Cassa depositi pronta a investire ancora nel capitale di Tim

Sempre più Stato-azionista: ieri il Consiglio di amministrazione di Cassa depositi e prestiti ha deliberato l’autorizzazione all’acquisto di ulteriori azioni di Telecom Italia. “Tale investimento – si legge nella nota -si pone in una logica di continuità con gli obiettivi strategici sottesi all’ingresso nel capitale di Tim deliberato dal Cda lo scorso 5 aprile 2018, è coerente con la missione istituzionale di Cdp a supporto delle infrastrutture strategiche nazionali e vuole rappresentare un sostegno al percorso di sviluppo e di creazione di valore, avviato dalla società in un settore di primario interesse per il Paese”.

È quasi certamente un altro passo nella direzione dello scorporo della rete fissa da Tim, nell’ottica di una fusione con Open Fiber. La Cdp era entrate nel capitale di Tim con il 5 per cento con una mossa quasi a sorpresa un anno fa per condizionare gli equilibri nel capitale, nello scontor tra Elliot e Vivendi, i due azionisti. Da allora il titolo si è svalutato, proprio ieri Vivendi ha comunicato di aver abbattuto di un miliardo il valore della propria quota di Tim nel bilancio 2018. Non è ancora nota quale sia la perdita implicita dell’investimento della Cassa depositi.

Aperture domenicali, la Lega spinge per rivedere il testo

Si riapre il confronto con il mondo del commercio sulla proposta di legge dedicata alle chiusure domenicali dei negozi. La commissione Attività Produttive della Camera – che sta esaminando il testo di sintesi delle diverse proposte depositate dai parlamentari – riascolterà in audizione le associazioni di categoria, alla luce delle modifiche inserite nell’ultima versione, ossia quella del 31 gennaio scorso. Sul tema, Lega e M5S hanno trovato una formula su cui c’è l’accordo: “Siamo passati da tutti i negozi chiusi ad aperti con buon senso, inserendo il tema dei centri storici”, ha spiegato la presidente di commissione Barbara Saltamartini (Lega), aggiungendo che nei prossimi giorni “ci sarà un nuovo confronto con le realtà associative anche per rivalutare gli effetti sull’occupazione, poi passeremo alla fase emendativa”. Andrea Dara (Lega), sottolinea che “non si tratta assolutamente di una marcia indietro”, ma di una decisione presa a seguito della richiesta di confronto delle opposizioni. Il testo base sui negozi prevede 26 aperture domenicali su 52 e la chiusura degli esercizi commerciali nelle 12 festività nazionali, c’è però una deroga per 4 giorni di apertura da stabilire su scelta delle Regioni.

Lo stallo sulla decisione

Danilo Toninelli
Il governo ancora non ha preso una decisione ufficiale sui destini del progetto di alta velocità tra Torino e Lione. Intanto il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli difende l’analisi costi-benefici degli esperti da lui nominati: “Nessuno deve contestare quella relazione, perché è l’unica relazione scientifica fatta da economisti dei trasporti. Discuteremo mettendo sul tavolo tutto quello che è il bene collettivo del Paese. È evidente – aggiunge – che la decisione è politica”

Matteo Salvini
”Più veloci viaggiano le merci e le persone e meglio è”, dice il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, parlando del Tav. Alla domanda se l’analisi costi benefici del Tav lo avesse convinto, il ministro ha risposto con un secco “no”. Il ministro della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno, sempre della Lega, dice che ha dubbi sui contenuti dell’analisi costi-benefici ma “mi sembra di intuitiva evidenza che si arriverà a una sintesi politica”

Silvio Berlusconi
L’ex cavaliere dice la sua, intervistato a Porta a Porta: “Sento tutte fesserie. C’è una legge che ci impone di fare il Tav e i signori dei 5 stelle, che sono ignoranti, se vogliono dire no devono fare un emendamento alla legge e abrogarla”. La previsione del leader di Forza Italia è che “il Tav va fatto e si farà”

I cittadini in protesta sono stati dimenticati

C’è stato un tempo lungo in cui la questione del Tav era in questi termini: appoggiare o meno la protesta dei cittadini della Val di Susa contro un’opera da loro ritenuta inutile per la nazione e dannosa per il territorio. Curiosamente ora i cittadini della Val di Susa sono spariti dal dibattito. La questione sembra essere: sostenere o meno il no dei cinque stelle al Tav.

Mi sembra un segno tipico della localizzazione delle questioni. Tutto diventa opinionismo globale, lontano dai luoghi in cui le questioni maturano. Il Tav si fa o non si fa non solo in base a calcoli economici. Si sceglie un’idea di mondo e la si porta avanti. Ma forse è proprio questo che manca a governanti e oppositori. Ogni questione viene affrontata in base al calcolo elettorale immediato.

A me piacerebbe che qualcuno mostrasse dove batte veramente il suo cuore e non facesse ogni giorno dichiarazioni per inseguire l’umore dell’elettorato. La finzione di chi governa ora sembra sposarsi con la finzione di chi si oppone. Se facciamo un calcolo costo-benefici di questa situazione esce un disavanzo enorme: questa politica non conviene ai cittadini italiani. E io penso che a questo punto i cittadini italiani debbano entrare nel discorso pubblico e interrompere questa schermaglia tra vigliacchi e ignoranti. Già alle prossime elezioni europee si può provare a premiare un partito che si mostri fuori da questo schema. E poi è una battaglia che si può fare ogni giorno. Portando bellezza, difendendo le verità che restano.

I politicanti sulla scena devono sapere che non ci limitiamo a disprezzarli, ma vogliamo prenderci in mano la nostra Italia.

Tra contro-dossier e numeri immaginari: guerra di dati sul Tav

La guerra ai risultati dell’analisi costi-benefici sul Tav (negativa per 7 miliardi) passa da “contro-dossier”, dati a spanne e vere bufale. Per ultimo ci ha pensato ieri il Commissario di governo Paolo Foietta, grande fan dell’opera: pur essendo ormai scaduto il suo mandato, ha pubblicato un contro-dossier sul sito dell’Osservatorio di Palazzo Chigi per deridere il lavoro della task force guidata dall’economista Marco Ponti che si è occupata dell’analisi costi-benefici (Acb).

Ieri molti giornali hanno dato risalto anche a un altro contro-dossier: la nota inviata al ministro dei Trasporti Danilo Toninelli da uno dei sei commissari, Pierluigi Coppola, che non ha firmato l’analisi di Ponti. L’ingegnere napoletano, l’unico che faceva parte della struttura tecnica di missione già ai tempi di Graziano Delrio, non ha però partecipato ai lavori, limitandosi a contestarne il risultato in 6 pagine (contro le 80 di Ponti).

Il dossier Coppola. Le contestazioni più forti della nota riguardano tre aspetti dell’analisi di Ponti. Il primo è aver inserito tra i costi le mancate accise per lo Stato pagate dai mezzi le cui merci si trasferiranno sulla ferrovia. Il secondo è che tra i costi andrebbero considerati anche gli 1,7 miliardi che, in caso di stop all’opera, andrebbero spesi per ripristinare i luoghi dei cantieri e ammordernizzare la vecchia linea ferroviaria del Frejus. Il terzo: l’analisi di Ponti & C. sbaglia a considerare tutti i 12 miliardi di costo dell’opera, anche quelli a carico di Francia e Ue, mentre andrebbero considerati solo quelli italiani, circa 5 miliardi. Correggendo questi elementi, l’analisi risulterebbe “positiva”. Il Corriere parla di benefici per 400 milioni, 300 per il Sole 24 Ore, addirittura 2,4 miliardi per Repubblica se si decidesse di non fare la tratta nazionale tra Avigliana e Orbassano. Problema: nessuno di questi numeri compare nella nota inviata da Coppola al ministero, né l’idea – curiosa – che per analizzare costi e benefici di un’opera si debba prendere in considerazione solo i costi in capo all’Italia (i benefici, peraltro, si dimezzerebbero). Non è chiaro da dove vengano. Nella loro analisi, peraltro, i tecnici guidati da Ponti considerano anche i costi per ripristinare i luoghi e ammodernare il Frejus e il risultato resta lo stesso negativo per 5,7 miliardi. Oltre ai mancati incassi per lo Stato dalle accise (1,6 miliardi) stimano anche i benefici che avrebbero gli utenti e quelli ambientali (secondo l’analisi molto bassi). Eliminare una voce comporta anche la cancellazione della seconda. E nello scenario “realistico”, peraltro, questa operazione porta lo stesso a un risultato negativo. Accadeva la stessa cosa nell’analisi sul Terzo Valico.

Il dossier Foietta. Pure il commissario di governo ieri ha contestato l’inserimento delle mancate accise nell’analisi, anche se lo stesso Osservatorio da lui presieduto l’aveva inclusa nell’analisi costi-benefici del 2011. E in quel caso le previsioni erano ancora più negative di quelle calcolate da Ponti e colleghi (il gettito fiscale sarebbe calato di ben 7 miliardi) grazie a previsioni di traffico astronomiche: si stimava che da 28,5 milioni di tonnellate di merci scambiate tra Italia e Francia su quella tratta nel 2004 si sarebbe passati a 97,3 nel 2053 (nel 2017 è stato più basso che nel 2004, soltanto 23,3 milioni). Nelle sue 27 pagine, redatte insieme al consulente dell’Osservatorio, anch’esso scaduto a fine 2018, Roberto Zucchetti, e infarcite di note come “predicare bene e razzolare male”, “Questa valle è una camera a gas”, “Perché sforzarsi quando quando già lo fanno gli altri” e via dicendo, Foietta si spinge perfino a criticare Ponti & C. per aver “contestato le previsioni del 2011, ritenute ormai unanimemente superate”, ma di averle utilizzate comunque come base per definire i due scenari della loro analisi. Cosa che invece è un punto di forza del dossier redatto dagli esperti scelti da Toninelli. Foietta contesta a Ponti anche di aver sottostimato la possibilità che il Tav possa drenare flussi di merci da tutti i valichi occidentali, ma questo invece viene previsto nell’analisi di Ponti proprio perchè parte dai dati dell’Osservatorio. Tra le critiche più rilevanti c’è quella di aver sovrastimato il costo del tunnel di base. Era 8,6 miliardi nel 2012 e – secondo Foietta – applicando la rivalutazione prevista dall’Accordo Italia-Francia il suo valore oggi sarebbe di 8,7. Ponti & C. arrivano a 9,6 miliardi. Il motivo è che in media i sovracosti degli investimenti ferroviari in Italia sono del 40%.

Le penali. Ieri La Stampa si è spinta perfino a sostenere che, in caso di stop al Tav, l’Italia rischierebbe di rimanere senza fondi Ue per 5 anni. Lo prevederebbe il Grant agreement, firmato dai dg dei ministeri Trasporti di Italia e Francia nel 2015, “in caso di seria violazione degli obblighi derivanti dal contratto”, come impone il diritto comunitario. Problema: per il Grant agreement questo accadrebbe solo se il beneficiario dei fondi “ha commesso errori sostanziali, irregolarità o frodi, o ha reso false dichiarazioni”. E non è questo il caso.

Bologna, il sindaco Pd chiama la piazza per fare la tangenziale

Il modello è quello torinese, una mobilitazione che metta insieme “lavoratori, imprese, associazioni” per far sentire la voce della città al ministro dei Trasporti Danilo Toninelli. A Torino, in tanti, si misero in marcia per il Tav, a Bologna ora lo faranno (forse) per il Passante di mezzo. Solo che a invocare la piazza nel capoluogo emiliano è direttamente il sindaco Virginio Merola che è intenzionato a seguire le orme dei manifestanti piemontesi, a fare cioè di Bologna il palcoscenico di una grande protesta contro il governo.

Tutto ruota intorno a una infrastruttura della quale in Emilia Romagna si parla – tra progetti preliminari, accordi e retromarce – da quasi vent’anni. Un’opera, in questo caso, ritenuta necessaria per decongestionare il nodo stradale e autostradale del capoluogo. Regione e Comune hanno puntato tutte le loro carte sull’ampliamento della tangenziale e del tratto urbano dell’autostrada A14 per tredici chilometri, per una spesa di 750 milioni. “Il 24 ottobre scorso – ricorda l’assessore regionale ai Trasporti Raffaele Donini – il ministro ci disse: so che i miei sono contrari ma voi la volete, io rappresento lo Stato e sarò istituzionale: datemi solo qualche giorno di tempo. Autostrade per l’Italia, che la deve realizzare, stava già mettendo mano al progetto esecutivo”. Stava, appunto. Perché poi i tecnici di Toninelli, lo scorso dicembre, hanno avuto un’altra idea e al concessionario hanno presentato un secondo progetto che prevede una viabilità di servizio, affiancata alla tangenziale, considerata molto meno impattante. Il costo? Almeno la metà di quello previsto per il Passante di mezzo, ripete lo staff di Toninelli.

Una soluzione che però non è stata condivisa subito con gli enti locali (il ministro ha anche sospeso la Conferenza dei servizi). Un vero e proprio sgarro, secondo gli emiliani, finito nei giorni scorsi davanti alla Corte Costituzionale, alla quale la Regione ha presentato ricorso per lesione del principio di collaborazione tra istituzioni e illegittima sospensione della Conferenza dei servizi. Uno strappo diventato subito tema incandescente da campagna elettorale, dopo due lustri passati a discutere di un progetto poi affossato, quello del Passante Nord: 1,3 miliardi per una bretella autostradale di 38 chilometri.

Poco più di tre anni fa Merola, dopo aver bocciato la bretella, d’accordo con i vertici locali del Pd, aveva tracciato lo spartiacque: “Dobbiamo dare vita a un piano strutturale che ha come cardine il sistema ferroviario”. La grande missione, da realizzare entro il 2030, era il potenziamento del trasporto pubblico, per fare del servizio ferroviario metropolitano un’autentica alternativa all’auto, con treni ogni 15 minuti tra città e provincia. Ma del progetto esecutivo ancora non c’è traccia, nemmeno di quello preliminare. “Dobbiamo attendere i finanziamenti dal governo”, fanno sapere dal Comune di Bologna. Così se il potenziamento ferroviario deve aspettare (mancano 500 milioni), resta in piedi, almeno per ora, il Passante, per difendere il quale Merola si è appellato non solo ai bolognesi ma anche a tutti gli emiliano romagnoli: ha infatti messo nel conto da presentare a Toninelli anche un’altra opera bloccata dal ministero, la bretella Campogalliano-Sassuolo, invocata da anni dalle imprese del distretto della ceramica modenese.

Le opposizioni, dalla Lega ai grillini, contestano a Merola l’incoerenza di aver prima scommesso sul trasporto pubblico e poi rilanciato quello privato: per loro la manifestazione sarà un flop. Merola tira dritto. “Il giusto ricorso alla Consulta promosso dalla Regione è dovuto all’arroganza e all’incompetenza di questo governo che su un progetto strategico come quello del Passante di Bologna ignora gli enti locali liberamente eletti”, ha scritto, lanciando l’appello per sbloccare gli investimenti. Incassato il via libera dai sindacati, che si sono subito schierati con lui, si prepara a un incontro sulle infrastrutture. È previsto oggi in Regione con imprese e sindacati. Incontro dal quale potrebbe venire fuori anche la data.

Ora accusano Ponti pure per il crollo di Genova

Più che un documento ufficiale da tecnico è un pamphlet polemico, il Quaderno numero 13 dell’Osservatorio sul Tav Torino-Lione di Palazzo Chigi. Lo firma l’architetto Paolo Foietta, il cui incarico (scaduto) lo metteva in teoria sopra le parti. Ma non ha mai fatto mistero di essere a favore del progetto Tav, come certificano le sue analisi costi-benefici del 2011.

“Lasciar cadere il ponte Morandi: una scelta efficiente” è il titolo del paragrafo più polemico del documento di Foietta: “Essendo morte nel crollo ‘solo’ 43 persone, per un ‘costo sociale’ di 80,41 milioni, la scelta di non effettuare manutenzioni che avrebbero richiesto un importo sicuramente superiore a questa cifra, dovrebbe essere, secondo gli estensori, giudicata una efficiente allocazione delle risorse?”. La polemica è con la commissione guidata dal professor Marco Ponti che nella analisi costi-benefici del Tav, pubblicata martedì, spiega che tra i tanti costi senza giustificazioni indicano l’investimento di 1,5 miliardi previsto dal progetto Tav per adeguare la linea storica Torino-Modane.

Ponti e i suoi colleghi fanno un’osservazione semplice: su quella linea oggi non ci sono incidenti. Negli ultimi tre anni ci sono stati tre episodi tutti senza conseguenze sulle persone. Gli standard dell’Unione europea per queste analisi prevedono di dare un prezzo a tutto, anche alla vita umana: 1,87 milioni per ogni decesso, 243.000 euro per un ferito grave. Quindi un investimento sulla sicurezza da 1,5 miliardi “risulterebbe dunque giustificato sotto il profilo dell’efficiente allocazione delle risorse solo qualora in termini probabilistici il numero di vittime di potenziali incidenti sulla linea nei prossimi decenni fosse pari a molte centinaia”.

L’ovvia differenza è che senza gli investimenti per la manutenzione il ponte di Genova è crollato, quindi la spesa per i lavori sugli stralli non si giustificava soltanto con la prevenzione delle vittime del crollo, ma anche con la mera tenuta dell’infrastruttura. Sulla linea Torino-Modane, invece, il miliardo e mezzo servirebbe soltanto ad azzerare un numero di vittime da incidenti che è già oggi zero.

Gilet Gialli, l’alleato dei 5S: ‘Paramilitari pronti contro Macron’

Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista erano andati a incontrarlo in Francia, dieci giorni fa. Ma con un’intervista a Piazza Pulita Christophe Chalencon, uno dei tanti volti della galassia dei Gilet gialli francesi, è ufficialmente diventato un interlocutore scomodo, capace di dire: “Abbiamo dei paramilitari pronti a intervenire perché anche loro vogliono far cadere il governo. Oggi è tutto calmo ma siamo sull’orlo della guerra civile”. Sillabe corredate da un lungo elogio di Di Maio: “È straordinario che il vicepremier del governo italiano non si sia fermato a Parigi, il cuore del potere, perché è venuto qui da noi. E penso che quello che ha fatto segnerà la storia della Francia. Ci ha dato un riconoscimento internazionale e ora altri ci stanno contattando, ha aperto una breccia e ha fatto tremare Macron”. Così parlò Chalenchon, che ha anche annunciato un nuovo, prossimo incontro a Roma con i Cinque Stelle, “con cui c’è un’alleanza”. E potrebbe essere un problema per il M5S di Di Maio, che questa mattina proprio nella capitale presenterà “i leader dei movimenti europei” con cui il Movimento vuole costruire un nuovo gruppo parlamentare a Bruxelles.

Luigi De Magistris: “Secessione ricchi che spacca l’Italia”

JatevenneSalvini e Di Maio non ci fanno paura. Luigi de Magistris ha chiuso in vernacolo partenopeo il suo intervento di ieri mattina al presidio in piazza Montecitorio contro il disegno di legge sull’autonomia rafforzata di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. “Io non sono contro l’autonomia, ma così si spacca il paese” ha dichiarato il sindaco di Napoli. Per De Magistris “il governo è garante dell’unità nazionale”. Non si dichiara contrario a forme di autonomia locale, ma sostiene con forza che questo provvedimento non colmerà il divario tra il Nord e il Sud ma lo peggiorerà: “Avremo risorse indirizzate verso quelle regioni tolte ad altri territori in cui si dovrebbero garantire”. Cioè meno servizi, dalla sanità all’istruzione. L’obiettivo della manifestazione non è solo il disegno di legge al vaglio del Consiglio dei ministri, prosegue de Magistris: “Italia può ripartire valorizzando tutte le autonomie. Noi siamo qui oggi anche per sfidare questo governo sull’autonomia dei territori, dei popoli e delle città”. Stefano Fassina di Liberi e Uguali è sulla sua stessa lunghezza d’onda: “Ha ragione. L’autonomia regionale differenziata determina anche un iper-centralismo regionalista che soffoca le città”.

Boeri se ne va, ma il sostituto ancora non c’è. Nuovo scontro con Visco sulle assicurazioni

L’immagine è abusata, ma rende l’idea: quella delle nomine dentro la maggioranza gialloverde è una di quelle sessioni di scacchi in cui si gioca su più tavoli. Schierano i pezzi Lega e 5 Stelle l’un contro l’altro armati, certo, ma pure giocando insieme (con significative defezioni a Palazzo Chigi tra premier e sottosegretari) contro Banca d’Italia, il Quirinale e un pezzo di establishment finanziario.

Accantonato per ora il rinnovo del vicedirettore generale di via Nazionale, Luigi Federico Signorini, all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri di ieri c’erano due questioni spinose e teoricamente non rinviabili: una non ha trovato soluzione (la nomina di un commissario per l’Inps, visto che il mandato di Tito Boeri è scaduto proprio ieri) e una sì, cioè la reintegrazione del Consiglio dell’Ivass, l’Istituto di vigilanza sulle assicurazioni che da oggi non sarebbe stato più operativo.

Partiamo da quest’ultimo, il cui blocco decisionale rischiava di causare discreti danni al settore assicurativo e attorno al quale il governo si è esercitato in una fantasiosa innovazione procedurale che è anche l’ennesimo capitolo della guerra a bassa intensità tra gialloverdi e Bankitalia. L’Istituto di vigilanza sulle assicurazioni, da qualche anno emanazione di Palazzo Koch, ha un consiglio di tre membri: il presidente è per legge il direttore generale di Banca d’Italia (Salvatore Rossi fino a maggio) e gli altri due sono proposti da via Nazionale e nominati dal governo. A fine novembre, come da prassi, Ignazio Visco ha fatto sapere al ministero competente, lo Sviluppo economico di Luigi Di Maio, di voler confermare i due consiglieri uscenti Riccardo Cesari e Alberto Corinti.

Problema: pur senza le drammatiche defaillance di quella bancaria, anche la vigilanza sul settore delle assicurazioni non è parsa troppo agguerrita e il profilo di Cesari e Corinti non risponde certo agli standard che si richiedono – per così dire – alla moglie di Cesare (il primo è stato consulente Unipol, il secondo ai vertici dell’associazione Ue delle compagnie assicuratrici).

Risultato: il rinnovo dei due è stato bloccato per mesi, tanto che oggi sarebbe scaduta anche la proroga di 45 giorni scattata il 1° gennaio. Problema: il Consiglio Ivass non può funzionare con un solo membro e la cosa può costare soldi alle imprese e denunce ai responsabili dello stallo. Il governo ha così deciso di rinnovare un solo consigliere su due: così l’Istituto può lavorare, ma si chiede un segnale di “rinnovamento” sul secondo nome a Banca d’Italia (assai irritata come l’Ania, la confindustria delle assicurazioni). Non si sa se è stato estratto a sorte, ma la scelta è caduta sui Corinti. E tanti saluti a Cesari, dunque.

Più ingarbugliata, se possibile, la situazione all’Inps: Tito Boeri si è congedato ieri dall’ente previdenziale (con un’intervista di beatificazione su Repubblica), ma non c’è ancora il suo sostituto ovvero il commissario che dovrebbe fare le veci del presidente monocratico in attesa dell’applicazione della riorma della governance di Inps e Inail prevista nel decreto su reddito di cittadinanza e quota 100 in discussione alle Camere (è previsto il ritorno di un cda di cinque membri e, forse, anche della figura di un vicepresidente, così i due partiti di maggioranza potranno marcarsi a vicenda scambiandosi le poltrone).

Come che sia, il nome del sostituto di Boeri non si trova. L’ala dura dei 5 Stelle insiste sull’economista e consulente di Luigi Di Maio al ministero del Lavoro, Pasquale Tridico, che però non piace alla Lega e neanche alla fazione “governista” del Movimento incarnata, a torto o a ragione, dal sottosegretario Buffagni. Questo lato dei gialloverdi punta – sfumata, pare, la preferita leghista Marina Calderone, numero 1 dei consulenti del lavoro italiani – su Mauro Nori, già direttore generale ai tempi di Mastrapasqua e uno dei pochi nemici di Boeri in questi anni (il che, ovviamente, non guasta).