitbart, e soprattutto Liz Bilney che sei mesi dopo sarebbe diventata Ceo del gruppo a favore della Brexit, il Leave. Dietro ai “Bad boys della Brexit” ci stava proprio lui, Steve Bannon.

Croati e polacchi hanno i numeri, greci senza voti e c’è anche il Briatore finnico

Un po’ antisistema, un po’ “populisti”, qualche spruzzata di Putin, molta democrazia diretta. Gli alleati presentati ieri dal Movimento 5 Stelle sono meno disomogenei di quanto appaiano e hanno diversi punti in comune. Lo slogan è sempre “né di destra né di sinistra”, hanno grandi ambizioni e in alcuni casi potranno fare la differenza.

Croati putiniani. Il partito che ha più prospettive elettorali è il croato Zivi Zid (Barriera umana) fondato nel 2014 da Ivan Pernar e Ivan Vilibor Sincic. Con i suoi 3 deputati su 151 seggi al Parlamento di Zagabria negli ultimi sondaggi sfiora il 15% e potrebbe superare il Partito socialdemocratico la cui crisi costituisce la sua principale forza. Contro la Ue, la Nato, contro i vaccini e anche contro gli antidepressivi si definisce “umanista, post-ideologico” e il suo leader, Ivan Pernar, definisce i media mercenari. Eppure si è distinto per azioni come quelle in difesa delle famiglie a rischio di sgombero. Sul piano internazionale punta all’uscita dall’euro – dove la Croazia è entrata solo nel 2012 – e a consolidare le relazioni con Russia, Cina e India.

Movimento. Kukiz ’15 porta nel nome la sua natura di partito personalistico. Pawel Kukiz infatti, alle elezioni presidenziali polacche del 2015 ottenne il 21% arrivando al terzo posto. Kukiz ’15, nella scheda distribuita dal M5S viene definito come un partito la cui battaglia principale è “riformare il sistema elettorale polacco passando dal proporzionale ai collegi uninominali”. Se si volesse scherzare si potrebbe dire che in Italia furono introdotti dal Mattarellum, legge voluta dall’attuale presidente della Repubblica. In realtà vengono definiti dal mensile francese Le Monde Diplomatique, un partito “iconoclasta, populista, antisistema”. Kukiz è un ex cantante rock che, dice il mensile francese, ha dei legami con l’estrema destra nazionalista. In ogni caso è un partito favorevole al libero mercato ma che appoggia forme di sostegno al reddito come l’assegno di 500 zloty (110 euro circa) per ogni figlio proposto dal partito al potere il PiS.

Il Briatore finlandese. Con i finlandesi di Liike Nyt (Movimento Adesso) si passa invece a formazioni più modeste e che devono dimostrare il peso elettorale. Il partitino di Helsinki conta 8000 aderenti e 4 funzionari ed è stato formato da Harry Harkimo, deputato eletto con il partito di centrodestra, liberale e conservatore, Kokoomus e che è noto per essere un uomo d’affari nel mondo dello sport (possiede una squadra di hockey), uno Youtuber e per aver condotto la versione finlandese di The Apprentice , il format televisivo statunitense importato in Italia da Flavio Briatore. Dopo la scissione di Harkimo, però, la piccola formazione è stata raggiunta anche da Maria Lohela del Fins Party, già presidente del Parlamento all’età di 36 anni, famosa per aver richiesto una restrizione nelle politiche migratorie e verso i richiedenti asilo.

I pastori greci. La vera novità dell’annuncio di ieri è però il greco Akkel (Partito dell’agricoltura e dell’allevamento) rappresentato dal suo leader Vakis Triobanidis. Non ha nessuna presenza elettorale, avendo provato alle scorse Europee ma senza riuscire a presentare le liste. Sul profilo Facebook del suo presidente si notano soprattutto foto di allevatori in giro per la Grecia e foto di… Vladimir Putin. L’Akkel, che lavora sulle tematiche dell’agricoltura, avendo a cuore la filiera corta e il Made in Greece, e quindi avverso a trattati di libero commercio come il Ceta o alle sanzioni contro la Russia, ha tutto da guadagnare da questa ribalta internazionale. Sul sito del piccolo partito, si stanno ancora cercando nuovi candidati: “Nello sforzo di non lasciare persone meritevoli che sarebbero interessate a prendere parte a questa grande iniziativa, invitiamo chi vorrebbe essere nominato a inviare email con breve cv”.