Corriere della cocaina a tredici anni: “Adesso viene Aurora, sotto il balcone”

La chiameremocon un nome di fantasia, Aurora. È poco più di una bambina, ha solo 13 anni quando la madre e il suo compagno la utilizzano come strumento per consegnare la cocaina senza rischi e per eludere i controlli. Ora che non ha nemmeno 17 anni e mamma e patrigno sono stati arrestati, Aurora è stata assegnata a una zia insieme al fratellino. La sua storia fa capolino in alcune pagine dell’ordinanza di arresto notificata ieri a 12 persone accusate di traffico e spaccio di droga. Indagine dei carabinieri del Nucleo investigativo di Torre Annunziata e della Direzione distrettuale antimafia della procura di Napoli guidata da Giovanni Melillo, gli inquirenti vogliono fare luce sull’omicidio di Mariano Bottari a Portici nel 2014, ma il filo dell’inchiesta si dipana verso la scoperta di una piazza di spaccio di cocaina a Ponticelli, quartiere di Napoli est. L’appartamento della coppia dove vive anche Aurora è il centro organizzativo del mercato di droga. Ed Aurora viene coinvolta, e pare consapevole che i ‘pallini’ che le chiedono di consegnare non contengono zucchero. Lo stupefacente infatti veniva confezionato in ”pallini” da 0,2, 0,5 e 0,8 grammi, venduti ad un prezzo compreso tra i 55 e i 60 euro al grammo, a secondo della “quotazione” sul mercato.

Nel novembre 2015 i carabinieri ascoltano tre telefonate e una intercettazione ambientale in cui si fa riferimento al ruolo della bambina. La prima avviene tra il venditore e il cliente, si concorda un appuntamento. La seconda avviene tra madre e patrigno di Aurora, i due parlano attraverso cellulari intestati a un tunisino e a una rumena. “We”. “Adesso viene Aurora, sotto il balcone, no. Stiamo entrando nel vialone, mi senti?… Buttamene uno (il pallino, ndr), non quello di tua mamma, quell’altro là, hai capito?”. Poco dopo un microfono ascolta Aurora e patrigno in auto, lei ha appena sceso la droga. “Aurora, prendimi prima il coso (il narcotico, nrd), poi te ne sali e vai”. “Stiamo aspettando l’uovo”. È il linguaggio della consegna della droga al patrigno venditore. Che sia destinata al cliente, lo dimostra la terza telefonata. Avviene tra il venditore e destinatario della merce. Si fissa un appuntamento in pizzeria.

Agli atti dell’ordinanza di circa 230 pagine firmata dal Gip Egle Pilla c’è anche un’altra intercettazione in cui il patrigno di Aurora suggerisce a suo fratello di portarsi appresso la figlia “che è meglio”.

Secondo i carabinieri è un modo per far capire che la bambina può tornare utile per nasconderle la droga addosso. Il fratello ha tre figlie piccole, la più grande ha dieci anni in quel momento, la più piccola quattro. L’ordinanza non chiarisce con chi delle tre si sia presentato all’incontro. Ma ce n’è abbastanza per certificare quello che per gli investigatori e per la procura antimafia napoletana era un modus operandi: usare minorenni e bambini per trafficare droga, per occultarla. Nell’ambito di piccole ‘imprese familiari’. Dove ognuno fa quel che vuole o che può, a seconda delle attitudini. Aurora portava la cocaina da qui a lì su ordine del patrigno e della madre. A soli 13 anni.

Caso Desirée, le diede la droga. Arrestata amica sudafricana

Ha aiutato Desirée Mariottini a entrare nel palazzo degli orrori di via dei Lucani 22, vendendo alla sedicenne originaria di Cisterna di Latina quella droga che l’ha resa vulnerabile agli orchi capaci di violentarla e ucciderla in uno stabile abbandonato nel cuore di Roma, a San Lorenzo. Per questo, ieri, Antonella Fauntleroy è stata arrestata. La 21enne, originaria della Repubblica Botswana, era già stata sentita dagli inquirenti come persona informata sui fatti. Adesso però il suo nome è iscritto sul registro degli indagati perché avrebbe ceduto “in maniera continuativa e aggravata, sostanza stupefacente alla minore, anche nei giorni precedenti alla sua morte”. Un rapporto, quello con le sostanze psicotrope, che l’indagata non avrebbe perso neanche dopo i fatti avvenuti lo scorso ottobre. Durante la perquisizione di ieri, infatti, la polizia ha sequestrato metadone e psicofarmaci. Con l’arresto della ragazza sono 6 le persone iscritte nel registro degli indagati: tutte avrebbero venduto la droga, ma in quattro, secondo i pm, avrebbero violentato e ucciso Desirée.

“Non chiamatelo amore”: in Italia ogni 72 ore una donna viene uccisa

Nell’ultimo quarto di secolo in Italia gli omicidi sono diminuiti drasticamente. Gli omicidi, appunto, quelli in cui la vittima è un maschio. Le vittime donne, invece, sono sostanzialmente stabili. se da una parte la criminalità organizzata spara di meno, quella delle mura domestiche (dove si consuma la gran parte degli episodi di violenza sulle donne) resiste.

Se anche il numero dei femminicidi è in lieve calo (123 nel 2017, 106 nel 2018) il dato (un assassinio ogni 72 ore) rimane drammatico. e a ricordarlo ci ha pensato il Convegno “Non chiamatelo amore” tenutosi ieri a Palazzo Madama alla presenza del presidente del Senato Elisabetta Casellati. Un convegno in un giorno non casuale, il 14 febbraio, San Valentino, festa degli innamorati, per ricordare che troppo spesso l’“amore” è criminale. Il carnefice delle 123 vittime del 2017 (secondo gli ultimi dati Istat disponibili) 44 volte è stato il partner, 10 volte l’ex partner, 35 volte un altro parente. IN 16 casi l’autore è rimasto sconosciuto, mentre solo 10 volte l’assassino non conosceva la sua vittima. Dati percentualmente opposti alle 234 vittime di omicidio di sesso maschile.

Dietro San Valentino. Storie di compagni pericolosi

 

“Mi ha buttata in un canale, sono viva per caso”

“Quando mio marito tentò di uccidermi io non sapevo nemmeno perché. Tirandomi i capelli, mi ha scaraventato giù dal letto e trascinato per le scale, cacciata di casa e gettata in un canale”. Irina per 20 anni è stata picchiata e maltrattata dall’uomo che amava. Lei ucraina, lui italiano. Nel giorno di San Valentino racconta la notte in cui rischiò la vita, nel 2014: “Solo allora ho capito che dovevo lasciarlo. Eppure, la prima sberla era volata nel 1998”.
A metà anni 90 Irina è arrivata in Italia con un piano: risparmiare un gruzzolo in tre mesi e tornare a casa da suo figlio: “Invece sono subito rimasta incinta del principe azzurro”. Mario è l’uomo dei sogni, all’inizio: “Lavoravo in nero, mi ha messo in regola come collaboratrice domestica e ho avuto il permesso di soggiorno. Si occupava di me, era altruista, pensavo mi amasse”.
Invece è una corda che si stringe: “Perdevo la mia libertà e vedevo sempre meno i miei amici”. Mario non gradisce le libere uscite. Malgrado Irina porti in grembo suo figlio, una sera la schiaffeggia per un vestito corto. È il primo gesto violento: “Inaspettato come un pugno nello stomaco – racconta Irina –. Ho pianto, ma lui mi ha chiesto scusa e regalato fiori”. Mario si pente sempre, un mazzo di fiori basta per il perdono.
Nel ’99 arriva il primo figlio, l’anno dopo si sposano. Dopo il parto, i maltrattamenti psicologici diventano costanti; le botte, una o due volte l’anno. Mario la insulta di continuo: “Diceva che ero brutta e grassa, criticava qualsiasi cosa facessi”. Irina è sola e cade in depressione: “Sentivo che aveva ragione mio marito a dire che ero una buona a nulla”. Nel 2004 la seconda figlia. Mario però la tradisce e lei lo scopre. Una sera, nel 2008, lui rincasa dopo una serata romantica e la moglie lo affronta: “Niente di male – dice Mario – ho solo mangiato e fatto l’amore”. Poi la picchia fino a procurarle una commozione cerebrale.
Irina lo perdona ancora: “Con tre figli, la casa e metà mutuo intestati, che scelta avevo?”. Si chiama violenza economica, perché la libertà ha un costo. Il cappio è impossibile da sciogliere, senza denaro, e Irina dimagrisce 20 chili, ad un passo dell’anoressia: “Mi ha fatto il lavaggio del cervello, ogni volta che mi cacciava di casa facevo di tutto per restare”. Nel 2013 Mario lascia l’amante e il matrimonio sembra funzionare. L’anno dopo Irina apre un bar, Mario è socio all’1%. Una sera la accusa di flirtare con un cliente. Dopo una settimana, nel cuore della notte, Mario tira giù dal letto Irina per caricarla in macchina e gettarla in un canale.
Lei si arrampica fin sul ciglio della strada, ma trova Mario ad inseguirla in macchina: “Mi butta nel portabagagli e mi spezza le gambe con un palanchino di acciaio”. Irina è viva per caso: mentre è nel baule dell’auto la chiama un amico, che al telefono ascolta la mattanza e chiama i carabinieri. Irina l’ha scampata con una prognosi di 80 giorni: “Due ematomi al cervello, labbra deformate, gambe e sterno rotti”. Lui è stato arrestato per tentato omicidio, lesioni e sequestro: “Grazie al rito abbreviato e al patteggiamento ha scontato un anno e dieci mesi ai domiciliari, a casa sua”.

 

“Mi sono fermato in tempo. E l’ho fatto grazie a lei”

“Qui ho incontrato uomini che hanno massacrato fisicamente le loro donne, ma non sono così peggiori dagli altri”. Da tre anni, Luigi (nome di fantasia) frequenta un centro di ascolto per uomini ‘maltrattanti’, i maschi violenti con le donne. Luigi non ha mai picchiato sua moglie: “L’ho strattonata forte, la scuotevo, lei provava a divincolarsi o a lottare. Mi pentivo subito e lei mi perdonava”. Luigi si è rivolto a un centro di ascolto spronato dalla donna che ama, spaventata dagli attacchi d’ira sempre più frequenti. “Sono rari gli uomini che chiedono aiuto spontaneamente. Quando accade, si vede che l’hanno combinata grossa mandandola al pronto soccorso”. Luigi non ha mai ferito nessuno, ma non si sente così diverso da chi lo fa: “All’inizio rifiutavo di condividere un percorso con uomini così violenti. Poi ho capito di non essere tanto migliore, e giudicarli non serviva a niente. Sono persone disperate che vogliono cambiare”.
In fondo, secondo Luigi, l’unica cosa che ci unisce è la violenza: “Tutti noi custodiamo nell’animo brutalità e prepotenza, non ci sono i buoni e i cattivi. Se si crede che la violenza sia esclusiva di poche persone, non miglioreremo”. La differenza, tra uno strattone e un pugno da ospedale, è trascurabile secondo Luigi: ambedue sono violenza. Nessuno può tracciare il confine tra brutalità e normalità, tranne la vittima. “Un bimbo si fa la pipì addosso, se fai ‘bu’. Non esiste una riga netta: se ti spacco la testa sono violento, ma anche controllare il telefonino può essere brutale, basta chiedere alla vittima. Obbligare una persona è sempre violenza: è la prima cosa che s’impara nei centri di ascolto”.
Oggi la sopraffazione è tollerata, la violenza diventa routine: “I miei amici mi dicono che costringono la compagna a mostrargli messaggi WhatsApp. Sospettano il tradimento e si sentono autorizzati a spiare. È violenza tollerata, come la gelosia estrema. Viviamo una società aggressiva e prepotente, ci manchiamo di rispetto e ci macchiamo di violenza senza nemmeno accorgersene. Le mie amiche subiscono sopraffazioni senza lamentarsi, perché non le vedono”. Anche Luigi, in principio, confonde l’ira con la routine. In casa, da bambino, la rabbia è all’ordine del giorno: “Ho avuto un padre violento che non sapeva gestire l’ira, esplodeva in urla, rompeva piatti e qualunque cosa avesse sotto mano. Proprio come me, ma all’inizio credevo fosse un modo di fare normale”. Se la violenza è dentro casa, allora è difficile riconoscerla. Dopo tre anni, Luigi riesce a controllare l’ira: “Prima, invece, bastava uno screzio con mia moglie per esplodere. Poi mi pentivo all’istante con pianti a dirotto. Ero il classico ‘buono’ che è meglio non far incazzare, non sapevo gestire le tensioni. Avevo paura di esprimere disappunto e accumulavo frustrazione. Attenzione ai troppo buoni”.

“Pinocchio” Manafort e le sue bugie all’Fbi

Gli avrà anche reso grossi servigi in campagna elettorale. E, magari, continuerà a essergli fedele nell’ora più buia, adesso che le porte del carcere gli si aprono davanti. Ma Paul Manafort rischia d’arrecare a Donald Trump danni gravissimi nel Russiagate, cioè l’indagine sull’intreccio di contatti tra il team del magnate ed emissari del Cremlino: con le sue bugie e le sue reticenze, avalla l’impressione che ci sia molto da nascondere.

L’ex responsabile della campagna presidenziale 2016, allontanato dall’incarico per incidenti causati dai suoi modi bruschi, ha “intenzionalmente mentito e reso false dichiarazioni” agli agenti federali, al procuratore speciale Robert Mueller e al gran giurì, dopo essersi impegnato a cooperare con loro e avere così ottenuto uno sconto di pena. Avendo un giudice federale certificato che Manafort ha rotto il patto di collaborazione con Mueller, il procuratore non è più tenuto a proporre una riduzione di pena per l’ex lobbista internazionale, già giudicato colpevole di malversazioni finanziarie e passibile, fino a ieri, di un massimo di 10 anni di prigione; adesso, potranno essere di più.

L’ex capo della campagna di Trump s’era dichiarato colpevole, fra l’altro, d’avere cercato di celare contatti con l’ambasciata di Russia a Washington, prima dell’insediamento, il 20 gennaio 2017, del 45° presidente degli Stati Uniti. Manafort aveva in particolare rapporti con Konstantin Kilimnik, figura legata ai servizi segreti di Mosca e suo partner in campagne elettorali per elementi pro-russi nell’Europa orientale e, in particolare, in Ucraina. Kilimnik, 48 anni, ha sempre negato di essere un uomo del Gru, l’intelligence militare russa, che avrebbe gestito i tentativi di Mosca d’interferire nelle elezioni presidenziali usa 2016. Manafort, 69 anni, doveva collaborare con l’Fbi sul Russiagate, ma ha mentito su Kilimnik e pure su un pagamento effettuato a uno studio legale. E ora attende di sapere la pena che dovrà scontare, dopo essere stato condannato per frode bancaria e fiscale, mentre ancora attende il verdetto in altri processi. Il Russiagate fa vittime nel team di Trump, ma, per il momento, lascia indenne il presidente. In una intervista alla Cbs, l’ex capo ad interim dell’Fbi Andre McCabe conferma che, una volta licenziato James Comey, nella primavera 2017, in incontri al Dipartimento di Giustizia si evocò la possibilità di rimuovere Trump in base al 25 emendamento della Costituzione (incapacità d’esercitare poteri e doveri del suo ufficio, ndr). McCabe aprì un’inchiesta sul magnate per ostruzione alla giustizia e collusione con Mosca. E l’allora vicesegretario alla Giustizia Rod Rosenstein pensava di registrare in segreto il presidente. Novità anche su Michael Cohen, l’ex avvocato personale di Trump, condannato a tre anni di carcere per false dichiarazioni al Congresso, evasione fiscale e violazione della legge elettorale: comprò il silenzio di due ex amanti del magnate per non comprometterne la campagna presidenziale. Cohen testimonierà davanti a tre commissioni parlamentari, prima di entrare in prigione il 6 marzo. Ieri intanto William Barr è stato confermato dal Senato ministro della giustizia nell’amministrazione Trump con 54 voti a favore e 45 contrari.

La Germania evita per un pelo una recessione

Quasi recessione, ovvero stagnazione. E quindi “preoccupazione”, come scrive l’Economist. Non è solo l’Italia ad arrancare in questo inizio 2019, sulla scia della mancata crescita di fine 2018 anche la Germania segna risultati preoccupanti. I dati sulla crescita del Paese nel quarto trimestre 2018, pubblicati dall’Ufficio federale di statistica dicono infatti che negli ultimi tre mesi dello scorso anno la crescita della Germania è rimasta ferma allo 0,2 per cento già registrato nel trimestre precedente. Se si fosse perso solo uno 0,1, la Germania sarebbe entrata in recessione tecnica come gli esperti definiscono due trimestri consecutivi di crescita negativa. La Germania non è andata all’indietro, dunque, ma è rimasta ferma sul posto.

Secondo l’ufficio di statistica, lo sviluppo economico a breve termine mostra due trend nel 2018: “Dopo una partenza dinamica nella prima metà dell’anno (+0,4% nel primo trimestre e + 0,5% nel secondo) una piccola flessione (- 0,2% nel terzo trimestre, 0% nel quarto) è stata registrata nella seconda metà”. Per il 2018 si arriva così a una crescita dell’1,4% rispetto al 2,5% registrato nel 2017 e al di sotto delle previsioni fatte a gennaio dello scorso anno (+1,5%).

Il contributo positivo alla crescita del Pil tedesco, spiega ancora il bollettino dell’ufficio di statistica, viene principalmente dalla domanda interna: gli investimenti fissi lordi, specialmente nelle costruzioni e nei macchinari, crescono in modo rilevante nel corso dell’anno. Così come cresce la spesa per consumi finali della pubblica amministrazione, mentre aumenta di poco la spesa per consumi finali delle famiglie. Ma quello che deve preoccupare di più la Germania è che a condizionare la stagnazione di fine 2018 è il mancato sviluppo del commercio estero. “L’export e l’import di beni e servizi è cresciuto dello stesso ritmo rispetto alla comparazione con il trimestre dell’anno precedente”. Si fanno sentire le turbolenze generali dell’economia e il rallentamento dovuto anche agli scontri commerciali tra Usa e Cina.

In questo senso le previsioni per il 2019 e per il 2020 non si preannunciano però positive. Nelle stime dell’Ocse redatte prima degli ultimi dati la crescita per il 2019 era stimata all’1,6 e quella del 2020 all’1,4. Ma secondo le previsioni della Commissione europea rese note pochi giorni fa e in cui ci si è concentrati sulle stime relative all’Italia, la crescita tedesca per il 2019 è stata rivista all’1,1%.

La bassa disoccupazione (il 3,7% nel 2017, contro l’11,2 dell’Italia o il 9,4 della Francia), un bilancio fiscale positivo e la probabilità di un intervento statale nella spesa pubblica fanno confidare in meccanismi correttivi.

Però l’inversione di marcia conferma le stime e le preoccupazioni emerse già alla fine del 2018 nei report della Banca mondiale o in quelli che circolano tra le principali banche. A preoccupare di più è il rallentamento del manifatturiero che ha raggiunto a fine 2018 il livello più basso dal 2016. Certo, ha pesato la nuova direttiva Ue sui gas di scarico delle automobili che ha rallentato la produzione di autoveicoli, così come viene citata dalla stampa tedesca anche la eccezionale situazione di siccità nel bacino del Reno che ha impedito la navigazione per settimane con un rallentamento delle attività produttive. Ma i problemi sembrano riproporsi su scala più grande se la riduzione dell’export dovesse confermarsi, come è probabile, per via della guerra commerciale tra Usa e Cina, delle minacce reiterate da parte di Donald Trump a proposito di dazi anche contro l’Europa e in seguito all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea.

“It’s time to worry about Germany’s economy” ha titolato un editoriale dell’Economist della scorsa settimana. È tempo di preoccuparsi per l’economia tedesca perché, si legge nel commento del prestigioso settimanale economico londinese, “l’economia tedesca ha avuto una notevole crescita, ma iniziano ad apparire le prime crepe. È tempo di preoccuparsene”.

Junqueras tace: si considera “prigioniero politico”

Dinanzi alla Corte suprema ieri ha preso la parola l’ex vicepresidente della Generalitat, Oriol Junqueras, principale accusato – in assenza di Carles Puigdemont, che resta latitante in Belgio – nel giudizio contro 12 leader catalani per il referendum illegale del 1º ottobre 2017 e la successiva dichiarazione unilaterale di indipendenza. “Mi si accusa per le mie idee e non per i fatti. E poiché non rinuncerò alle mie convinzioni democratiche, mi considero in questo momento un prigioniero politico. Non risponderò alle domande del pubblico ministero”, ha detto Junqueras davanti alla corte presieduta dal giudice Manuel Machena, per poi replicare alle sole domande del suo difensore, Andreu van den Eynde.

“Nulla di quello che abbiamo fatto è un reato. Votare in un referendum e lavorare per l’indipendenza della Catalogna non è un reato”, ha insistito il leader di Esquerra Republicana de Catalunya, accusato di ribellione e malversazione. Junqueras rischia 25 anni di carcere (la richiesta dell’accusa), l’Avvocatura dello Stato ne ha chisti 12 la parte civile, sostenuta dal partito di estrema destra Vox, ben 74.

Il Tribunale ha accettato la richiesta delle difese di interrogare in veste di testimone l’ex ministro dell’Interno, Juan Ignacio Zoido, ma non l’ex presidente catalano, Carles Puigdemont.

“Non è la Catalogna che apre la strada a Vox, ma il governo”

“Non ci siamo mai alzati dal tavolo negoziale, se il presidente Sánchez vuole riprendere il dialogo con noi e ci offre le basi per farlo, renderemo possibile la governabilità”.

Carles Campuzano è deputato e portavoce al Congresso del Partito democratico europeo di Catalogna, la formazione indipendentista che dopo aver presentato gli emendamenti contro il bilancio dello Stato, con Esquerra Republicana mercoledì ha votato contro la Finanziaria del governo socialista facendolo entrare in crisi.

Onorevole, se cade il governo Sánchez finisce anche il dialogo?

No, ci troviamo davanti a un altro scenario. Aspettiamo con tranquillità la decisione del governo che si suppone convocherà nuove elezioni. Resta il fatto che l’esecutivo non ha voluto trovare la maggioranza per votare il bilancio, ora è sua la responsabilità di gestire la situazione.

La Finanziaria e l’autodeterminazione della Catalogna sono su due piani distinti?

Potrebbe esserlo, ma il dibattito sul bilancio è anche un dibattito sulla politica generale del governo e perché sia sostenuta deve essere in grado di vedere il principale problema politico della Spagna. Noi volevamo creare spazi di discussione e il governo stesso finché non ha mandato tutto a monte l’aveva accettato.

I primi a rimetterci dalla mancanza di una manovra sono i catalani.

Siamo scettici su questo, perché la media dei fondi per la Catalogna di solito non varia molto da Finanziaria a Finanziaria.

Come vi immaginate Catalogna fuori dalla Spagna?

L’indipendenza nel secolo XXI nel contesto europeo non è quella che si intendeva a fino al secolo scorso. Siamo tutti interdipendenti. A noi piace il modello dell’Olanda o della Danimarca. Un processo meno drammatico.

Eppure la situazione spagnola in questi giorni sembra drammatica.

Sì, ma non lo è. Ci sono richieste come le nostre in Europa: dalla Scozia, delle Fiandre e dai Paesi baschi.

Come si spiega che la maggioranza degli spagnoli non vuole che la Catalogna sia indipendente, è una questione di affetto?

Se fosse una questione di affetto, al posto di minacciarci, ci offrirebbero un modello per convivere alla pari. Credo che il problema sia che si pensa al paese in “castigliano”, non a un paese in cui convivono quattro lingue: il castigliano, il catalano, il gallego e il basco. Non c’è l’idea che il potere sia condiviso, ma che ci sia bisogno di una super Madrid che assorbe energia da tutta la Spagna per competere con metropoli come Londra e Parigi.

Arriviamo a oggi, come si risolve?

Iniziando a dialogare, non con un processo come quello che sta mettendo in piedi il Tribunale Supremo.

Ma questo non c’entra con la politica.

Questo processo è molto politico. Mi dica in quale altro Stato d’Europa ci sono 12 politici a giudizio.

In nessun altro luogo d’Europa politici hanno indetto un referendum non accordato.

Nel Regno Unito e in Scozia ne hanno indetto uno accordato con lo Stato, che è il modello che piace a noi.

I catalani sono uniti sull’indipendenza?

Non del tutto. Le società moderne sono plurali, ma un 48% alle passate elezioni ha votato per partiti indipendentisti.

Con elezioni anticipate e i sondaggi che danno per vincente il blocco di destra con anche Vox il partito di ultradestra, cosa succederà?

Sarebbe una pessima notizia per il dialogo, non sono di quelli che dicono quanto peggio, meglio, anzi. Catalogna con i suoi voti deve contribuire a fare in modo che non vincano.

Perché la ultradestra vince? La sindaca di Barcellona, Ada Colau, vi accusa di avergli aperto la porta.

I cambiamenti culturali che vediamo in Europa spaventano una fetta di popolazione che si vede rappresentata dai quei partiti che cavalcano le insicurezze. Sta ai partiti di sinistra offrire altre possibilità.

Vox ha vinto in Andalusia anche sventolando lo spauracchio dell’indipendenza catalana come modello futuro di rottura dell’unità nazionale.

Vox è parte civile nel processo contro i nostri dirigenti, una cosa molto grave e una vetrina con cui si faranno propaganda elettorale per i prossimi tre mesi.

Scontro coi politici, Amazon rinuncia alla sede a New York

Amazon scarica New York. Di fronte all’opposizione di politici “statali e locali” il colosso di Jeff Bezos rinuncia al piano di costruire la sua seconda sede nella Grande Mela. I liberaldemocratici capitanati dalla parlamentare Alexandria Ocasio-Cortez esultano per la ritirata. I critici leggono invece nella decisione di Amazon uno schiaffo alla città e un messaggio chiaro ad altre aziende, ovvero che New York non è aperta per business. Un messaggio a Google, che si sta espandendo in città, ma anche a tutti gli altri colossi potenzialmente interessati. Amazon spiega di non aver ricevuto la collaborazione politica che un progetto come quello proposto avrebbe richiesto. E questo nonostante l’iniziativa riscuotesse l’appoggio del “70% dei cittadini di New York”. Numerosi politici a livello statale e locale erano convinti che Amazon non avesse bisogno di 3 miliardi di dollari di incentivi e di altre agevolazioni, decine di politici locali hanno alzato le barricate contro il progetto. Intanto l’autorità Antitrust austriaca (BWB) ha avviato un’indagine sull’azienda statunitense di commercio online Amazon con l’accusa di aver violato il diritto austriaco ed europeo in materia di libera concorrenza.

La lunga lista di richieste dei gilet arancioni

Dopo la manifestazione di ieri mattina a Roma, gli olivicoltori pugliesi (e non solo) con i gilet arancioni sono tornati a casa con una promessa di Gian Marco Centinaio. Il ministro dell’Agricoltura ha assicurato che il governo approverà i decreti per risarcirli dei danni causati nei campi dalla gelata di febbraio 2018 e avviare il piano per fermare l’avanzata della Xylella. Il tutto entro il 26 febbraio, quando Centinaio andrà in Puglia.

Secondo gli organizzatori, in Piazza Santi Apostoli erano quasi 5 mila; un fiume arancione anche da Calabria, Sicilia, Campania, Lazio, Abruzzo e Toscana. Hanno aderito le associazioni di categoria Cia e Confagricoltura (Coldiretti si è mobilitata a parte). L’inizio delle proteste risale almeno a giugno. Pochi mesi prima, a fine inverno, l’anticiclone Burian si era abbattuto sull’Italia distruggendo gran parte dei raccolti pugliesi. “Sono 50 anni che mi occupo di agricoltura – spiega il portavoce del movimento Onofrio Spagnoletti Zeuli – e non avevo mai visto una cosa del genere”. Sono stati colpiti 90 mila ettari tra le province di Bari, Barletta-Andria-Trani e Foggia, danni per 600 milioni di euro, un milione di giornate lavorative perse.

Per gli addetti è stata una doppia beffa. Innanzitutto ci sono i mancati guadagni per le giornate nelle quali la gelata ha impedito loro di lavorare. Questo, inoltre, li ha portati a non raggiungere il minimo di contributi necessari per ottenere il sussidio di disoccupazione. Insomma, sono rimasti senza retribuzione e senza sostegni al reddito.

Gli agricoltori attendono da un anno un intervento del governo che in più occasioni è stato sul punto di arrivare ma è ogni volta stato estromesso dai decreti Genova e Semplificazione oltre che dalla legge di Stabilità. “Entrerete a far parte del decreto emergenze – ha detto il ministro Centinaio – in cui rientreranno le gelate”. I gilet arancioni si aspettano quindi una serie di aiuti che ha elencato Spagnoletti Zeuli: “Un abbattimento dei contributi relativi allo scorso anno, il rinvio delle cambiali e dei mutui e il riconoscimento delle giornate lavorative per permettere l’accesso ai sussidi per gli operai”.

Accanto a queste rivendicazioni, c’è la delicata partita della Xylella, con il batterio accusato di essere causa dell’essiccamento degli ulivi: prima gli alberi morivano in Salento, ora alle porte di Bari. Il movimento chiede una norma che permetta l’eradicazione di tutte le piante malate. Anche qui Centinaio ha dato rassicurazioni sul decreto approvato in conferenza Stato-Regioni: “Ci sono i soldi, si può partire”, ha detto il ministro.

I gilet arancioni chiedono anche lo sblocco delle risorse del piano di sviluppo rurale e sono preoccupati per i tagli alle politiche agricole comunitarie previsti per il dopo-Brexit. Durante il corteo il movimento dei gilet arancioni ha preso le distanze da una persona che stava contestando il governatore della Puglia Michele Emiliano.