Etruria&C., il governo Conte tira diritto sui rimborsi anche con il no di Bruxelles

Il governo tira dritto sui rimborsi ai cosiddetti “truffati dalle banche”. Nonostante i dubbi espressi da Bruxelles, è ormai pronto il decreto che dovrà disciplinare le richieste di oltre 300 mila tra ex soci e piccoli investitori delle banche finite in dissesto, da Etruria alle popolari venete, per i quali in manovra ha stanziato 1,5 miliardi nel 2019-2021.

Ieri i sottosegretario all’Economia Alessio Villarosa (M5S) e Massimo Bitonci (Lega) hanno illustrato la bozza del testo alle associazioni dei truffati. Lunedì, dopo gli ultimi rilievi, potrebbe avere il via libera. I rimborsi sono previsti nella misura del 30% del danno subito e con tetto massimo di 100 mila euro. Come noto, con una modifica alla Camera si è deciso di eliminare l’obbligo, per chi aderisce, di dimostrare di aver subito una vendita fraudolenta dei titoli con una sentenza del giudice o dell’arbitro finanziario Consob, e i ristori sono stati estesi anche a Onlus e microimprese. Tutte modifiche che non piacciono all’Ue, che il 28 gennaio ha chiesto chiarimenti. Il timore è che Bruxelles si appresti a bocciare la misure come aiuto di Stato illegale.

Non è noto cosa il Tesoro – i cui vertici avevano peraltro espresso gli stessi dubbi – abbia risposto alla Commissione. La versione fornita ieri al ministero è che in ogni caso la norma non cambierà. La bozza del decreto ha allargato dunque la platea di chi può richiedere i rimborsi senza obbligo di dimostrare il danno subito. Una novità per venire incontro a Bruxelles, per la verità, c’è: la commissione del Tesoro incaricata di esaminare le domande, dovrà vagliarle caso per caso per verificare che ci sia stata vendita fraudolenta. Difficile possa bastare, ma per modifiche più rilevanti andava cambiata la legge di bilancio.

Sabato, Luigi Di Maio e Matteo Salvini incontrando le associazioni dei truffati a Vicenza avevano annunciato che il governo non cambierà idea. Ieri i sottosegretari lo hanno ribadito al Tesoro: anche in caso di contestazione Ue si andrà avanti. Il rischio, però, è che poi tocchi recuperare le somme erogate. E che la commissione ministeriale non firmi gli atti, temendo la contestazione di danno erariale.

Risparmio, Bankitalia vuole levare le tutele per i truffati

La notizia è passata in sordina – complice la disattenzione di fine anno – ma potrebbe avere effetti rilevanti sui piccoli risparmiatori, a vantaggio delle banche. Il 28 dicembre la Banca d’Italia ha pubblicato un documento – messo in consultazione pubblica fino al 26 febbraio – in cui propone, fra le altre cose, di dimezzare i tempi di “prescrizione” per la presentazione dei ricorsi all’Arbitro bancario finanziario (Abf): dai circa 10 anni di oggi a 5 anni.

L’Abf, istituito nel 2009, è un sistema di risoluzione stragiudiziale delle controversie che possono sorgere tra i clienti e le banche/finanziarie su contratti, operazioni e servizi, alternativo ai normali tribunali civili. I collegi dell’Arbitro sono costituiti da avvocati, professori, commercialisti e professionisti del settore. Le sue decisioni non sono vincolanti ma, se non vengono rispettate, la notizia del loro inadempimento dev’essere resa pubblica, con conseguente danno di immagine per l’istituto inadempiente. “Di fatto il 99% delle banche rispetta le decisioni dell’Abf”, spiega Luca Pastorino, deputato di Liberi e Uguali, che ha presentato un’interrogazione parlamentare chiedendo al governo di intervenire.

La richiesta di Bankitalia, autorità competente sull’Abf, è di modificare la vecchia delibera sul tema del Cicr, il Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio. È u presieduto dal ministro dell’Economia, Giovanni Tria e vi partecipano rappresentanti dei ministeri Ambiente, Sviluppo, Infrastrutture e politiche Ue, ma anche il governatore di Bankitalia Ignazio Visco. Delibera col voto favorevole della maggioranza dei presenti, sempre su proposta di Via Nazionale. Senza obiezioni rilevanti, insomma, è assai probabile che la modifica venga approvata dal Cicr.

Nel testo sottoposto a consultazione Bankitalia loda lo strumento. L’Abf si occupa di ricorsi sotto i 100mila euro (nel 70% dei casi per cessione del quinto dello stipendio). Che risultano molto economici, visto che viene richiesto un semplice versamento di 20 euro per i clienti che decidono di utilizzarlo ed è obbligatorio per le banche. Dall’anno della sua entrata in funzione ha visto aumentare esponenzialmente il suo lavoro: nel solo 2017 i nuovi ricorsi sono stati 30.644, con un aumento del 42% sul 2016: “Indice di un diffuso apprezzamento per la capacità di fornire una soluzione rapida ed efficace”.

Via Nazionale ora propone di dimezzare i tempi di prescrizione per ricorrere all’Abf, facendola partire “dal quinto anno precedente alla data di proposizione del ricorso” da parte del clienti. Il limite attuale, fissato nel 2011, si spingeva fino al 2009, cioè quasi 10 anni. Per Bankitalia sono diventati troppi, visto che fino al 2011 ci si limitava a due anni e 5 è un giusto punto di equilibrio per tutelare la clientela. Fatto sta che così per le contestazioni risalenti a prima del 2014 bisognerà portare le banche in tribunale, con costi più alti e tempi più lunghi. “Uno sfregio ai cittadini, specie quelli meno abbienti che rinunceranno a farsi valere, mentre i più abbienti intaseranno la giustizia ordinaria – attacca Pastorino. È il caso di notare che verranno escluse le controversie per le irregolarità avvenute tra 2009 e 2014, periodo in cui ci sono state due recessioni e la vigilanza non ha certo brillato per attenzione. “È quello in cui si ravvisano il maggior numero di prestiti con modalità e tassi fuori legge. Una mossa inaccettabile”, spiega Pastorino.

“Io sono Mia”, il talento di Mimì e i professionisti dell’invidia

Cosa è vero e cosa no in Io sono Mia, il biopic su Mia Martini (martedì, Rai1)? Di vero, gli ascolti lusinghieri – strano che Salvini non si sia ancora complimentato con un tweet. Di non vero, l’assenza di Ivano Fossati e di Renato Zero, che hanno posto il veto all’uso del loro nome. “Ha accettato di comparire solo chi l’amava” è il j’accuse della protagonista, la brava Serena Rossi. Sempre più strano che Salvini non abbia fatto un tweet, ed è pur vero che in un caso come questo essersi sottratti a priori è stato di dubbio gusto. Ma il punto è un altro. Distinguere il vero dal falso nella vita di un essere umano è semplicemente impossibile; se però l’ambizione di una biografia non è svuotare il mare con un cucchiaino, ma tentare una lettura di quella vita, allora il telemelò Io sono Mia ha meritato il successo di pubblico (il cui palato, in materia di fiction Tv, va facendosi sempre più fine). Qualcosa mancava, ma c’era anche qualcosa che nel corso della “vita vera” (l’ossimoro degli ossimori) si finse di non vedere. A rovinare l’esistenza di Mimì fu la voce che portasse sfortuna; ma come è nata questa fama? Dalla maldicenza, come sempre. Che sempre nasce dall’invidia impotente del mediocre verso il talento altrui. Un fidanzato, un lavoro si possono rubare. Il talento, no. E la mediocrità può forse perdonare il talento, ma non l’orgoglio matto e disperato di difendere il proprio talento, come Io sono Mia ha saputo raccontare. Ma com’è che Salvini non ha ancora twittato?

Mail Box

 

Non si possono paragonare le baby pensioni ai vitalizi

Trovo sempre molto divertenti le dissertazioni dell’onorevole Maurizio Paniz, iniziate con la difesa della credibilità di Ruby in qualità di nipote di Mubarak. Ultimamente, senza pudore alcuno, continua a paragonare le baby pensioni ai vitalizi. Nessuno dei suoi amici o qualcuno della “sinistra” può spiegargli le differenze abissali tra le due situazioni? Sulle origini, per esempio. Le baby pensioni nascevano da un patto pubblico, chiamato contratto, tra il lavoratore e lo Stato, che sanciva il diritto, quando tutti potevano essere collocati a riposo dopo 25 anni di contributi, di uno sconto sull’età pensionabile (con però forti penalizzazioni economiche) per tutte le persone sposate con figli. Si poteva quindi nell’ente pubblico andare in pensione dopo 19 anni, 6 mesi e un giorno con però una pensione pari al 45% circa dello stipendio. Magari era un’agevolazione ma non credo si possa parlare di privilegi. I vitalizi, invece, sono un vero e proprio privilegio. Non sono frutto di nessun contratto pubblico ma, mi pare, di regolamenti interni delle Camere, insomma qualcosa che i parlamentari si sono dati da soli. Bastava lavorare metà legislatura più un giorno (2 anni e mezzo, sbaglio?) per poter godere del vitalizio per sempre cominciando da quando si stava ancora lavorando. Tra le motivazioni del comico Paniz vi è anche quella ancor più ridicola che, finito il mandato parlamentare, i poverini restavano senza lavoro (nemmeno il sussidio di disoccupazione?). A parte il fatto che a tutti i dipendenti veniva conservato il posto di lavoro, non credo che i professionisti andassero in miseria. Porta l’esempio degli avvocati, ma i clienti non restano a vita, in genere c’è un certo turn over e lo studio resta sempre aperto avendo vari collaboratori.

Anzi, l’aver fatto una carriera come parlamentari dovrebbe conferire un certo lustro e attirare clienti. La creazione di esodati veri invece non gli ha creato nessun tipo di problema?

Albarosa Raimondi

 

Per fare durare il governo bisogna saper dire di no

Mentre a Strasburgo Verhofstadt e Conte si insultano, nella politica italiana emergono due cose.

La proposta di Gasparri, presidente della Commissione che decide per l’autorizzazione a procedere, e l’analisi costi-benefici, nella quale si afferma che è meno costoso interrompere il Tav, anziché continuarlo. Orbene, la soluzione migliore (non un scambio di favori) potrebbero essere due no: alla prosecuzione del Tav e all’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini.

Luigi Ferlazzo Natoli

 

Diritto di replica

In merito all’articolo del 13 febbraio 2019 dal titolo “Firenze, la guerra per la pista che nessuno vuole pagare” precisiamo quanto segue. L’aeroporto non “va fatto perché va fatto”, ma va fatto perché ogni anno oltre 1.000 voli vengono cancellati e dirottati a causa delle limitazioni strutturali dell’attuale pista, perchè i quartieri di Quaracchi, Brozzi e Peretola sono sottoposti a un impatto acustico significativo che sarà ridotto del 90%, perché la domanda inevasa di traffico aereo in Toscana è superiore al 50%, perché l’aeroporto è un asset pubblico e l’ENAC ne ha promosso lo sviluppo.

Secondo il Fatto “sarebbe più opportuno puntare sullo sviluppo dello scalo di Pisa”. Si ricorda che ci sono degli oggettivi ed evidenti limiti di crescita dello stesso di cui tenere conto dovuti al fatto che è uno scalo militare.

Nessuna “forzatura della lobby renziana”: Toscana Aeroporti non ha violato alcuna legge. Il Sistema Aeroportuale è stato definito da un Decreto del Presidente della Repubblica, l’accordo di programma dell’aeroporto di Firenze ha seguito il percorso previsto dalla Legge. Le opere di compensazione relative al Master Plan sono state stabilite dalla procedura di VIA del Ministero dell’Ambiente. Non “mancano i finanziamenti pubblici”, ma sono previsti in 150 milioni di euro. Non a caso, il Mit ha attivato le procedure di prenotifica alla Commissione UE ai sensi dell’art. 108 TFUE. Non “è scontato che l’Europa blocchi la faccenda” perché la legge che prevede l’accesso al finanziamento è europea e gli aeroporti sono beni pubblici in concessione e, per questo, ne è possibile il finanziamento. Non “è vietata l’erogazione di fondi pubblici” perché una legge europea la consente per un importo fino al 50% dell’investimento complessivo per gli aeroporti, come Firenze, con meno di 3 milioni di passeggeri annui. La Commissione Europea ha inoltre stabilito che, in caso di sistema aeroportuale, ”il volume di passeggeri è stabilito sulla base di ogni singolo aeroporto” (Comunicazione 2014/c 99/03, nota 88 punto 101). “L’ingresso dello Stato in Toscana Aeroporti” sarebbe contrario al Decreto Legislativo 175/2016 e dovrebbe comunque, essere giudicato compatibile alle regole sugli aiuti di Stato.

Toscana Aeroporti

 

Questa lettera elude il punto di fondo: l’aeroporto di Pisa è complementare di quello di Firenze, dipende dalla stessa società Toscana Aeroporti, è ben collegato e si trova in un contesto orografico decisamente migliore di quello fiorentino. La circostanza che sia anche uno scalo militare non gli ha impedito di ospitare un numero annuo di passeggeri doppio di quello di Firenze (5,2 milioni contro 2,6). Per soddisfare la domanda del Centro Italia c’è inoltre l’aeroporto di Bologna. Allora perché lo Stato italiano dovrebbe tirar fuori 150 milioni di euro per Firenze?

Da.Ma.

Foibe. La Giornata del Ricordo dovrebbe riconciliare i popoli, non fomentare l’odio

 

I toni del presidente Mattarella, solitamente pacato e prudente, per ricordare le vittime delle foibe e il dramma degli esuli istriani e dalmati sono stati simili a quelli della propaganda di estrema destra, la quale afferma che queste atrocità furono la conseguenza di un odio antitaliano da parte slava. Nel medesimo contesto, il presidente del Parlamento europeo Tajani, richiamandosi agli italiani dell’Istria e della Dalmazia, suscita le proteste dei presidenti di Slovenia e Croazia. Sembra che da parte italiana, a nessun livello, qualcuno abbia poi detto qualcosa in via ufficiale.

Loris Perpinel

 

I massacri delle foibe sono gli eccidi realizzati nell’estremo Nord-est durante la Seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra, tra il 1943 e il 1945, dai partigiani jugoslavi a danno soprattutto di italiani. Foibe, nella Venezia Giulia, sono chiamate le grandi e profonde spaccature nel terreno carsico in cui sono stati gettati i corpi delle vittime.

Ai massacri seguì l’esodo giuliano-dalmata, cioè l’emigrazione forzata della maggioranza dei cittadini italiani che vivevano in Istria e in Dalmazia, territori del Regno d’Italia occupati dall’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia del maresciallo Tito e poi annessi alla Jugoslavia.

Quei massacri sono assolutamente ingiustificabili. E bene ha fatto la Repubblica italiana a istituire una Giornata del Ricordo per offrire un’occasione di riflessione sugli eccidi. Sui massacri delle foibe è stata però, negli anni successivi, costruita dalla destra (anticomunista e a volte apertamente fascista) una “retorica delle foibe” che, ingigantendo i dati e alzando i toni, puntava ad aizzare l’odio anti-slavo e, più in generale, a criminalizzare tutta la Resistenza comunista, indicata come alleata dei partigiani jugoslavi. Quella stessa retorica fascista sulle foibe dimentica tutta la fase precedente, ossia l’italianizzazione forzata che il regime del Duce impone in quei territori a partire dal 1922, con un’azione di vera e propria “bonifica etnica”. D’altra parte è certamente ingiusto usare le discriminazioni e i crimini del fascismo contro gli slavi per giustificare i massacri degli slavi contro gli italiani. La Giornata del Ricordo sarebbe dovuta servire, dopo tanti anni, a riconciliare i popoli nella comune appartenenza all’umanità e all’identità europea, riconoscendo i torti reciproci. Invece, purtroppo, la guerra ideologica per molti continua.

Gianni Barbacetto

Si devono rilanciare il lavoro, l’economia e salvare il pianeta

I tre candidati alle primarie del Pd hanno deciso di firmare il manifesto programmatico di Carlo Calenda “Siamo Europei”. Contro l’Europa cupa e impotente dei muri e del nazionalismo si rischia di delineare un vago fronte europeista composto dalle stesse figure di establishment che per dieci anni di crisi hanno contribuito al mix fatale di politiche di austerità che hanno distrutto l’Europa. Possiamo fare meglio. Dagli Stati Uniti la dirompente proposta di un Green New Deal, avanzata da Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, sta balzando all’attenzione mondiale. È una storia che coinvolge in prima battuta l’Europa e proprio l’Italia. La stesura di un Green New Deal per l’Europa parte da Napoli un anno fa e viene ultimata a fine gennaio a Berlino, con il coinvolgimento di decine di partiti europei e del movimento transnazionale DiEM25. È un programma dettagliato che, a differenza del manifesto di Calenda e dei programmi di troppi partiti italiani, non si riduce a un pugno di slogan. I Verdi europei, storicamente, sono fra i primi ad aver fatto di un Green New Deal la loro bandiera. Il Manifesto di “Siamo Europei” parla di un rilancio degli investimenti con un vago riferimento al dumping ambientale. Il Green New Deal propone invece di utilizzare la Banca Europea degli Investimenti per inondare di liquidità le nostre comunità con un piano da 500 miliardi di euro l’anno per la trasformazione ecologica e industriale: dal trasporto pubblico locale all’obiettivo 100% energie rinnovabili, dall’aggiornamento produttivo alla cura del territorio. Non servono misure cosmetiche o un ecologismo di facciata, ma una rivoluzione capace di rilanciare l’economia, rimettere al lavoro un continente e salvare un pianeta.

Il manifesto di Calenda parla di un nuovo sistema di welfare. Ma l’unica misura concreta è un sussidio di disoccupazione. Il Green New Deal propone un dividendo universale europeo per ridistribuire i profitti delle multinazionali a tutta la cittadinanza, come già presentato su queste pagine (7 febbraio). Propone un piano anti-povertà che redistribuisca i proventi della Banca centrale europea ai più bisognosi: parliamo di miliardi di euro ogni anno. Propone uno Statuto Europeo dei Lavoratori per trasformare la gara al ribasso delle delocalizzazioni in una gara al rialzo che garantisca standard comuni e un salario minimo europeo. Propone una “Job Guarantee” – uno strumento per riattivare milioni di persone in Europa attraverso la garanzia di un impiego nella trasformazione ecologica e nella cura del territorio. Il manifesto di Calenda propone un aumento del budget dell’Unione tramite un generico sfruttamento di “risorse proprie”. Il Green New Deal spiega dove trovare le risorse e spiega come chiudere, subito, i paradisi fiscali europei che sottraggono fino a 1.000 miliardi ogni anno e producono le grandi ineguaglianze. È uno scandalo economico e morale di proporzioni inaudite. Il manifesto di Calenda tace sull’assenza di democrazia nell’Unione europea. Il Green New Deal trova qui la causa di tutti i mali. Propone un percorso per un’Assemblea Costituente europea volto a redigere una nuova Costituzione Democratica e propone la centralità del ruolo del Parlamento europeo. Non accettiamo che lo scontro delle elezioni europee sia marcato dalla lotta fra un establishment in bancarotta e il nuovo nazionalismo. Bisogna avere il coraggio di scegliere l’inedito. Come si dice nel film Youtopia “le cose nuove succedono quando si fanno cose nuove”. Riportiamo anche in Italia la speranza e l’ambizione di ricostruire un mondo. Abbiamo un piano per superare un modello economico predatorio e insostenibile, generatore seriale di ineguaglianza e di crisi. Non sarebbe da europei accettare nulla di meno.

Perché la truffa-web è senza onore

Martedì 12 mi giunge una e-mail di Marco Travaglio. Asserisce di trovarsi in Marocco, che gli hanno rubato portafogli e telefono. Richiede pertanto un urgente soccorso fraterno. Lo stesso giorno coloro che si trovano sulla rubrica della mia posta elettronica ricevono da me lo stesso tipo di messaggio, con l’aggiunta di accenni a fantomatici ricatti foto con minorenni e tradimenti alla moglie: foto hard che potrebbero esserle ostese.

Se Marco e io andassimo con minorenni non lasceremmo tracce; e chi mi conosce sa quanto sia restio a muovermi da Napoli. A novembre bussavo analogamente a denari dalla Costa d’Avorio. Qualche coglione ha persino abboccato e in alcuni casi, mosso a pietà (pretendevano il mio ringraziamento…), li ho ristorati del danno dovuto solo alla loro stupidaggine.

Ho scritto più volte di non essere per principio contrario a “internet”. È uno strumento neutro, che può essere utile a chi, dotato di intelligenza e cultura, se ne serve e non ne è schiavo. Ma il livello attuale di alfabetizzazione, e di nozioni possedute è così basso che la gran massa ne è dominata. Dal piano politico a quello ideologico se ne può fare quel che si vuole, le si può far credere qualsiasi cosa: dalla terra piatta all’imminente fine del mondo con ritorno del Cristo Giudice al fatto che l’Aids non esiste. Perciò truffe siffatte sono ignobili: troppo facili, non implicano alcun rischio per chi le commette.

La truffa vera è un’arte: e il truffatore, se è un artista, va profondamente rispettato. Due fra i più bei films della storia lo insegnano: Totòtruffa, di Camillo Mastrocinque, con Totò, Nino Taranto, Ugo D’Alessio e Luigi Pavese, e Come rubare un milione di dollari e vivere felici, di quell’altro genio ch’è William Wyler, con Audrey Hepburn, Peter ‘O Toole, Hugh Griffith e Charles Boyer. Nei romanzi di Thackeray e Dickens è raccontato il duro tirocinio londinese alla truffa e al furto, compresa la paideia fatta a bambini dello sfilo dei fazzoletti. Questo oggi sarebbe impossibile perché quasi tutti adoperano schifosi pezzettini di carta. In Balzac la serie di truffatori è amplissima, e questo Maestro mostra che il successo rappresenta la loro consacrazione: più riesci a rubare, più in alto sei nella scala sociale.

Qualche anno fa fui vittima di un ingegnoso raggiro. Uscivo a Milano da un albergo di Corso Venezia, quasi ai Bastioni. Vengo avvicinato da un negro di mezza età, distintissimo. Mi chiede, in ottimo francese, se parlo questa lingua. Alla mia risposta affermativa, mi spiega di essere un medico laureato in un Paese centrafricano e di essere iscritto a un’università italiana per riottenere la laurea da noi non riconosciuta. Esibisce documenti. Gli serve un aiuto per le spese di segreteria. Io ero del tutto affascinato. C’era un bancomat a pochi metri. Il massimo che potessi ritirare erano mille euro. Quando egli mi chiese se non vi fosse modo di trovarne altri mille, compresi di trovarmi di fronte a un truffatore: il quale aveva fatto lo sforzo di informarsi – e come? – su chi io fossi, sulla mia conoscenza del francese, sulla mia disposizione d’animo. Che volete? Dovevo denunciarlo? Gli lasciai i mille euro, gli strinsi la mano e gli feci gli augurî. “Ecco un artista!”, grida Tosca quando Cavaradossi cade sotto le finte pallottole. Solo dopo si accorgerà ch’erano vere, e che ella a sua volta era stata truffata da quel genio di Scarpia, inutilmente pugnalato.

 

Ora la padania vuole diventare terronia

È già un’Italia a sé quella del Nord rispetto al Sud. Ed è singolare che oggi la Padania voglia fortissimamente diventare Terronia reclamando – nel solco del referendum popolare di un anno fa – l’Autonomia regionale per Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.

Singolarissimo è che proprio la Lega metta in cortocircuito il federalismo “territoriale” e punti alla terronizzazione del proprio blocco sociale agognando quella specificità da cui deriva assistenzialismo, clientela e – così accade dai tempi di Cicerone con Verre – corruzione.

Ciò che chiedono al Nord è quello stesso Statuto Speciale che ancora prima della fondazione della Repubblica Italiana – con decreto regio firmato da Umberto II di Savoia – ha avuto collaudo nella più inutile delle amministrazioni regionali “differenziate”, quella della Regione Siciliana, dove da sempre si conclama il fallimento della sfera pubblica.

Quello che capita a Palermo, in replica dappertutto. Per dirla con Ernesto Galli della Loggia che ne scriveva ieri sul Corriere della Sera, “un sancire di fatto, tra l’altro, la fine del servizio sanitario nazionale e del sistema nazionale dell’istruzione, il potere di veto delle Regioni sulla realizzazione delle infrastrutture, la parcellizzazione delle normative in tutta una serie di ambiti, dai beni culturali all’ambiente, e infine, la proporzionalità del finanziamento dei servizi sociali di ciascuna Regione al suo gettito fiscale”.

L’esatto contrario, infatti, di ciò che è atteso nella metà operosa e ricca della Nazione dove il servizio pubblico – con le sue funzioni e le sue strutture, siano esse scuole, ospedali o strade – se non offre il meglio, quantomeno, garantisce gli standard della modernità.

Ed è “il Paese a sé” – la definizione è appunto di Galli della Loggia – che il Nord si è ritrovato a essere, dallo smalto sociale più dinamico rispetto all’intero Sud, sia esso a Statuto speciale o ordinario, precipitato sempre più in conseguenza del regionalismo delle consorterie. Si dirà, è una vicenda tutta siciliana quella dello Statuto speciale: un cascame nella disperata barzelletta di una terra costretta all’arretratezza. Ma quel meccanismo che funziona in Alto Adige, di certo non sta portando un risultato in Sardegna – altrimenti avrebbe un’altra pagina la vicenda dei pastori e del latte versato… – e non lo porterà neppure nella Padania terronizzata quando l’autonomismo regionale, nell’intera Italia dei mille campanili non va a surrogare neppure le vocazioni “indipendentiste”. Non s’è mai visto uno stato unitario diventare federalista senza smembrarsi, il percorso è sempre inverso. Attraverso il foedus – il patto – le comunità costruiscono la socialità e questa nostra storia di italiani identitari trova senso, più che nelle regioni, nella radicata vocazione “provinciale”. Un tema, questo delle province, cancellato dalla sbrigativa retorica degli sprechi quando il vero pozzo nero della cosa pubblica è l’ente regione. Non c’era necessità alcuna di abolirle, le province – questo dovrebbe diventare argomento di discussione per il M5S – e non c’è necessità, visto il disastro degli Statuti speciali, di farne altri. E questo è un argomento per la Lega che, nel suo passato, confederava le province, non certamente le regioni che sono solo il sovrappiù di un artificio assessoriale, una superfetazione istituzionale per come nacquero. Un esercizio di memoria storica s’impone. Servivano, le regioni, al tempo del consociativismo – e fu il caso delle regioni rosse – ad appaltare una parte di potere altrimenti impossibile, per il Pci in specie, su piano nazionale. Cancellate per mero rutto demagogico, le province, per quel che impone il limbo amministrativo cui sono costrette restano reali nell’orizzonte dei cittadini fatto, ancorché delle atmosfere dei romanzi di Piero Chiara – di Andrea Vitali oggi o delle canzoni di Giorgio e Paolo Conte – di consorzi agrari, campanili, trattori e tratturi.

È l’ente regione il non luogo dell’identità, la tabula rasa dei mille campanili.

È la voragine dove va a morire la dignità della politica e della solidarietà sociale. Dove rischia d’impantanarsi, seguendo quest’illusione, quell’Italia a sé che è il Nord.

Non se ne ricava, con l’Autonomia, il vantaggio di una sveltezza operativa.

In ragione della titolarità “speciale”, nel legiferare dell’ente regione c’è solo un eccesso di burocrazia e un agio dei privilegi.

L’ampliamento dei poteri, infatti, degenera nella degenerazione degli strapoteri e l’autonomismo non è neppure volano di responsabilità e civismo – non se n’è avuta mai traccia dal 1946 a oggi – quando lo spagnolismo tipico dei soprastanti del potere incista l’inamovibile mandarinato.

Ebbene, sì: la famosa casta con le sarde (quelli la cui unica eredità lasciata nella storia è il leggero affossamento, l’impronta delle natiche, in una poltrona).

Prezzo latte, i pastori rifiutano l’aumento a settanta centesimi

No dei pastorialle soluzioni offerte da Salvini, nuovo appuntamento fissato per sabato in Sardegna. Gli allevatori che pascolano le pecore, le mungono e vendono il latte con cui si fa il pecorino romano Dop vogliono essere pagati un euro al litro perché altrimenti non ce la fanno a sostenere i costi di produzione, rischiando di chiudere. A oggi infatti, produrre un litro di latte costa 70 centesimi ma il ricavo è di 56. Il ministro dell’Interno ha messo sul tavolo due carte: alzare il prezzo del latte a 70 centesimi al litro e stanziare 44 milioni per lo smaltimento rapido delle scorte di formaggio dovuto all’eccedenza di produzione nel 2018, 67.000 quintali. “È chiaro che i benefici economici del ritiro arriveranno almeno tra tre mesi. Ma arriveremo a un euro. L’agricoltura è come il petrolio per l’Arabia Saudita”, ha dichiarato Salvini dopo il tavolo al Viminale convocato insieme al ministro delle Politiche agricole Centinaio. Il vicepremier ha incontrato una delegazione di pastori che si sono presentati senza bandiere associative. Intanto l’Antitrust ha aperto un’istruttoria per verificare pratiche commerciali sleali nei confronti del Consorzio di tutela del pecorino romano e di 32 aziende sarde che ne fanno parte.

Indagine rifiuti, l’ex assessora Montanari ascoltata in Procura

Sentita per alcune ore in Procura, a Roma l’ex assessore comunale all’Ambiente Pinuccia Montanari. L’atto istruttorio è stato svolto nell’ambito di una inchiesta sulla situazione dei conti in Ama, la municipalizzata dei rifiuti. L’8 febbraio, la Montanari si era dimessa dal suo incarico dopo che la giunta capitolina ha bocciato il bilancio del 2017 della municipalizzata. Stretto il riserbo da parte degli inquirenti sul procedimento la cui attività di indagine, coordinata dai pm che si occupano dei reati nella Pubblica amministrazione, è stata affidata alla Guardia di Finanza. Nel motivare le dimissioni la Montanari aveva affermato, nelle ore successive alla sua decisione, di ritenere “ingiustificata la bocciatura del bilancio che getta un’azienda che dà lavoro a oltre 11.000 romani in una situazione di precarietà che prelude a procedure fallimentari”.

L’anno scorso il sindaco Raggi sul tema rifiuti ha inviato a piazzale Clodio una serie di informazioni su anomalie e stranezze, segnalando anche il gran numero di cassonetti incendiati che hanno causato disagi nella raccolta dell’immondizia. Proprio su questo tema da tempo in Procura è stata avviata una serie di procedimenti.