“Il giornalista è nemico, da Palermo a Bergamo vedo crescere l’ostilità”

Daniele Piervincenzi è tornato su RaiDue come inviato di Popolo Sovrano, la trasmissione condotta da Eva Giovannini e Alessandro Sortino. E di nuovo è protagonista di un brutto episodio di violenza, dopo quella tristemente famosa testata ricevuta da Roberto Spada a Ostia. Mentre stava girando un servizio sulla piazza di spaccio del quartiere Rancitelli di Pescara è stato aggredito da un gruppo di abitanti del quartiere, insieme al filmmaker Sirio Timossi e al collega David Chierchini.

Daniele, intanto come stai?

Ho solo una strisciata sopra l’occhio: ho preso uno schiaffo, un pugno e un paio di calci. Sirio che voleva proteggere la telecamera invece è stato colpito alla schiena da calci e pugni ed è dovuto andare al Pronto soccorso, così come David.

Stanno aumentando i luoghi dove i giornalisti non possono entrare?

Ho ancora un approccio un po’ ingenuo. Fino a qualche tempo fa, anche nei luoghi più oscuri del Paese, riuscivi a parlare con le persone. Da qualche tempo è difficile, molto spesso impossibile. Tra Ostia, quando Spada mi ha preso a testate, e Pescara ho fatto una decina di servizi in giro per l’Italia. A Palermo, a Catania, a Bari, ma anche a Bergamo: in tutti questi posti c’è mancato davvero poco che ci menassero. L’ostilità è palpabile e anche l’atteggiamento intimidatorio, aggressivo.

È cambiato qualcosa?

Sì, nella mentalità delle persone. Siamo percepiti come nemici, le persone che vivono nei luoghi degradati dove andiamo con le nostre telecamere sono sempre arrabbiate. Spesso, schiumando di rabbia, ci hanno detto: lo Stato che cosa ci offre? Se io non spaccio, come campo la mia famiglia? Con la Rai ce l’hanno particolarmente.

Perché?

Perché è il servizio pubblico e chi si presenta come Rai viene visto come il rappresentate di uno Stato assente, che non ha dato nulla. A differenza delle forze dell’ordine – le uniche che entrano in certi quartieri – siamo più esposti.

Questa trasformazione come te la spieghi? C’è più disagio sociale a causa della crisi economica?

La società si sta impoverendo, è un dato di fatto. Ma c’è anche un imbarbarimento che dipende dalla dispersione scolastica e dal crescente analfabetismo. Ho incontrato in questi anni molti giovani adulti che non sanno leggere e non capiscono l’italiano. A Borgo vecchio a Palermo ho conosciuto diversi ragazzini che a 13 anni sono tutti tatuati ma che non sono mai usciti non dico dalla città, ma dal loro quartiere. È una mutazione antropologica: per la prima volta le nuove generazioni regrediscono perché hanno a disposizione meno strumenti culturali dei loro genitori.

E la scuola, in tutto ciò?

A Borgo vecchio c’è una scuola (elementari e medie) che sta sotto al carcere dell’Ucciardone. Un professore mi ha raccontato che qualche volta ha perquisito gli alunni prima di entrare in classe. Ci sono problemi che nemmeno immaginiamo: il 70% dei docenti getta la spugna nelle prime tre settimane.

Fare il giornalista in Italia non dovrebbe essere come fare il reporter di guerra.

Osservando Rancitelli l’immagine che ti viene in mente è esattamente quella di una zona di guerra. È la più grande piazza di spaccio dell’Abruzzo, ed è atipica perché si spaccia dentro le case e dunque è più difficile da smantellare. I tossicodipendenti si accampano con le tende davanti a quei palazzi: le donne si prostituiscono per cinque euro e gli uomini rubano buste di insaccati al supermercato. Ogni busta viene valutata dagli spacciatori un euro, anche se costa di più: con cinque hai la tua dose. È un luogo terrificante, i ragazzi muoiono come mosche.

Qualcuno ti ha criticato dicendo che vai dove trovi rogne per farti pubblicità. Cosa rispondi?

Di botte nella mia carriera sportiva (è stato rugbista, ndr) ne ho prese tante che certo non ne voglio prendere ancora! Detto questo, il mio lavoro è raccontare quello che accade soprattutto nei luoghi più disagiati. Che facciamo, non ci torniamo più? La maggioranza dei giornalisti ormai si alza dalla sedia della redazione per andare nei salotti televisivi a dispensare opinioni su argomenti di cui non sa nulla. I colleghi sono diventati tutti editorialisti: commentano cose che non vedono più, che non conoscono. Per questo la distanza tra il mondo reale e quello raccontato dai giornali è sempre più grande.

Cucchi e gli atti modificati, un altro colonnello nei guai

C’è un colonnello che – secondo la Procura di Roma – sapeva dell’esistenza di due annotazioni modificate nella vicenda di Stefano Cucchi. Si tratta di Lorenzo Sabatino, ora comandante provinciale dei carabinieri di Messina, in passato al Nucleo Investigativo di Roma, poi al Reparto Operativo del Comando Provinciale di Roma, e ancora al Ros.

Sabatino è indagato per favoreggiamento nell’ambito di un filone d’inchiesta nato parallelamente al processo – ora in corso – sulla morte di Stefano Cucchi a carico di cinque carabinieri, di cui tre accusati del pestaggio.

Per capire la posizione di Sabatino però bisogna riprende proprio una testimonianza resa in aula ad aprile scorso. Quella dell’appuntato Francesco Di Sano. È lui che parla di alcuni verbali redatti nella stazione di Tor Sapienza, dove Cucchi passò una notte dopo l’arresto, che erano stati modificati nella parte che riguardava lo stato di salute del detenuto.

Nella prima annotazione c’è scritto: “Cucchi riferiva di avere dei dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non poter camminare, veniva comunque aiutato dal personale della Pmz (Pattuglie mobili di zona, ndr) Casilina a salire le scale”. In una seconda annotazione invece Cucchi riesce a camminare benissimo. È scritto: “Cucchi riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la rigidità della tavola del letto (priva di materasso e cuscino) ove aveva dormito per poco tempo, dolenza accusata anche per la sua accentuata magrezza”.

Le parole di Di Sano in aula creano un terremoto, alimentato dalla testimonianza del comandante della stazione di Tor Sapienza, Massimiliano Colombo Labriola che punta il dito contro i suoi superiori dell’epoca. Nasce così un filone di inchiesta sui falsi che ora conta cinque indagati, di cui due colonnelli e un generale. Si tratta di Alessandro Casarsa, fino a poco fa capo dei corazzieri al Quirinale e nel 2009 comandante del Gruppo Roma.

Colombo Labriola al pm Giovanni Musarò spiega che le annotazioni sono state inviate la mattina del 27 ottobre 2009 al tenente colonnello Francesco Cavallo (ora indagato per falsità ideologica), nel 2009 capo dell’ufficio comando del Gruppo Roma. Poco dopo però – sostiene ancora Colombo Labriola – Cavallo rinvia i due file modificati per mail. Ed è qui che si innesta un altro filone investigativo. Perché questa email – come racconta il comandante di Tor Sapienza – poteva essere nelle mani della Procura già nel 2015, quando delega il Nucleo investigativo ad acquisire di nuovo tutti gli atti nelle stazioni dove era passato Cucchi.

Nel “novembre 2015 – dice Colombo Labriola – si presentarono i carabinieri del Nucleo investigativo. (…) Mi resi conto di aver fornito le due annotazioni in entrambe le versioni (originale e modificata) (…) Mostrai l’email di Cavallo (…)”. Che però non venne acquisita.

Dopo questo verbale il pm Musarò apre un nuovo fascicolo di indagine. Ed è qui che viene iscritto Sabatino. La richiesta del 2015 dei pm di acquisire gli atti infatti viene mandata al Comando provinciale. Che delega Sabatino – in quel momento al Reparto operativo–, il quale a sua volta manda fisicamente il capitano Tiziano Testarmata. Entrambi sono ora accusati di favoreggiamento ed entrambi interrogati hanno respinto tutte le accuse.

Intanto ieri si è tenuta un’udienza del processo a carico dei cinque carabinieri. È stato sentito il maggiore Pantaleone Grimaldi, che nel 2015 era comandante della compagnia Casilina. Anche lì la Procura chiese di prendere di nuovo tutta la documentazione su Cucchi. Come il registro di fotosegnalamento. “Su un rigo – ha detto Grimaldi – un nome era stato sbianchettato e sopra era stato scritto un altro nome. Mi sembrò qualcosa in più di un’irregolarità. Quell’atto andava sequestrato. Guardando in controluce mi resi conto che cancellato si poteva leggere il nome di Cucchi. Ascoltando le mie obiezioni, Testarmata (…) mi rispose che avrebbe chiesto direttive, quindi uscì per una telefonata. Non so a chi chiese direttive, so che poco dopo tornò dicendo che la direttiva restava quella di fare una copia conforme, senza prendere l’originale”.

L’ex assessore dem cambia vita: sarà suora di clausura

Dalla politica alla clausura. A luglio scorso Simona Ibba, ingegnere elettronico di 38 anni, ha dato le dimissioni da assessore comunale a Sardara, nel Medio Campidano, adducendo solo motivazioni personali e lasciando sorpresi e increduli i colleghi della giunta e l’intera comunità locale. Il vero motivo per cui la donna ha lasciato l’incarico è per diventare suora di clausura. L’ha rivelato ai suoi fedeli solo sabato scorso don Francesco della chiesa di Beata Vergine Assunta, che è anche il sacerdote del convento di Pennabilli, in provincia di Rimini, dove l’ex assessore sardo sta affrontando il suo percorso di fede. Come riporta l’Unione sarda, Il parroco di Sardara Stefano Mallocci, l’ha definita “un orgoglio”, mentre il sindaco del piccolo comune del sud dell’Isola Roberto Montisci ne ha elogiato “le qualità umane e la bontà d’animo” con cui Ibba è stata sempre vicina e impegnata per la sua gente. “La notizia è motivo di gioia per tutti e fa passare in secondo piano il dispiacere iniziale delle sue dimissioni. Una persona per me straordinaria” ha dichiarato il primo cittadino. L’interessata non ha rilasciato dichiarazioni.

Bannon e Casaleggio, lo scorso giugno si sono visti a Roma

Si sono visti lo scorso giugno a Roma, ufficialmente per parlare della piattaforma web dei Cinque Stelle, Rousseau. Ma chissà di che altro hanno parlato Davide Casaleggio e Steve Bannon nel loro incontro, rivelato dalla rivista statunitense Wired e confermato ieri all’Adnkronos dallo staff dell’esponente dei Cinque Stelle. E secondo la versione della Casaleggio, sarebbe stato Bannon, teorico del sovranismo internazionale ed ex consigliere politico del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, a chiedere un incontro al fondatore dell’Associazione Rousseau durante una sua visita a Roma. E i due avrebbero discusso proprio del sistema operativo del Movimento. Casaleggio, raccontano, avrebbe parlato a Bannon del progetto ma non ci sarebbe stato alcun accenno a eventuali sinergie future. Ma di certo la notizia incuriosisce, vista la fortissima caratterizzazione politica del giornalista statunitense, che loda e appoggia tanti partiti della destra europea. Compresi Fratelli d’Italia e la Lega, l’alleato di governo del Movimento.

Quasi pronto il video sul blog. Il testimonial sarà Giarrusso

Se Luigi Di Maio non cambierà idea all’ultimo minuto, da qui a poche ore si voterà sul web. Anche se i sette grillini nella giunta per le Autorizzazioni del Senato avrebbero preferito scegliere assieme al capo politico. E anche se una dissidente come Paola Nugnes, vicina a Roberto Fico, ieri faceva muro: “Questa è una questione complessa, non ci può essere una risposta di pancia”.

Invece saranno proprio gli iscritti sulla piattaforma Rousseau a decidere la posizione del M5S sul caso Diciotti, ossia sulla richiesta di rinvio a processo per sequestro di persona per Matteo Salvini. Ma non prima di domani, perché servono almeno 24 ore di preavviso per la votazione. Però il video di presentazione del quesito, che gli iscritti dovranno visionare prima di decidere se salvare o meno il ministro dell’Interno, è “più o meno pronto” raccontano. E il protagonista è l’avvocato siciliano Mario Giarrusso, l’unico dei sette al secondo mandato, già in corsa per la presidenza dell’Antimafia andata poi a Nicola Morra. Insomma, un parlamentare noto alla base, capogruppo in giunta. Propenso decisamente per il no al rinvio a processo. Come d’altronde gran parte dei sette grillini, che per giorni hanno ripetuto a Di Maio e agli altri senatori la loro convinzione: “Sul piano giuridico la richiesta va respinta”.

Un parere da tecnici, visto che sei su sette sono legali. Ma qui il nodo è anche e soprattutto politico. Perché in gioco c’è anche un principio identitario per il Movimento, che ha sempre detto sì in automatico a ogni richiesta dei magistrati. E che dovrebbe rivedere un suo comandamento per il Salvini che dapprima aveva giurato di volersi fare processare, anche in un incontro apposito con Di Maio. E che pochi giorni dopo ha virato rotta con la lettera sul Corriere della Sera del 29 gennaio scorso, in cui rivendicava di “aver agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” e per “il perseguimento di un preminente interesse pubblico”, E allora, “la richiesta di autorizzazione a procedere va negata”.

Anche per questo, il capo politico dei Cinque Stelle ha ormai deciso di affidarsi al web, come gli consigliavano da giorni i big a lui vicini e anche dalla casa madre di Milano, la Casaleggio. Perché altrimenti qualsiasi decisione avrebbe avuto il suo marchio, quello del leader, che ha già una riunione fissata con i sette della giunta per lunedì sera, alla vigilia del voto. E allora, visto che “comunque vada ci rimetteremo” come ammettono dal Movimento, tanto vale sottrarsi, per evitare possibili e pericolosissime tensioni con Salvini, l’altro vicepremier. E delegare agli iscritti la parola definitiva. Ma sulla decisione peserà anche il video di presentazione.

Perché nelle votazioni sul blog prima e su Rousseau poi, il nodo è spesso stato quello, il tipo di quesito e come veniva presentato. E in questo caso toccherà a Giarrusso “preparare” un voto delicatissimo, cercando di non orientare gli iscritti. “Sarà un testo sobrio, un semplice riepilogo della vicenda in termini comprensibili” assicurano dalla pancia del Movimento. Ma è chiaro che ogni parola potrebbe incidere. E per questo ieri nel M5S hanno lavorato a lungo sul testo e sul video. Sostanzialmente pronto, pare. Ma si può ancora ritoccare, perché prima di sabato comunque non si voterà. Ammesso che Di Maio non muti rotta all’ultima curva, caricandosi sulle spalle tutto il fardello della Diciotti, “un guaio che proprio non ci voleva” per dirla come un senatore di peso. Ma da risolvere, in qualche modo.

Botte, urla e “arrivederci” La Camera litiga. Poi ferie

Il Parlamento fa sempre più rima con ornamento. La bagarre in aula è l’unico modo per farsi notare. Voci che si fanno acute, qualche spintone, con l’aggravio a volte di risse tentate oppure consumate. La casistica prevede anche duelli singoli: sputi, pugni, calci, lanci d’oggetto. Il vecchio trucco funziona sempre e porta risultati.

Ieri, proprio quando si vietava alle Camere di aprire bocca sul testo dell’accordo col quale il governo concede a tre regioni (Veneto, Lombardia, Emilia Romagna) la cosiddetta autonomia differenziata, a Montecitorio il sonnacchioso tran tran post prandiale e pre festivo viene interrotto da un mimo. Il deputato grillino Giuseppe D’Ambrosio incrocia le braccia nel gesto delle manette al termine del suo intervento in aula. Guarda, a braccia ammanettate, verso Gennaro Migliore, collega del Pd. Gesto ultra offensivo (D’Ambrosio spiegherà che quelle manette erano per Francantonio Genovese, ex deputato Pd arrestato per davvero) e che Roberto Fico, presidente e grillino censura con un richiamo e non con l’espulsione. “Vergogna”, “Buffone” eccetera: è la protesta dai banchi del Pd. Le urla si fanno più forti, il Pd lascia i banchi svuotando l’aula. “Mi state salutando. Arrivederci”, li sfotte Fico. È questo il momento in cui gli giunge a mezza altezza come risposta un nutrito blocchi di fogli. Il lanciatore d’opposizione sbaglia mira per pochissimo e leviga con la carta i capelli della segretaria generale Lucia Pagano. Seduta sospesa. Il presidente della Camera si scusa per le sue parole che hanno valicato il protocollo. Poi dichiara conclusa la seduta: “Riprenderà martedì”.

Quattro bei giorni di festa, e siamo nella tradizione.

La bagarre esiste da quando c’è il Parlamento. Il primo cassetto in aria volò nel 1949 per merito del comunista Giuliano Pajetta, fratello del più noto Giancarlo. Ma allora il Parlamento contava e in discussione c’era l’adesione dell’Italia alla Nato. E le terre, la grande questione del latifondo, furono all’origine di un terribile pugno che il democristiano Albino Stella sferrò (anno domini 1952) nei confronti del monarchico Ettore Viola.

La bagarre in quel contesto assumeva, per così dire, una sua dignità. La mano fasciata del ministro Randolfo Pacciardi che difendeva la legge truffa era lo sviluppo fisico dell’opposizione, in piazza come nel Palazzo. Una memorabile rissa coinvolse tre quarti del Parlamento nel 1981. Ma lì c’era sul fuoco ben altra carne: i tentativi eversivi dentro quel grande buco nero della storia repubblicana chiamato P2. Insomma, il contesto in qualche modo autorizzava a prevedere qualche strappo alla regola.

La bagarre di oggi, così minuta, quasi insipida, in un Parlamento ringiovanito nell’età ma impedito nella funzione, vuoi perchè troppo inesperto, vuoi anche perchè troppo accondiscendente verso il governo, che infatti lo usa come cassetta postale, all’identico modo dei precedenti, ha perso pathos. Nulla a che vedere con l’immagine, quella sì enormemente incresciosa, quasi primordiale, con la quale il leghista Luca Orsenigo, al tempo di Mani pulite, sollevò in aula il cappio. Il nodo scorsoio del giustizialismo. Allora era la Lega di Bossi, dei barbari all’opposizione, che inneggiavano (prima che alcuni suoi dirigenti incappassero in manette e denunce) alla carcerazione collettiva.

I leghisti hanno fatto a botte quasi con tutti, e una rissa gustosa li vide contrapporsi a suon di manate ai forzisti berlusconiani, nel tempo in cui erano un po’ alleati del Cavaliere e un po’ avversari. E in quegli anni (1993) l’ex missino Buontempo interruppe con un megafono la discussione.

Enorme, spettacolare l’aggressione del senatore Tommaso Barbato contro il mastelliano fedrifago Nuccio Cusumano che perse i sensi e dovette essere allungato sulle poltrone di velluto. Le medesime sulle quali Nino Strano, missino di Catania, si impiastricciò di mortadella per brindare alla caduta del governo Prodi.

Oggi come ieri, tutto nella norma.

L’unica differenza, come si diceva innanzi, è che oggi, a differenza di ieri, il Parlamento è divenuto ornamento.

M5S, pressing sulla Lega per poter “digerire” il No

La Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato deciderà martedì 19 febbraio sulla richiesta dei giudici del Tribunale dei ministri di Catania che vorrebbero poter processare il ministro dell’Interno, Matteo Salvini per la gestione dei migranti della Nave Diciotti. Ma già le prossime ore saranno determinanti in casa 5 Stelle per la posizione da assumere al momento del voto: per fare il punto della situazione sarebbe previsto per lunedì un incontro con il leader, Luigi Di Maio. Fin d’ora è certo che sono fortissimi i dubbi sui contenuti della proposta che Maurizio Gasparri ha deciso di sottoporre alla Giunta. Che conclude che debba essere negata l’autorizzazione a procedere nei confronti del capo della Lega, ma soprattutto contiene motivazioni che, per usare un eufemismo, in molti definiscono aberranti giuridicamente. E che, da un punto di vista politico, sono bollate con una parola particolarmente evocativa dalle parti dei 5 Stelle: un trappolone.

È il caso di Mattia Crucioli, uno dei sette senatori a Cinque stelle che siede in Giunta. Che medita di bocciare la proposta del relatore, sempre che rimanga così com’è. “Gasparri arriva a sostenere che per decidere se mandare a processo Salvini bisogna limitarsi alla valutazione delle finalità del governo. Ma la sacrosanta autonomia dell’esecutivo non può essere svincolata dai mezzi che vengono scelti per perseguirne la funzione: è una affermazione grave. Direi aberrante, da stato di polizia. Il movente governativo invece non può essere una licenza di fare tutto ciò che si vuole, a prescindere” dice Crucioli che sottolinea come vada scongiurata una deriva potenzialmente rischiosissima. La decisione sul caso Diciotti deve servire, dunque, per fissare paletti molto chiari per il futuro. Salvini è avvisato.

“Il mezzo deve essere sempre sindacabile se non è proporzionato al fine. Nella ricostruzione di Gasparri manca completamente quale sia il bilanciamento costituzionale tra le finalità pubbliche perseguite e i diritti che in nome di quelle finalità vengono compressi” dice Crucioli parlando della proposta. Che – suggerisce – rappresenta di per sé un pericolosissimo precedente. “Se non verrà profondamente modificata ritengo in tutta coscienza di non poterla votare. Credo che il Movimento debba impegnare la Lega su questa modifica che ritengo indispensabile: se il Carroccio ne condividerà i contenuti, bene. Altrimenti, personalmente, farò metter agli atti il mio no alla proposta Gasparri”.

La relazione non piace neppure a Pietro Grasso di LeU che non ha ancora deciso la posizione da adottare rispetto all’autorizzazione a procedere che chiedono i magistrati. Ma anche per lui la proposta Gasparri è irricevibile perchè “dice sostanzialmente che il fine giustifica i mezzi, nel senso che se il fine è politico, qualsiasi modalità può essere adottata. Questo mi pare non si possa accettare senza una valutazione. E su questo si baserà il giudizio politico”.

Chi di modificare la proposta Gasparri non vuol sentir proprio parlare è il Pd. Che rispetto al voto sull’autorizzazione contro Salvini intravvede una occasione che pare ghiottissima. Ossia metter in difficoltà nera i 5 Stelle, incalzati ieri da Renzi che è tornato a farsi sentire sui lavori della Giunta dopo aver dato la linea ai suoi già la scorsa settimana. “Il no all’autorizzazione a procedere per Matteo Salvini per M5s sarebbe il più incredibile dietrofront della storia. Ma pur di mantenere la poltrona credo che questi voteranno tutto. Sono passati dal gridare onestà a dare il salvacondotto a Salvini pur di stare al governo” ha detto, presentando alla stampa estera il suo nuovo libro. Dove ha suonato la carica contro i pentastellati. Qualche ora prima a parlare era stato il senatore dem, di stretta osservanza renziana, Francesco Bonifazi. Che in Giunta ha precisato di non essere d’accordo con le conclusioni della relazione Gasparri che dicono no all’autorizzazione a procedere contro Salvini. Ma che si opporrà alla proposta di modificarla nel senso indicato dai 5 Stelle. A cui insomma va fatto bere il calice più amaro possibile.

Il capitano Ultimo querela l’ex premier per le frasi nel libro

Il colonnello dei carabinieri Sergio De Caprio, noto come “capitano Ultimo” dai tempi in cui catturò Totò Riina nel 1993, reagisce alle frasi di Matteo Renzi nel libro Un’altra strada, anticipate ieri dal Fatto. Renzi suggerisce che sia successo qualcosa di strano nel passaggio di Ultimo e di 23 suoi carabinieri ai servizi segreti (Aise) nel 2015 e poi nella loro brusca cacciata nel 2017. Ultimo risultava il destinatario di informazioni trasmesse via email da un suo ex collaboratore, il capitano Scafarto che indagava sulla Consip e su vari personaggi del mondo renziano, incluso Tiziano Renzi. Ultimo oggi risponde: “Leggo che Matteo Renzi nel libro paventa ancora fantomatici complotti e azioni eversive contro di lui da parte del Capitano Ultimo e di pochi carabinieri che lavoravano all’Aise. Di Renzi non me ne sono occupato prima e non me ne occupo ora. Non ho mai attribuito ad altri le cause dei miei fallimenti personali e professionali. Ho dato mandato al mio avvocato Francesco Romito di agire nelle sedi competenti contro le persone che mi attribuiscono cose che non ho mai detto e azioni che non ho mai compiuto”.

Renzi festeggia San Valentino con i suoi ultrà

“Ma come mai siamo passati dalla sconfitta elettorale al Venezuela? Mi pare una diversione di risposta”. Al Tempio di Adriano a Roma, durante la presentazione del libro di Matteo Renzi, Un’altra strada, Lucia Annunziata a un certo punto sbotta. “Mi pagano per questo”, risponde l’autore-senatore. Ovvero, per non rispondere, distogliere l’attenzione. Battuta fulminea, che dice una verità inconfessabile. La platea è fatta tutta di ultrà dell’ex premier e partecipa tra ovazioni e attacchi alla direttrice dell’Huffington Post, che aveva posto la domanda: “Ma se è andato tutto bene, con il tuo governo e quello di Gentiloni, e questi sono incompetenti e cialtroni, come te la spieghi la sconfitta del 4 marzo?”. Lui l’aveva presa larga e si era messo a parlare delle esitazioni gialloverdi su Maduro e Guaidò. Da lì lo scambio. L’eterno ritorno di Renzi fa registrare (anche) questo: parlantina, attacchi e affondi più sciolti che negli ultimi mesi, rivendicazione delle cose fatte, riproposizione della propria leadership su tutto e tutti, attitudine a giocare più parti in commedia.

Sullo sfondo l’uscita dal Pd, che va preparata con calma, erodendo dal di dentro il quartier generale. D’altra parte quella di San Valentino è una maratona: in mattinata due ore alla Stampa estera, nel pomeriggio la presentazione con la Annunziata e Virman Cusenza, direttore de Il Messaggero. In platea c’è tutto quel che resta del renzismo: in prima fila Maria Elena Boschi, Pier Ferdinando Casini, Pier Carlo Padoan. E poi, Teresa Bellanova, Simona Malpezzi, Francesco Bonifazi, Luigi Marattin, Piero De Luca, Ivan Scalfarotto, Sandro Gozi. Ma anche Roberto Giachetti, Anna Ascani, Luciano Nobili. E poi, Ettore Rosato, Lorenzo Guerini, Gennaro Migliore. Un’altra strada, però, più che un cammino segnato assomiglia a una minaccia. Renzi non fa che lanciare messaggi. “Voto alle primarie, ma non dico per chi. Nel libro non troverete citati Nicola Zingaretti, Maurizio Martina e Roberto Giachetti”. E ancora: “Io faccio una battaglia culturale nella politica italiana”. Non nel Pd. E però: “Il tema di un nuovo partito non è all’ordine del giorno”. Non presente, ma futuro. E giocare a stare un po’ dentro e un po’ fuori di certo è il modo migliore per gettare nel panico i compagni dem prepararsi il terreno. Nelle presentazioni di ieri non mancano gli elogi di Fanfani e Andreotti e neanche la presa di distanza dal Pci: “Il Pci stava in mezzo alla gente e per questo vinceva? Non vinceva mai”. Obiettivo, prendersi il centro. Sempre per restare in tema di posizionamenti, lancia Angela Merkel come ministro degli Esteri europei. Il resto sono atti di accusa. Da Giuseppe Conte, “avvocato delle concessionarie”, alla “Bestia” di Luca Morisi, la macchina di propaganda della Lega (“mi piacerebbe sapere quanto dei 49 milioni c’è finito”) al “conflitto di interessi” della Casaleggio.

L’affondo più forte è ai presunti amici: “Dopo il referendum, il mio errore più grande fu quello di non lasciare del tutto, ma di ricandidarmi alla guida del Pd. Me lo chiesero gli amici di cui mi fido e altri che sembravano amici, ma poi hanno tradito i patti: dovevamo andare ad elezioni e invece preferirono rimanere al governo”. Ogni riferimento a Paolo Gentiloni e Dario Franceschini non è puramente casuale. “Non so se alla fine raggiungeremo la Terra promessa. So però che nel dubbio è sempre meglio mettersi in cammino”, la conclusione del libro. Resta il dubbio di che tipo di “Terra” si tratti.

Bossi, un altro malore in casa. Il Senatur ricoverato a Varese

Mentre a Roma sta prendendo corpo, in qualche modo, il suo primo sogno – la “secessione” delle regioni del Nord – nella sua casa di Gemonio Umberto Bossi, ormai escluso dal partito che ha fondato, la Lega, ha un malore, cade, batte la testa, perde conoscenza. Arriva l’ambulanza dal vicino ospedale di Cittiglio. Sono le 17: il Senatur, 77 anni, viene immobilizzato su una barella per i traumi, la tavola spinale. Arriva un elicottero, poi via in volo verso l’ospedale di Varese. Codice rosso. Reparto di terapia intensiva. Viene sedato. Sottoposto agli esami clinici. Valori sballati, quelli dell’analisi del sangue. Ma le macchine dell’angiotac dicono che non c’è emorragia al cervello. Potrebbe avere avuto uno svenimento, una crisi epilettica. C’è il precedente del 2004: l’ictus cerebrale che lo ha allontanato dal partito, costretto a una lunga convalescenza per la riabilitazione, segnato nel fisico per sempre.

È presidente a vita della Lega, Bossi, ma il partito non è più suo da tempo. Durante la convalescenza per l’ictus, il tesoriere Francesco Belsito ha combinato un bel po’ di guai con i soldi, raccontano i suoi. Quando scoppia lo scandalo della “Family” e si scopre che le casse della Lega avevano finanziato la famiglia Bossi e comprato perfino una “laurea” albanese al Trota, il figlio che sperava diventasse il suo successore, è Roberto Maroni che s’incarica di comandare la congiura che lo costringe a mettersi da parte per far continuare a correre il Carroccio. Poi arriva Matteo Salvini, un ragazzo cresciuto all’ombra del capo, a rottamare anche Maroni e cambiare il dna della Lega, facendone un partito nazionale.

Il vecchio Senatur assisteva ai cambiamenti scuotendo la testa, sempre critico e perplesso, mai davvero d’accordo, mai davvero contrario. All’ultimo, Salvini lo ha ricambiato salvandolo con suo figlio dal processo che avrà come unico imputato Belsito, il cattivo cassiere.

Nel momento della malattia, i figli ribelli tornano a unirsi al capezzale del padre. “Coraggio vecchio leone, siamo tutti con te”, tuitta Maroni, a sua volta messo a riposo da Salvini. “Fortunatamente non ha avuto quello che temevamo nei primi momenti. Rimarrà in ospedale questa notte sotto sedazione e domani (oggi per chi legge, ndr) farà tutti gli accertamenti del caso, ma i medici sono cautamente ottimisti”.

Fa sentire la sua voce anche Salvini, attuale segretario della Lega, vicepresidente del Consiglio, ministro dell’Interno: “A Umberto auguri di pronta guarigione”. Uno dei suoi fin dalla prima ora, Roberto Calderoli, oggi vicepresidente del Senato: “Umberto, amico mio, ancora una volta la vita ti sta mettendo di fronte a una dura prova da affrontare. Ma ti è già successo, hai vinto in passato battaglie più difficili e sono sicuro che vincerai anche questa. Perché sei un grande guerriero, sei un lottatore. Siamo tutti con te, forza Umberto”.

Attilio Fontana, il presidente della Lombardia, è corso all’ospedale di Varese. Con il presidente del Veneto, Luca Zaia, sta realizzando, con l’autonomia, il sogno della “secessione del Nord” che il vecchio fondatore aveva abbandonato e che il suo ultimo successore, Matteo Salvini, pareva aver sepolto togliendo il Nord dalla ragione sociale del partito. “Forza Umberto! Tieni duro!”, scrive ora Zaia.

Parla anche Silvio Berlusconi, suo primo alleato, poi sua prima vittima, quando Bossi fece cadere il governo a fine 1994, poi di nuovo socio e alleato. “Bossi è una brava persona e leale e siamo amici”, dice Silvio mentre è negli studi di Porta a porta. “Gli voglio bene e gli mando affettuosi auguri di pronta guarigione”. Oggi i medici diranno che cosa lo aspetta.