Di Maio rinnega il Gilet nero. Pace forzata con Macron

Un fuorionda e la festa è stata rovinata. Un pugno di dichiarazioni, in cui il fabbro francese con il gilet giallo ha evocato “la guerra civile” e “i paramilitari”, e il capo politico ha dovuto cambiare piani e scalare la marcia, con Parigi e con Macron. Una tegola per Luigi Di Maio, che ieri a Roma voleva “solo” presentare e celebrare quattro possibili alleati a Bruxelles del M5S, i rappresentanti di partiti finlandesi, polacchi, croati e greci. Ma a guastare tutto è stato il convitato di pietra Christophe Chalencon, che giovedì a Piazza Pulita ha evocato l’insurrezione armata in Francia, discettando di pallottole e gruppi armati pronti alla battaglia.

E allora, di venerdì mattina, Di Maio sale sul palchetto di una sala nel centro di Roma e prende subito le distanze: “Non abbiamo intenzione di dialogare con quell’anima dei Gilet gialli che parla di guerra civile e lotta armata”. Insomma, porta chiusa a Chalencon, che il vicepremier aveva incontrato in Francia assieme ad Alessandro Di Battista, una decina di giorni fa. “E forse ci voleva più prudenza” motteggia ad Agorà Emilio Carelli. “Non avevamo tutta questa conoscenza del singolo personaggio” dirà poi alle telecamere il sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano.

Però è andata così, e al vicepremier tocca dire addio a un avversario di Macron. E mostrarsi colomba: “Sono contento che l’ambasciatore francese stia tornando in Italia, gli chiederò un incontro. Intanto gli do il bentornato”. Bentornato a Christian Masset, che Parigi aveva richiamato in patria per protesta, e che ieri ha incontrato al Quirinale Sergio Mattarella, recandogli l’invito in Francia di Macron: accettato dal capo dello Stato. E il cerchio si chiude. Con Di Maio che converge sulla linea della pace, quella del Colle e di Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio a 5Stelle che ascolta sempre e innanzitutto Mattarella. Anche Conte settimane fa era stato protagonista di un fuorionda, sempre su Piazzapulita, in cui sorrideva con la Merkel di Di Maio e Salvini. Ma i virgolettati inconsapevoli di Chalenchon sono una rogna peggiore, di quelle che fanno cambiare rotta. E la ministra agli Affari europei di Parigi, Nathalie Loiseau, twitta di soddisfazione: “Sana condanna del comportamento di Chalencon da parte di Di Maio, dobbiamo ritrovare la relazione di amicizia e rispetto reciproco”. Mentre il fabbro è aulico: “Dico a Di Maio di continuare la sua politica, perché è la politica della ragione. Forse avremo l’occasione di rivederci”. Nell’attesa, il vicepremier giura che con i Gilet gialli “c’è un’interlocuzione che continua”, ma chi “presenterà quella lista dovrà credere nella democrazia”. Ad ascoltarlo, un folto gruppo di cronisti e telecamere, a cui è vietato porre domande. Così nessuno può chiedere a Di Maio quanto si sia pentito della trasferta in Francia. “Ma si può ancora tenere aperto il filo con Ingrid Levavasseur” dicono dal Movimento. Ossia con la 31enne infermiera che ha appena lasciato la lista Ric, l’unica finora scaturita dalla galassia dei Gilet. “Ma ciò non significa che rinuncio a presentarne un’altra per le Europee” ha detto Levavasseur. E il M5S, che doveva incontrarla assieme a Chalencon (lei non si presentò all’ultimo minuto), è in attesa. Quasi obbligata, perché per formare un gruppo autonomo nel parlamento di Bruxelles servono delegazioni di almeno sette Paesi diversi. E attualmente gli alleati sono quattro, con uno, il partito greco Agricoltura e Allevamento che ad occhio non avrà i numeri per entrare, mentre i finlandesi di Liike Nyt l’ingresso se lo dovranno sudare. Quindi “di altri alleati ne dobbiamo trovare sicuramente più di due” ammette una fonte di peso. Anche se c’è ottimismo, perché gli emissari del M5S hanno già avuto “diversi incontri preliminari” con potenziali alleati.

Però ora c’è da aggiustare la linea. Perché Macron non potrà diventare un amico, ovvio, ma il Movimento non potrà più morderlo come prima. Così bisogna pensare (anche) ad altro. Per esempio, ad attaccare i sovranisti. Per questo in una nota due giorni fa l’europarlamentare Laura Ferrara ricordava come “gli europarlamentari dell’ungherese Orban e del polacco Kaczynski” assieme ai Popolari volessero tagliare i fondi europei ai Paesi dell’Europa del Sud, Italia inclusa. “E quelli sono gli amici di Matteo Salvini” ricordano i 5Stelle, che citano il tweet di ieri del leghista Claudio Borghi: “Se non riusciamo a cambiare l’Europa, secondo me dovremmo uscirne”. Salvini ha subito tamponato (“Nessuna intenzione di lasciare l’Ue”). Ma il M5S l’ha presa come una provocazione. L’ennesima.

LeU: “Troppi rischi da questo regionalismo: serve un intergruppo”

“Regionalismodifferenziato, quali rischi comporta?”. Contro le intese sull’autonomia di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, i capigruppo di Liberi e Uguali Loredana De Petris (Senato) e Federico Fornaro (Camera) propongono di formare un intergruppo parlamentare, per discutere e riflettere sullo scarto tra quanto c’è scritto nella Costituzione e quanto è previsto nella riforma del Titolo V della Carta del 2001. La riforma, che ripartiva le competenze tecniche tra lo Stato e le Regioni dando una maggiore autonomia a queste ultime, introduceva infatti i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) di diritti costituzionali e servizi come istruzione e sanità, mai però definiti. “Senza l’individuazione dei Lep manca un quadro di riferimento e si crea confusione”, hanno scritto i due parlamentari nella lettera in cui invitano gli altri parlamentari ad iscriversi all’intergruppo. L’appuntamento è alla Sala dei caduti di Nassirya di Palazzo Madama mercoledì 20 febbraio, dove interverranno l’economista Gianfranco Viesti e il costituzionalista Massimo Villone, oltre ad altri parlamentari e membri della società civile.

Inps, niente accordo sul dopo-Boeri all’Inps (ora è senza vertici)

Ieri pomeriggio,quando l’Ansa l’ha diffusa con le “crocette” che si riservano alle notizie importanti, sembrava che la vicenda fosse chiusa. E invece l’Inps, da oggi ufficialmente senza un vertice “politico”, non trova ancora il commissario che dovrebbe sostituire l’ex presidente Tito Boeri in attesa che venga attuata la riforma della governance (il ritorno di un cda con 5 membri) contenuta nel decreto su reddito di cittadinanza e quota 100. Secondo l’Ansa, si diceva, l’intesa Lega-5 Stelle prevedeva entro ieri sera la nomina dell’ex direttore generale Inps Mauro Nori (nella foto) a commissario e dell’economista Pasquale Tridico, oggi consulente di Di Maio al ministero del Lavoro, a subcommissario, in attesa di essere indicati come presidente e vicepresidente. I due partiti hanno smentito e il motivo è molto semplice: l’ala dura del M5S continua a insistere perché il presidente sia proprio Tridico, cioè l’uomo che ha lavorato al reddito di cittadinanza a capo dell’ente che ricoprirà un ruolo enorme nella sua attuazione. Problema: la Lega non lo vuole. Nori, benvisto dalla Lega e che non dispiace neanche a molti 5 Stelle, sarebbe una mediazione: per ora, però, non ha il consenso di tutti quelli che servono.

“Il Parlamento sarà centrale e potrà intervenire sui testi”

L’autonomia differenziata regionale, quella che sulla base delle richieste in particolare di Veneto e Lombardia è stata chiamata “secessione dei ricchi”, potrebbe avere un effetto collaterale inaccettabile: essere realizzata con un coinvolgimento scarso o nullo delle Camere. “Non succederà”, promette Riccardo Fraccaro, deputato 5 Stelle e ministro proprio ai Rapporti col Parlamento: “La Costituzione, all’articolo 116 comma 3, consente intese tra Stato e Regioni e, ovviamente, per lo Stato deve parlare anche il Parlamento, che ha un ruolo preminente nel processo legislativo. Il governo ovviamente non può indicare alle Camere quali tipologie di intervento scegliere, ma il suo compito sarà quello di favorire questo intervento, tanto più che l’autonomia differenziata riguarda le competenze legislative delle Regioni e dunque, di riflesso, anche quelle del Parlamento”.

Apprezzabile l’intenzione, ma il meccanismo messo in moto dalla pre-intesa firmata dal governo Gentiloni e confermato nei testi arrivati in Cdm prevede una approvazione parlamentare “semplificata”, quella riservata alle intese con le confessioni religiose: niente emendamenti, solo sì o no.

Io non vedo alcun rischio di esclusione delle Camere, anzi, ci sono molte modalità attraverso cui il Parlamento potrà esercitare il ruolo centrale che gli spetta. Una delle possibilità è che si discuta attorno a una bozza di intesa sulla base della quale poi il Parlamento darà le sue indicazioni al governo.

Ma non si tratterebbe di interventi vincolanti: il governo potrebbe anche non tenerne conto.

Ma il governo è tenuto a farlo. C’è un rapporto fiduciario e politico.

Dovrebbe impegnarsi a farlo?

Certo, il governo dovrebbe impegnarsi politicamente su questo punto.

Anche così ci sarebbe un problema: il parere del Parlamento non sarebbe comunque vincolante, quelle proposte di modifica andrebbero comunque accettate dalle Regioni interessate.

Intanto non credo ci sia alcuna preclusione e le Regioni potranno sicuramente interagire col Parlamento ad esempio col sistema delle audizioni. Più in generale, tutti devono tenere a mente che questa è una procedura pattizia, all’interno della quale il governo dovrà trovare un accordo, raggiungere una mediazione.

Una discreta innovazione procedurale…

Sì, ma se la bussola è l’interesse generale avremo l’accordo di tutti: Regioni, governo e Parlamento.

L’interesse generale è un concetto, per così dire, scivoloso.

Diciamo che in questo caso l’interesse generale sta nel fatto che l’autonomia differenziata non dovrà in alcun modo compromettere il futuro delle altre Regioni.

E quello dello Stato centrale? Forse lei, da trentino, lo vede poco.

Ma in Trentino c’è collaborazione tra enti locali e Stato. E pure in altri Paesi europei, dove ci sono forme di decentramento anche più spinto, non è che non esiste lo Stato o c’è competizione coi territori. Io sono convinto che sia necessario un decentramento delle decisioni per portarle, laddove serve ed è possibile, più vicine al territorio. L’importante è che l’autonomia servirà ad avvicinare le istituzioni ai cittadini e a responsabilizzare gli amministratori.

C’è anche un altro problema a cui risponderebbe un’ampia discussione in Parlamento: finora una delle più importanti riforme degli ultimi anni viene realizzata senza alcun coinvolgimento dell’opinione pubblica, degli studiosi e dei corpi intermedi, senza alcuna pubblicità dei lavori preparatori.

Certamente è anche a questo, cioè alla trasparenza dell’intero processo, che servirà il passaggio in Parlamento. Ma non solo: aiuterà ad arrivare a una sedimentazione del progetto di autonomia, a fornirne una percezione complessiva ai cittadini, a definirlo attraverso il più ampio dibattito nel Paese. E ancora: il lavoro delle Camere ci permetterà di rassicurare le altre Regioni che non verrà in nessun modo compromesso il loro bilancio e anche di convincere chi guarda con sospetto l’autonomia.

Sarà una commissione bicamerale ad occuparsene?

Può certo esserci una bicamerale oppure possono essere incaricate le commissioni permanenti: è una decisione che spetta ai presidenti di Camera e Senato.

L’articolo 120 della Costituzione assegna allo Stato poteri “sostitutivi” sulle Regioni su alcune materie e, in particolare, laddove sia disattesa “la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”. Solo che noi non abbiamo mai definito i “livelli essenziali delle prestazioni” per i cittadini e ora si dà il liberi tutti alle Regioni.

No, non c’è alcuna preclusione alle intese sulla base dell’articolo 120. È una cosa che abbiamo studiato a lungo e non violeremo alcun articolo della Costituzione. L’autonomia che vogliamo sarà un vantaggio per tutto il sistema-Paese.

A me piace, però anche no: il Pd confuso sulla devolution

Da quando si è insediata, la ministra Erika Stefani fa di tutto per convincere gli scettici che l’autonomia non sia “roba da secessionisti padani”, ma un’occasione per tutte le Regioni, Sud compreso. Eppure, ora che l’accordo con Veneto, Lombardia e Emilia Romagna sta per essere definito, sempre più governatori mostrano preoccupazione. E se in molti, per la paura di restare indietro, accelerano il proprio iter autonomista, c’è anche chi chiede al governo di fermarsi, prima che sia troppo tardi.

Il dilemma morale è quasi tutto di centrosinistra: in attesa del voto in Basilicata, tutte le altre Regioni a statuto ordinario sono a maggioranza democratica, al netto del nuovo Abruzzo di Marco Marsilio, del Molise di Donato Toma e della Liguria di Giovanni Toti, entusiasta dell’accordo “padano” e pronto ad avanzare richiesta anche per la propria Regione.

Chi ha fatto più confusione sull’intesa con Veneto, Lombardia e Emilia (governata peraltro dal dem Stefano Bonaccini) è Vincenzo De Luca, che dalla Campania prima parla di un accordo “mortale per il Sud” e ricorre alla retorica di un “nuovo Risorgimento” per spronare gli altri governatori alla rivolta e si appella persino ai 5 Stelle, i nemici di sempre, “che hanno avuto larghi consensi al Sud e che ora sono silenti, impressionati dal voto in Abruzzo”. Poi cambia idea: la ribellione di De Luca non mira però a bloccare la fuga dei secessionisti, quanto a allargare i benefici a tutte le Regioni, tanto che ieri il governatore ha annunciato di “accettare la sfida dell’efficienza amministrativa” e di aver formalizzato la richiesta di autonomia per il proprio territorio. Lo sosteneva già nei giorni scorsi, lamentandosi di non aver ricevuto risposta: ieri il ministero degli Affari regionali ha chiarito che “dalla Campania risulta una richiesta del febbraio 2018, che però non precisa gli ambiti e le materie per cui attivare la richiesta”.

In attesa di concludere il proprio iter col governo ci sono anche Marche e Umbria, dove i governatori Luca Ceriscioli e Catiuscia Marini hanno lavorato di pari passo per un’intesa, pur avendo spesso sottolineato più volte “la necessità di rispettare l’articolo 119 della Costituzione”.

Rivendica il proprio Sì alle autonomie anche Sergio Chiamparino, presidente del Piemonte, che ha chiesto – senza pentirsi – il trasferimento di 12 competenze: “Io dico Sì, il Nord non toglie risorse al Sud”. O almeno, dice Chiamparino a Repubblica e Sole 24 Ore, non gliele toglierebbe il Piemonte: “Se invece l’obiettivo è utilizzare l’autonomia come grimaldello per mettere in discussione i trasferimenti alle Regioni più povere, allora siamo fuori dalla Costituzione”.

Stesso pericolo evocato da Enrico Rossi, che per la sua Toscana ha avviato la procedura per 10 materie: “C’è il rischio della secessione dei ricchi. Ma alla fine siamo tutti più poveri. Prima di dividere il Paese si apra una discussione seria”.

Nella truppa dei dem allarmati dall’intesa del Nord – ma pronti a una propria autonomia – c’è anche Nicola Zingaretti, che salva solo l’accordo raggiunto da Bonaccini (“non crea disparità”): “Dico sì a un’autonomia per far funzionare meglio l’Italia, no ad una che punta a distruggerla. La proposta di Lombardia e Veneto vorrebbe sottrarre risorse al resto del Paese”. Di certo sarà l’accordo definitivo con le Regioni del Nord a influenzare le altre trattative, che a quanto pare, nonostante le polemiche, restano aperte. L’unico passo indietro definitivo è quello di Michele Emiliano, che pure era stato tra i sostenitori delle autonomie anche al Sud. Il governatore pugliese ha infatti annunciato lo stop alla propria procedura, avendo visto come la Costituzione “sia stata piegata a interpretazioni di comodo”, a vantaggio di chi è già ricco. Dalla parte di Emiliano c’è anche Mario Oliverio, il governatore calabrese che, in mezzo ai guai con la giustizia, ha di recente convocato un consiglio regionale con un solo punto all’ordine del giorno, ovvero la discussione sulle autonomie: “L’impressione è quella di Repubbliche che stanno avviando un processo di secessione che punta alla marginalità di alcuni territori. Il Sud deve farsi sentire”.

Il modello Bonaccini: la “secessioncina” gentile

La linea dei democratici, almeno di quelli emiliani, è chiara: i cattivi sono Luca Zaia e Attilio Fontana, Veneto e Lombardia, noi siamo per un regionalismo virtuoso. “Temo che pochi abbiano letto il testo della proposta dell’Emilia-Romagna. Non contiene alcuna minaccia, né per l’unità del Paese né per la solidarietà tra territori. Il nostro progetto attua la Costituzione”, dice Stefano Bonaccini, il governatore. “Ci sono due regioni che vogliono utilizzare l’articolo 116 della Costituzione per arrivare a una autonomia secessionista”, la dice più dritta il sindaco di Bologna, Virginio Merola, rivendicando la proposta di autonomia della sua Regione.

Il problema è che Bonaccini, Merola e gli altri, pur non avendo torto, non hanno ragione. È vero che l’Emilia-Romagna chiede meno competenze e in modo meno invasivo rispetto a Veneto e Lombardia (14 più altre eventuali 3 contro 23), ma anche l’autonomia emiliano-romagnola parte dall’equivoca pre-intesa firmata nel 2018 col governo Gentiloni, che all’articolo 4 lettera C – parlando di soldi – riporta l’espressione “in relazione alla popolazione residente e al gettito dei tributi maturato nel territorio regionale”. In sostanza, tra i criteri con cui si dovrà individuare quanti tributi vanno lasciati sul territorio ci sarà la ricchezza di quel territorio: questa quantificazione peraltro, sempre nei testi ufficiali, è ad oggi affidata a una commissione paritetica tra lo Stato e la Regione interessata, come fosse una potenza straniera.

E in parte è così che si percepisce. La stessa Emilia Romagna, tra le maggiori competenze che intende ottenere, ha inserito i “Rapporti internazionali e con l’Unione europea”: partecipazione diretta alla formazione della legislazione comunitaria e coinvolgimento nell’eventuale contenzioso Italia-Ue. E che dire della proposta sui conti pubblici? Avendo la certezza di ottenere, negli anni, più risorse, l’Emilia Romagna si tiene le mani libere addirittura quanto a “potestà legislativa e amministrativa in tema di indebitamento per spese di investimento”.

Rispetto a Veneto e Lombardia – va sottolineato – la proposta di Bonaccini & C. non smonta la scuola della Repubblica: “Noi non vogliamo la regionalizzazione dei docenti, noi vogliamo poter fare un’allocazione del personale coerente su base triennale ed essere nelle condizioni di fare programmazione sull’edilizia scolastica, che attualmente è una lotteria”, dice l’assessore Patrizio Bianchi. Già sulla sanità, però, se l’orizzonte non è quello di Zaia e Fontana, la regionalizzazione è spinta su governance, politiche del personale, vincoli di spesa, sistema tariffario (superticket) e persino la politica del farmaco, senza contare la scontata richiesta di “autonomia legislativa, amministrativa e organizzativa in materia di fondi sanitari integrativi” (Unipol e le altre assicurazioni private si sono sempre trovate bene con le Regioni).

Il nuovo centralismo dei capoluoghi che dovrà sostituire quello di Roma è poi palmare in materie come la normativa ambientale, urbanistica e infrastrutturale: la Regione vorrebbe decidere sostanzialmente tutto, persino gestire le valutazioni di impatto ambientale e la normativa sul rischio sismico, attribuirsi l’intero sistema dei rifiuti (con tanto di diritto di veto sulla futura legislazione statale) e la potestà sulle opere viarie e ferroviarie (comprese quelle di interesse nazionale), potere sulla quantificazione della tassa automobilistica, esclusivo sulla caccia e altro ancora. Non manca, cogliendo fior da fiore, il tentativo di prendere in mano il sistema degli incentivi (anche qui, più timidamente di Veneto e Lombardia): tutti quelli agricoli gestiti da Agea e Crea, ma pure quota parte del Fondo unico per lo spettacolo e di quello per il cinema. Chi d’altronde, se non Bonaccini, sa quali film vogliono veder finanziati gli emiliani?

Mai dire Rousseau

Dunque i 5Stelle, come aveva anticipato il nostro Luca De Carolis, affideranno lunedì agli iscritti della piattaforma Rousseau la decisione se autorizzare o meno i giudici a processare Matteo Salvini per sequestro di persona nel caso Diciotti. E questa è già una notizia. Fino a un anno fa, di fronte a un qualsiasi ministro indagato per sequestro di persona aggravato, il M5S non si sarebbe neppure posto il problema, perché avrebbe chiesto le immediate dimissioni dell’interessato. Ora nessuno si sogna di chiedere a Salvini di sloggiare: nemmeno le opposizioni, figurarsi gli alleati. E forse è giusto così, trattandosi di un’accusa grave, ma su un caso controverso: i fatti sono stranoti, addirittura rivendicati dal responsabile, ma il reato è tutto da dimostrare. Se però i vertici 5Stelle interpellano gl’iscritti, significa che non sanno che pesci pigliare, o preferiscono che a pigliarli al posto loro sia la “base”. E questo è già preoccupante, per un movimento nato per contestare i privilegi della casta e per affermare la legge uguale per tutti. Un caso tipico di crisi di identità. Sappiamo bene che qui non c’è di mezzo l’immunità parlamentare, ma l’autorizzazione a procedere per un eventuale reato ministeriale. Però la sostanza non cambia: chi ha sempre predicato che i politici devono difendersi nei e non dai processi perché nessuno può essere sottratto alla legge e dunque alla magistratura, non può avere dubbi sull’autorizzazione a procedere per Salvini. Soprattutto dopo che il premier Conte e i ministri Di Maio e Toninelli si sono di fatto autodenunciati con una memoria a sostegno della sua condotta, da inviare ai magistrati perché decidano se indagare anche su di loro: se uno si autodenuncia, poi non può impedire ai giudici di pronunciarsi. Sarebbe un controsenso.

L’aveva dichiarato a botta calda Di Maio, quando la richiesta del Tribunale dei ministri giunse al Senato e Salvini confermò di non volere “aiutini” per farla franca: “Vuole il processo? Lo avrà”. Poi Salvini cambiò idea senza avvertire gli alleati, anzi lo fece loro sapere con una lettera al Corriere. E i suoi giannizzeri iniziarono a ricattare il M5S, minacciando di rovesciare il governo in caso di via libera al processo. Da allora i 5Stelle, anziché restare coerenti con i propri valori fondativi, hanno perso la testa, la calma e la compattezza. Di Maio non ha più detto una parola sul punto, se non che “il M5S è contro l’immunità ai politici, ma questo è un caso specifico”. Fico e Di Battista hanno dichiarato che al posto di Salvini si farebbero processare. Nicola Morra e Roberta Lombardi hanno invocato un sì netto.

Ma nessuno dei 7 senatori della Giunta chiamata a votare martedì li ha seguiti. Anzi, i pochi che hanno parlato sono per il no. A cominciare dal capogruppo Mario Giarrusso: “Se la base capirebbe? Non esiste la base, ci sono gli attivisti, che sono con noi. E gli attivisti capiscono. Non significa cambiare pelle, non è questo in ballo. C’è il rispetto delle leggi costituzionali. La nostra anima, il nostro spirito e i nostri principi li preserveremo”. Sarà, ma al suo posto non saremmo così tranchant. Perché la legge costituzionale bisogna conoscerla e capirla, così come il quesito posto dai giudici: che non chiedono al Parlamento di stabilire la colpevolezza o l’innocenza di Salvini, né di affermare o smentire la compattezza del governo sul caso Diciotti, né di dissociarsi dalla decisione di non far sbarcare per cinque giorni i 177 migranti salvati dalla nave Diciotti. Chiedono solo il permesso a giudicarlo. E per negarlo il Parlamento dovrebbe dimostrare che il ministro non poteva fare altrimenti, obbligato da cause di forza maggiore: cioè fu costretto a bloccare lo sbarco da un “interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” (ma la Costituzione non dice nulla del genere, anzi sembra suggerire l’opposto), o da un “preminente interesse pubblico” (e qui l’interesse pubblico c’era – forzare la mano ai governi Ue perché accogliessero le loro quote di migranti –, ma non era “preminente”: lo stesso scopo si sarebbe potuto raggiungere anche per altre vie). Perciò qualunque persona perbene di qualsiasi orientamento, e a maggior ragione un militante M5S, deve dire sì al processo a Salvini: sia che lo ritenga un bieco sequestratore, sia che lo giudichi un benemerito difensore dei patrii confini. Affinché a giudicarlo sia un tribunale e non la sua maggioranza parlamentare.

Ora, siccome il voto dei 7 senatori M5S sarà decisivo per il sì o per il no, e che a deciderlo saranno gli iscritti, è importante che il referendum di lunedì su Rousseau sia regolare. E la sua regolarità dipende dal quesito, che non dev’essere suggestivo, ma neutro. Tipo questo: “In base all’art. 96 della Costituzione, i membri del governo ‘sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale’. E la legge costituzionale stabilisce che l’autorizzazione può essere negata solo se il ministro indagato ha ‘agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o per il perseguimento di un preminente interesse pubblico’. Alla luce di queste norme, i senatori del M5S devono concedere o negare ai magistrati l’autorizzazione a processare Salvini?”. Invece pare che la domanda agli oltre 100 mila iscritti la farà in un video Giarrusso, che s’è già espresso per il no. Col rischio che la sua irruenza, anche animata dalle migliori intenzioni, sortisca un appello non proprio asettico. Vista la delicatezza e le conseguenze di quel voto che – quale che sia – i 5Stelle si sentiranno rinfacciare finché càmpano, è molto meglio un quesito scritto. Di casino, in giro, ce n’è già fin troppo.

Il conformismo incombe anche sugli animi più progressisti

 

Dalle prime pagine sembra la più classica delle storie d’amore buoniste, come è d’obbligo dire oggi: lei, Irmina, di buona famiglia tedesca ma senza un soldo, scopre tutte le possibilità che offre la dinamica Inghilterra degli anni Trenta. Lui, Howard, nero, di Barbados, studia a Oxford con una borsa di studio: una rarità dalla pelle scura in un mondo tutto bianco. Si conoscono, si piacciono, tra sotterfugi e razzismi tutto sommato innocui. Irmina sembra l’eccezione: lei non risente degli eventi che stanno sconvolgendo la Germania, sogna di sposare il suo intellettuale nero e non capisce perché in patria il nazionalismo sia così condiviso. Ma basta un piccolo imprevisto, piccolissimo, Irmina finisce i soldi e Howard non può aiutarla perché deve preparare gli esami altrimenti perde la borsa. La ragazza torna a Berlino. E questo graphic novel di Barbara Yellin, disegnatrice tedesca, rivela la sua vera natura, come succede a Irmina. Per quieto vivere la ragazza accetta un lavoro nella pubblica amministrazione e, un passo dopo l’altro, si ritrova sposata a una seconda fila delle Ss. Sempre per mera sopravvivenza, per il bene del figlio e per mille altri alibi, Irmina riesce a rimanere indifferente a tutto, agli ebrei espropriati, alle prime voci sui campi di sterminio, alla repressione di ogni libertà, alle evidenze della sconfitta imminente. È inevitabile o soltanto umano arrendersi al flusso della storia? Non sappiamo come Irmina abbia risposto a questa domanda per i successivi 40 anni. La ritroviamo anziana, quando finisce per incontrare di nuovo Howard. Che, a differenza di lei, è stato all’altezza degli ideali di gioventù. E nel racconto che l’autrice, Barbara Yellin, fa di questo confronto c’è molta empatia verso Irmina. Ma nessuna assoluzione.

 

IrminaBarbara Yelin – Pagine: 288 – Prezzo: 25 euro- Editore: Rizzoli Lizard

Da vergini a dannate. Sempre donne

Agli inizi del ’900, mentre a New York Elizabeth Arden distribuisce i suoi rossetti rossi durante le marce delle donne per conquistare il suffragio universale (che ottengono nel 1920), a Stoccolma la prima donna vince il Nobel per la Letteratura (la svedese Selma Lagerlöf nel 1906) e a Parigi Colette crea la prima eroina adolescente di Francia (Claudine, una ragazza fuori dagli schemi), anche l’arte sembra finalmente afferrare che la donna non è un’effigie a una dimensione da eternare per grazia e beltà.

Già Mary Wollstonecraft, che alla fine del ’700 suggeriva alle donne di raccogliersi da sole i fazzoletti che cadevano dalle borsette e di apostrofare il malcapitato che lo raccattasse al posto loro, aveva sconfessato le parole di Rousseau sull’educazione da impartire alle donne: “Piacere ed essere utili agli uomini, farsi amare e onorare da loro, consigliarli e consolarli, rendere la loro vita piacevole e dolce”.

Il faticoso passaggio culturale, dalla donna-angelo alla ribelle e dalla vergine alla donna conscia del proprio ruolo nella società, è raccontato da una mostra romana (più di 100 opere tra dipinti, sculture, video, grafiche e fotografie) meritoria per il suo valore civile oltre che artistico: “Donne. Corpo e immagine tra simbolo e rivoluzione” (Galleria d’Arte Moderna, fino al 13 ottobre, a cura di Federica Pirani, Gloria Raimondi, Arianna Angelelli e Daniela Vasta).

Si inizia da fine ’800, da Le Vergini savie e le Vergini stolte di Sartorio (1890), un polittico che illustra la nota parabola di Matteo per poi passare a L’angelo dei crisantemi (1921) di Giuseppe Carosi, raffigurante una donna angelicata. Un’altra sezione è dedicata al nudo muliebre dipinto dagli uomini: distesa sul letto in attesa dell’uomo per Camillo Innocenti in La Sultana (1913) o dopo il bagno nella scultura Bagnante (1934) per Attilio Torresini. Tuttavia è nel ritratto che da oggetto la donna diviene soggetto: lo provano la posa enigmatica di Elisa Balla ne Il dubbio (1908) di Giacomo Balla, le donne pensanti e meditabonde dipinte da Deiva de Angelis e Vittoria Morelli che sembrano nasconderci qualcosa, o quelle inquiete e misteriose di Baccio Maria Bacci.

Sebbene l’assenza di Grete Stern – che nei suoi scatti indaga come nessuno l’abisso nella mente delle donne –, la mostra insegna una lezione semplice e necessaria: una donna può essere ciò che vuole, anche una contestatrice che si staglia dal muro dei pregiudizi, proprio come si mostra Giosetta Fioroni in L’altra ego (2012).

 

Donne – 24.01/13.10.2019 – Galleria d’Arte Moderna – Roma

La vita spericolata di Emily Baxter, ispettrice di Londra che non sente la paura

Il valore sentimentale della paura. Thomas è un avvocato londinese. Ha un raro problema di cuore: “Voler saper se la propria fidanzata era ancora viva significava essere appiccicosi?”. E che fidanzata. Lei si chiama Emily Baxter, ha trentacinque anni ed è ispettore capo di Scotland Yard. Omicidi. “Una fidanzata che di notte a volte non chiudeva occhio, e che passava intere giornate senza toccare cibo ma tenendosi su a forza di caffè. (…). Così abituata agli orrori di cui era testimone da esserne anestetizzata. Ma la cosa che preoccupava di più Thomas era che lei non aveva paura di nulla. Mentre la paura è una cosa preziosa. Ti fa stare attento. Ti protegge”.

Emily Baxter è sopravvissuta al tremendo caso delle Ragdoll, bambole composte con pezzi di corpi umani, e dove il protagonista era il suo capo detto Wolf, Lupo, poliziotto aduso a spingersi ogni oltre limite. Lei è come lui. E stavolta vola da Londra a New York, andata e ritorno, perché c’è un altro serial killer che si diverte a seminare di cadaveri Manhattan e il centro londinese. Meglio, un santone sanguinario che arruola i suoi adepti-kamikaze contro innocenti scelti quasi a caso. Omicidi a coppie. L’assassino uccide e poi si ammazza. Il primo, sul petto, ha incisa nella carne la scritta “Marionetta”. La vittima, “Esca”. C’è un collegamento con il caso delle Ragdoll e Wolf è sparito nel nulla. L’uomo nell’ombra è il secondo romanzo dell’inglese Daniel Cole. Un thriller perfetto per coloro che amano la caccia a un ignoto serial killer. Anche se eccede nel numero di cadaveri (c’è pure un attentato a Times Square, nel cuore di Manhattan), Cole è ancora una volta bravo nella costruzione della trama e dei personaggi.

 

L’uomo nell’ombra – Daniel Cole – Pagine: 399 – Prezzo: 19,90 – Editore: Longanesi