Al supermercato. Il formaggio sa di schiuma da barba e il prosciutto di lucido da scarpe

Una volta c’erano le botteghe, oggi ci sono i supermercati dove, notoriamente, si trova di tutto: dai lacci per le scarpe ai pannolini, dai formaggi ai deodoranti, dai dentifrici al cibo per cani. Purtroppo tutte queste cose così diverse, cosi lontane tra loro, convivendo per mesi sugli scaffali in attesa di un compratore, finiscono per assomigliarsi. Sembra incredibile, ma se ci fate caso, un formaggio emmental del supermercato se lo assaggi con attenzione non è poi cosi lontano da una schiuma da barba, e il prosciutto di Parma diventa quasi parente di un detersivo per piatti o di un lucido da scarpe. Noi non ce ne accorgiamo, ma le nostre papille gustative non reagiscono più, e se qualcuno particolarmente attento si rivolge a uno dei dipendenti e rispettosamente chiede: “Mi scusi, forse è solo una mia impressione, mi sembra che questo salame sappia un po’ di varichina…” Naturalmente il dipendente non risponde, ma il sospetto rimane. Chissà, forse di notte quando il supermercato è chiuso tutti quei prodotti così colorati e cosi invoglianti saltano di scaffale in scaffale, si vanno a trovare, si incontrano per non sentirsi soli, si mischiano, si accoppiano con altri prodotti di natura completamente diversa, e diventano una cosa sola. Nelle botteghe il salumiere si prendeva cura del cliente, ti diceva “Assaggi questo parmigiano!” e con la punta del coltello te ne offriva un pezzetto. Sembra incredibile, ma a me è successa la stessa cosa in un supermercato sotto casa. Un dipendente mi ha portato con eleganza, con un gesto quasi teatrale una fettina di salmone e mi ha detto con voce flautata: “Assaggi signorina, vedrà le piacerà molto…” il tempo di mangiare e lui era sparito, come svanito nel nulla. Un mago? Un illusionista? Forse, più probabilmente l’ultimo essere umano sopravvissuto in un supermercato.

 

Anti-fanatismo. Il pensiero di Flores D’Arcais sulla “chiamata di Dio” delle destre europee

Paolo Flores d’Arcais, filosofo, fondatore e direttore della rivista Micromega, ha appena pubblicato un libro su Jurgen Habermas. “Contro Habermas”, spiega il titolo (Editore Aragno) e le pagine sono dedicate dall’autore con dura fermezza a negare e respingere le costruzioni sociologiche e filosofiche di un personaggio ritenuto fra i più grandi protagonisti del grande mutamento. Parlo di ciò che, intorno agli anni Ottanta dell’altro secolo ha cominciato ad accadere: disconoscere l’onda di cambiamento generato dalla fine della seconda guerra mondiale, dilatato negli anni Sessanta e segnato da grandissime impronte: Roosevelt , Kennedy (John e Robert ), Martin Luther King, Carter (ingiustamente giudicato modesto e dimenticabile presidente ). Ero a New York alla Columbia University, l’anno era il 1980, il presidente degli Stati Uniti (uno dei più rivoluzionari) era adesso Ronald Reagan. C’era poca consapevolezza (nel senso di conoscenza) di un filosofo tedesco di nome Habermas, ma un vento molto forte spingeva avanti personaggi fino ad allora ignoti o poco noti, li distaccava dalle piccole università religiose in cui insegnavano e dava impeto alla loro avversione per la politica, “sfuggita dalle mani di Dio” e invocavano religione troppo a lungo segregata.

Reagan ha cambiato in meno di un anno l’America atea. Ha cambiato la Corte Suprema (con l’inclusione del grande giurista ed estremista cattolico Antonin Scalia, e il primo grande tentativo di vietare l’aborto), l’impianto educativo (sopratutto sulla questione del creazionismo), con il sostegno del popolarissimo predicatore Jerry Falwell, e ha spinto Camera e Senato a raccogliersi abitualmente in riunioni di preghiera prima di ogni seduta.

Tutto ciò spiega perché Flores d’Arcais ha visto la necessità di attaccare con tante durezza e fermezza la dottrina apparentemente mite e sostanzialmente ratzingheriana di Jorgen Habermas. Lo ha fatto mentre un’Europa allo sbando mostrava un espandersi della religiosità di giardino coltivata allo scopo di dare alla spinta a destra la necessità della chiamata di Dio. E questo spiega perché un testo filosofico che presenta una grande visione del tempo in cui viviamo (a partire dai due decenni che precedono) e una estrema attenzione ai dettagli con cui si sta distruggendo il muro che ha difeso a lungo la separazione fra religione e politica, intende sopratutto screditare il lavoro apparentemente sociologico e filosofico di Habermas, in realtà educatore politico, per preparare una brutta stagione.

 

Contro Habermas

Paolo Flores D’Arcais

Pagine: 255

Prezzo: 20,00

Editore: Aragno

Il principe sindacalista: fate come me, lasciate il lavoro se vi stressa

 

Bocciati

Il lavoro rende fallibili

Sua Grazia del Sussex, per gli amici il principe Harry, intervistato da Fast Company Magazine ha così commentato il fenomeno chiamato ‘Great Resignation” (cioè l’ondata di dimissioni da parte di lavoratori negli Usa): “Molte persone, in tutto il mondo, sono state bloccate in lavori che non hanno portato loro gioia, e ora mettono al primo posto la loro salute mentale e la loro felicità. Questa è una cosa da celebrare”. Secondo Harry d’Inghilterra “questi problemi si stavano già affacciando da qualche anno. Adesso ci troviamo di fronte a una presa di coscienza generale sul ruolo della salute mentale. Ecco perché bisogna continuare a tenere viva la discussione su questo argomento”. Lui in effetti si è dimesso dal suo lavoro, che certamente non lo rendeva felice, e si trasferito negli Stati Uniti. Noi non pensiamo che solo le donne possano parlare di aborto e solo i lavoratori precari di lavoro. Però pensiamo che quando un principe miliardario dà consigli al popolo dovrebbe contare fino a 180mila prima di parlare. Così, per evitare figure di merda.

 

Mi aspetto mille scuse

Come i nostri lettori sanno tra i ventidue nomi scelti da Amadeus per il prossimo Festival non ci sono i Jalisse, che vinsero Sanremo nel 1997 con “Fiumi di parole”. Uno dice vero, ma manco Povia, Lola Ponce e Giò di Tonno, per dire. Invece secondo il duo di Oderzo “C’è posto per tutti tranne che per i Jalisse”, come ha scritto sui social Fabio Ricci, che fa coppia con Alessandra Drusian anche nella vita. “Oggi sono 25 i brani presentati e 25 le esclusioni dal Festival. Chi ci definisce meteore della musica italiana ci ferisce. Non siamo noi che non vogliamo comparire, semplicemente veniamo respinti, non ci viene data la possibilità di esibirci e far conoscere la nostra musica”, spiega il cantautore. In maggio i due avevano ricevuto una missiva dal Quirinale a proposito del loro brano “Speranza in un fiore” dedicato ai nonni scomparsi a causa del Covid. “Gentili coniugi Jalisse, il Presidente della Repubblica ha ricevuto la Vostra email e mi incarica di ringraziarVi per le cordiali espressioni di stima indirizzategli e per il desiderio di sottoporgli il cd di canzoni inedite”. Ragazzi se manco gli agganci con Mattarella hanno funzionato, fatevene una ragione. Dai, un quarto di secolo a lamentarsi è davvero troppo tempo.

 

Non classificati

Un noto scoop

A conclusione del festival delle “Arti Effimere” che ha richiamato a Noto moltissimi visitatori per la rievocazione dell’arrivo di San Nicola a cavallo, il vescovo ha detto ai fedeli presenti nella basilica del Santissimo Salvatore che “No, Babbo Natale non esiste. Il rosso del vestito che indossa è stato scelto dalla Coca Cola esclusivamente per fini pubblicitari”. Alle ovvie successive polemiche il vescovo ha risposto: “È una via per fare poptheology e recuperare il senso vero della tradizione cristiana del Natale. I bimbi sanno che Babbo Natale è papà o lo zio. Quindi nessun sogno infranto”. Poptheology?

 

Vedere cammello

Leggiamo sulla Zampa, la visitatissima sezione dedicata agli animali del sito della Stampa, che in Arabia Saudita a un famoso concorso di bellezza per cammelli alcuni allevatori sono stati beccati a truccare la gara (in senso letterale). Gli organizzatori hanno squalificato 43 concorrenti dopo aver scoperto le iniezioni di filler, botox e ormoni per rendere più belli i cammelli (sic). Al King Abdulaziz Camel Festival, giunto alla sesta edizione, sono stati scoperti 147 casi di ritocchini: i concorrenti responsabili dei trattamenti proibiti sui cammelli rischiano multe fra gli 8 mila e i 27 mila dollari. Voi direte: sono pazzi questi sauditi? Non proprio: gli allevatori si contendono premi in denaro per oltre 66 milioni di euro. Tra loro ci sarebbe un italiano, pare toscano, forse di Pontassieve (disclaimer per il querelatore folle: è una battuta).

 

Juve in bolletta. Altro che un club modello: ha già impegnato 300 mln e sino al 2025

Se è vero, come sospetta la Procura di Torino, che 282 dei 322 milioni di plusvalenze messe a bilancio dalla Juventus nelle ultime tre stagioni erano farlocche, realizzate cioè per truccare bilanci altrimenti impresentabili, per il club di Andrea Agnelli le cose potrebbero mettersi male anche in campo sportivo. Una penalizzazione in classifica, anche di pochi punti, potrebbe rendere vana la rincorsa già oggi problematica al quarto posto che vale l’accesso alla Champions League, il torneo che ha reso alla Juventus, pur nelle ultime deludenti partecipazioni, una media di 80-90 milioni a stagione, milioni che di colpo verrebbero a mancare.

Se a ciò si aggiunge che persino l’aumento di capitale di 400 milioni, per ammissione della stessa Juventus, è a rischio (potrebbero arrivare solo i 255 milioni di Exor), la domanda è: come può restare in piedi un club dal monte ingaggi spaventoso (236 milioni), fuori dalla Champions, col titolo ai minimi storici e senza un soldo in cassa? Direte: adesso non esageriamo, il 27 agosto Exor ha già provveduto a versare 75 milioni e già a gennaio sarà possibile rafforzare la squadra per far sì che il traguardo-Champions venga raggiunto. Beh, le cose non stanno affatto così. Perché anche se nessuno ve lo racconta, è bene sapere che la Juventus ha già speso (senza averli) i soldi non solo per la stagione in corso, ma anche per le prossime tre, fino al 2025.

Stagione in corso. Nonostante l’ingaggio di Locatelli in prestito gratuito per i primi due anni, la Juventus deve onorare quest’anno (senza considerare la voce stipendi, che sappiamo pesantissima) una spesa retrodatata di 60,3 milioni: 17,1 per De Ligt (3ª rata), 8,8 per Kulusevski (2ª rata), 7 per Chiesa (prestito 2° anno), 14,4 per Arthur (2ª rata), 10 per Morata (prestito 2° anno), 3 per Kean (prestito 1° anno).

Anno prossimo. Ancor più pesante sarà la situazione fra un anno, nel 2022-23, quando la Juve al pronti-via dovrà provvedere a un esborso, per acquisti già perfezionati, di 72,56 milioni: 17,1 per De Ligt (4ª rata), 14,4 per Arthur (3ª rata), 8,8 per Kulusevski (3ª rata), 4 per Kean (prestito 2° anno), 16,6 per Chiesa (1ª rata dopo il fine prestito) e 11,6 per Morata (1ª rata). Quest’ultima è la sola operazione che non prevede obbligo: per il riscatto di Alvaro Morata dall’Atletico a 35 milioni la Juventus ha comunque il diritto, se riterrà, di non esercitarlo.

Stagione 2023-24. Piove sul bagnato. Sono infatti 91,39 milioni i soldi già impegnati e che la Juventus dovrà pagare a partire dall’1 luglio 2023: 17,1 per De Ligt (5ª e ultima rata), 14,4 per Arthur (4ª rata), 8,8 per Kulusevski (4ª rata), 16,6 per Chiesa (2ª rata), 11,6 per Morata (2ª rata, se riscattato), 12,5 per Locatelli (1ª rata dopo prestito gratuito), 10,33 per Kean (1ª rata dopo il fine prestito).

Stagione 2024-25. Grazie all’acquisto finalmente concluso di De Ligt, nella stagione 2024-25 l’impegno che la Juve dovrà onorare per acquisti già in pancia cala da 91,39 ai 74,29 milioni che serviranno per i 14,4 di Arthur (5ª e ultima rata), gli 8,8 di Kulusevski (5ª rata), i 16,6 di Chiesa (3ª rata), i 12,5 di Locatelli (2ª rata), i 10,33 di Kean (2ª rata) e gli 11,66 di Morata (3ª rata, se riscattato).

Per questa e le prossime tre stagioni la Juve ha già speso qualcosa come 300 milioni (60,3 + 72,56 + 91,39 + 74,29 = 298,54), 265 in caso di non riscatto di Morata. Club modello, ci hanno raccontato per 15 anni. Come no.

 

A chi la scorta e a chi no. Il vero coraggio di Marcela Turati, la reporter messicana

Queste Storie italiane saranno un po’ urticanti. Ed è possibile che stia dicendo qualcosa con cui, parodiando Woody Allen, non sono del tutto d’accordo. Ma vedete, da un po’ di tempo ho – se così posso dire – un rovello in più, tra i molti che è sensato avere. Ed è quello delle scorte vistose e onnipresenti assegnate ai personaggi ritenuti “a rischio”. E della conseguente celebrazione civile di questi ultimi. Sarà perché in un caso ho potuto assistere direttamente a una sapiente autocostruzione (o alimentazione) della “situazione di rischio”, sarà perché vedo ormai tanti particolari che non mi convincono o addirittura mi deprimono, ma sono diventato un po’ diffidente. Per ragioni familiari ho respirato l’aria del rischio sin da ragazzo, e certe narrazioni o auto-narrazioni mi appaiono decisamente fuori posto. Voglio precisare: sono pensieri, quelli che vi sto offrendo, che non ho fin qui messo per iscritto perché c’è sempre il rischio (appunto…) di sbagliare valutazione, o di aprire un varco in cui possano poi gettarsi per grazia ricevuta i campioni della cultura mafiosa, con le loro pretese di resa civile e omertà intellettuale.

Solo che alla fine sono stato costretto a tornare su questo rovello e a rianalizzarne minuziosamente le cause qualche pomeriggio fa a Città del Messico. L’occasione è stata l’assegnazione del premio della fondazione Barba Varley di quest’anno a “5° Elemento”, una rete di giornalisti messicani che si occupano in particolare delle desapariciones forzadas e alla cosiddetta Brigada nacional de bùsqueda composta dai molti gruppi di volontari impegnati in tutto il Paese nella ricerca dei resti dei desaparecidos. Sul palco è stata chiamata a ricevere il premio Marcela Turati, giornalista coraggiosa di cui il Fatto ha già parlato, anche in questa rubrica. Ebbene, ho studiato Marcela quand’era nel pubblico e poi sul palco. Provo per lei una ammirazione profonda, come per tutti coloro che sanno mettersi a rischio per difendere la libertà e la legalità in situazioni difficili o estreme. Basti pensare che in Messico i giornalisti uccisi sono ormai più di duecento. E che secondo le cronache la violenza dei narcos ma anche dei poteri “istituzionali” colpisce in certi contesti soprattutto le donne. Ecco, Marcela è con ogni certezza tra i cronisti più scomodi, costretta come e più di altri a una vita “deprivata” che ne sfida ogni giorno il senso di libertà fisica e la serenità psicologica. Ha davanti uno scenario di più di duecentomila morti, caduti in una guerra anarchica che dura da un ventennio, e una corruzione potente che entra in tutti i gangli della vita civile e istituzionale. Ma è senza scorta e nemmeno la chiede, perché in fondo non se ne fida. Cammina e viaggia da sola o con amici, quando entra in un ristorante nessuno se ne accorge, quando arriva in una piazza affollata nessuno si chiede cosa succeda.

Il pomeriggio di due settimane fa in cui condivideva con le sue colleghe la gioia per il meritato riconoscimento professionale, scherzava, salutava senza cipiglio e senza lamenti gli ospiti, brindava al tavolo del buffet disposto all’interno della villa, protetta in tutto da un muro di cinta e da una guardia giurata al cancello. Al momento della premiazione mentre le giornaliste della rete di “5° Elemento” facevano la ola in platea lei le invitava ridendo e con il classico gesto esortativo a far sentire insieme più forte la propria voce.

Forse i messicani sono più allegri. Forse hanno antropologicamente più familiarità con la morte, come diceva Falcone dei siciliani. Fatto sta che mi sono chiesto perché lei e altri in Messico sì e altri assai meno a rischio in Italia no. Se non vi sia qualcosa di strano, una curiosa malattia che mi scorre sotto gli occhi tutti i giorni. Oltre la mafia, si intende. Che con buona pace di molti non è finita.

 

Quei disastri di Johnson, Zaki e Civati il testardo, l’autoironia di Cuperlo

 

Provaci ancora Boris.

Boris Johnson non ne indovina una. E dire che di retromarce per farsi perdonare le accelerate precedenti il premier britannico ne ha infilate parecchie. Dopo la rimozione di tutte le restrizioni sanitarie, nella convinzione che la campagna vaccinale fosse sufficiente in sé, il premier ha dovuto ancora una volta correggere la rotta quando i contagi hanno ripreso a dilagare e la variante Omicron ha cominciato a prendere il sopravvento. Come se non bastasse, la sterzata è arrivata proprio in concomitanza con il ‘partygate’ di Downing Street: in questi giorni sono state rese pubbliche le foto di una festa natalizia, tenutasi lo scorso anno e organizzata dai collaboratori del premier nella sua residenza ufficiale, in barba a tutte le regole anti Covid. “Ero anch’io furioso nel vedere quella clip. Saranno prese misure disciplinari”, ha affermato Johnson all’inizio del “Question time” alla Camera dei Comuni. Ma la domanda è: come mai non ne azzecca una?

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Fiumi di risate.

Questa settimana sono usciti i nomi dei partecipanti al prossimo Festival di Sanremo. Tra gli esclusi illustri che hanno manifestato il loro disappunto ci sono i Jalisse che dopo la loro vittoria del 1997 non sono mai più stati ammessi alla kermesse. Gianni Cuperlo, uomo di grande autoironia, che gli è valsa un esilarante fake sui social, ‘Kuperlo’, ormai diventato celebre, ha commentato così: “25 anni che i Jalisse tentano di andare al Festival di Sanremo e vengono respinti. So cosa vuol dire. È esattamente la mia storia con la segreteria del partito!”. Ecco, mentre i Jalisse parlano d’ipotetici boicottaggi e di addetti ai lavori che mirano ad ostacolarli, il mancato segretario dem ci ricorda come si possa essere persone serie senza prendersi eccessivamente sul serio.

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Date a Pippo quel che è di Pippo.

Pippo Civati è un ragazzo testardo e forse sarà anche per questo che la politica, per ora, ha scelto di farla a modo suo. Per due anni, mentre Patrick Zaki si trovava in carcere, ogni mattina il fondatore di Possibile ha dedicato un tweet allo studente egiziano: un articolo del Corriere sulle condizioni del ragazzo, corredato dalla scritta ‘Ve lo ricorderemo ogni giorno, maledetti’. Mentre il pensiero di Zaki rischiava di cadere nell’oblio, tra le afonie e le timidezze dei governi e la noncuranza di buona parte dell’opinione pubblica, l’ostinazione di Civati e il suo impegno per i diritti civili, sono tra gli elementi che hanno permesso di non mollare mai l’attenzione: “Non potremo mai sapere se l’impegno di alcuni di noi, di tante associazioni, delle università (…) sia stato decisivo. In ogni caso, nel dubbio, è sempre meglio crederci. Una lezione a tutti quelli che dicono che le campagne di opinione non servono a niente. Non so se è servito, ma era peggio non farlo”. Cercare di mobilitare l’opinione pubblica quando questa sonnecchia, farsi portavoce di battaglie dallo scarso appeal mediatico, che informazione e partiti non vampirizzano perché poco remunerative: questo dovrebbe fare la buona politica. Civati, senza dubbio, l’ha fatta.

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Pandemia. In un mondo malato, ecco le parole necessarie per cambiare dopo questa “notte”

Abitare nelle parole è come abitare nella possibilità parafrasando Emily Dickinson, laddove la “monaca ribelle” vestita di bianco nel suo poetare sovrapponeva la fede al dubbio nella stessa immagine, quella della notte. Oggi la notte del mondo è l’incubo della pandemia che viviamo cotidie e le parole sono sempre lì a indicare la realtà, ché le parole restano sempre la chiave migliore per comprendere tutto. Ma a quali parole ricorrere per “immaginare il futuro”?

È la questione che affronta Antonio Spadaro nel suo ultimo saggio Fiamma nella notte. Sette parole per immaginare il futuro. Gesuita e direttore della Civiltà Cattolica, grande studioso della letteratura americana nonché collaboratore del Fatto, padre Spadaro ne individua sette, di parole, per riflettere sul mondo post-Covid e non solo: viaggio, frontiera, ring, germoglio, cose, Logos e pandemia.

Tenendo presente una premessa fondamentale, che per scavare sino in fondo il senso delle parole è indispensabile aprirsi al cambiamento: “Noi siamo abituati al probabile, a quello che le nostre menti suppongono che, statisticamente parlando, possa accadere. Invece, spesso ci manca la visione del possibile, che a volte viene confinato nel mondo dell’utopia”. Di qui il verso dickinsoniano, appunto, “I dwell in possibility”, e anche un quesito di papa Francesco ispirato dall’Apocalisse: “Saremo disposti a cambiare gli stili di vita” in un mondo “contagiato e rallentato?”. In questa direzione, il libro di padre Spadaro spalanca un solido portone letterario e teologico sul mistero della vita e della morte. Un mistero che interroga tutti, non solo i credenti. Anzi da questo punto di vista, il merito del gesuita è quello di liberare da una gabbia statica la ricerca dell’Assoluto, con la curiosità tipica di chi esplora senza pregiudizi la “biblioteca” universale. Nel capitolo dedicato a Cristo, al Logos, luccica un perla preziosa del Grande Cieco argentino, Borges: “non lo vedo/ e insisterò a cercarlo fino al giorno/ dei miei ultimi passi della terra”.

Il capitolo che più deve alla letteratura americana è quello dedicato alla frontiera: intesa in maniera doppia come “terreno esteriore e territorio interiore”, per poi arrivare al confine dell’aldilà oltrepassato magistralmente da Edgar Lee Masters con la celebre Antologia di Spoon River.

E se la metafora del viaggio è la più classica per aggiornare il nostro vocabolario del cambiamento (l’homo viator: anche qui la parola decisiva può essere abitare, cioè abitare il cammino), padre Spadaro sorprende il lettore con l’inserimento del ring pugilistico tra le sette parole. Da Giacobbe che scazzottava con l’Angelo nella Genesi fino al memorabile match tra Muhammad Ali e George Foreman nel 1974, c’è spazio per la scrittrice Flannery O’Connor che annotò: “La stesura di un romanzo degno di questo nome è una sorta di duello personale”.

 

La sai l’ultima?

 

Noto

Il prete rivela ai bambini: “Babbo Natale non esiste, è solo un’invenzione della Coca Cola”

L’eroe malvagio della settimana è senz’altro il vescovo di Noto, l’uomo che ha deciso di santificare le feste spifferando ai bambini la più ferale delle notizie: “Babbo Natale non esiste”. Don Antonio Staglianò ha sconvolto, dal suo pulpito, i fanciulli della città siracusana: “La Coca Cola ne usa l’immagine per accreditarsi come portatrice di valori sani”. Di fronte alle prevedibili proteste, il prete ha tenuto il punto, buttandola un po’ in sociologia: “Ho detto queste cose per fare poptheology e recuperare il senso vero della tradizione cristiana del Natale. D’altra parte – ha concluso – i bimbi sanno benissimo che Babbo Natale è papà o lo zio. Quindi nessun sogno infranto”. Il prete che ha compiuto l’uccisione di Babbo Natale, come nella canzone di De Gregori, è stato intervistato anche da Repubblica e ha spiegato che il Natale è la festa di Gesù bambino, nato in povertà, “in un culla tra la paglia che non era certamente quella spedita da Amazon, ma era invece circondata dai bisogni del bue e dell’asinello”.

 

Catalogna

L’ex vescovo di Solsona sposa una scrittrice di romanzi erotico-satanici e ora vende seme di maiale

A proposito di preti allegri,non si possono sottovalutare la storia e il percorso spirituale di Xavier Novell Gomà, ex vescovo di Solsona, in Catalogna. Il monsignore si è dimesso dalla sua diocesi qualche mese fa per motivi di cuore: si è innamorato di una donna. Una figura eccentrica rispetto ai valori ecclesiali: la 38enne Silvia Caballol è una psicologa, divorziata, fortunata autrice di romanzi erotico-satanici. I due si sono sposati (civilmente) e ora Gomà si è lanciato in una nuova, entusiasmante avventura lavorativa: è stato assunto da un’impresa che vende sperma di maiale. Lo scrive Vice: “I media spagnoli hanno riferito che ha iniziato a lavorare con Semen Cardona, un’azienda che produce ed esporta seme di suino di alta qualità in oltre 20 paesi in Europa, America, Asia e Africa”. Come si legge sul sito del negozio, “Prepariamo e distribuiamo seme suino ad alto valore genetico, con le massime garanzie di qualità, prolificità e di biosicurezza”. Come dire, non c’è odore di santità.

 

Roma Nord

“Ciao povery”, un’agenzia immobiliare di lusso si fa pubblicità irridendo chi non può permettersi una casa

“Ciao povery”. Scritto così, con la ipsilon che è il marchio della spocchia regale dei meme di Baby George. La pubblicità è comparsa sui cartelloni di Roma Nord, e dove sennò? Nei quartieri più abbienti della capitale, proprio nei giorni del tam tam e della sociologia spicciola sulla frase di Pietro Castellitto (“Roma Nord è come il Vietnam”), un’agenzia immobiliare locale ha ritenuto di farsi conoscere in questo modo, prendendo per il culo chi non può permettersi di comprare le sue case. L’azienda (di cui omettiamo il nome per non regalarle ulteriore visibilità) ha un suo approccio peculiare ma non inedito al marketing: ha scelto di farsi odiare, purché se ne parli. Oltre al claim “Ciao povery”, c’è un altro cartellone pubblicitario con uno slogan altrettanto sobrio: “Solo per chi ha domestici”. E in effetti tra i vari Parioli, Flaminio, Fleming e quartieri “nord”, a non avere domestici sono rimasti in pochini. Per tutti gli altri, non rimane che il rancore sociale. E riderci un po’ su: “Ciao sciacally”.

 

Atlanta Nord

Buckhead, il quartiere ricco e conservatore vuole dichiarare l’indipendenza dal resto della città

Da Roma Nord ad Atlanta Nord. Nella città della Coca Cola il quartiere dei ricchi vuole fare la secessione. I Parioli di Atlanta si chiamano Buckhead. La notizia la racconta Il Post: “Di recente un comitato di residenti del ricco quartiere di Buckhead, nel nord di Atlanta, ha proposto di separarsi dal resto della città e creare un nuovo comune perché contrario a un nuovo piano che prevede di modificare il regolamento urbanistico per permettere di costruire nuove abitazioni a basso costo, con l’obiettivo di ridurre la grave crisi abitativa della città. È un’iniziativa senza precedenti, ma è anche il sintomo di uno scontro che esiste da tempo in molte città americane, dove i tentativi delle amministrazioni comunali di autorizzare la costruzione di nuovi alloggi incontrano molto spesso la contrarietà dei residenti”. Ai pariolini di Atlanta regaliamo in prestito lo slogan per la loro guerra d’indipendenza: anche lì “ciao povery”. Anzi ciaone.

 

Fermo

Il finto cieco (con 20 anni di “invalidità” intascati) indica la strada alla Guardia di finanza: denunciato per truffa

Vent’anni di onorata carriera da falso invalido, nella fattispecie da finto cieco, mandati in fumo in un battito di ciglia quando il truffatore ha indicato la strada ai finanzieri in borghese, mostrando agli agenti di vederci benissimo. Lo scrive Ancona Today: “Importo intascato, circa 145mila euro dal 2001. La Guardia di Finanza di Fermo ha denunciato un dipendente pubblico con l’accusa di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. In un’occasione ha addirittura fornito agli stessi finanzieri, presentati come comuni passanti bisognosi di indicazioni stradali, precise informazioni sull’itinerario da seguire, indicando a gesti le strade da percorrere e dove avrebbero dovuto svoltare”. Il finto cieco, ferratissimo sugli itinerari cittadini, aveva pure un posto fisso da dipendente pubblico, che arrotondava con un assegno di invalidità tra gli 800 ed i mille euro al mese. Ora è tutto finito, ma in compenso è arrivata una denuncia per truffa aggravata, alla quale immaginiamo seguirà una lauta richiesta di risarcimento dello Stato.

 

Genova

Arrestato il “frenatore seriale” dei treni: un 47enne che ha bloccato 100 convogli con la manopola d’emergenza

Frenatori seriali di treni. Una categoria che ricorda gli antichi fasti di Rieducational Channel e dell’ineffabile Vulvia di Corrado Guzzanti. Ma il “frenatore seriale” dei treni esiste davvero: è un 47enne bulgaro che si divertiva ad azionare il freno d’emergenza dei convogli, attivo nelle tratte regionali tra Liguria, Piemonte e Lombardia. Finalmente è stato beccato, scrive l’Ansa: “È stato arrestato per interruzione di pubblico servizio e resistenza a pubblico ufficiale ed è in carcere a Genova ‘l’uomo che fermava i treni’, un 47enne che azionava il freno di emergenza dei convogli in modo seriale. Sono 100 gli episodi che vengono contestati all’uomo, diventato l’incubo di pendolari liguri, piemontesi e lombardi. Per l’accusa avrebbe fatto accumulare ore e ore di ritardi, a quanto pare, per divertimento. Saliva a bordo dei treni e quando il convoglio prendeva velocità azionava il freno di emergenza. In alcuni casi azionava quelli di più vagoni facendo accumulare ritardi, oppure spaccava i finestrini con attrezzi da lavoro”.

 

Narni

Due studentesse straniere rubano il Santa Claus del Comune, ma viene liberato da un blitz dei carabinieri

Per un Babbo Natale che non esiste, ce n’è un altro che viene liberato da un blitz dei carabinieri. Succede a Narni (Perugia), dove due studentesse straniere, per goliardia o ubriachezza, avevano rapito il Santa Claus di plastica del Comune. “I carabinieri di Narni liberano Babbo Natale – scrive serissima TusciaWeb –. Era stato sequestrato nei giorni scorsi. Stamani personale della stazione carabinieri a conclusione d’indagini scaturite dalla denuncia del furto del Babbo Natale sporta contro ignoti dal Comune, ha denunciato in stato di libertà alla Procura della Repubblica di Terni due studentesse universitarie, entrambe ventenni e incensurate. (…) Le due giovani, nella notte tra il 4 ed il 5 dicembre scorso, hanno asportato il pupazzo in plastica riproducente la figura di Babbo Natale che era posto all’interno della loggia antistante il palazzo comunale. Il Babbo Natale di Narni ha così potuto riabbracciare il sindaco e assessore, alle cui amorevoli cure è stato riaffidato dal comandante della stazione, maresciallo ordinario Fausto Tartamelli”.

Graviano, gli amici di Dell’Utri e di Mangano: tutti a Milano 3

Tra i vialetti alberati di Milano 3, a due passi dalla stazione dei Carabinieri, nel cuore della cittadella rassicurante costruita da Silvio Berlusconi negli anni 80, aleggia il fantasma di Giuseppe Graviano.

Il boss, come Il Fatto ha raccontato, ha descritto ai pm i dettagli utili per trovare la casa che sostiene di avere avuto a disposizione, insieme al cugino Salvatore, nel complesso costruito dal gruppo Berlusconi.

Qui, a suo dire, avrebbe incontrato una volta anche Berlusconi, nel dicembre del 1993, per parlare di antichi affari di famiglia. Il boss non è un collaboratore di giustizia e quando parlò dell’incontro a Milano 3 al processo ’Ndrangheta stragista, il 7 febbraio 2020, l’avvocato di Berlusconi, Niccolò Ghedini, annunciò azioni legali perché “le dichiarazioni di Graviano sono platealmente destituite di ogni fondamento, sconnesse dalla realtà e palesemente diffamatorie”. Per Ghedini, Graviano punta a “benefici processuali o carcerari inventando incontri, cifre ed episodi inverosimili e inveritieri” e nutre “astio profondo per le leggi contro la mafia dei governi Berlusconi”. Inoltre nella sentenza di condanna di Graviano, per altri fatti in Calabria, la Corte di Reggio scrive “con riferimento ai presunti rapporti di natura economica con Silvio Berlusconi riferiti dall’imputato va sottolineato che essi risultano totalmente indimostrati essendo su questo punto le dichiarazioni del Graviano prive di qualunque riscontro”.

La Procura di Firenze ha iscritto e archiviato già tre volte dal 1997 in poi l’ipotesi di un presunto ruolo di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, come mandanti esterni nelle stragi del 1993 e negli attentati del ’93-’94 a Roma, Milano e Firenze, fatti per i quali Graviano è stato già condannato definitivamente. Nell’ambito dell’indagine, riaperta dopo le dichiarazioni di Graviano, la Dia sta verificando (anche a discarico degli indagati illustri) la storia della casa di Milano 3.

Certo, se Graviano sta mentendo, probabilmente ha scelto con oculatezza ‘lo scenario’ del suo bluff. Nel 2001 al processo contro Marcello Dell’Utri (poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa per altri fatti, fino al 1992) sono emersi altri due appartamenti a Milano 3. Erano stati affittati a due ex collaboratori del finanziere siciliano Filippo Alberto Rapisarda: Y. G. e G. B., non indagati. Y.G. raccontò ai pm palermitani nel 1998 di avere chiesto aiuto a Dell’Utri in un momento di difficoltà economica nel 1997: “Cercavamo anche un alloggio sia io che il G.B.. Dell’Utri ci disse che ci avrebbe fissato un appuntamento con Paolo Berlusconi per ottenere qualche incarico di consulenza e anche per risolvere il nostro problema alloggiativo”. La figlia di Y.G. andò ad abitare poi a Milano 3 e raccontò al processo che lì, nell’appartamento affittato alla figlia, era domiciliata la madre Y.G..

Anche l’architetto G.B. trovò un alloggio nel residence Milano 3 a marzo 1998. I due testimoni furono tirati nel mezzo della lite tra Dell’Utri e Rapisarda. Al processo Dell’Utri, l’ex senatore spiegò che Y. G. gli chiese aiuto e non c’era nulla di male ad aiutare una “vittima di Rapisarda”.

Il riferimento a Paolo Berlusconi per il possibile aiuto a trovar casa a Y.G. si comprende perché era il fratello del Cavaliere a seguire le questioni immobiliari di Milano 3, con la Edilnord.

Paolo Berlusconi stesso in passato ha alloggiato a Milano 3 nella residenza Andromeda. In quella stessa palazzina ha poi abitato anche Giovanni Cottone, un suo ex socio. Palermitano, 65 anni, Cottone è emerso sulle pagine della cronaca rosa nel 2013 per il matrimonio lampo con Valeria Marini. Nel 2007 invece è emerso nelle cronaca nera come vittima di un tentato sequestro a scopo di estorsione ordito dalla ex moglie, Giuseppina Casale con un gruppo di siciliani. Cottone abitava nella Residenza Andromeda di Milano 3 dove furono fatti gli appostamenti per rapirlo. Nell’indagine era coinvolto anche un buttafuori del locale milanese ‘Mangia e ridi’, dove tra i soci figurava con Cottone anche la ex moglie di Paolo Berlusconi, Mariella Bocciardo.

I legami d’affari con Paolo Berlusconi erano forti: Cottone era socio di Paolo nella Solari, che nel 2005 faceva affari con i decoder tv. Quando la banda dei sequestratori fu arrestata, il buttafuori raccontò di presunti rapporti di Cottone con rampolli di boss importanti come Santapaola. Niente di penalmente rilevante comunque.

Cottone è sempre stato una vittima anche l’ultima volta che è emerso alle cronache nel 2016 come vittima di usura del campano Vincenzo Guida, fratello di Nunzio, a sua volta amico del siciliano Giuseppe Bono tanto che nel 1980 era al suo matrimonio a New York. Il fratello di Giuseppe Bono, Alfredo, è stato indagato senza esito nel 2007 dalla Squadra Mobile di Milano. Nell’informativa (chiusa senza contestazioni) si legge Bono Alfredo “nato il 20.01.1936 a Palermo, residente a Milano in Via (…) domiciliato c/o ‘Residence Resort Club Hotel Milano srl’ ubicato in via Residenza dei Cigni di Basiglio (MI)”, cioé il residence di Milano 3.

Alfredo Bono era legato a Vittorio Mangano (il fattore scelto da Dell’Utri per la villa di Berlusconi nei primi anni ‘70) e fu condannato al maxi-processo ma poi assolto dalla Cassazione, presidente Corrado Carnevale. Nella sua intervista del 21 maggio 1992 ai giornalisti francesi di Canal Plus, il giudice Paolo Borsellino lo definisce “boss della famiglia di Bolognetta che vive a Milano”.

Chissà se Graviano sapeva tutte queste cose quando di tanti luoghi indica proprio Milano 3 (dove comunque abitano 7 mila persone) per l’incontro suddetto.

Nella cittadella c’è anche un Circolo Sportivo: lo Sporting, preso in gestione da una famiglia calabrese, gli Stilo, trasferiti da molti anni a Milano 3.

Una società della famiglia Stilo, impegnata nel 2014 nei lavori dell’Expo, la Ausengineering, è stata colpita l’11 settembre 2014 da un’interdittiva antimafia, poi annullata dal Tar. L’interdittiva (che non riguardava lo Sporting) era motivata dal Prefetto “per presunti legami tra i soci e la cosca di ’ndrangheta Mancuso di Limbadi (VV) tali da far ritenere sussistente il rischio di infiltrazioni mafiose in grado di condizionarne le attività”. L’interdittiva poi è stata confermata nel 2016 dal Consiglio di Stato che ha ritenuto sufficienti per l’interdittiva circostanze di natura indiziaria senza prove di colpevolezza. Gli Stilo infatti non sono stati mai nemmeno indagati. E Paolo Berlusconi continua a frequentarli noncurante degli articoli di giornale.

“C’era puzza di gas da almeno 7 giorni”

Un boato, poi la devastazione che ricorda uno scenario di guerra. “Sembra Beirut” la reazione di alcuni testimoni che sono arrivati sul posto. Sabato sera intorno alle 20.30 la rottura di un tubo del metanodotto, probabilmente causata dal maltempo, ha provocato una fuga di gas e il crollo di quattro abitazioni a Ravanusa (Agrigento). Il bilancio ieri sera era terribile: tre morti, sei dispersi e due supersititi. Per tutta la notte di sabato e la giornata di ieri, i vigili del fuoco hanno scavato tra le macerie per cercare i superstiti, coordinati sul luogo dal capo della protezione civile Fabrizio Curcio. A perdere la vita sono stati Pietro Carmina, Enza Zagarro e Liliana Minacori mentre due donne sono state tirate fuori vive dalle macerie: Rosa Carmina e la cognata Giuseppina Montana. I sei dispersi i fanno parte della stessa famiglia, tra cui Selene Pagliarello, incinta di nove mesi, e il marito Giuseppe Carmina. L’esplosione ha riguardato un’area di 10 mila mq e danneggiato 11 edifici. La Procura di Agrigento ha aperto un‘inchiesta a carico di ignoti per omicidio colposo e disastro colposo. Uno dei sopravvissuti, Calogero Bonanno, ha detto che c’era “puzza di gas da giorni” mentre il consigliere comunale Giuseppe Sortino ha spiegato: “I cittadini hanno lamentato odore di gas da 7 giorni”. “Non risultano segnalazioni nell’ultima settimana al servizio di Pronto Intervento”, ha spiegato Italgas.