Alta “Fedeltà” al tradimento

Si intitola Fedeltà perché parla di corna, anche se ci vogliono quasi 160 pagine (su 224) per arrivare al primo tradimento o, per la precisione, all’ammissione del primo tradimento. Il resto sono lunghi preliminari, una pletora di dettagli anatomici (“i corpuscoli di Krause del glande”, la “tensione nello scroto”…), “spinte erotiche” che “trasmigrano” qua e là: l’attesa è snervante, un po’ come quella che ha accompagnato l’uscita dell’ultimo romanzo di Marco Missiroli, in libreria da martedì, già incensatissimo sui social e, da mesi, dato per papabile vincitore del Premio Strega 2019. Ma toccherà aspettare, ancora una volta.

I fedifraghi protagonisti sono due sposi 35enni, Carlo e Margherita: lui un fallito – aspirante scrittore, compilatore di cataloghi di professione –, lei un po’ meno, mentre i rispettivi amanti, o agognati tali, sono Sofia, studentessa dal culo sodo (dopo di lei ne verranno altre: agli uomini la fortuna concede sempre un bonus), e Andrea, omosessuale nerboruto (dopo di lui non ci sarà nessuno: alle donne la sfiga concede sempre un bonus). Decisamente più saporito è il contorno dei personaggi minori, a cominciare da Anna, madre di Margherita, spassosa e ilare, atea, ma di cieca fede nella cartomante di Buzzati, da cui si reca spesso per un consulto. Seguono il padre laconico di Sofia, il compagno sdolcinato di Andrea, cani mandati al macello delle lotte clandestine e i Pentecoste, la barbogia famiglia di Carlo.

Pur subodorando le reciproche tresche, né Carlo né Margherita si concedono al dubbio, al sospetto, al mostro verde degli innamorati ingannati: è una gelosia tiepida la loro, una gelosia signorile e protestante; mai una scenata, una litigata, un piatto che vola, un pianto a dirotto (l’unica a concederselo è la signora Anna per il marito “Franchin” morto tempo addietro). Tiepida è anche la temperatura del romanzo – nonostante i numerosi guizzi erotici –, di cui complice è Milano, un set sempre freddino e nebbioso, rarefatto e algido, e nemmeno l’altra location, Santarcangelo, regala sangue e calore nonostante sia in Romagna.

Divisa in due parti – la prima nel 2009, la seconda nel 2018 –, l’opera ambisce a raccontare “l’infantilismo del maschio”, la perdita dell’innocenza e la “fine della giovinezza”, in un simil romanzo di formazione laddove la formazione passa per la castrazione, ovvero la rinuncia al desiderio e altre baggianate di PsicoBanalisi (©Crozza che imita Recalcati), tipo: “Aveva intuito che l’infedeltà poteva significare fedeltà verso se stessa”.

Fedeltà è anche, infine, una lodevole ricerca di stile: una lingua sorvegliata, forse troppo; citazioni sparse, un poco saccenti; un montaggio disinvolto che affastella – non sempre agevolmente – storie e personaggi; intelligenti giochi metalinguistici (soprattutto sulla punteggiatura) e metaletterari. È alto, però, il rischio di sembrare figli di un Valéry minore: “In letteratura la verità è sempre ciò che si ricorda”. Eppure nella vita – anche in quelle fittizie di Missiroli – la verità è sempre ciò che si tenta di dimenticare.

Fedeltà – Marco Missiroli – Pagine: 224 – Prezzo: 19 – Editore Einaudi

Carlotta Proietti raccoglie il testimone di papà Gigi, alias Gaetanaccio

È una commedia musicale che non disdegna quella dell’arte; è una farsa in romanesco con maschere esilaranti quanto tristi; è una favola di amore e di fame, oltre alla fama che – quarant’anni fa – garantì ad autore e attori, il protagonista in primis: Gigi Proietti, il Gaetanaccio dell’omonima pièce di Luigi Magni.

In scena all’Eliseo di Roma da martedì al 10 marzo, Gaetanaccio torna in un nuovo allestimento diretto da Giancarlo Fares e, come interpreti principali, Giorgio Tirabassi e Carlotta Proietti, figlia di quel Gigi “cui fu cucita addosso la commedia – racconta lei –. Non ne fu solo protagonista, ma anche regista e cofirmatario delle musiche (insieme con Magni e Piero Pintucci, ndr). Giorni fa papà è venuto alle prove: era visibilmente emozionato”.

Il canovaccio si ispira a una persona reale, Gaetano Santangelo, “un burattinaio ambulante nella Roma di fine Settecento, innamorato di una collega: Nina. Ai tempi una bolla papale vietò le rappresentazioni teatrali: così i due, senza lavoro, si ritrovarono a fare la fame, letteralmente. Proprio la fame è uno dei fili rossi, oltre all’arte e all’amore”. L’idillio amoroso si mescola alla tragicommedia, recitata “in romanesco, sì, ma non scurrile o popolare: è una lingua letteraria, ricercata, comprensibile e zeppa di riferimenti alti… Per questo la pièce è godibile anche per un pubblico di non romani”.

C’è qualche legame con l’attualità? “La cultura, certo, è ancora osteggiata e in crisi, ma paletti e censure non sono comparabili a quelli dell’epoca. Poi lo spettacolo parla anche, in sottotraccia, delle lotte della fine degli anni Settanta, gli anni in cui scrisse Magni. Riportandolo in scena oggi pensiamo ai tanti teatri che stanno chiudendo; però, per fortuna, non siamo ancora alla fame di Nina e Gaetanaccio”. Le pesa o la spaventa raccogliere il testimone da suo padre? “La responsabilità è grande, ma il grosso del ‘fardello’, lo dico in senso positivo, ricade soprattutto su Tirabassi. Però è l’unico, secondo me, oggi, che possa interpretare quel ruolo”.

 

Quanto sono pop i Karamazov

Ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne possa sognare l’élite, o il popolo, o il popolo contro l’élite, o l’élite contro il popolo o chiunque stia comodo dentro queste etichette.

Accade a teatro a Roma, ad esempio, che I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij – adattati e portati in scena dalla compagnia Mauri-Sturno in uno dei templi borghesi della prosa – siano accolti da un pubblico numeroso (mai visto così tanta gente all’Eliseo negli ultimi anni), caloroso, preparato, emozionato. Una partecipazione che neanche a Uomini e donne, certo con un po’ più di filosofia, un qualche dio da una qualche parte e sadomaso à gogo, che la tv non ospita. L’autore è più bravo di quello di Maria De Filippi, ma al fondo si tratta sempre di un fogliettone sentimentale, e infatti, come fogliettone, il romanzo fu pubblicato a puntate, ovvero in appendice, sul Messaggero Russo, dal gennaio 1879 alla fine del 1880, pochi mesi prima della morte dello scrittore (1821-1881).

Pur parlando delle relazioni complicate tra un padre e i suoi figli e figliastri, l’opera è intitolata ai “fratelli”, anche perché lo stesso patriarca Fëdor Karamazov gareggia in fregola, testosterone e intemperanze con la prole ragazzotta.

“L’ultimo romanzo di Dostoevskij – scrive il regista Matteo Tarasco – ha la grandezza e la forza di un inferno dantesco, dove bestie umane si agitano sulla scena del mondo, senza margini di riscatto”. Tuttavia, la messinscena è molto equilibrata, per nulla torbida o infernale: il vizio – la lussuria soprattutto – è trattato con pensosa leggerezza e, viceversa, la fede è depurata da ogni afflato mistico o trascendentale. Così, la parte di Alëša, il più spirituale (noioso?) della combriccola, è molto ridimensionata, in un adattamento snello, che non raggiunge le due ore e mezza, ma efficace, rarefatto, elegante e nient’affatto cerebrale. E così va a finire che Ivan, il più cerebrale, ne esca distrutto, giustamente massacrato anche all’Eliseo.

Guida il cast eccellente il mattatore Glauco Mauri, qui padre Karamazov, mentre da giovanissimo (a 22 anni, ora ne ha 88) fu Smerdjakov, oggi interpretato dal bravissimo Luca Terracciano. Roberto Sturno è un tormentato e febbrile Ivan, Laurence Mazzoni un Dmitrij rabbioso e Pavel Zelinskiy un composto Alekséj; seguono gli intensi Alice Giroldini (Grušen’ka), Giulia Galiani (Katerina Ivanova) e Paolo Lorimer (Zosima). Unico neo è forse l’età degli attori: un ottantenne che insidia la pollastra del figlio (trentenne?) è poco credibile – e infatti Mauri, intelligentemente, la butta sull’autoironia –, così come Ivan è visibilmente, non solo intellettualmente, più adulto rispetto ai fratellastri.

Ma si perdona anche questo a uno spettacolo godibile e intelligente, che mantiene le promesse. Dopotutto, è gentaglia strana quella dei Karamazov, “felici nel dolore, felici di precipitare”. Gente per cui “essere innamorati non vuol dire amare. Si può essere innamorati e odiare”. Come il popolo con l’élite. O era il contrario?

 

I fratelli Karamazov – Regia di Matteo Tarasco – Roma, Teatro Eliseo, fino al 17 febbraio; poi in tour fino al 3 aprile (a Thiene, Fano, Arezzo…)

Margot pigliatutto, dalla Barbie a Tarantino

Margot Robbie diventerà Barbie in un lungometraggio live action realizzato da Warner Bros e Mattel – l’azienda produttrice della celebre bambola nata alla fine degli Anni 50 –, di cui sarà anche coproduttrice con la sua società LuckyChap Entertainment Banner. La 28enne star australiana, candidata all’Oscar per l’interpretazione di Tonya e protagonista di Mary, regina di Scozia, ha recitato il ruolo di Sharon Tate nel molto atteso film di Quentin Tarantino Once Upon a Time in Hollywood e ha in cantiere il sequel di Suicide Squad, ma in questi giorni è tornata al ruolo dell’antieroina Harley Quinn sul set del cinecomic al femminile di Cathy Yan Birds of Prey, insieme a Mary Elizabeth Winstead, Jurnee Smollett–Bell, Rosie Perez ed Ewan McGregor.

Kate Winslet – appena reduce dal set di Avatar 2 di James Cameron – e Saoirse Ronan – a fine riprese di Piccole donne di Greta Gerwig che l’aveva rivelata in Lady Bird – reciteranno insieme a marzo in Ammonite, un dramma romantico di Francis Lee (God’s Own Country) ambientato nella prima metà dell’800 in una piccola cittadina costiera del Regno Unito. Sullo schermo l’inaspettata storia d’amore tra la paleontologa Mary Anning e una donna di buone maniere a cui si ritrova inaspettatamente a fare da bambinaia.

Jodie Foster sarà regista, protagonista e co-produttrice del remake americano de La donna elettrica (Woman at War), la commedia dell’islandese Benedikt Erlingsson, in lizza per l’Oscar al miglior film straniero, incentrata su una donna impegnata con solitaria determinazione in azioni di sabotaggio contro le multinazionali che devastano la sua terra. Finché una bambina non si affaccerà alla sua vita cambiandola radicalmente.

 

Israel, la donna che rubava le vite degli altri

Con il profilo della giornalista Dorothy Kilgallen entrò nella Best Seller List del New York Times, ma sarebbe stata l’eccezione: il successo e Lee Israel (1939-2014) non si frequentarono spesso.

Biografa per necessità, rosicona in servizio permanente effettivo (“Tre milioni di dollari a Tom Clancy? Solo perché è un maschio bianco che manco sa di essere un coglione”), caratteraccio d’ordinanza, igiene saltuaria e bicchiere per amico, a dissimulare un innegabile talento: non per la propria, ma per le vite degli altri. Il profilo della regina dei cosmetici Estée Lauder fu un fiasco, a tante altre esistenze seppe dare lustro e verità: sì, verità, sebbene ne inventasse di sana – ma documentata – pianta la corrispondenza, per soddisfare il palato dei collezionisti e quindi riempire le proprie tasche perennemente al verde.

Apparecchiò temerarie missive in cui Noël Coward esplicitava l’inclinazione omosessuale, e ben presto si ritrovò a chiedersi, via una posticcia Dorothy Parker, “potrai mai perdonarmi?”, ovvero Can You Ever Forgive Me?, titolo del memoir pubblicato nel 2008 e dieci anni dopo dell’adattamento di Marielle Heller. Un film che riconcilia col cinema e con la vita, in un periodo in cui sia l’uno che l’altra, almeno quella pubblica, stentano vastamente: Copia originale, così è stato tradotto da Fox, è senza se e senza ma un gioiello, complice l’eleganza della fattura – nota di merito per le musiche di Nate Heller – e la straordinaria bravura degli interpreti, Melissa McCarthy nel cappottone sottratto dalla Israel al party della propria agente e Richard E. Grant in quelli del compagno di bancone Jack Hock, un inglese sessualmente bulimico, capace di “farsi l’intera Manhattan”. Entrambi, lei protagonista e lui non, sono in cinquina ai prossimi Oscar: non vediamo concorrenti all’altezza, nondimeno non sono favoriti.

Scritto con misura da Nicole Holofcener e Jeff Whitty, candidati pure loro per lo script non originale, mette al centro una signora nessuno – anzi, una “signora né né”: né famosa, né bella, né buona, e potete agevolmente continuare – per cui il criterio dirimente è la giusta distanza: non ti ci immedesimi eppure come lei ne conosci almeno un paio; non ti ci identifichi però la capisci; non l’ammiri ma ti riguarda.

Insomma, di Lee Israel, a partire da case editrici e redazioni, è pieno il mondo, al contrario, latitano i racconti: appaiando copia e originale, ossia accostando la verità e la menzogna che fanno ogni arte(fazione), questo piccolo grande film ci induce a riflettere sulla qualità delle nostre relazioni e la connessione col nostro autentico sé. Sollevando peraltro una teoria di interrogativi artistico-filosofici: quali sono i confini della creatività? Esiste, accanto a quello d’autore, un diritto d’empatia? Lee (ri)produceva tecnicamente però senza perdere l’aura, Copia originale le tiene fede. Dal 21 febbraio in sala, da vedere.

 

Sesso, droga e suicidio al tempo di Mazzarrona

Pubblichiamo alcune pagine del nuovo romanzo di Veronica Tomassini, “Mazzarrona” (Miraggi edizioni), in libreria dai primi di marzo e presentato al Premio Strega 2019.

La città oltre Mazzarrona era un affare di luci e possibilità, di uomini migliori, secondo la nostra nostalgia, dei compagni della valle, di Mazzarrona, una nostalgia pigra e sfuggente che non era in grado di cogliere il resto, di intenderne la via. Non era possibile uscirne vivi? E invece ne siamo usciti. Ma Mazzarrona rimane ancora desta con i suoi languori esangui, desta e crudele come un incubo, oggi e allora.

Il sole picchiava così forte, sopra le lastre di metallo gettate nella campagna, da impedirci di oltrepassare l’orizzonte dello steccato a qualche metro da noi; rifletteva sui nostri visi, sorpresi dalla pochezza del medesimo paesaggio. Ogni giorno non smetteva di deluderci, ma non conoscevamo altro. Nel retro della moto ape c’era il solito ubriacone che vendeva fumo ai ragazzini, su cassette di verdura andata e arance marce. Sotto i portici frugava il movimento sempre uguale dei tossici in attesa, lento ipnotico. Lo scambio, la stagnola passata da palmo a palmo, la polvere dell’asfalto che bruciava i nostri occhi chiusi. La fissità dolorosa dello stesso paesaggio coglieva il nostro sguardo vuoto o deluso.

Massimo teneva le camicie fissate ai polsi, anche d’estate, per coprire le piste sul braccio e per lo stesso motivo usava stivali di cuoio per nascondere i buchi sulle caviglie. Vestiva bene, usava foulard di seta al collo, dove diavolo comprava quella roba. Massimo veniva dalle case popolari, non quelle dello spaccio, gialle, le case dei Mao Mao le chiamavano, dove la gente era più brutta e più sporca. “Le tue spalle bianche mi dicono che qui non è posto per te”, riteneva. Il suo sorriso era pieno di comprensione. Le mie spalle bianche. Preferivo la durezza della pelle di Romina, la sua voce da donna, saperci fare a letto, come Mary, del quinto piano.

Non crescevo mai, o ero già vecchia, di una vecchiezza diversa però, priva della sostanza della vita. Massimo era curato, pettinato, amavo il suo profumo qualcosa di simile al vetiver, mi piaceva; non come gli altri tossici. Massimo non doveva morire. Tutti finivano in overdose e certi morivano, speravo che lui non morisse mai. Lo baciai d’improvviso, un pomeriggio alle case, sedevamo in cortile, Romina ascoltava la radio in cuffia. Lo baciai. Continuava a guardarmi dentro quello stupido sonno, mi parve felice. Sì, felice. Romina non si accorse di nulla. Massimo non lo so, volli credere di averlo destato dal suo sonno uggioso, il sonno della roba…

Mazzarrona non era solo un deserto allora. Però lo era lo stesso. Era buia come la sera quando scendeva, opprimendo le case, quando i cani latravano dagli abbaini, i bambini strepitavano e qualcuno le prendeva o le dava. L’assenza di qualcosa tormentava quella gente, Romina ne avvertiva l’ingiustizia, era un’assenza senza nome, senza contenuto, non sapevo trovarne, eccetto il tedio, il male annunciato in alcune canzoni che ascoltavamo in macchina. Sense of Doubt di Bowie aveva spinto persino qualcuno a finirla davvero l’insulsa tragedia della propria vita. E c’era una ferrovia che attraversava i rovi era lì che finivano le insulse vite della gente di Mazzarrona.

Romina guardava il mare, era poco più alta di me, dura nel corpo, a suo modo bella, sembrava ridere del mondo, era solo uno sguardo in fondo, una piega del mento, una breve cicatrice da angolo a angolo. Teneva i lunghi capelli neri legati con una pinza al centro della nuca, non si truccava mai, indossava pantaloni da ragazzo. Aveva chiuso con uno, le dicevo: è un buzzurro, hai fatto bene. E lei mi rideva in faccia, perché usavo parole difficili, ridicole tutto sommato. Aveva ragione.

A Mazzarrona non servivano tante parole, poche, gergali, bisognava imparare un codice, usare il silenzio anche, nel metodo conosciuto a pochi, con l’atteggiamento di piccoli sfrontati criminali. L’ambizione era imitarli. Il tipo si bucava, stavano insieme da qualche mese. Era nero, segaligno, sembrava un ramo secco, uno di quei ceppi che ardeva nei falò nel cortile alle case. Cosa ci troverai mai? Le chiedevo sinceramente interessata. Romina non ci trovava nulla, come non c’era nulla da intercettare, nessun segreto che fosse meraviglia d’appresso o intorno alle case. Ci stava e basta. Cos’era l’amore in quel tempo? Ne eravamo disperatamente attratti, lo cercavamo, con vergogna. Io avevo Massimo, lui non mi amava, lo avrebbe fatto troppo tardi. Ma era il suo castigo, arrivare dopo qualcosa di bello, capirlo dopo, perderlo. Quando Romina guardava il mare così cupa, la sua ombra si allungava ancora di più verso le rocce e lei sembra grande immensa, lei sapeva tutto, non aveva paura. Ed era ancora più bella. Romina era dura sempre. Non l’ho mai vista piangere. Quando parlavamo di Mary che aveva tentato di ammazzarsi, lanciandosi giù dal balcone, non mostrava alcuna forma di pietà, piuttosto in lei si agitava il rancore, il suo volto bruno di colpo impallidiva, il suo rancore scolorava. “Vuole morire e non lo fa mai!” mormorava tentando di controllare la rabbia. Non aveva ragioni migliori degli altri, Mary, per morire. Era fortunata perché era bella, una di quelle donne per le quali gli uomini sono destinati a fare follie e a perdere.

Picchia una bambina perché piangeva: tentato omicidio

“È stato un raptus”. Si sarebbe giustificato così il 24enne che lunedì sera a Genzano di Roma avrebbe picchiato fin quasi a ucciderla una bambina di 22 mesi. La piccola ora è ricoverata in coma farmacologico nel reparto di rianimazione dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma per un ematoma cerebrale. “Non volevo” avrebbe detto ai poliziotti che lo hanno arrestato con l’accusa di tentato omicidio, dopo che la compagna, una 23enne originaria di Roma ha riferito alle autorità che era stato lui a ridurla in fin di vita. La giovane madre, che ha un’altra figlia – gemella di quelle ricoverata – e un bambino di quattro anni, era rientrata a casa lunedì sera trovando la piccola con le ferite delle percosse e forse anche segni di morsi. Da lì il giro degli ospedali: prima l’ospedale di Genzano dove la vigilanza ha dato l’allarme, l’ospedale dei Castelli di Ariccia, infine il Bambin Gesù. Secondo le prime ricostruzioni l’uomo, che convive con la giovane compagna da un paio di mesi, non è il padre dei tre figli e pare già in passato avesse malmenato la piccola, avrebbe sfogato il fastidio per i pianti della bambina.

Omicidio Caccia, confermato l’ergastolo per Rocco Schirripa

I suoi difensori avrebbero voluto riaprire il processo, ascoltare nuovi testimoni, scandagliare le possibili responsabilità di una “zona grigia” che potrebbe aver favorito l’omicidio del procuratore capo di Torino Bruno Caccia, avvenuto sotto la sua abitazione il 26 giugno 1983.

La Corte d’assise d’appello di Milano, invece, ha confermato la condanna all’ergastolo per Rocco Schirripa, sessantacuinquenne nato a Gioiosa Ionica (Reggio Calabria) e residente a Torino, ritenuto uno degli autori materiali di quell’omicidio per il quale in passato era stato condannato come mandante il boss dei “calabresi” di Torino, Domenico Belfiore.

I giudici hanno così accolto la richiesta del sostituto procuratore generale Galileo Proietto. Invece per gli avvocati Basilio Foti, Mauro e Guido Anetrini, sarebbe stato utile sentire anche Vincenzo Pavia, un ex pentito della ‘ndrangheta che di recente, in un’intervista, aveva fatto riferimento ai legami di alcuni magistrati con la malavita nella Torino degli Anni Ottanta, legami fortemente osteggiati da Bruno Caccia.

Anche la famiglia del procuratore, rappresentata in aula dall’avvocato Fabio Repici, vorrebbe si andasse a fondo: “Mi è sembrato che ci fosse una certa fretta di concludere – ha affermato Paola Caccia, figlia del magistrato dopo la sentenza–. Non mi sembra che sia stato dato di nuovo abbastanza spazio a quello che stava intorno a questo imputato”. La famiglia vorrebbe si approfondire una pista alternativa su mafia, servizi segreti e riciclaggio di denaro sporco al Casinò di Saint Vincent. La procura generale di Milano prosegue l’indagine su Franco D’Onofrio, ex componente dei Colp ritenuto un esponente della ‘ndrangheta.

Mandò in coma un 17enne. Fu arrestato mentre era in casa con i due feritori di Bortuzzo

La sparatoria in cui è stato ferito il giovane sportivo Manuel Bortuzzo, il fermo di un ragazzo trovato con una pistola, e l’aggressione avvenuta fuori da una discoteca romana ai danni di un diciassettenne che per 10 mesi ha lottato tra la vita e la morte. Storie diverse, racchiuse in fascicoli d’indagine differenti, ma collegate da nomi ricorrenti. Come quello di un ragazzo rinviato a giudizio ieri insieme a tre presunti complici. Si chiama Patrizio Pintore e la sua storia si intreccia con quella di chi ha sparato a Manuel, la giovane promessa che dovrà trascorrere la vita su una sedia a rotelle, e con quella di un ragazzino brutalmente picchiato. Secondo la procura di Roma, la notte tra il 6 e il 7 ottobre del 2017, fuori dalla discoteca romana Room26, all’Eur, mentre Pintore era in compagnia di Giorgio Atturi, Luca Natalizi e Francesco Pea, avrebbe aggredito un diciassettenne. La vittima, che sarebbe intervenuta per difendere una ragazza, era stata ritrovata solo il mattino seguente, in un sotterraneo del parcheggio della Nuvola di Fuksas, che dista 300 metri dalla discoteca. Gli indagati dovranno difendersi in aula dall’accusa di lesioni gravissime, perché il diciassettenne aveva trascorso circa 10 mesi in coma a causa delle lesioni riportate. Dopo oltre un anno da quei fatti Pintore era stato fermato nuovamente. Gli inquirenti avevano ricevuto una soffiata e lo avevano trovato con una pistola in tasca. Era il 19 gennaio scorso e il ragazzo non era da solo. In quel momento si trovava infatti ad Acilia, in compagnia di Daniel Bazzano e Lorenzo Marinelli, nell’appartamento di quest’ultimo. I due ragazzi, non coinvolti nell’indagine sul ritrovamento dell’arma, sono le stesse persone arrestate per aver sparato a Manuel Bortuzzo, vittima di uno scambio di persona che ha portato i due mancati killer a sparare dopo aver dato vita a una rissa in un locale, l’Irish pub O’Connel di piazza Eschilo, nel quartiere romano Axa.

Il Veneto ci prova: prostituzione sia un lavoro autonomo, con albi comunali e certificati medici

Prostitute come lavoratrici autonome, tenute a rilasciare la ricevuta, a presentare la dichiarazione dei redditi, ad essere scritte in un apposito albo comunale e ad esibire un certificato medico, da rinnovare ogni mese. Lo prevede il testo in 15 articoli di un disegno di legge (statale) che il consigliere regionale veneto Antonio Guadagnini (“Siamo Veneto”) ha presentato nel 2016 e che va ora all’esame della quinta commissione, in previsione del voto del consiglio regionale. La messa in regola è solo una delle innovazioni della proposta di legge . C’è, ad esempio, un inasprimento severissimo delle pene. Gli sfruttatori della prostituzione minorile rischiano dai 10 anni di reclusione all’ergastolo (attualmente dai 6 ai 12 anni) e una multa fino a 500 mila euro. Ma anche chi ha rapporti sessuali con minori di 14 anni in cambio di denaro o altra utilità rischia l’ergastolo. Se i minori hanno dai 14 ai 18 anni, la pena andrebbe dai 10 ai 20 anni di relusione. Dai 10 anni fino all’ergastolo è anche la pena per chi organizza o pubblicizza viaggi di turismo sessuale. L’iniziativa di Guadagnini nasce dall’esigenza di regolamentare la prostituzione, esercitata da 50 a 70 mila persone in Italia, da almeno duemila minorenni a duemila persone ridotte in schiavitù, per il 65% su strada, per il 29 per cento in albergo, il resto in case private. La proposta legalizza la prostituzione “solo come prestazione resa da un lavoratore autonomo” (vietato lo sfruttamento), che è consentita “solo a persone maggiorenni che mettono volontariamente e liberamente a disposizione di altri, purchè maggiorenni consenzienti, il proprio corpo per il compimento di atti sessuali, a fini di lucro”. Chi si prostituisce è tenuto al segreto professionale sull’”identità del cliente”. E al “pagamento di oneri sanitari, previdenziali e fiscali”. I Comuni terranno un albo con i dati dei lavoratori autonomi. Ogni prostituta deve essere in possesso di un certificato di idoneità sanitari da rinnovare ogni mese. E infine torna la possibilità di aprire i casini.