“Sono solo Zaia e soci a guadagnarci: dopo non si torna indietro”

Comunque vada, sarà un successo. Almeno per Veneto, Lombardia e Emilia Romagna, che per come hanno chiuso l’intesa col governo sull’autonomia potrebbero contare presto su una compartecipazione sui tributi, trattenendo una parte del gettito fiscale anche al di là della spesa storica che impiega oggi lo Stato per gestire le competenze trasferite. È il meccanismo dei fabbisogni standard, a cui si aggiunge uno scudo ad hoc per le Regioni che riceveranno la compensazione dallo Stato se per caso il gettito dalle aliquote non fosse sufficiente a coprire i costi. Gianfranco Viesti, economista all’Università di Bari, più che “autonomia differenziata” la chiama “secessione dei ricchi”, nome con cui lo scorso anno aveva anche lanciato una petizione online per chiedere al governo di fermare le trattative.

Professor Viesti, dopo aver visto i contenuti dell’intesa è ancora convinto sia un disastro per l’Italia?

Sì, ed era chiaro fin dall’inizio che sarebbe andata così. Anzi, mi meraviglio che ci sia stata così poca discussione, un dibattito quasi nullo anche tra esperti del settore, come se ci fosse una sottovalutazione generale di questo processo.

L’accordo prevede grossi vantaggi per le Regioni, soprattutto in termini economici.

Questo sembra. Il meccanismo dei fabbisogni standard legati al gettito fiscale sarà gestito da un comitato esterno al Parlamento. Il governo s’è affrettato a dire che non ci saranno conseguenze sulle Regioni più povere, ma non vedo come sia possibile: se aumenti le risorse da una parte, le diminuisci dall’altra. D’altra parte il processo delle autonomie differenziate è iniziato solo per garantire più contributi a Veneto, Lombardia e Emilia Romagna.

Le Regioni si sono sempre giustificate dicendo che sarà premiata l’efficienza.

È falso, se l’intesa non cambia ci sono una serie di clausole che smentiscono in modo clamoroso questa versione. Anzi: viene detto che il totale dei fondi che le Regioni possono trattenere non ha a che vedere con la razionalizzazione virtuosa della spesa, ma resta comunque vincolato alla media nazionale del costo di quei servizi. In pratica, se la Regione è efficiente può trattenere di più, impiegando come crede i soldi e senza render conto a Roma. Altrimenti, comunque, ci sarebbe lo Stato a garantire un certo livello di finanziamento.

Due ex presidenti della Consulta hanno dubbi costituzionali su questo impianto.

Non sono un giurista, ma mi paiono dubbi ragionevoli: si mette in pericolo il principio costituzionale di solidarietà. Più che di solidarietà nazionale, però, io parlerei di diritti di cittadinanza: gli italiani devono avere uguali diritti indipendentemente da dove risiedono, così invece ci saranno cittadini di serie A e di serie B. Anche se poi il vero vantaggio lo hanno le Regioni, più che le persone.

In che senso?

Come detto, la possibilità di trattenere più soldi e di avere le spalle coperte dallo Stato dà grandi poteri e risorse alle amministrazioni, ma non è detto che per i cittadini sia automaticamente un bene se una competenza viene gestita dalla Regione anziché da Roma. Mi sembra che la sanità lombarda, per dirne una, abbia avuto qualche problemino in questi anni.

Il processo di autonomia le sembra reversibile?

Anche in questo caso mi affido a quello che mi dicono i giuristi e lo ritengo un accordo irreversibile. È un’intesa tra due parti e potrà essere disfatta soltanto per volontà di entrambi i contraenti, con un processo analogo a quello che ne ha visto la stesura. Questo concede alle Regioni una protezione fortissima in previsione futura, perché se a loro conviene non avranno alcun interesse a tornare indietro.

Che conseguenze avrà a medio termine?

Nelle Regioni del Nord, se fossi la sinistra inizierei a fare 2+2. Le due grandi bandiere della Lega erano l’autonomia e la flat tax. La prima sta per arrivare, la seconda sarebbe impossibile da realizzare in tutta Italia, a maggior ragione se i più ricchi se ne vanno, ma proprio perché a quelle Regioni sono garantiti investimenti dallo Stato anche qualora non abbiano abbastanza gettito, allora non è così irragionevole pensare a una flat tax in quelle zone.

E nel resto d’Italia?

Mi preoccupa il fatto che si stia scivolando in una contrapposizione territoriale che sarà anche sociale e culturale e che potrebbe anche rompere l’unità nazionale. Non dimentichiamoci che in Europa negli ultimi 4 o 5 anni sono successi eventi che nessuno si sarebbe mai immaginato: penso alla Brexit o al separatismo catalano. Compito di uno Stato serio dovrebbe essere governare al meglio le differenze territoriali e sociali, non aumentarle.

Il Parlamento fa il passacarte nella trattativa Stato-Regioni

Che sarebbe andata così era chiaro nel tipo di processo innescato dalla pre-intesa firmata un anno fa dal governo Gentiloni sulla base delle (pessime) modifiche costituzionali del Titolo V approvate nel 2001, ora però è ufficiale. Nella più importante riforma degli ultimi decenni, la cosiddetta autonomia differenziata, il Parlamento farà da passacarte, cioè si limiterà a dire “sì” o “no” a scelte fatte altrove e non discusse pubblicamente da nessuno. Non solo: dovrà dare il via libera (a maggioranza assoluta) a una sorta di schema che poi sarà riempito di contenuti da una commissione paritetica tra il governo e le singole regioni, soprattutto per quanto riguarda la definizione dei cosiddetti “fabbisogni standard” su cui parametrare la quantità di tributi che resteranno sul territorio rapportati ai nuovi poteri.

È vero che i gruppi parlamentari del M5S, in un dossier anticipato dall’agenzia Dire, contestano questa impostazione (e molte altre cose) chiedendo l’emendabilità del testo da parte delle Camere e che i “conti” li faccia la “Commissione tecnica per i fabbisogni standard” del Tesoro, ma i primi testi portati ieri sera in Consiglio dei ministri dicono il contrario e, soprattutto, hanno il necessario via libera delle Regioni interessate, cioè Emilia Romagna, Lombardia e Veneto.

Il (non) ruolo delle Camere in questo processo di devoluzione è scritto in modo assai chiaro nell’articolato presentato dalla ministra leghista per gli Affari regionali Erika Stefani: siccome non esiste una disciplina attuativa dell’articolo 116 comma 3 della Costituzione, sarà il governo a stringere un’intesa con le Regioni che chiedono più competenze per poi presentare una legge in Parlamento, che la approva “in conformità al procedimento, ormai consolidato in via di prassi, per l’approvazione delle intese tra Stato e confessioni religiose” sulla base dell’art. 8 della Costituzione. Quelle intese, “in via di prassi”, sono inemendabili: le Camere le approvano o respingono in blocco. Un’interpretazione ardita del rapporto tra Stato e Regioni, eppure caldeggiata in particolare da Lombardia e Veneto e fatta propria, almeno finora, dal governo: nessuna modifica senza l’ok di Zaia & C. “Queste intese sono come trattati internazionali”, innova Matteo Salvini, ma – bontà sua – “valutiamo come coinvolgere il Parlamento”. “Forse un confronto prima della firma”, innova l’innovazione Stefani.

Su questo, come su molto altro, ci sarà una dura trattativa all’interno del governo e coi presidenti di Regione (che a loro volta hanno completamente esautorato i consigli regionali). Ieri a Palazzo Chigi la Lega ha solo piazzato la sua bandierina, ma il lavoro sui testi è tutt’altro che concluso, anche se un accordo di massima è stato trovato col Tesoro: “L’approdo ai costi e fabbisogni standard partendo da una fase iniziale calcolata sul costo storico. La copertura sarà a saldo zero e le risorse sono garantite tramite la compartecipazione di imposte”. Il meccanismo è costruito in modo che aumenti di gettito restino comunque alle Regioni “autonome” (e ricche), mentre eventuali diminuzioni saranno comunque garantite da Roma: i governatori vincono sempre.

Soldi a parte, il dialogo è ancora in alto mare su parecchi punti. Il più in ritardo pare essere il ministero dell’Ambiente, a cui Lombardia e Veneto hanno chiesto oltre 60 competenze, tra cui cose come le valutazioni d’impatto ambientale e l’intero ciclo dei rifiuti: Costa ha fatto sapere che a Roma dovrà comunque rimanere un potere regolatorio e, in caso di inadempienza, sostitutivo.

Porta chiusa finora anche alle Infrastrutture: il ministero non vuole cedere la proprietà su autostrade, ferrovie e aeroporti (e i relativi introiti da concessione), come pure non piace la pretesa di controllo su quota parte dei fondi infrastrutturali regionali. Questo per non parlare di scuola (dove però il ministro Marco Bussetti è in quota Lega) e Servizio sanitario nazionale, due istituti che hanno costruito la Repubblica italiana e ora rischiano di trasformarsi – non solo nei fatti, ma anche in diritto – in 21 sistemi diversi. “No ai cittadini di serie A e serie B”, dice il report grillino, ma nel lungo periodo c’è poco da fare se le regioni più ricche riusciranno a tenersi più soldi.

Non a caso, nonostante le molte difficoltà, la ministra Stefani è felice: “Siamo consapevoli che il percorso non è concluso, ma siamo ottimisti sul risultato”. Magari ci vorrà un altro mese, ma Salvini deve portare lo scalpo dello Stato centrale a Zaia e Fontana (col dem Bonaccini spettatore interessato) se vuole continuare ad avere una Lega compatta alle sue spalle.

Matteo Pitagorico

Houston, abbiamo un problema: l’analisi costi-benefici sul Tav “non convince” Matteo Salvini. E questo è un bel guaio. I professori Ponti&C, incaricati di valutare se convenga o no bucare 60 km di montagna e spendere 13 miliardi sulla carta (più il 40% fisso per sprechi&tangenti) per una ferrovia aggiuntiva a quella che già porta merci e passeggeri fra Italia e Francia, si erano illusi che bastasse comparare la carissima offerta alla scarsissima domanda. Avevano anche sentito dire che, in tempi di ristrettezze e recessione, non conviene buttare 7-8 miliardi in un’opera inutile, con tutte quelle utili che i cittadini attendono da una vita. E si erano fatti l’idea che la spending review sia una cosa buona, vista anche la popolarità acquisita dal professor globetrotter Carlo Cottarelli, che stava addirittura per diventare premier senza un solo voto in Parlamento. Purtroppo non avevano calcolato che l’analisi costi-benefici sul Tav, come peraltro i testi delle canzoni di Sanremo e le sceneggiature di Montalbano, deve convincere Salvini. Che purtroppo non si è convinto. Quali punti, in particolare, il noto economista padano intenda contestare, non è dato sapere: vincendo la proverbiale ritrosia alle telecamere, s’è limitato a un laconico “più le merci e le persone viaggiano veloci, meglio è”. Nessuno l’ha informato che da decenni, fra Italia e Francia, le persone viaggiano velocissime sul Tgv, mentre che una merce arrivi un’ora prima o un’ora dopo a Lione non frega niente a nessuno.

Ma può darsi che il Capitano, oltre ai noti poteri taumaturgici, disponga anche di virtù medianiche e riesca a colloquiare con le rape, le patate, i pomodori, i ravanelli e le mozzarelle (soprattutto di bufala, suo ramo di competenza), apprendendo dalla loro viva voce che sulla tratta Torino-Lione adorano l’ebbrezza della velocità. Noi però, curiosi come siamo, ci interroghiamo su quale, fra le centinaia di calcoli del pool Ponti, non abbia convinto Salvini. Così abbiamo compulsato riga per riga, tabella per tabella, le 80 pagine del dossier e siamo giunti alla conclusione che a destare le sue perplessità sia quest’espressione matematica: “SO=SMx(1-d)x(1-t)”. Tutto il resto gli fila liscio come l’olio, ma “SO=SMx(1-d)x(1-t)” no: non riesce proprio a digerirlo. Perché i professori, forse insufflati da Toninelli, hanno inserito quei due segni meno, per giunta fra parentesi? Non potevano metterci due più, in nome dell’ottimismo della volontà? Gatta ci cova. E quella x minuscola, cosa vorrà mai sottintendere? Ponti non ce la racconta giusta.

Insospettito da quel linguaggio cifrato, il vicepremier-scienziato ha mandato in lavanderia il costume da poliziotto, indossato quello da Archimede Pitagorico e convocato d’urgenza i suoi migliori economisti e decrittatori: i revisori dei conti che certificarono il bilancio della Lega senz’accorgersi di 49 milioni spariti; i calcolatori umani che gli avevano garantito l’immediata espulsione di 600mila clandestini; il sottosegretario ai Trasporti Armando Siri, che ha patteggiato 1 anno e 8 mesi per bancarotta fraudolenta, quindi i numeri li mastica; e il viceministro dei Trasporti Edoardo Rixi, imputato per la Rimborsopoli ligure con richiesta di condanna a 3 anni e 4 mesi per peculato e falso ideologico per essersi fatto rimborsare dalla Regione 19.855 euro di spese private, un altro che col pallottoliere ci sa fare. Tutto inutile: “SO=SMx(1-d)x(1-t)” non ha convinto neanche quelli. Poi in soccorso è giunto, inaspettato, il prof. ing. Pierluigi Coppola, quello che è sempre stato pro Tav e dunque, a differenza degli anti, è imparziale. Ignoto al grande pubblico fino a martedì, da quando ha deciso di non firmare la relazione di Ponti+4 è una star mondiale, portata in trionfo da giornaloni e giornalini.
È lui l’Eroe che “ribalta completamente i risultati dell’indagine di Ponti” e convincerà il Parlamento “che quella di Ponti non è un’analisi oggettiva” (Repubblica). È lui l’intrepido “commissario dissidente” (Sole 24 Ore) o “prof dissidente” (Corriere della Sera), insomma il Solženicyn del buco. È lui l’impavido autore del “contro-dossier che elenca sette criticità ‘per ordine di rilevanza’” nel rapporto Ponti+4 (La Stampa) e illustra al mondo gli effetti balsamici del buco nelle Alpi. Basterà forarla un altro po’, e la montagna stillerà latte e miele: “Per Coppola i benefici supererebbero di 300 milioni i costi” (Sole 24 Ore). Anzi no, di più: “Il saldo è positivo di almeno 400 milioni” (Corriere), “Nel contro-dossier vantaggi per 400 milioni” che “potrebbero diventare 500” (La Stampa). Ma che dico, signore mie, mi voglio rovinare: “Tav, il controparere di Coppola: ‘Positiva fino a 2,4 miliardi’” (Repubblica). Gonfi d’invidia per la roba buona che si fumano questi controanalisti, capaci di passare da 300 a 400 a 500 milioni a 2,4 miliardi senza fare un plissé, andiamo a controllare cos’ha scritto Coppola nel “contro-dossier” di ben sei pagine. E scopriamo che non c’è un solo numero, una sola cifra, una sola tabella. E i 300 milioni del Sole? E i 400 che potrebbero diventare 500 di Stampa e Corriere? E i 2.400 di Repubblica? Mai citata una sola di queste cifre. C’è di tutto, perfino l’allergia del prof. ing. al calcolo delle accise (come se un governo non dovesse sapere quante tasse perderebbe lo Stato col Tav: 1,6 miliardi), ma nemmeno l’ombra di un dato. “Coppola – ammette La Stampa, prima di sparare cifre a casaccio – non ha messo numeri o predisposto tabelle”. Ah ecco. Dev’essere per questo che Salvini, fra l’analisi di 80 pagine dei cinque prof con tutti i dati e quella di 6 pagine del singolo prof senza un dato, ha scelto la seconda: i numeri gli danno l’abbiocco e si ripropongono. Come la peperonata.

Maschiettismo un virus che colpisce al cuore

Da qualche giorno in libreria “Se ami qualcuno dillo”, il primo romanzo dell’attore e sceneggiatore Marco Bonini, che in questo pezzo ci racconta che al “maschiettismo” c’è rimedio.

Mio figlio ha undici anni e adora il calcio, come il nonno, come tutti i maschi. È molto energico e in lui si intravede già una buona carica di aggressività. Per esempio: adora sua sorella, che è stata sua fedele compagna di giochi fino all’anno scorso. Oggi lei è un’adolescente e ha il diritto di diventare grande e accantonare il fratellino, che però soffre di questo primo abbandono. Io e sua madre cerchiamo di aiutarlo a gestire un’emozione per lui nuova, ma sentiamo che il piccolo maschio ha la tentazione di fare appello alla forza fisica per risolvere il problema: la frustrazione lo spinge a costringerla con la forza a giocare con lui e finiscono per litigare, tanto. L’ho sentito dire in più di un’occasione: “Io ti odio. Odio tutte le femmine”.

Diciamo che mio figlio, oggi, è solo un portatore sano di maschilismo, o maschiettismo, come lo chiama lui. Fortunatamente lo baciamo e abbracciamo sin da quando è nato come se ogni giorno fosse l’ultimo dell’umanità, dunque il suo cuoricino è ancora elastico e sa difendersi bene.

Che c’entra il cuore? Quando si parla di emozioni il cuore c’entra sempre e il maschiettismo non fa eccezione. Io lo so bene, perché l’ho visto all’opera su mio padre e me ne hanno raccontato gli effetti su suo padre prima di lui. Pensate che esageri? Mio nonno è stato stroncato nel glorioso 1968 da un arresto cardiaco a ciel sereno. Era cresciuto in un’epoca (il ventennio fascista che con dissoluta imperizia propagandava il virus attraverso irresponsabili circolari governative diffuse a mezzo stampa, radio e giornali) e in un posto (il cortile delle case popolari di un quartiere molto popolare di Roma) in cui essere maschi era una questione di vita o di morte. Documenti d’epoca dimostrano in modo incontrovertibile che Nonno era un maschilista senza se e senza ma, che evidentemente ha trasmesso con successo al suo primogenito il Primo Comandamento del maschiettismo: nun te fidà delle donne, so’ bone solo a fà li fiji.

Esposto a virulente perturbazioni del più moderno “bullismo” già in tenera età, mio padre ha covato il virus per tutta l’adolescenza fino a quando la morte prematura del padre, mio Nonno, ha scatenato la patologia. Nei miei ricordi infantili papà è sempre irascibile, autoritario, aggressivo, non mi bacia mai, non abbraccia volentieri nessuno, sorride a fatica. Ma soprattutto: papà non balla, mai, in nessuna occasione. Credo che la mia decisione di studiare da ballerino, alle superiori, non sia stata del tutto estranea a questa idiosincrasia paterna. “Che vuol dire?” obietterete voi. “Neanche mio padre balla! E allora?” Esatto, rispondo io. La patologia è infatti molto più diffusa di quanto si creda. Mio padre arrivava al punto di non riuscire neanche a pronunciare la parola “danza”. Ricordate Fonzie quando doveva dire: “Ho sbagliato”? Qualcosa di simile. (Ripensandoci, sarebbe il caso di fare uno squillo anche a Fonzie, per assicurarsi che stia bene…)

Tornando a mio padre, a cinquant’anni esatti (come suo padre) ha avuto un infarto. Brutto.

È sopravvissuto ma è stato come “resettato”, si è liberato da tutte le sovrastrutture e i condizionamenti o, come dice lui, è rinato.

Oggi mio padre non legge, non scrive, a volte fa fatica a riconoscermi, ma non solo dice di stare meglio, non solo ha cominciato a baciare, abbracciare e sorridere… balla, pure! Balla che va fermato! Balla che appena sente in lontananza due note in croce si alza in piedi e comincia a ballare, anche al supermercato, alla posta, in mezzo alla strada. Balla in modo incontinente. Balla e ride invitando tutti a fare lo stesso. Balla in modo propagandistico. Balla in modo rivoluzionario.

Sì, perché la guarigione dal maschiettismo è rivoluzionaria: debellarlo significa riconoscere il diritto inalienabile del maschio alle emozioni.

Diritto che millenni di imperialismo maschiettistico hanno vietato, alienato, calpestato e offeso, diffondendo un virus odioso che ha colpito mio nonno, mio padre e in parte anche me.

Ma che non colpirà, giuro, mio figlio.

“Uno forte come Zaniolo non l’ho mai incontrato. E ricorda Totti”

Cinquant’anni di pallone, 15 squadre allenate, dall’Inter alla sua Carrarese, dai Dilettanti all’Europa. Eppure Claudio Orrico ne è certo: “Uno così non l’ho mai incontrato”. Parla di Nicolò Zaniolo, due gol negli ottavi di Champions contro il Porto, già 14 presenze e 3 reti alla prima stagione in Serie A, una convocazione in nazionale. E ad appena 19 anni.

Un predestinato?

Uno così nasce una volta ogni vent’anni.

È di Massa, la sua stessa città.

È un rappresentante tipico della razza apuana: forte e fiera, anticonformista e anarchica. C’è un pizzico di tutto questo in Nicolò: ha potenza, fantasia, talento.

Chi le ricorda?

Che domande: Francesco Totti. È destino: i romanisti erano ancora vestiti a lutto ché il padreterno commosso dalle loro lacrime gli ha mandato un nuovo campione.

Paragone quasi blasfemo a Roma: così simili?

Il ciuffo è quello, la classe pure. Poi ci sono differenze: Totti era talento allo stato puro, con una struttura fisica di prim’ordine che usava poco, con la sua romanità un po’ strafottente. Zaniolo non arriva a quelle vette tecniche ma è ancora più potente e concreto: ha mantenuto lo spirito della sua terra.

Mezzala, trequartista, esterno: qual è il suo ruolo ideale?

Come Totti, che agli esordi veniva impiegato in fascia, dovrà spostarsi al centro: deve giocare sulla trequarti, dietro la punta, per fare assist e gol che sono merce rara, come il talento.

Qualcuno vorrebbe dargli persino la maglia che fu del capitano.

Gliela porteranno presto a casa. E non solo quella della Roma, pure quella azzurra…

Quanto può essere importante per la nazionale?

L’Italia ha sempre avuto grandi campioni, poi c’è stato un periodo buio che non a caso è coinciso con pessime figure. Abbiamo bisogno di Zaniolo e di altri come lui.

Di giovani talenti che però in Serie A non giocano.

La sua esplosione è anche una lezione per il nostro calcio e in generale per la nostra società, così refrattari a dare spazio ai giovani: ma i ragazzi bravi, come lui, Meret o Barella, ci sono.

Applausi per Di Francesco…

Qualcuno lo critica, ma i limiti ce li ha la squadra che prende gol ridicoli, o la società che vende i migliori, non lui. Di Francesco è un buon allenatore e fa pure giocare i giovani, quindi è bravo due volte. E non dimentichiamo Mancini: anche lui ha avuto un ruolo fondamentale, convocandolo quando non lo conosceva nessuno.

Invece la colpa è di Spalletti e dell’Inter che non sono stati in grado di riconoscere il campione.

Non si può ragionare col senno di poi, con i giovani è facile commettere errori di valutazione: quanti ce ne sono di casi così? E poi l’Inter è la società più complicata d’Italia, lì fare la scelta giusta è ancora più difficile: l’anarchia regna totale dai magazzinieri ai dirigenti, io ho sempre detto che c’è un virus ad Appiano Gentile.

Ora se lo gode la Roma, ma i tifosi giallorossi già tremano per una possibile cessione.

Spero di no, se lo vendono scoppia la rivoluzione. Anche per lui la cosa migliore è rimanere, deve fare come Totti. Non è romano, ma non lo erano nemmeno i grandi imperatori di Roma: può diventare il nuovo simbolo della città.

Da concittadino e maestro di calcio, che consiglio gli dà?

Di ricordarsi da dove viene, come è cresciuto: tenere a mente le immagini della sua terra, la fatica dei cavatori, lo spirito dei portuali, e non farsi accecare dal calcio hollywoodiano di oggi. Così e con quel talento il successo è assicurato.

Soldi, Wanda e il clan croato: Icardi e l’Inter diventano soap

Un capitano degradato sul campo non è cosa di tutti i giorni. L’ultima degradazione illustre, prima di quella avvenuta ieri all’Inter, con un vero e proprio coupe de theatre, ai danni del suo condottiero Mauro Icardi, fu quella decisa ai danni di Terry, capitano dell’Inghilterra, dall’allora c.t. Fabio Capello. Era il febbraio del 2010 ed era esploso lo scandalo-sexy di Terry, difensore del Chelsea e della nazionale, sposato con Toni ma amante di Vanessa Perroncel, che però era anche la fidanzata di Wayne Bridge, compagno di Terry al Chelsea, poi passato al City.

Insomma: deve succedere qualcosa di veramente grave perché una società arrivi a degradare pubblicamente il proprio capitano, eppure l’Inter lo ha fatto ieri con un laconico tweet postato alle 11:34: “Il Club comunica che il nuovo capitano della squadra è Samir #Handanovic#FCIM”. Punto e a capo.

“È una presa di posizione netta, rigida – commenta Aldo Serena, l’attaccante che nell’Inter giocò per sette stagioni, negli anni 80, vincendo lo scudetto dei record di Trapatrtoni –, ma credo si possa dire che in società è iniziato un nuovo corso: in un certo senso, Marotta ha portato la Juve all’Inter. Due anni fa punì pubblicamente Bonucci per un ammutinamento ad Allegri, oggi toglie i gradi di capitano a Icardi. Punizione tremenda. Ma che fissa alcuni precisi paletti”.

Riannodiamo i fili. Estate 2018: anche se il tutto avviene sottotraccia, con una clamorosa trattativa, confermata poi da Paratici (“stavamo facendo esplodere la bomba”) e da Wanda Nara, moglie e procuratrice di Maurito, Juve e Inter trattano il clamoroso passaggio di Icardi alla Real Casa.

Non se ne farà niente: la suggestione CR7 avrà la meglio su Andrea Agnelli ma il primo a non essere convinto di compiere il passo è proprio Icardi.

“E quello – considera Serena – è stato il momento in cui tutti hanno sbagliato: Icardi, Wanda e l’Inter. Era estate, la trattativa avviata dal club autorizzava Mauro a chiedere con validi motivi un adeguamento del suo ingaggio e la richiesta non avrebbe disturbato nessuno. Di soldi si doveva discutere allora, oppure a stagione finita. Invece, in un club che da anni è una potenziale polveriera, Wanda ha cominciato a battere cassa e non ha più smesso; ed è passata l’immagine di un capitano che pensa solo a se stesso. Ma la fascia da capitano non è un pezzo di stoffa, è soprattutto comportamenti. Insomma, la fine della storia non mi sorprende: non poteva andare avanti così”.

Wanda Nara, moglie e procuratrice di Icardi, è ospite ogni settimana a Tiki Taka, tv Mediaset, dove oltre a battere sul chiodo dell’ingaggio inadeguato del marito (Icardi guadagna 4,7 milioni netti l’anno, tanti ma pochi se paragonati alla top ten della Serie A dove, Ronaldo a parte, a quota 6 troviamo Donnarumma, Khedira, Douglas Costa, Pjanic e a quota 5 persino Emre Can), va spesso a ruota libera dicendo cose che mettono in difficoltà ora la società (“Il rinnovo di Icardi? Preferisco l’arrivo di uno che metta 5 palloni buoni”), ora l’allenatore (“Lautaro dovrebbe giocare di più, c’è amicizia tra lui e Mauro”), ora i giocatori (“Perisic gioca male perché ha problemi personali”).

Sono in molti a non gradire, a cominciare dal clan dei croati: Perisic è stato costretto ad affrontare a muso duro Icardi e Brozovic, ieri, ha trascorso il suo tempo a mettere like a tutti i tweet, societari e non, che parlavano della degradazione di Icardi. “E anche questo non va bene – commenta Serena –, l’Inter dovrebbe degradare, o punire, anche Brozovic: avanti di questo passo c’è l’anarchia”.

Morale della (brutta) favola: Icardi non è più il capitano dell’Inter e oggi non sarà in campo a Vienna per la partita di Europa League contro il Rapid. “Io l’avevo convocato ma lui non ha voluto venire”, ha sparato la bomba Spalletti spargendo sinistri presagi sul futuro nerazzurro di Maurito.

“Quella presa è stata una decisione difficile e dolorosa, ma condivisa da tutte le componenti societarie”, ha spiegato l’allenatore che dopo Totti ora non dorme la notte per Icardi. Riuscirà a rimettersi in gioco, Maurito? “È nel suo interesse – conclude Serena –, lo ha già fatto in passato come dopo lo scontro con i tifosi a Sassuolo. Detto questo, con la clausola fissata a 110 milioni e valida solo per l’estero, non escludo di vederlo l’anno prossimo in Premier League. Avete presente le montagne di gol che segna Aguero nel City? Be’, Icardi può farne di più”.

E al suo posto? Il problema, forse, non sarà più nemmeno di Spalletti. Ma di Marotta e Conte.

Il peggior San Valentino della mia vita

14 febbraio, che sventura: morti, peste… Chi ha detto che il 14 febbraio, giorno di San Valentino dedicato agli innamorati, debba essere un giorno di festa? La storia è piena di ‘14 febbraio’ in cui, mentre gli innamorati si scambiavano lettere d’amore, il resto del mondo affrontava tragedie terribili.
Lo stesso San Valentino fu ucciso proprio il 14 febbraio 273, torturato e decapitato dai romani: il primo san Valentino della storia è una sciagura. Andando avanti, il 14 febbraio 1349 furono sterminati a Strasburgo 2000 ebrei sospetti di aver diffuso la peste: va’ a parlargli di San Valentino…; nel 1779 fu trucidato l’esploratore James Cook; nel 1929 Al Capone compì la ‘Strage di san valentino’; nel 1945, un bombardamento rase al suolo la città tedesca di Dresda; nel 2004, a Mosca, il crollo di un parco acquatico uccise 25 persone; e se siete di quelli che odiano il mondo iperconnesso, il 14 febbraio 2005 nasceva Youtube. Insomma, se non avete voglia di festeggiare il 14 febbraio c’è davvero bisogno di aggiungere altre ragioni?

Traffico di influenze, pm chiede il giudizio per Luca Barbareschi

Luca Barbareschi, direttore artistico del Teatro Eliseo di Roma, finirà davanti al giudice se sarà accolta la richiesta di rinvio a giudizio. Infatti la Procura di Roma l’ha chiesta per lui, per l’ex ragioniere di Stato Antonio Monorchio e per Luigi Tivelli, già consigliere parlamentare e giornalista, per il reato di traffico d’influenze. Secondo il pubblico ministero Giuseppe Cascini, che ha chiuso le indagini lo scorso settembre, Barbareschi con l’aiuto di Monorchio, suo genero, avrebbe promesso a Tivelli 70 mila euro e previsto l’assunzione con un contratto a tempo indeterminato di sua figlia Giulia alla Casanova, casa di produzione nata dalla volontà dell’attuale direttore dell’Eliseo, affinché l’ex consigliere facesse pressioni per ottenere un finanziamento di 4 milioni di euro per la stagione teatrale 2017-2018 presso “pubblici funzionari del ministero dell’Economia”, come riporta il capo d’imputazione. La richiesta poi ebbe un iter travagliato, anche se finì per lievitare fino a otto milioni. Dopo il ritiro dell’emendamento dal Milleproroghe a gennaio 2017, poi ritirato, rispuntò nella manovra correttiva di Bilancio e la cifra venne stanziata al di fuori del Fondo unico per lo spettacolo.

“Pagate per i negri di m…”: insulti ai genitori adottivi di un ragazzo di colore (che persero una figlia)

“Italiani, pagate per questi negri di merda”. La frase è comparsa sui muri accanto alla casa di Melegnano (in provincia di Milano) dei coniugi Pozzi, che da tre anni hanno accolto in famiglia Bakary, un giovane senegalese di 22 anni sbarcato con un gommone a Lampedusa nel 2014 e in possesso di permesso umanitario.

Angela Bedoni e Paolo Pozzi non hanno dubbi sul fatto che la frase sia rivolta a loro, che pure in Bakary hanno trovato parziale sollievo dopo il dramma della morte della figlia piccola, avvenuta nel 2004: “Non avrei mai pensato – si rassegna Angela – che il clima di odio contro gli immigrati colpisse la mia famiglia”. Bakary è per altro integrato da tempo nella comunità di Melegnano, dove sta cercando di conseguire il diploma di terza media e dove fa parte della squadra locale di Atletica leggera, specialità in cui si è distinto negli ultimi due anni vincendo per due volte il titolo di campione italiano nel circuito Csi (Centro sportivo italiano).

Per questo i due genitori sono ancora più amareggiati: “È un ragazzo fantastico, molto integrato, siamo rimasti veramente increduli. Lui non ha mai avuto problemi di questo genere in precedena e Melegnano è conosciuta per essere aperta e solidale. Ma questo, forse, è il segno dei tempi”. Alla famiglia è arrivata la solidarietà del sindaco di Melegnano Rodolfo Bertoli e oggi incontreranno il primo cittadino nella sede del Comune. L’episodio è stato subito denunciato ai carabinieri della stazione locale, che hanno avviato le indagini per rintracciare i responsabili, con cui Angela vorrebbe parlare al più presto: “Vorrei solo guardare negli occhi chi ha scritto queste cose. Mio padre, dopo essere stato partigiano, fondò gli scout nel Sud di Milano. Ci insegnò valori ben lontani da gesti simili”.

“La Rai non chiuda ‘Il Paradiso delle signore’”: sit-in di attori e lavoratori in viale Mazzini

Un centinaio di persone contro la chiusura della soap opera della Rai Il Paradiso delle Signore – così si intitola la fiction in onda da due stagioni in onda nel pomeriggio di Rai1 – che potrebbe non avere una terza stagione. Così lavoratori e attori si sono radunati ieri mattina davanti la sede storica romana di viale Mazzini per protesta contro l’intenzione dell’azienda di non dare il via libera ai nuovi “ciak”. Tra gli attori presenti, Francesco Maccarinelli, Enrica Pintore, Giorgio Lupano, Alessandro Tersigni, Rossi, Federica De Benedettis, Marta Richeldi e Alice Torriani.

Nel corso del sit-in, i manifestanti hanno presentato una petizione indirizzata alla direttrice di Rai1, Teresa De Santis, al presidente della Rai, Marcello Foa e alla responsabile di Rai Fiction, Eleonora Andreatta.

“Il Paradiso ha bisogno di voi”, hanno scritto alcuni lavoratori sul profilo Facebook dedicato alla trasmissione. Partita intorno al 9% di share, arrivata a toccare anche il 15%, la fiction non è stata ancora rinnovata per la seconda stagione. Dalla Rai confermano: “Non è stata ancora presa una decisione. Questa spetta ai vertici e arriverà al termine di un’analisi complessiva delle produzioni, su basi economiche ed editoriali”.