Via al processo per l’omicidio di Pamela. La madre: “Non può essere stato soltanto Oseghale”

Aria tesa ieri mattina dinanzi al Tribunale di Macerata per la prima udienza del processo in Corte d’Assise (presieduta da Roberto Evangelisti) per la morte di Pamela Mastropietro, la diciottenne fuggita dalla comunità di recupero per tossicodipendenti Pars di Corridonia e uccisa il 30 gennaio del 2018. Il corpo ritrovato in periferia dentro due trolle. Unico imputato per violenza sessuale, omicidio volontario e occultamento e vilipendio di cadavere, il trentenne nigeriano Innocent Oseghale. L’uomo, arrivato su un blindato, jeans e felpa blu per bocca del suo avvocato, Simone Matraxia, continua a ripete di non averla né violentata né uccisa: ”Per noi Pamela è morta per intossicazione acuta da stupefacenti e non per le coltellate”. Per la pubblica accusa, invece, il suo corpo sezionato sarebbe stato lavato proprio sulla terrazza di casa di Oseghale. I manifestanti, circa una decina arrivati da Roma con striscioni e palloncini colorati, sono stati allontanati dalle forze dell’ordine mentre gridavano: ”Ci mandano via perché arrechiamo disturbo all’ordine pubblico. Questo è razzismo”.

Non crede che sia stato solo Oseghale a uccidere la figlia Alessandra Verni, la madre di Pamela, che invoca il massimo della pena. In Aula anche il sindaco di Macerata, Romano Carancini e il proprietario della casa di via Spalato 124 dove Pamela è stata uccisa, entrambi costituitisi parte civile. Durante l’udienza, durata 5 ore, in cui sono state fissate anche le prossime date a partire dal 6 marzo, 13, 20 e 27 per proseguire il 3 e 24 aprile, l’8 e il 15 maggio, la Corte ha respinto tutte le eccezioni della difesa sull’ammissibilità di accertamenti. Ammessi, invece, 50 testimoni fra cui il pentito Vincenzo Marino che afferma di aver ricevuto da Oseghale la confessione dell’omicidio e anche i due nigeriani, Lucky Desmond e Lucky Awelima, inizialmente indagati, poi la Procura ha chiesto l’archiviazione.

Tutti assolti: colpo di spugna sul “secondary ticketing”

Il fatto non sussiste. Con questa formula il giudice per le indagine preliminari di Milano Maria Viciodomini ha assolto i quattro imputati che al processo per il secondary ticketing– il bagarinaggio ai tempi del web – avevano scelto il giudizio abbreviato. Si tratta di Roberto De Luca e Antonella Lodi e le due società di cui sono titolari, Live Nation Italia e Live Nation 2. Sono stati prosciolti con sentenza di non luogo a procedere gli altri quattro incriminati che invece avevano scelto il rito ordinario, Domenico D’Alessandro e la sua società Di Gi, l’amministratore del sito Viagogo Charles Stephen Roest, Corrado Rizzotto, amministratore del sito per la vendita di biglietto on line Vivo e la stessa società Vivo.

Le ipotesi di reato per i nove imputati erano aggiottaggio e truffa, realizzati attraverso l’acquisto e la rivendita di biglietti per concerti sui canali secondari a prezzi maggiorati anche di dieci volte, come nel caso delle esibizioni di Bruce Springsteen allo stadio Giuseppe Meazza di Milano in occasione del suo “The River Tour” nel luglio 2016 e quelle – sempre meneghine – dei britannici Coldplay nel 2017. Appena alle 10 del mattino del 7 ottobre 2016 sul sito TicketOne.it si aprì la vendita dei 140 mila biglietti disponibili per la data di Chris Martin e soci del 3 luglio a Milano, vennero letteralmente razziati nel giro di pochi minuti. L’inchiesta si era concentrata sull’eventuale bagarinaggio elettronico riguardante gli eventi live tra il 2011 e il 2016, che avrebbero permesso ricavi superiori al milione di euro.

Le indagini erano partite da un esposto presentato nell’aprile 2016 da Claudio Trotta, uno dei più longevi promoter di concerti in Italia (ha fondato la sua società, la Barley Arts, nel 1979). Promoter dal pedigree di peso, avendo portato sui palchi italiani artisti come Kiss, AC/DC, Van Morrison e Aerosmith, organizzato a cavallo tra gli Anni 80 e 90 festival come il Monsters of Rock e, in tempi più recenti, il musical sui Queen We Will Rock You, Trotta ha lanciato la piattaforma “No Secondary Ticketing” il 26 gennaio 2016 per stilare delle linee guida per tutta la filiera della musica dal vivo coinvolgendo tra gli altri artisti, promoter e la Siae.

Come funziona questo “mercato nero” dei biglietti? Si può prendere a esempio sempre il caso dei Coldplay. Lo stesso 7 ottobre 2016 il Codacons, che presentò un esposto alla procura di Milano 24 ore dopo, in una nota spiegò che gli utenti prima venivano messi in attesa senza riuscire ad acquistare i biglietti nemmeno dopo. “L’unica soluzione sarebbe acquistarli dagli altri rivenditori online. Sul sito Viagogo si sale vertiginosamente fino all’assurda cifra di 1780,94 euro per l’ambito anello rosso, ovvero 16 volte la cifra originale”, che era di 109 euro, scrisse l’associazione. I soggetti interessati ad acquistare grandi quantità di biglietti riescono a farlo tramite dei software automatici, i bot, che li comprano dalle “biglietterie” del mercato primario – in Italia gestito da TicketOne che dal 2002 ha l’esclusiva della vendite di biglietti online – e li piazzano sul mercato secondario a un prezzo anche spropositato. Confidando nel gran numero di fan disposti a pagare qualsiasi cifra per vivere l’esperienza del concerto del loro artista preferito.

Studente di Padova ricorda Jerry Prince. Fastidio leghista

“La differenzatra Jerry Prince e me è che lui è morto, io sono vivo e posso andare in Erasmsus”. Il presidente del Consiglio degli studenti dell’università di Padova Alberto Rosada, nel suo discorso alla cerimonia d’inaugurazione dell’anno accademico, ha ricordato il 25enne nigeriano morto suicida gettandosi sotto un treno dopo il respingimento della sua domanda d’asilo. Le parole contro il razzismo dello studente di Storia hanno suscitato però anche disapprovazione. L’assessore allo Sviluppo economico della Regione Veneto, il leghista Roberto Marcato, non ha trattenuto un gesto di fastidio, poi ha criticato l’intervento di Rosada: “È stato un discorso politico del tutto inadeguato per la situazione. Se uno vuole fare politica si candidi, monti un palco e faccia i suoi comizi”. Il giovane rappresentante studentesco patavino ha anche dato voce alle difficoltà dei suoi coetanei “ad appropriarsi del futuro, ma anche del presente”, delle crescenti diseguaglianze e “della scarsa considerazione dell’università, una violazione del diritto allo studio”. Oltre a Prince, Rosada ha voluto ricordare anche Antonio Megalizzi, Valeria Soresin e Giulio Regeni.

Metti un sovranista al luna park: Frittelle d’Italia (a Mantova)

Dimenticate il premio Strega, i tortelli alla zucca, i Gonzaga. A Mantova c’è qualcosa di meglio. La genialità più autentica e sorprendente risiede altrove e più precisamente nel genio incomparabile del consigliere comunale di Forza Italia, Luca De Marchi, anni 57, tatuaggi sparsi e un’evidente passione per bilancieri e lampade abbronzanti, lampade che dimostrano ancora una volta l’allarme lanciato dai medici: i raggi uva fanno male. Molto male.

Lo Schwarzenegger del mantovano infatti, sull’onda della propaganda anti-immigrati, due giorni fa ha pensato bene di lanciare una simpatica iniziativa: il 15 febbraio, nel luna park di Mantova, distribuirà frittelle gratis ai bambini italiani. Ai bambini stranieri no. Non è neppure ben chiaro se i bambini stranieri potranno avere frittelle pagando o, vista la loro provenienza, tentando con il baratto: che so, una frittella in cambio di un bongo, un acchiappasogni, una lancia d’avorio.

A chi in un primo momento gli ha chiesto spiegazioni pensando a una boutade, De Marchi ha risposto beato: “Sarò presente allo stand presso il luna park per la distribuzione di frittelle, dolce tipico della tradizione mantovana, destinato solo ai bambini italiani. Puntiamo lo sguardo sulle famiglie extracomunitarie che godono di agevolazioni, mentre le famiglie mantovane devono rinunciare ai momenti di svago con i figli perché subissate di pensieri”. Insomma, siccome gli stranieri sono già ricoperti d’oro e i loro figli hanno il tenore di vita di Nathan Falco Briatore, leviamogli le frittelle.

Immaginate che bella scena venerdì pomeriggio al Luna Park allestito vicino a Palazzo Te: frittelleeeeee frittelleeeeee gratis! Venghino bambini venghino! Tu no bambino, sei somalo, quindi siediti su quella panchina e mangiati il tuo cous cous!”. “Ma in Somalia non ho mai visto cous cous!”. “E certo, perché tuo padre ha un iPhone e i vestiti firmati, mangiavate solo caviale!”. “Cos’è il caviale?”. “Vabbè se tuo padre non ti ha ancora imparato l’italiano, poi non ti lamentare se non mangi frittelle gratis!”.

Immaginate i bambini italiani che si mettono nella “fila giusta” di triste memoria, che si strafogano di frittelle, che salgono sulle giostre con le mani unte di fritto mentre i bambini stranieri guardano muti o lanciano palline nelle vasche dei pesci rossi. Nel frattempo, lo Schwarzenegger mantovano gonfia i suoi pettorali perché i bambini mantovani hanno fatto bene alla sua propaganda becera. Perché ha ottenuto qualche voto in cambio di un po’ di grassi saturi.

Del resto, la storia di De Marchi non poteva suggerire nulla di meglio: nasce leghista, poi siccome desidera migliorarsi umanamente approda a CasaPound. Viene cacciato da CasaPound perché, inaspettatamente, dichiara di voler partecipare al Gay Pride di Mantova e Casa Pound replica “De Marchi predilige ancora una volta la ricerca di visibilità personale alla condivisione di intenti”. In pratica, perfino CasaPound, quella con il vicepresidente Simone Di Stefano che strappa la bandiera dell’Ue per sostituirla con quella italiana e viene condannato, gli dà del mitomane. Un record. A quel punto, sempre coerente col suo percorso di miglioramento umano, De Marchi entra in Fratelli D’Italia, da cui con cotanto curriculum viene accolto a braccia aperte e con conferenza stampa festante. Nel suo ruolo di consigliere comunale si fa riconoscere per le iniziative sobrie, quali la richiesta dell’esercito a Mantova o quella di suonare l’Inno di Mameli all’inizio di ogni consiglio comunale. Sulla sua pagina Facebook invece si fa riconoscere per i contenuti lucidi, come la sua foto da bambino biondo e la didascalia “Che bel ariano classe 1961” (scritto così, perché prima gli italiani sì, prima l’italiano mai). La sua fidanzata – quando si dice “affinità elettive” – su Facebook ha la foto profilo con le statue di cera di Hitler e Mussolini.

Ora, è chiaro che De Marchi ha capito che dopo la vicenda dei bambini stranieri esclusi dalle mense, farsi propaganda sulla pelle dei minori avrebbe garantito un risultato mediatico notevole. Peccato gli sia sfuggito il concetto di discriminazione razziale. Ed è così che dopo CasaPound perfino Giorgia Meloni ieri l’ha cazziato: “Mi dissocio nella maniera più categorica dall’iniziativa presa dal consigliere de Marchi a Mantova, che lede l’immagine di Fratelli d’Italia. Il consigliere la annulli immediatamente e porga scuse”.

Mentre pensa di proseguire il suo percorso umano forse approdando a Forza Nuova o fondando il partito “Frittelle d’Italia”, De Marchi a quel punto fa marcia indietro e dice che voleva solo lanciare una provocazione politica, annulla tutto. Anche perché questo nessuno l’ha detto, ma De Marchi ha un figlia che ha sposato un ragazzo iraniano e dunque una nipote non proprio ariana, come direbbe lui.

Lo chiamo al telefono e gli domando se mentre lanciava questa iniziativa, pensava a sua nipote, che sarebbe rimasta senza frittelle. “Senta, chi mi conosce sa come sono, mia nipote non è da strumentalizzare”, replica. Gli chiedo anche se si rende conto che gli stranieri venerdì non avrebbero portato i bambini al luna park per evitare l’umiliazione. “E vabbè, qualcuno sarebbe rimasto a casa, ma chi fosse passato di lì si sarebbe accorto che le frittelle c’erano per tutti”. Infine, gli domando se sia il caso di pubblicare la sua foto da bambino biondo e la scritta “bel ariano”. “Su Facebook mi piace scherzare, comunque sono stato frainteso su tutto”.

Frainteso, certo. Fatto sta che fare marcia indietro è complicato. Ormai la frittata, più che la frittella, è fatta.

Articolo 21: “Questa indagine è stata un fiasco totale”

“Diciamola come sta: un fiasco totale. L’unico risultato concreto ottenuto dalla Procura di Roma è stato la condanna di un innocente”. Così l’associazione “Articolo 21” commenta la richiesta di archiviazione nell’ambito dell’indagine sull’omicidio di Ilaria Alpi. “Ci auguriamo – continua l’associazione – che la richiesta non sia accolta e comunque il prossimo 20 marzo, nel corso della iniziativa già fissata alla Camera dei deputati, torneremo a chiedere che sia compiuto ogni sforzo per arrivare alla verità. La stessa Commissione speciale sulle ecomafie potrebbe da subito tornare sui traffici di allora tra Italia e Somalia, sulle denunce di Ilaria, sui depistaggi e le omissioni”. Sul caso è intervenuto anche Giulio Vasaturo, legale di Fnsi, Ordine dei giornalisti e Usigrai, parti civili nell’indagine: “Impugneremo la richiesta di archiviazione – ha dichiarato –. È inaccettabile che i servizi segreti si rifiutino di indicare le generalità di una fonte che può rivelarsi determinante per risalire alla verità. È sconcertante il rilievo secondo cui è stato impossibile per l’Aisi acquisire il consenso della fonte, ai fini della collaborazione con la giustizia italiana. Cotanta premura, assolutamente irrituale, è l’ennesima anomalia”.

Ilaria Alpi, il segreto di Stato ostacola ancora le indagini

C’è un sigillo sul caso Ilaria Alpi. Ed è quello del segreto di Stato. A distanza di 25 anni dalla morte della giornalista del Tg3 – uccisa assieme all’operatore tv Miran Hrovatin in un agguato il 20 marzo 1994 a Mogadiscio – ancora non si riesce a svelare la fonte confidenziale che accese i fari anche su presunti collegamenti con il traffico di armi.

Il motivo? La fonte degli 007 è irreperibile. Non si trova. E quindi non può dare il consenso, già negato in passato, di essere sentito come testimone nell’indagine sulla morte della giornalista. Lo ha comunicato agli inquirenti – con una lettera riservata del 6 giugno 2018 – “l’Agenzia informazioni e sicurezza interna (…)” in cui “ha espresso la volontà di continuare ad avvalersi della facoltà di non rivelare la generalità della risorsa fiduciaria”.

È uno degli elementi che emerge nell’atto della Procura di Roma che, per la seconda volta, ha chiesto l’archiviazione nell’indagine sull’omicidio. Ma la partita non è finita. Perché l’Unione sindacati giornalisti Rai (Usigrai) – parte civile nell’inchiesta romana – proprio sul segreto di Stato intende sollevare la questione di costituzionalità: quella testimonianza, spiega l’avvocato Giulio Vasaturo, è necessaria per capire se ci sono collegamenti con l’indagine su traffici d’armi e rifiuti tossici che la Alpi stava conducendo in quel momento. Intanto i magistrati ribadiscono che non ci sono elementi per parlare di mandanti italiani: “Mai è emerso il sospetto che ‘italiani’ avessero eseguito materialmente l’omicidio” e l’assenza di nostri militari per le strade di Mogadiscio il giorno dell’agguato costituisce “un dato incontrovertibilmente pacifico”, scrivono i pm capitolini nella richiesta di archiviazione. “La tesi della responsabilità ‘degli italiani’ fu più volte prospettata e indagata nel corso degli anni ed è sempre risultata priva di concretezza”, continuano.

Così il fascicolo continua a rimanere contro ignoti anche dopo le ulteriori indagini volute dal gip Andrea Fanelli lo scorso 26 giugno, quando a Roma sono arrivati nuovi elementi. Ossia la trascrizione di una intercettazione del 21 e 23 febbraio 2012 tra due cittadini somali – inviata dai magistrati di Firenze ai colleghi romani –, in cui si afferma che Ilaria “è stata uccisa dagli italiani”. Le conversazioni erano contenute in un nota della Finanza di Firenze, datata 2012, che ci ha messo quasi 5 anni per arrivare nella capitale. “Un semplice errore nella trattazione del fascicolo”, il “frutto di un fatalità” secondo il pm Elisabetta Ceniccola. In questi atti sono contenute le intercettazioni di Mohamed Geddi Bashir, che vive in Italia dal 1993. È l’uomo che consegna “per conto del ‘governo somalo’” 40 mila dollari all’avvocato Douglas Duale, “quale anticipo della più consistente somma di 200 mila dollari per la difesa di Hashi Omar Hassan”, l’unico condannato come esecutore materiale e poi assolto definitivamente in un processo di revisione. In queste conversazioni Mohamed Geddi Bashir “si mostrava a conoscenza (…) della responsabilità ‘degli italiani’”.

L’uomo è stato sentito nel corso delle nuove indagini chieste dal gip e ha ammesso di aver portato il denaro per la difesa di Hashi. Sul riferimento agli italiani ha detto: “Ho esternato la mia opinione, che era quella dei miei connazionali (…) Era il prodotto di dicerie che sentivo”. Il suo interlocutore non è stato trovato. È stato invece sentito l’avvocato Duale: ha confermato di aver ricevuto quel denaro da Mohamed Geddi Bashir nel 2012 come retribuzione della difesa di Hashi. Denaro che, ha spiegato il legale, non proveniva dal governo somalo bensì dalla “famiglia allargata” di Hashi: “Si tratta della famiglia Abdallah-Arrone, che sarebbe il sub clan di Hashi che appartiene alla tribù degli Abgal. (…) Potremmo paragonare le dimensione del clan Abgal all’intera Campania, insomma ammonta a un milione e mezzo di persone”. Quei soldi, ha aggiunto il legale, servivano per esempio per pagare il viaggio di alcuni testimoni sentiti durante uno dei processi.

Dopo aver approfondito questo nuovo capitolo, i magistrati ritengono che non sia emerso nulla di nuovo: “Sono elementi (…) privi di consistenza” scrivono i pm romani. E non ha aiutato di certo quel segreto di Stato. Così in undici pagine si chiede di archiviare uno dei più grandi misteri italiani.

Mafie in Italia, i nuovi boss sono sempre più giovani

La mafiaè sempre più giovane. Cala di molto l’età media dei boss. Non c’è solo la paranza dei bambini a Napoli. La nuova tendenza della criminalità organizzata attraversa le mafie di tutto lo stivale, con il sempre più cospicuo reclutamento tra minori ed adolescenti, una “vera e propria deriva socio-criminale”. Il racconto delle 514 pagine della Direzione investigativa antimafia sull’attività del primo semestre 2018 sottolinea che le mafie continuano a rinforzarsi attingendo a “soggetti sempre più giovani, impiegati in professioni poco qualificate o senza occupazione nella fascia più giovane, quella tra i 18 e i 40 anni”. Risultato: il “rapido diffondersi di episodi riprovevoli e violenti commessi dalle baby gang”. Secondo le analisi confluite nella relazione al parlamento, negli ultimi 5 anni si sono registrati casi di ‘mafiosi‘ con un’età tra i 14 e i 18 anni, gli appartenenti alle cosche tra i 18 e i 40 anni hanno raggiunto numeri quasi uguali a quelli della fascia tra i 40 e i 65 anni e, in un caso, lo hanno anche superato (nel 2015 i denunciati e gli arrestati per 416 bis sono stati 5.437 di cui 2.792 tra i 18 e i 40 anni e 2.654 tra i 45 e i 60).

Estradizioni, si riparte dal caso dimenticato

Per oltre sedici anni la gran parte delle richieste di estradizione arrivate nel 2002 dall’Italia per ex protagonisti della lotta armata degli Anni 70 e 80 sono rimaste al ministero della Giustizia di Parigi. Non sono mai state inoltrate all’autorità giudiziaria chiamata a valutarle prima della decisione politica. Perciò i responsabili del ministero della Giustizia italiano, che dopo la consegna di Cesare Battisti hanno riaperto tutti i fascicoli, ieri nell’incontro a Parigi con i loro omologhi della place Vendôme hanno chiesto di sottoporre le istanze italiane ai magistrati. Sembra ovvio e non lo è. I francesi si sono impegnati a farlo, non era mai successo.

Le vecchie richieste sono otto. E se ne sono aggiunte almeno altre due. Una, salvo errore, mai presentata: riguarda Raffaele Ventura, varesino, classe 1949, ex ell’Autonomia operaia, poi realizzatore di film e documentari, che ha un cumulo di pene – sempre salvo errore – di 24 anni, risultato di condanne per banda armata e reati associativi ma anche (sette anni) per concorso nell’omicidio del vicebrigadiere di polizia Antoniò Custrà, ucciso a 22 anni il 14 maggio 1977 in via De Amicis a Milano durante un corteo. Due giorni prima a Roma, in un altro corteo, era stata uccisa la diciottenne Giorgiana Masi, presumibilmente da tiratori delle forze dell’ordine.

L’altra riguarda Narciso Manenti, 61 anni, oggi titolare di un’impresa di servizi a domicilio a Châlette sur Loing (Loira), ex dei “Nuclei armati per il contropotere territoriale”, condannato all’ergastolo per l’omicidio del carabiniere 50enne Giuseppe Guerrieri il 13 marzo del ’79 a Bergamo. La richiesta di estradizione era stata rigettata nel 1987 perché, come in altri casi, la Francia non ha riconosciuto le condanne in contumacia.

Le domande del 2002 che la Francia riesaminerà sono per Roberta Cappelli, Giovanni Alimonti, Enrico Villimburgo, Giorgio Pietrostefani, Enzo Calvitti, Maurizio Di Marzio, Luigi Bergamin Paola Filippi, Ermenegildo Marinelli Sono per lo più ex brigatisti rossi mentre Pietrostefani era dirigente di Lotta Continua, condannato per concorso nell’omicidio di Luigi Calabresi (1972), Marinelli del Movimento comunista rivoluzionario e Bergamin e Filippi dei Pac (Proletari armati per il comunismo) come Battisti. Alcune pene si prescriveranno a breve, il calcolo è meno facile di quello che sembra anche perché le norme italiane e francesi sono diverse anche nella disciplina degli atti interruttivi. Alcuni, peraltro, sono cittadini francesi. In teoria Parigi potrebbe anche rivedere il caso dell’ ex Br Marina Petrella, per la quale l’estradizione fu revocata nel 2008 per motivi di salute. Difficilmente saranno riaperti i dossier degli ex br Paolo Ceriani Sebregondi e Sergio Tornaghi, le cui estradizioni furono negate negli anni 80 perché il reato di banda armata in Francia non c’ere. Prescritti Walter Grecchi (ex Autonomia), Vincenzo Spanò (ex Colp) e Giovanni Vegliacasa (ex Prima linea).

“Con la violenza non si scherza. Abbiamo già pagato in passato”

Ifatti di Torino dopo lo sgombero dell’Asilo occupato sono “assai gravi”, secondo l’ex procuratore Gian Carlo Caselli. Tutt’altro giudizio rispetto a quello della docente della Sapienza Donatella Di Cesare, che ieri su queste pagine ha espresso la sua preoccupazione per “la criminalizzazione di chiunque esprima oggi dissenso”. “Sono invece violenze inaccettabili”, sostiene Caselli.

È un giudizio molto duro, contro tutta la protesta.

Non contro tutta la protesta, contro tutta la guerriglia, zone della città sconvolte, vetrine spaccate, un bus distrutto. Black block da ogni parte d’Italia e dall’estero “addestrati” che finiscono per prevalere su tutta la protesta. Il carcere assediato con lancio di ordigni. E poi un gesto tipicamente fascista: l’irruzione in un’aula di giustizia per impedire al pm di pronunciare la sua requisitoria, urlando slogan squadristici per la liberazione dei “compagni” dell’Asilo.

La protesta sociale assume a volte forme forti, come nella Francia dei Gilet gialli.

L’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini nel 2001 disse: “Chi di noi ha l’età per ricordare i primi tempi della contestazione, tra la fine degli anni 60 e l’inizio dei 70, sa che la noncuranza e la leggerezza ostentata anche da chi avrebbe avuto la responsabilità di giudicare e di punire, rispetto ad atti minori di vandalismo e disprezzo del bene pubblico, ha aperto la via a gesti ben più gravi e mortiferi. Chi getta oggi il sasso e si sente impunito, domani potrà buttare la bomba o impugnare la pistola”. Io aggiungo: sarà l’inchiesta a stabilire le responsabilità penali individuali. Ma già subito è consentito, anzi doveroso, esprimere una condanna sul piano morale e politico.

Distingue tra protesta e atti terroristici?

Certo. E nettamente. Ma alcuni politici e intellettuali intervenuti con ambigui e speciosi distinguo dimenticano il nocciolo fondamentale della democrazia: gli atti di ribellismo anarcoide e violento diretti a scardinare quel che soggettivamente si ritiene contestabile sono vietati, senza se e senza ma. Qualcuno cercherà di strumentalizzare, fraintendendole, queste mie parole. Ma non mi impressiona più di tanto: non possiamo tollerare quello che oggi appare a qualche “generoso” osservatore come un male di dimensioni ridotte, perché poi potrà portare a gesti ben più gravi. Trovo che sia dannoso rimandare ad analisi complesse e fumose per condannare, allo stesso tempo, tutti e nessuno.

Compito degli intellettuali non è condannare, ma capire.

Non condannare con decisione chi si sta allontanando dalla democrazia rafforza il codice della violenza. Di più: non riprendere chi sbaglia è la prima violenza che instrada o conferma chi vuol crescere sui sentieri della violenza. Abbiamo già pagato prezzi terribili per non essere stati capaci, negli anni in cui germinava il terrorismo, di guidare, educare e correggere chi familiarizzava con il linguaggio della violenza. Non sono stati “fermati” da quanti avevano il diritto e il dovere di assumersi quella responsabilità. Sarebbe drammatico ripetere oggi un simile errore.

Ora l’analisi costi-benefici conferma quello che ha sempre detto un altro movimento, quello NoTav.

Francamente del Tav comincio a essere – come dire – ricolmo. Mi chiedo una cosa: perché una differenza abissale tra Italia e Francia? Perché stessa montagna, stessa galleria, stessi problemi (ambiente, costi, utilità) e in Francia tutto fila liscio mentre in Italia è bagarre continua? Forse è perché da noi il Tav, ormai, è diventato un totem, un tabù, un pregiudizio ideologico che condiziona ed esaspera tutto. Persino le analisi costi-benefici. Con sullo sfondo – azzarda qualcuno – l’eventualità di un “voto di scambio”, che non è mai una bella cosa.

Il bene comune, l’Antitrust Ue e la politica sogno di una cosa

Viene il dubbio che la politica sia ormai, per noi italiani, il lirico “sogno di una cosa” del giovane Marx, una cosa “della quale il mondo non ha che da possedere la coscienza per possederla realmente”. Ma il sogno resta tale, né riesce a smuovere la “coscienza oscura a se stessa” l’occasionale emergere della politica come realtà e forza e non sterile chiacchiera. Viviamo in un mondo di regole che si raccontano come buone in sé, amministrate da regolatori (indipendenti, per carità) che sono i semidei di un universo orientato al bene, sempre ovviamente “comune”. Non si riesce più neanche a concepire la società come il luogo del conflitto più o meno stilizzato di interessi contrapposti, né che il bene come fatto tecnico-regolatorio sia in realtà la cristallizzazione di un vecchio rapporto di potere. Però ci sono sempre i trafiletti (La Stampa, pag. 16): “Francia e Germania vogliono spogliare la Commissione Ue dei suoi poteri nel campo dell’Antitrust. Ancora col dente avvelenato per la bocciatura della fusione Alstom-Siemens, ieri all’Ecofin hanno lanciato la loro proposta: i governi potranno mettere in discussione le scelte della Commissione”. È la stessa Dg Competition che ha costretto gli ultimi governi italiani a umilianti kamasutra sugli aiuti di Stato sui più disparati argomenti: all’epoca, però, era Vangelo (tecnico), oggi un ostacolo a decisioni politiche che non possono essere sottoposte a regole troppo stringenti e a volte irrazionali. È chiaro cos’è la politica? I sognatori hanno il sogno di una cosa, gli altri la coscienza della forza.