“È buono? Le piace?”.
“Mai mangiato di meglio. Una vera delizia. Un pecorino sardo così, dovrebbe costare almeno 20 euro al chilo”.
“Eheheh. Invece ne costa 1.000, ma io lo vendo a 700”.
“Mille? Che? Ma scherza?”.
“No, che non scherzo. E quello non è pecorino”.
“Non è pecorino? E cos’è? Caprino?”.
“È fatto con latte d’asina. Il più caro al mondo. Le vede lì, le mie bestioline? Ne ho solo una trentina”, dice indicandovi una radura, ricca d’erba, proprio dove scorre un piccolo torrente.
Siete basiti e capite perché, quando avete chiesto che vi indicassero qualcuno che potesse parlarvi della vita dei pastori sardi, al bar Cannonau&Basta di Telévras vi hanno detto: “Andate da ‘Poppea’, sta su quella montagna che si vede da qui”.
Certo, avreste dovuto diffidare, visti i risolini ironici degli avventori. Ma è la prima volta che venite nell’Isola e non siete ancora esperti di riso sardonico. Neanche il tempo di riprendervi dalla sorpresa, che “Poppea” vi versa un bicchiere di Cannonau e neppure vi chiede per quale giornale scriviate. Comincia a parlare, senza bisogno di domande. Meglio: se le pone da solo e si risponde, risparmiandovi pure la fatica di seguire il discorso.
“Ora che i pastori sversano il latte di pecora in strada, venite tutti qui? Giusto e sbagliato insieme. Colpa degli industriali che lo trasformano in pecorino romano? Ma perché romano? È sardo, sardissimo. Anche quello ci hanno tolto. O dei supermercati che impongono il prezzo? E i pastori? Loro colpe non ne hanno? Io penso di sì e non partecipo alla protesta”.
“Cioè? Anche i pastori hanno colpe?” chiedete sorpresi. In tutti questi giorni è la prima volta che sentite una frase del genere. Ma, come se interpretasse la vostra antropologica curiosità di conoscere come davvero viva un pastore in quelle montagne innevate dell’interno, comincia a raccontare:
“Era nel cognome, il mio destino. Quegli impuniti del bar vi avranno detto di venire qui, da ‘Poppea’? Mi chiamano così dal 2010. In realtà, il mio vero nome è Anselmo Burrìcu, che in sardo vuol dire asino”.
Trattenete, a stento, il riso.
“Preferisco mi chiamino così, come la moglie di Nerone. Ho sofferto molto per quel cognome che la sorte mi ha assegnato. Essere chiamati somari, fin da bambini, non è stato bello, no, no, no. Ho fatto questo lavoro fin dall’età di otto anni e ora ne ho sessanta. Calcoli lei. Mio padre era un pastore analfabeta ma io a scuola ci volevo andare. Solo che lui aveva bisogno di una mano, io ero l’unico figlio maschio e, all’uscita di scuola, andavo a piedi, dove avevamo il gregge, per aiutarlo. Siamo arrivati ad avere anche 300 pecore. Non mi ha mai picchiato, quello no. L’ho fatto come tanti, qui, per aiutare la famiglia. Altro non c’era. Però, sono riuscito a fare anche tre anni di scuole professionali, a mie spese”.
“Infatti, parla un ottimo italiano, e becca pure tutti i congiuntivi” pensate, mentre vi dà un altro bel tocco di formaggio e vi riempie ancora il bicchiere.
“Ora lei vede questo piccolo casolare, con il bagno, la cucina e tante piccole comodità. Ma vorrei tornare indietro nel tempo e portarla a conoscere il posto dove vivevo da bambino, senza luce né gas. Per lavarmi dovevo congelarmi sotto le cascatelle naturali. Pensi che non mangiavamo la carne dei nostri agnelli, neanche a Pasqua o a Natale. Una fame…. Se lo avessimo fatto, non avremmo potuto venderli. Li uccidevano gli altri, così ci davano i soldi e mio padre comprava i vestiti e la pasta. Mi faceva schifo la pasta, ma saziava e la fame passava subito. Solo una volta il mio babbo ha cotto una coscia di capretto, ma l’ha fatto perché era morto d’anzianità e ho vomitato per tre giorni. E il latte fresco? E chi se lo poteva permettere? Anche quello dovevamo vendere e un bicchiere al mattino lo consideravi un furto in casa. Quello di pecora è praticamente imbevibile, lo puoi solo trasformare in formaggio, tanto è grasso, e il latte di capra, quello sì che è buono, lo volevano i ricchi, per i loro bambini. Ce lo pagavano bene. Se penso che ora ho il mio laboratorio, dove trasformo quel poco latte che le asine mi danno, mi sembra di sognare. Io rispetto i miei simili” aggiunge ironico e sorridente.
“Per via del suo cognome?”.
“Anche. Ma forse lei non sa che il latte d’asina è pochissimo. Bisogna lasciarlo ai puledri, che altrimenti morirebbero di fame. Al massimo, ne posso prendere 1/5. Il rispetto è reciproco. Ne danno, quando va bene, un litro per 6-7 mesi. Ora capirà quanto il mio latte sia prezioso. Ce ne vogliono 25 litri, per fare un solo kg di formaggio”.
“Quindi, è per quello che lei non ha partecipato alla manifestazione di protesta? Non ha versato il suo latte per strada?”.
“E che? Buttavo nei tombini un latte che costa 40 euro al litro?”.
“40 euro? E chi lo compra? Solo i riccastri”.
“Non m’importa chi lo compra. Ma non è per il valore del mio prodotto che non partecipo alla protesta”.
“E per cosa, allora, se me lo vuol dire”.
“Senta. Ho allevato pecore fino a dieci anni fa. La situazione è sempre stata quella. Lavoravamo al costo, quando andava bene. Poi abbiamo iniziato a vendere in perdita, tanto c’erano gli aiuti comunitari. Il latte non valeva più niente, la lana non la voleva più nessuno e la carne che trovava a 15 euro al kg nei supermercati, a noi la pagavano, al massimo, 3 euro e solo prima di Natale o Pasqua. Quindi… ”.
“Quindi?”.
“Quindi ho cominciato a dire a tutti quanti che stavamo sbagliando, che dovevamo produrcelo da soli, il nostro ‘Pecorino sardo’ dandogli un nostro marchio, che questa era l’unica maniera di controllare il prezzo, almeno per evitare il rischio di lavorare sottocosto e che i romani se lo facessero per conto loro”.
“Cioè produrlo voi e controllare tutta la filiera?”.
“Sì. Evitare ogni tipo di sovvenzioni e di intermediari, arrivando direttamente a quei grandi distributori che avrebbero potuto garantire l’acquisto dei nostri prodotti trasformati, come il pecorino, ricaricando il loro giusto e legittimo guadagno e, contemporaneamente, creare dei nostri punti vendita, a ‘centimetro zero’, uno per ogni piccolo paese della nostra comunità, dove ognuno avrebbe potuto abbattere i costi di trasporto”.
“E com’è andata?”.
“Mi hanno detto che ero pazzo e che me lo facessi con altri burricus, somari come me, il mio formaggio. Qualcuno di loro mi ha pure tolto il saluto. Siamo tutti individualisti, purtroppo. E guardi che non è una questione di soldi. Se avessimo iniziato vent’anni fa, a quest’ora non saremo qui a piangere”.
“E lei?”.
“Li ho presi in parola. Ho venduto tutto e mi sono comprato le asine. All’inizio vendevo il latte a un’azienda di Reggio Emilia, a 40-50 euro al litro. Poi un giorno ho scoperto il perché fosse impossibile fare il formaggio d’asina”.
“Perché?”.
“Non si trovava una cagliata. Tutto merito di un italiano, il professor Iannella, che ha scoperto che solo il caglio di cammello poteva trasformare quel latte nel formaggio più buono e caro del pianeta”.
“Quindi, oltre l’asina, ha mangiato pure il cammello? Una vendetta geniale… Posso scrivere tutto quello che mi ha detto? Non ha paura che altri le facciano concorrenza?”.
“Scriva pure tutto ciò che vuole, tanto non le darò mai la soddisfazione di una smentita”.