È già un’Italia a sé quella del Nord rispetto al Sud. Ed è singolare che oggi la Padania voglia fortissimamente diventare Terronia reclamando – nel solco del referendum popolare di un anno fa – l’Autonomia regionale per Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.
Singolarissimo è che proprio la Lega metta in cortocircuito il federalismo “territoriale” e punti alla terronizzazione del proprio blocco sociale agognando quella specificità da cui deriva assistenzialismo, clientela e – così accade dai tempi di Cicerone con Verre – corruzione.
Ciò che chiedono al Nord è quello stesso Statuto Speciale che ancora prima della fondazione della Repubblica Italiana – con decreto regio firmato da Umberto II di Savoia – ha avuto collaudo nella più inutile delle amministrazioni regionali “differenziate”, quella della Regione Siciliana, dove da sempre si conclama il fallimento della sfera pubblica.
Quello che capita a Palermo, in replica dappertutto. Per dirla con Ernesto Galli della Loggia che ne scriveva ieri sul Corriere della Sera, “un sancire di fatto, tra l’altro, la fine del servizio sanitario nazionale e del sistema nazionale dell’istruzione, il potere di veto delle Regioni sulla realizzazione delle infrastrutture, la parcellizzazione delle normative in tutta una serie di ambiti, dai beni culturali all’ambiente, e infine, la proporzionalità del finanziamento dei servizi sociali di ciascuna Regione al suo gettito fiscale”.
L’esatto contrario, infatti, di ciò che è atteso nella metà operosa e ricca della Nazione dove il servizio pubblico – con le sue funzioni e le sue strutture, siano esse scuole, ospedali o strade – se non offre il meglio, quantomeno, garantisce gli standard della modernità.
Ed è “il Paese a sé” – la definizione è appunto di Galli della Loggia – che il Nord si è ritrovato a essere, dallo smalto sociale più dinamico rispetto all’intero Sud, sia esso a Statuto speciale o ordinario, precipitato sempre più in conseguenza del regionalismo delle consorterie. Si dirà, è una vicenda tutta siciliana quella dello Statuto speciale: un cascame nella disperata barzelletta di una terra costretta all’arretratezza. Ma quel meccanismo che funziona in Alto Adige, di certo non sta portando un risultato in Sardegna – altrimenti avrebbe un’altra pagina la vicenda dei pastori e del latte versato… – e non lo porterà neppure nella Padania terronizzata quando l’autonomismo regionale, nell’intera Italia dei mille campanili non va a surrogare neppure le vocazioni “indipendentiste”. Non s’è mai visto uno stato unitario diventare federalista senza smembrarsi, il percorso è sempre inverso. Attraverso il foedus – il patto – le comunità costruiscono la socialità e questa nostra storia di italiani identitari trova senso, più che nelle regioni, nella radicata vocazione “provinciale”. Un tema, questo delle province, cancellato dalla sbrigativa retorica degli sprechi quando il vero pozzo nero della cosa pubblica è l’ente regione. Non c’era necessità alcuna di abolirle, le province – questo dovrebbe diventare argomento di discussione per il M5S – e non c’è necessità, visto il disastro degli Statuti speciali, di farne altri. E questo è un argomento per la Lega che, nel suo passato, confederava le province, non certamente le regioni che sono solo il sovrappiù di un artificio assessoriale, una superfetazione istituzionale per come nacquero. Un esercizio di memoria storica s’impone. Servivano, le regioni, al tempo del consociativismo – e fu il caso delle regioni rosse – ad appaltare una parte di potere altrimenti impossibile, per il Pci in specie, su piano nazionale. Cancellate per mero rutto demagogico, le province, per quel che impone il limbo amministrativo cui sono costrette restano reali nell’orizzonte dei cittadini fatto, ancorché delle atmosfere dei romanzi di Piero Chiara – di Andrea Vitali oggi o delle canzoni di Giorgio e Paolo Conte – di consorzi agrari, campanili, trattori e tratturi.
È l’ente regione il non luogo dell’identità, la tabula rasa dei mille campanili.
È la voragine dove va a morire la dignità della politica e della solidarietà sociale. Dove rischia d’impantanarsi, seguendo quest’illusione, quell’Italia a sé che è il Nord.
Non se ne ricava, con l’Autonomia, il vantaggio di una sveltezza operativa.
In ragione della titolarità “speciale”, nel legiferare dell’ente regione c’è solo un eccesso di burocrazia e un agio dei privilegi.
L’ampliamento dei poteri, infatti, degenera nella degenerazione degli strapoteri e l’autonomismo non è neppure volano di responsabilità e civismo – non se n’è avuta mai traccia dal 1946 a oggi – quando lo spagnolismo tipico dei soprastanti del potere incista l’inamovibile mandarinato.
Ebbene, sì: la famosa casta con le sarde (quelli la cui unica eredità lasciata nella storia è il leggero affossamento, l’impronta delle natiche, in una poltrona).