La vendetta del somaro e il latte perduto

“È buono? Le piace?”.

“Mai mangiato di meglio. Una vera delizia. Un pecorino sardo così, dovrebbe costare almeno 20 euro al chilo”.

“Eheheh. Invece ne costa 1.000, ma io lo vendo a 700”.

“Mille? Che? Ma scherza?”.

“No, che non scherzo. E quello non è pecorino”.

“Non è pecorino? E cos’è? Caprino?”.

“È fatto con latte d’asina. Il più caro al mondo. Le vede lì, le mie bestioline? Ne ho solo una trentina”, dice indicandovi una radura, ricca d’erba, proprio dove scorre un piccolo torrente.

Siete basiti e capite perché, quando avete chiesto che vi indicassero qualcuno che potesse parlarvi della vita dei pastori sardi, al bar Cannonau&Basta di Telévras vi hanno detto: “Andate da ‘Poppea’, sta su quella montagna che si vede da qui”.

Certo, avreste dovuto diffidare, visti i risolini ironici degli avventori. Ma è la prima volta che venite nell’Isola e non siete ancora esperti di riso sardonico. Neanche il tempo di riprendervi dalla sorpresa, che “Poppea” vi versa un bicchiere di Cannonau e neppure vi chiede per quale giornale scriviate. Comincia a parlare, senza bisogno di domande. Meglio: se le pone da solo e si risponde, risparmiandovi pure la fatica di seguire il discorso.

“Ora che i pastori sversano il latte di pecora in strada, venite tutti qui? Giusto e sbagliato insieme. Colpa degli industriali che lo trasformano in pecorino romano? Ma perché romano? È sardo, sardissimo. Anche quello ci hanno tolto. O dei supermercati che impongono il prezzo? E i pastori? Loro colpe non ne hanno? Io penso di sì e non partecipo alla protesta”.

“Cioè? Anche i pastori hanno colpe?” chiedete sorpresi. In tutti questi giorni è la prima volta che sentite una frase del genere. Ma, come se interpretasse la vostra antropologica curiosità di conoscere come davvero viva un pastore in quelle montagne innevate dell’interno, comincia a raccontare:

“Era nel cognome, il mio destino. Quegli impuniti del bar vi avranno detto di venire qui, da ‘Poppea’? Mi chiamano così dal 2010. In realtà, il mio vero nome è Anselmo Burrìcu, che in sardo vuol dire asino”.

Trattenete, a stento, il riso.

“Preferisco mi chiamino così, come la moglie di Nerone. Ho sofferto molto per quel cognome che la sorte mi ha assegnato. Essere chiamati somari, fin da bambini, non è stato bello, no, no, no. Ho fatto questo lavoro fin dall’età di otto anni e ora ne ho sessanta. Calcoli lei. Mio padre era un pastore analfabeta ma io a scuola ci volevo andare. Solo che lui aveva bisogno di una mano, io ero l’unico figlio maschio e, all’uscita di scuola, andavo a piedi, dove avevamo il gregge, per aiutarlo. Siamo arrivati ad avere anche 300 pecore. Non mi ha mai picchiato, quello no. L’ho fatto come tanti, qui, per aiutare la famiglia. Altro non c’era. Però, sono riuscito a fare anche tre anni di scuole professionali, a mie spese”.

“Infatti, parla un ottimo italiano, e becca pure tutti i congiuntivi” pensate, mentre vi dà un altro bel tocco di formaggio e vi riempie ancora il bicchiere.

“Ora lei vede questo piccolo casolare, con il bagno, la cucina e tante piccole comodità. Ma vorrei tornare indietro nel tempo e portarla a conoscere il posto dove vivevo da bambino, senza luce né gas. Per lavarmi dovevo congelarmi sotto le cascatelle naturali. Pensi che non mangiavamo la carne dei nostri agnelli, neanche a Pasqua o a Natale. Una fame…. Se lo avessimo fatto, non avremmo potuto venderli. Li uccidevano gli altri, così ci davano i soldi e mio padre comprava i vestiti e la pasta. Mi faceva schifo la pasta, ma saziava e la fame passava subito. Solo una volta il mio babbo ha cotto una coscia di capretto, ma l’ha fatto perché era morto d’anzianità e ho vomitato per tre giorni. E il latte fresco? E chi se lo poteva permettere? Anche quello dovevamo vendere e un bicchiere al mattino lo consideravi un furto in casa. Quello di pecora è praticamente imbevibile, lo puoi solo trasformare in formaggio, tanto è grasso, e il latte di capra, quello sì che è buono, lo volevano i ricchi, per i loro bambini. Ce lo pagavano bene. Se penso che ora ho il mio laboratorio, dove trasformo quel poco latte che le asine mi danno, mi sembra di sognare. Io rispetto i miei simili” aggiunge ironico e sorridente.

“Per via del suo cognome?”.

“Anche. Ma forse lei non sa che il latte d’asina è pochissimo. Bisogna lasciarlo ai puledri, che altrimenti morirebbero di fame. Al massimo, ne posso prendere 1/5. Il rispetto è reciproco. Ne danno, quando va bene, un litro per 6-7 mesi. Ora capirà quanto il mio latte sia prezioso. Ce ne vogliono 25 litri, per fare un solo kg di formaggio”.

“Quindi, è per quello che lei non ha partecipato alla manifestazione di protesta? Non ha versato il suo latte per strada?”.

“E che? Buttavo nei tombini un latte che costa 40 euro al litro?”.

“40 euro? E chi lo compra? Solo i riccastri”.

“Non m’importa chi lo compra. Ma non è per il valore del mio prodotto che non partecipo alla protesta”.

“E per cosa, allora, se me lo vuol dire”.

“Senta. Ho allevato pecore fino a dieci anni fa. La situazione è sempre stata quella. Lavoravamo al costo, quando andava bene. Poi abbiamo iniziato a vendere in perdita, tanto c’erano gli aiuti comunitari. Il latte non valeva più niente, la lana non la voleva più nessuno e la carne che trovava a 15 euro al kg nei supermercati, a noi la pagavano, al massimo, 3 euro e solo prima di Natale o Pasqua. Quindi… ”.

“Quindi?”.

“Quindi ho cominciato a dire a tutti quanti che stavamo sbagliando, che dovevamo produrcelo da soli, il nostro ‘Pecorino sardo’ dandogli un nostro marchio, che questa era l’unica maniera di controllare il prezzo, almeno per evitare il rischio di lavorare sottocosto e che i romani se lo facessero per conto loro”.

“Cioè produrlo voi e controllare tutta la filiera?”.

“Sì. Evitare ogni tipo di sovvenzioni e di intermediari, arrivando direttamente a quei grandi distributori che avrebbero potuto garantire l’acquisto dei nostri prodotti trasformati, come il pecorino, ricaricando il loro giusto e legittimo guadagno e, contemporaneamente, creare dei nostri punti vendita, a ‘centimetro zero’, uno per ogni piccolo paese della nostra comunità, dove ognuno avrebbe potuto abbattere i costi di trasporto”.

“E com’è andata?”.

“Mi hanno detto che ero pazzo e che me lo facessi con altri burricus, somari come me, il mio formaggio. Qualcuno di loro mi ha pure tolto il saluto. Siamo tutti individualisti, purtroppo. E guardi che non è una questione di soldi. Se avessimo iniziato vent’anni fa, a quest’ora non saremo qui a piangere”.

“E lei?”.

“Li ho presi in parola. Ho venduto tutto e mi sono comprato le asine. All’inizio vendevo il latte a un’azienda di Reggio Emilia, a 40-50 euro al litro. Poi un giorno ho scoperto il perché fosse impossibile fare il formaggio d’asina”.

“Perché?”.

“Non si trovava una cagliata. Tutto merito di un italiano, il professor Iannella, che ha scoperto che solo il caglio di cammello poteva trasformare quel latte nel formaggio più buono e caro del pianeta”.

“Quindi, oltre l’asina, ha mangiato pure il cammello? Una vendetta geniale… Posso scrivere tutto quello che mi ha detto? Non ha paura che altri le facciano concorrenza?”.

“Scriva pure tutto ciò che vuole, tanto non le darò mai la soddisfazione di una smentita”.

Sanità lombarda: “Quella di Fontana è una finta svolta”

Èuna vera svolta? Una settimana fa abbiamo raccontato su questa colonna la sterzata nella sanità lombarda annunciata dal presidente della Regione Attilio Fontana, che promette di superare il Modello Formigoni: quello che, in nome della libertà di scelta del paziente, equipara strutture pubbliche e strutture private, lasciando, in realtà, ai privati la libertà di crescere, aumentare i fatturati e scegliere i settori più remunerativi, lasciando al settore pubblico le prestazioni che rendono meno. Con il risultato di creare, per alcuni servizi, lunghe liste di attesa. Ma il piano di Fontana otterrà un rafforzamento del settore pubblico o semplicemente un taglio dell’offerta sanitaria? Lo sapremo solo vivendo, ma intanto qualche dubbio viene avanzato da due operatori che di sanità s’intendono, Albarosa Raimondi e Vittorio Agnoletto. Dopo aver analizzato le proposte della Regione Lombardia, sostengono che non ne esce “alcun vantaggio per le persone che necessitano di assistenza sanitaria”. D’altra parte, non sono nemmeno spiegate “le modalità che verrebbero utilizzate per ridurre le liste di attesa per accedere alle visite specialistiche e agli esami diagnostici”. Fontana promette “un maggiore controllo sulle attività dei privati accreditati, anche grazie allo scorporo di una quota dei finanziamenti”: 35 milioni di euro, finora concessi ai privati, saranno d’ora in poi gestiti direttamente dai servizi regionali, per incentivare determinate prestazioni (quelle più richieste, con maggiori tempi d’attesa) a scapito di altre (magari più remunerative).

Raimondi e Agnoletto ricordano che “la Regione Lombardia proprio nella sanità è negli ultimi anni in grande difficoltà e negli ultimi mesi in forte caduta d’immagine”. Il problema è “la controriforma in atto, che sminuisce il ruolo del medico di base, sostituendolo con la figura del gestore”. Risultato: “La consegna al privato degli oltre 3 milioni di malati cronici”. Ma questa “controriforma” non decolla, “anzi sta pesantemente naufragando: delle 3 milioni e 50 mila persone che hanno ricevuto la lettera dell’assessore alla sanità in cui si chiede di scegliere il gestore, ha aderito non più del 10 per cento. E meno del 50 per cento dei medici di famiglia ha manifestato la disponibilità a seguire le indicazioni della Regione”. D’altra parte, “cresce l’insoddisfazione e la disperazione dei cittadini che non riescono a fissare visite ed esami diagnostici attraverso il Servizio sanitario regionale: le liste d’attesa sono infinite e spesso risultano chiuse fino al 2020. In questa situazione la Regione Lombardia, accusata da più parti di lavorare alle dipendenze dei tanti potentati privati che si dividono fette cospicue della sanità lombarda, ha tentato di rifarsi il maquillage facendo credere che finalmente vengano drasticamente ridotti i finanziamenti pubblici alle strutture private accreditate (cioè convenzionate col sistema sanitario regionale) per dirottarli verso il pubblico”. Non sarà così, secondo Raimondi e Agnoletto: “Innanzitutto i 35 milioni che verranno sottratti alle autonome decisione della sanità privata sono un’inezia in confronto ai 2 miliardi annui che i privati accreditati guadagnano con i ricoveri e agli 1,2 miliardi che guadagnano con le visite e gli esami diagnostici. E poi quei 35 milioni resteranno nella disponibilità degli uffici regionali, che decideranno le prestazioni che dovranno essere realizzate con tale cifra. Non verranno assegnati alle strutture pubbliche per potenziarle, il che avrebbe potuto essere un buon sistema per garantire una almeno parziale riduzione dei tempi di attesa”. Come andrà davvero? Ora tocca ai fatti. E tocca a Fontana dimostrare che vuole davvero la svolta per togliere potere ai privati e ridurre le code ai cittadini.

Insigne e signora: una coppia da Medioevo

Avolte il modo migliore per far emergere la realtà è organizzare uno scherzo. Perché scherzando, si dice, la verità viene a galla. E allora, se è tutto vero quello che abbiamo visto nel servizio mandato in onda dalle Iene – e non abbiamo modo di credere il contrario –, la verità in casa Insigne è uno scherzo riuscito. La moglie del bomber del Napoli si è resa complice di un trabocchetto che ha fatto venir fuori la gelosia del marito. Non una gelosia “normale” (sempre che ne esista una “normale”), ma un controllo possessivo sulla donna alla quale impedisce di utilizzare i social network e guarda il telefono tutte le sere, per stessa ammissione della signora.

Un finto regista inizia a chiamare lei, Genny Cadore, per affidarle una parte in un film: l’ha notata in palestra e sostiene che sarebbe perfetta per recitare al fianco di tale Giancarlo in Madame Bovary. Le manda messaggi vocali, un mazzo di fiori insieme con il copione e le dà appuntamento per un provino. Uno “scherzo” da provolone proseguito per tre giorni, durante i quali le telecamere nascoste piazzate in casa Insigne riprendono le reazioni del giocatore. Praticamente un’escalation: da “voglio sapere chi gli ha dato il tuo numero” a due “buffetti” (diciamo così) sulla testa, dal costringere la moglie a dormire sul divano all’afferrarle il telefono per mostrare al signore in questione con chi ha a che fare. Tu non ci vai, tu non fai proprio niente, intima Insigne. Fino all’incursione, con un atteggiamento non proprio pacifico, nel locale dove si sta tenendo il finto casting. Risate, applausi e giù il sipario? Speriamo di no.

Per un duplice motivo. Primo perché nessuna donna dovrebbe essere privata dell’autodeterminazione, della libertà e della propria privacy (e tanto meno dovrebbe essere vittima di “buffetti”). E non esiste replicare “è lei che glielo concede”. Se è lei che glielo concede, accentando un “compromesso”, significa che l’arretramento culturale nel quale siamo sprofondati è più grave del previsto e che le già misere politiche di educazione di genere (badate: non femministe, ma di genere) hanno pure fallito. Ma lo “scherzo” è, se possibile, peggiore, in quanto quello cui abbiamo assistito è l’atteggiamento di una coppia famosa, un calciatore e sua moglie, che come gli altri vengono presi a modello da una larga parte della popolazione giovanile di questo Paese. I ragazzini (non tutti, per fortuna) si ispirano ai calciatori, ne imitano le gesta, ne invidiano la gloria e i soldi. E le ragazzine (non tutte, per fortuna) sognano di diventare mogli di giocatori, per concedersi una vita agiata, senza sacrifici e con la manicure sempre a posto. Quel mondo è, nostro malgrado, un modello da imitare.

E allora il quadro che abbiamo visto rischia di essere la rappresentazione iconografica del mondo in cui siamo immersi. Come il celebre dipinto dei coniugi Arnolfini di Van Eyck (1434), l’immagine di Lorenzo Insigne “pazzo di gelosia” nei confronti della bellissima Genny è la fotografia di ciò che siamo ancora. Possiamo organizzare convegni, inasprire le pene nei confronti dei violenti, fare la conta delle vittime, regalare mimose l’8 marzo. Possiamo fare tutto, ma fino a quando non educheremo i nostri figli e i nostri alunni al rispetto e alla parità, non potremo lamentarci se certi “scherzi” vengono mandati in onda con le finte risate sullo sfondo.

La democrazia non esiste più

Mai come in questo periodo storico, in Italia ma non solo in Italia (si pensi a Donald Trump che sotto le elezioni di middle term è stato indotto a prendere decisioni che non riteneva le più efficaci ma le più popolari), la democrazia rappresentativa dimostra la propria debolezza e i propri limiti strutturali, come regime adatto a governare un Paese.

Il politico, meglio l’uomo di Stato, dovrebbe pensare in grande stile, avere una visione che va al di là del proprio naso, lungimirante, che copra perlomeno i quattro o i cinque anni del suo mandato. Ma anche se avesse queste doti non può esercitarle. Oggi oltre alle elezioni politiche ci sono quelle amministrative, comunali e regionali, quelle europee e, per non farci mancar nulla, i sondaggi più o meno a scadenza mensile. L’uomo politico, anche quello in teoria valido, in presenza di una qualsiasi di queste elezioni è quindi costretto a prendere decisioni sull’hic et nunc che gli possano garantire maggior consenso anche nella prospettiva di quelle successive, ma che non è affatto detto che siano le più efficaci.

C’è modo di limitare questa debolezza? In parte sì. Bisognerebbe accorpare le amministrative nello stesso giorno e non come ora per cui un mese si vota in Abruzzo, un mese dopo in Sardegna, un altro, poniamo, in Piemonte, un altro ancora in Lombardia, e farle svolgere negli stessi giorni in cui si tengono le elezioni politiche. Una cosa similare dovrebbe essere fatta per i singoli Stati dell’Unione europea, in cui almeno le elezioni politiche dovrebbero tenersi tutte nello stesso periodo. Perché un’elezione, poniamo in Polonia, può influenzare e condizionare le elezioni di altri Paesi, tanto più perché nel Parlamento europeo agiscono gruppi che non sono omogenei con quelli dello Stato di appartenenza. Infine bisognerebbe eliminare i sondaggi perché influenzano surrettiziamente l’elettorato e quindi anche l’uomo politico che all’elettorato deve rispondere. Inoltre i parlamentari che agiscono all’interno dei partiti, e questo in Italia lo vediamo benissimo, si spostano dall’uno all’altro gruppo non secondo una coerenza ideale o ideologica ma per la propria convenienza personale. Per cui per evitare che siano di fatto i segretari di partito o il loro entourage a imporre i candidati, con tanti saluti alla libertà dell’elettore, non era poi così strampalata la proposta di Beppe Grillo di ricorrere al sorteggio.

La democrazia diretta eliminerebbe alcuni dei limiti e delle storture di quella rappresentativa? In teoria sì, nella pratica no. La democrazia diretta può essere esercitata solo in un ambito ristretto (non a caso Rousseau l’aveva immaginata a Ginevra che allora aveva circa 100.000 abitanti) dove l’elettore agisce sul suo, cioè sa su che cosa deve decidere. Ma in una democrazia diretta universale, globale, utilizzando gli strumenti della tecnologia digitale, come l’aveva immaginata Gianroberto Casaleggio, l’elettore sarebbe chiamato a decidere su cose di cui non sa nulla.

Per la verità una democrazia diretta, ristretta a una comunità ben precisa, è esistita in epoca preindustriale. Nella società del villaggio l’assemblea dei capi famiglia, in genere uomini, ma anche donne se il marito era morto, decideva su tutto ciò che riguardava il villaggio. Scrive lo storico francese Soboul: “Le attribuzioni delle assemblee riguardavano tutti i punti che interessavano la comunità. Essa votava le spese e procedeva alle nomine; decideva della vendita, scambio e locazione dei boschi comuni, della riparazione della chiesa, del presbiterio, delle strade e dei ponti. Riscuoteva au pied de la taille (cioè proporzionalmente) i canoni che alimentavano il bilancio comunale; poteva contrarre debiti e iniziare processi; nominava, oltre ai sindaci, il maestro di scuola, il pastore comunale, i guardiani di messi, gli assessori e i riscossori di taglia”.

Un’altra importante attribuzione dell’assemblea si aveva in materia di tasse reali, era infatti l’assemblea che ne fissava la ripartizione all’interno della comunità e la riscossione. Insomma la democrazia è esistita quando non sapeva di essere democrazia.

Questo sistema, che aveva funzionato benissimo per secoli, s’incrinerà in Francia proprio alle soglie della Rivoluzione francese quando, sotto la spinta degli interessi e della smania di regolamentazione dell’avanzante borghesia, un decreto reale del 1787 introdurrà il principio secondo il quale non era più l’assemblea del villaggio a decidere direttamente ma attraverso l’elezione di suoi rappresentanti. Era nata la democrazia rappresentativa. Quella che viviamo attualmente e che democrazia non è e non è mai stata ma è formata da oligarchie o poliarchie, come le chiama pudicamente Sartori, in cui delle minoranze dominano sulla maggioranza dei cittadini e che, in linea di massima, non sono legittimate da nulla se non dalla potenza del denaro.

Mail box

 

Caro direttore, la ringrazio per le sue parole di stima

Caro direttore, la ringrazio sinceramente per l’attenzione e l’apprezzamento che continua a riservarmi anche a distanza di anni dalle vicende richiamate nel suo articolo sul Fatto Quotidiano di martedì. Peraltro, mi sembra doveroso precisare che, dopo quelle vicende, io e il collega Giovanni Castaldi non siamo stati degradati. Infatti mentre a quell’epoca rivestivamo il ruolo di Capi servizio nella Vigilanza, successivamente siamo stati promossi e preposti ad altri settori della Banca. Nel 2013 sono stato nominato, dal governatore Visco, Direttore dell’unità di informazione finanziaria per l’Italia che svolge compiti di prevenzione e contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo.

Ringrazio ancora per le parole di stima e le invio cordiali saluti.

Claudio Clemente

 

Gentile dottor Clemente, capisco la sua posizione e so bene che prima Castaldi e poi lei avete diretto l’Uif, che lei tuttora guida. Io però parlavo della vigilanza bancaria, che tante falle ha evidenziato negli ultimi anni con una raffica di crac e dissesti. Voi avevate ben meritato nel caso Antonveneta e nel 2007, quando si liberò il posto di capo della Vigilanza, eravate i candidati naturali a dirigerla. Invece vi fu proferita Anna Maria Tarantola, che non era proprio (per usare un eufemismo) la stessa cosa. L’Uif è un organo importante, ma la vicedirezione di Bankitalia attualmente vacante lo sarebbe di più, per dare alla Banca centrale ciò di cui avrebbe un gran bisogno: un po’ di discontinuità, anche ma non solo sulla vigilanza bancaria. Allora come oggi.

M. Trav.

 

Pastori sardi, per protesta regalate il latte ai poveri

Chi lavora duramente come i pastori sardi deve ricevere un ristoro, che possa farlo continuare a lavorare senza preoccupazione alcuna. Ma non sembra opportuno che il latte sia sversato nelle strade: dovrebbe essere regalato agli istituti di assistenza, scuole e alle persone povere.

Mario De Florio

 

DIRITTO DI REPLICA

Con riferimento all’articolo di Salvatore Gaziano pubblicato sul Fatto il 13 febbraio, in merito alla rendicontazione dei costi alla clientela a seguito della piena operatività della Mifid 2, affermiamo con forza che l’Abi non ha mai chiesto un rinvio della rendicontazione dei costi e per quanto di sua competenza, invita le banche ad applicare tempestivamente, come dettato dalla normativa, nel 2019, tutto ciò che riguarda tale rendicontazione. Il confronto da tempo in atto con la Consob, in questa fase di prima applicazione, è volto, senza ritardi, a rendere omogenea l’implementazione della nuova rendicontazione affinché questa sia facilmente comparabile e comprensibile. Fin dalla fase di consultazione delle norme, nel 2016 e nel 2017, ben prima dell’entrata in vigore della Mifid 2, e nel 2018 l’Abi ha ripetutamente richiamato formalmente l’attenzione su questi temi sia dell’Esma (l’autorità europea dei mercati finanziari) sia della Consob. La normativa infatti lascia troppo ampi spazi interpretativi a discapito di una corretta comprensione e comparabilità degli oneri e costi sostenuti dalla clientela. La normativa, anche quella secondaria, non ha dettagliato, tra l’altro, quale base prendere a riferimento per calcolare l’incidenza dei costi. Ne consegue che l’obiettivo di rendere perfettamente comprensibile l’incidenza dei costi sarebbe attenuato se ritardassero ulteriormente esplicite direttive in proposito dalle competenti autorità europee e italiane. Il tema, infatti, non riguarda solo l’Italia ma l’intera Europa. L’obiettivo è quello di avere tempestivamente norme chiare, semplici, stabili, facilmente applicabili, comparabili per prodotti finanziari non solo nazionali e che tutelino realmente il cliente.

Giovanni Sabatini Direttore Generale Abi

 

Siamo lieti di sapere che l’Abi sostiene che “con forza non ha mai chiesto un rinvio della rendicontazione dei costi e per quanto di sua competenza, invita le banche ad applicare tempestivamente, come dettato dalla normativa, nel 2019, tutto ciò che riguarda tale rendicontazione”. Nel documento rivelato l’8 febbraio e ripreso (senza smentite) da numerosi siti finanziari, abbiamo però letto fra le richieste avanzate dagli intermediari alla Consob – sono stati citati Abi, Assoreti, Assosim e Assogestioni: “Il nuovo obbligo di fornire ai clienti informazioni periodiche ex post sui costi e gli oneri introdotto dalla Mifid II avrà per la prima volta applicazione con riferimento all’anno 2018, ma il rendiconto potrà essere prodotto dai distributori nel corso del 2019 solo dopo aver ricevuto tutte le informazioni dai diversi produttori e aver effettuato le necessarie elaborazioni che a loro volta richiedono tempi tecnici”. E questa richiesta assomiglia proprio a quella di uno “slittamento” richiesto in attesa di chiarimenti e poi di eventuali implementazioni che potrebbero necessitare mesi e mesi. Pur senza avere ulteriori chiarimenti (sempre utili, possibili e implementabili magari nei prossimi rendiconti annuali) ci risulta (da interviste con varie associazioni di risparmiatori e consulenti finanziari) che in altri Paesi europei gli intermediari hanno comunque trovato il modo di trovare uno standard per comunicare tale rendicontazione dei costi e la stessa Esma nel sito nella sezione Questions and Answers non si è tirata indietro in questi anni nel fornire chiarimenti e di indicare le linee che ciascun intermediario può applicare alla propria realtà, trovando ciascuno il miglior modo per comunicare in modo trasparente e chiaro i costi applicati alla clientela come richiesto dalla nuova Direttiva europea Mifid2, approvata dal Parlamento europeo nel maggio 2014.

Salvatore Gaziano

Beni culturali. La legge proposta nel 2010 dalla Commissione Rodotà è ancora valida?

Seguo sempre il professor Tomaso Montanari e condivido in pieno le sue preoccupazioni per ciò che attiene al patrimonio pubblico, sia culturale sia ambientale. Ho letto l’articolo di lunedì sulla villa medicea Ambrogiana, condividendolo in pieno, e la replica del giorno successivo al signor Lotti. Vorrei perciò porre al professore una domanda: perché l’associazione di cui Lei è presidente “Giustizia e Libertà” non aderisce alla raccolta delle firme per una legge di iniziativa popolare che disciplini l’uso dei beni pubblici e collettivi, già elaborata dal professor Rodotà assieme ad altri giuristi e poi lasciata decadere dai governi e parlamenti dal 2010 in poi? Le norme che regolano i beni pubblici e collettivi risalgono, infatti, a un lontano Regio Decreto del 1942.

Sabina Rombaldi

 

Cara Sabina, Libertà e Giustizia ha dovuto prendere atto che l’idea di trasformare in una legge di iniziativa popolare il testo scaturito, dieci anni fa, dalla Commissione Rodotà sta spaccando il mondo dei beni comuni.

Luoghi dove la logica dei beni comuni è stata non solo teorizzata, ma praticata, come l’Asilo Filangieri a Napoli, hanno deciso di non raccogliere le firme, e non c’è associazione, piccola o grande, in cui non si contino da una parte i favorevoli, dall’altra i contrari.

Ugo Mattei e gli altri generosi promotori dell’iniziativa sono convinti che quel testo sia l’argine più efficace alla privatizzazione e mercificazione del patrimonio pubblico. Viceversa, Paolo Maddalena e altri giuristi non meno impegnati sono convinti che esso indebolirebbe in modo decisivo proprio ciò che vorrebbe difendere: il nesso tra popolo e beni comuni.

Ci sono ottima fede e ottimi argomenti da entrambe le parti, e onestamente nessuno può dire cosa deciderebbe oggi, nelle condizioni date, Stefano Rodotà.

Per questo Libertà e Giustizia ha deciso che ogni suo circolo è libero di decidere se raccogliere o meno le firme. Non ho lo spazio per esprimere qua la mia personale opinione. Ma non posso che concordare con la saggezza con cui Gaetano Azzariti ha invitato alla moderazione, e a una vera e aperta discussione sul merito. Se si vuole intraprendere la strada di una legge di iniziativa popolare, bisogna che il popolo – in questo caso il popolo dei beni comuni – sia messo in condizioni di decidere.

Tomaso Montanari

Mosca e l’Internet sovranista. Putin si fa un web tutto suo

“Sovranità digitale”. È il titolo breve dell’ultimo disegno di legge voluto dal Cremlino. Approvata in prima lettura alla Duma, la proposta legislativa assicura alle autorità il controllo totale sullo spazio internet domestico “da difendere contro gli attacchi stranieri”. È un cambiamento necessario per “tutelare la sicurezza virtuale”, riferisce Mosca: una strategia difensiva nella cyberguerra in corso con l’ovest.

Un internet solo russo e per i russi, sconnesso dal world wide web. La rete della Federazione diventerà solo patria per difendersi “da eventuali attacchi di potenze straniere in caso di cyberguerra”. I dati degli utenti circoleranno solo su server nazionali, senza valicare mai il confine virtuale della Federazione. Con l’entrata in vigore della legge verranno anche limitati gli accessi ai siti scomodi per il Cremlino: per gli attivisti è una minaccia all’ultimo spazio di libertà rimasto, per gli esperti si tratta di una versione avanzata del “great firewall” cinese, che devia o reindirizza verso altri siti chi compie ricerche non gradite. Tutto il traffico finirà sotto l’occhio vigile del Roskomnazor, l’orwelliano ente russo della vigilanza telecomunicazioni, che avrà la libertà di bloccare informazioni ritenute sgradevoli o proibite.

Il primo aprile è la data del lancio di prova: disconnettendosi dalla rete internet globale, Mosca testerà un’infrastruttura tecnologica in cui ha già investito milioni di rubli. Manca l’approvazione finale della legge alla Duma, ma è un passaggio quasi scontato. Putin ha già dato il suo consenso al disegno che porta la firma dell’ex agente segreto Andrey Lugovoi, principale sospettato dell’omicidio dell’ex spia Litvinenko e oggi punta di diamante del Comitato sicurezza di Mosca.

“Con questa cricca l’Europa è virtuale, sì agli Stati liberi”

Nigel Farage è finito? L’uomo della Brexit, in fondo ha ottenuto il suo scopo. Ma davvero un europarlamentare alla quarta legislatura deve lasciare il lavoro (e il ricco stipendio di deputato europeo) che ha contribuito a renderlo popolare a livello globale? Ecco quindi l’idea geniale: un nuovo partito con cui presentarsi alle Europee, casomai il divorzio Ue-Uk previsto tra 40 giorni dovesse alla fine essere rimandato.

Signor Farage, l’aver creato un Brexit Party è la prova che Brexit, alla fine, non ci sarà?

Al contrario. Fare un partito così significa proprio rendere più plausibile e concreta l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Sia chiaro: se il Parlamento di Westminster e il governo di Londra dovessero considerare l’ipotesi di andare oltre il 29 marzo, ritardando la Brexit di uno o due anni, questo significherebbe buttare via tutto quello che si è fatto. Ecco, se ciò accadesse, il mio Brexit Party si presenterebbe alle elezioni europee di maggio. Starebbe lì come un monito a ricordare che il Regno Unito deve andarsene dall’Unione. E in fretta.

E dell’Ukip che ne è? Lo ha lasciato per contrasti con l’attuale leader Gerard Batten?

Hanno deciso di andare in una direzione che io avevo fatto in modo il partito non prendesse. È vero, Ukip si è sempre battuto per proporre politiche scomode: rompere con l’Ue o controllare l’immigrazione. Ma non ho mai permesso che fosse toccato dall’estremismo, o che vi si infiltrassero degli estremisti. Conosco bene la Middle England (l’Inghilterra profonda, ndr): è fatta di persone perbene. E Ukip, che dovrebbe rappresentare proprio queste persone, si è consegnato a una frangia minoritaria di estremisti.

Lei è nel suo ufficio del Parlamento europeo, non ha rinunciato allo stipendio, dopo che il referendum sull’adesione all’Ue è stato vinto dai sostenitori del leave. Non crede avrebbe dovuto farlo?

Intanto, se non avessi avuto il mio lavoro qui, non ci sarebbe stato nessun referendum: mi sembra un argomento logico. Inoltre, se non ci fossero stati euroscettici rappresentati al Parlamento europeo, tutti i posti sarebbero stati occupati da euro-entusiasti e non sarebbe stato possibile mettere in questione quest’Europa sbagliata. Mi si accusa usando un argomento scorretto.

In generale, cosa rimprovera all’Unione europea e come vede il suo futuro?

Di essere centralizzata e antidemocratica. L’Europa ha consegnato le leve del potere reale a un gruppo di persone che non sono né elette né trasparenti. Quest’Europa così non ha futuro: non si può fondare una stato, artificiale come questo, come hanno voluto fare, senza il consenso. Noi la rimpiazzeremo con un’Europa di Stati liberi e sovrani e democratici, che lavorano in cooperazione. Sono a favore della cooperazione, del commercio tra Paesi a livello europeo, e per questo voglio lavorare. Solo, non voglio che sia la cricca di Bruxelles a manovrare il tutto.

Lei sta dicendo che è per una Hard Brexit e al tempo stesso per la cooperazione a livello europeo? Non si sta contraddicendo?

Per niente, mi sembra tutto molto logico.

E il futuro delle relazioni tra Ue e Uk come lo vede?

Molto meglio di come sono al momento. La finiremo con gli abusi e il bullismo dei Tusk, degli Juncker, dei Barnier. Mica lo fanno solo con Londra: guardi anche quello che hanno fatto con la Polonia, l’Ungheria e l’Italia. Come in una dittatura.

A proposito di Italia. Nella prossima legislatura – e sempre che la Brexit avverrà e il Regno Unito non eleggerà più la sua quota di europarlamentari -, il gruppo Efdd al Parlamento europeo non vedrà più l’alleanza tra Ukip e M5S. Cosa consiglierebbe ai Cinque Stelle?

Hanno fatto grandi errori, come il tentativo di passare al gruppo Alde due anni fa. Sono molto inesperti a livello europeo. Se non stanno attenti, rischiano di rimanere isolati.

Di Grillo però resta grande amico?

L’ho incontrato in passato e ci siamo sentiti poi più volte al telefono. Ho massima stima per l’opera che ha realizzato insieme a Casaleggio.

Suicidio alla spagnola. Sánchez immolato sull’altare secessionista

Si era da poco intestato la fascetta di primo presidente del governo spagnolo a pubblicare ancora in carica un libro in cui svela i segreti della sua ascesa, quando ecco che Pedro Sánchez rischia di passare già alla storia. A far venire meno la maggioranza al suo governo durato soli 8 mesi e sorto con la sfiducia a Mariano Rajoy, è stata ieri la questione catalana: quella che ha fatto irruzione nel palazzo del Congresso di Madrid al momento del voto sul bilancio dello Stato, ma che si aggirava come un’ombra sul suo esecutivo ormai da tempo. Ed è finita che Esquerra Republicana e Partito Democratico della Catalogna, i due partiti indipendentisti catalani alle Corti, come minacciato, hanno votato a favore degli emendamenti contro il bilancio rompendo il patto di governo. A loro si sono sommati i voti scontati dei Popolari e di Ciudadanos: 151 contrari e 191 a favore degli emendamenti contro la Finanziaria, che torna al governo, il quale però aveva già dichiarato che in caso di rifiuto, avrebbe considerato conclusa la legislatura prima della scadenza naturale del giugno 2020.

Quanto alle elezioni anticipate Sanchez si è preso un giorno di tempo, e solo venerdì prossimo dopo l’ultimo consiglio dei ministri annuncerà l’eventuale data: prima possibile il 28 aprile, scampata la prima utile del 24, troppo vicina alle vacanze della settimana santa e al derby Betis-Siviglia. A proposito di annunci, che il risultato sarebbe stato questo, si sapeva già dal pomeriggio di martedì, quando a poche centinaia di metri dal Congresso, la politica catalana tesseva le sue strategie fuori dal Tribunale Supremo nel giorno dell’apertura del processo ai leader indipendentisti catalani accusati di ribellione per i fatti del 2017. “Niente più dialogo? Scordatevi il bilancio”, aveva dichiarato al Fatto Pere Aragonés, il vicepresidente della Generalità, mandando anche un messaggio indiretto alla destra, a detta sua non così indisponibile a dialogare con gli indipendentisti, non se farlo porta alleanze per governare. Tant’è che nel giorno in cui i giudici hanno rimarcato in aula loro indipendenza dalla politica, in risposta alla tesi della difesa che nell’arringa iniziale sosteneva la politicizzazione del processo, è la questione catalana a irrompere nella politica bruciando ogni possibilità di riallacciare il dialogo. Risultato: processo sospeso e rimandata la prima dichiarazione, quella di Oriol Junqueras, l’ex vicepresidente che rischia 25 anni di carcere. Ma soprattutto, a parte la proroga della manovra 2018, e le grandi misure già approvate per decreto dal governo Sánchez, a non vedere la luce saranno le entrate, cioè le nuove tasse che secondo la Finanziaria non approvata avrebbero dovuto sostenere le spese. “Cercheremo di tenere a bada il deficit e faremo tutto il possibile fino alla fine”, ha promesso Maria Jesús Montero, la ministra delle Finanze, in chiusura di seduta e, pare, di legislatura. Salve anche le pensioni il cui aumento era già stato approvato per decreto a dicembre scorso. Felici infatti sono andati via i pensionati che manifestavano davanti al Congresso durante il voto. Ma a rimetterci, paradosso, saranno proprio i catalani. E non solo economicamente – anche se c’è da dire che la mancata approvazione del bilancio significherà anche la mancata approvazione di quello delle autonomie – con conseguente perdita di quegli aumenti milionari dei fondi che avrebbe ricevuto dallo Stato centrale nel 2019, di cui 1milardo e 500 milioni per la gestione del governo catalano, e 900 milioni in più sui 2,2 miliardi di investimenti in infrastrutture. A insorgere subito contro le conseguenze sociali del voto è stata la sindaca di Barcellona, Ada Colau, che su Twitter ha tacciato di “errore storico” il no alla legge di bilancio che a detta sua “apre la porta alle elezioni che potrebbero far vincere la destra e l’estrema destra”, “per interessi di parte si pregiudica la gente, soprattutto la più vulnerabile. Una irresponsabilità” ha chiosato Colau, testimone nel processo al Supremo e prossima alle elezioni del 26 maggio. D’altra parte era stato Pablo Iglesias, leader di Podemos a cercare di convincere Carles Puigdemont, leader indipendentista del PdCat a far votare sì ai suoi, i più possibilisti nelle ore precedenti alla votazione. Esquerra republicana, invece, aveva mantenuto il punto fin da venerdì, quando Sánchez aveva interrotto il dialogo non cedendo alla richiesta di un intermediario politico. Tra i due partiti indipendentisti qualcuno vede l’inizio di una contesa per l’egemonia dello spazio politico del catalanismo. Per ora ha vinto la linea dura, ma c’è chi nel PdCat, come il portavoce del gruppo, Carles Campuzano, mette in dubbio le elezioni accusando il governo socialista di essere inopportuno nel convocarle in pieno processo ai leader indipendentisti, sottolineando che loro non si sono mai alzati dal tavolo dei negoziati e che sarebbero disposti a riprenderli con un futuro governo Sánchez. Cosa, quest’ultima non molto probabile, visto che i sondaggi di appena due giorni fa davano per vincente il nuovo triunvirato di centrodestra più sovranisti – Pp, Ciudadanos e Vox – con il 51,2% dei voti, contro il 39,5 che darebbe la somma dei socialisti e Unidos Podemos. E non sarebbe una coincidenza.

Anpal, protestano i precari: “Assumano noi e non i navigator”

I precari dell’Anpal Servizi sono pronti a nuovi scioperi e al blocco delle attività proprio in concomitanza con l’avvio del reddito di cittadinanza. La protesta dei 654 operatori a termine della società pubblica rischia di diventare una grana difficile da gestire per il governo. Ieri, al termine di un sit-in, un gruppo è stato ricevuto dallo staff del sottosegretario al Lavoro Claudio Cominardi. Nella riunione è emerso che la maggioranza non intende aumentare lo stanziamento per le stabilizzazioni in Anpal Servizi in fase di conversione in legge del Decretone. Resterà solo un milione di euro e quindi non si potrà garantire il posto fisso nemmeno ai 134 che oggi hanno il contratto a tempo determinato (gli altri 520 sono collaboratori). I precari, quindi, annunciano nuove astensioni dal lavoro. Una mobilitazione che potrebbe creare qualche intralcio al lancio del reddito di cittadinanza. Gli operatori Anpal Servizi, secondo quanto filtrato, dovranno infatti svolgere un ruolo fondamentale: formare i 6 mila navigator che stanno per essere assunti, anche loro a termine, per seguire i beneficiari del sussidio nella ricerca del lavoro.