“Sul Tav una lobby fortissima, ma sono i numeri a bocciarlo”

“Ci sono stati attacchi personali, anche pesanti: ‘Siete stati assunti senza gara’, ‘siete in conflitto di interessi’, ‘siete amici delle autostrade’… Ma quello che diciamo, lo diciamo da 20 anni. Nessuna influenza politica, il nostro lavoro si basa sui dati e da questa storia avremo solo da perderci”. Marco Ponti e Francesco Ramella sono appena usciti da un’audizione parlamentare trasformata in bolgia. La colpa? L’analisi costi-benefici che stronca il Tav, a cui hanno lavorato con gli esperti chiamati dal ministro Danilo Toninelli. Sottoposti al fuoco di fila dell’opposizione ma pure degli onorevoli leghisti con le stesse argomentazioni con cui da mesi la grande stampa li tiene sulla graticola. “Ce lo aspettavamo. L’idea che si debbano guardare anche i costi e non solo i benefici delle grandi opere sconvolge alcuni politici”, spiegano.

Il commissario di governo per il Tav Paolo Foietta parla di “analisi truffa”…P: Non mi stupisco. Ha un suo interesse a farlo…

“Carta straccia”, “dati falsi”, “manipolato”: sono alcuni dei giudizi sul vostro lavoro. Vi dispiace?R: Era prevedibile visti gli interessi in campo. I dati cozzano con il pensiero unico che regna, in Italia e in Europa, da 40 anni: bisogna spostare il traffico sulla ferrovia, a qualunque costo. Per questo la si sussidia e si iper-tassa la strada, ma i risultati non sono mai arrivati.

P: Dietro questo pensiero c’è la lobby ferroviaria, fortissima anche a Bruxelles. Una volta a pranzo il commissario Ue ai Trasporti Siim Kallas mi disse: ‘Di questo non si può parlare, altrimenti la lobby ferroviaria si incazza’.

Addirittura così forte?P. Sono serbatoi di voti. Le ferrovie sono quasi sempre pubbliche, il legame con la politica e gli interessi privati enormi. Sa quanto acquistano dal settore privato? Solo in Italia quasi 5 miliardi l’anno. Ma i numeri non confortano i risultati: in media il ‘cambio modale’, cioè il trasferimento del traffico dalla strada alla ferrovia, porta un beneficio ambientale del 2-3%. C’è una forte componente ideologica: i dati non interessano.

Vi accusano di aver truccato i conti perché contate tra i costi il mancato gettito fiscale per lo Stato sulle minori accise pagate dai mezzi che si trasferiscono dalla strada alla ferrovia…P. È una metodologia standard internazionale e risponde alla logica economica. Se a fianco a una strada tutta curve ne faccio una dritta, un automobilista si sposta, risparmia 1 litro di benzina e lo Stato perde 1 euro, l’effetto è nullo. Nel ‘cambio modale’ questo non c’è e devi calcolare il beneficio specifico degli utenti, basato sul loro surplus: i costi che sostengono, la loro convenienza ad andare in treno etc. C’è nel dossier, anche se non si vede esplicitamente.

R. I benefici ambientali sono calcolati nell’analisi, e sono bassissimi. È così da sempre. In questi anni la qualità dell’aria è migliorata in modo sensibile. E non perché c’è gente che usa meno l’auto o per il cambio modale ma per il miglioramento tecnologico.

Altra accusa: avete usato questo metodo per arrivare a un risultato preciso…R. È lo stesso usato dall’Osservatorio presieduto da Foietta, che ora parla di truffa. Paolo Beria, nostro collega nella commissione, l’ha usato per la costi-benefici del piano per la mobilità del Comune di Milano con la giunta Pisapia e nessuno ha mai obiettato.

Uno dei sei commissari, Pierluigi Coppola, non ha però firmato l’analisi e ha contestato il metodo.R. Coppola non ha lavorato alle analisi, né sul Terzo Valico né sul Tav, salvo poi contestarne il risultato. Nel primo caso ha spinto il ministero a pubblicare in una nota di sintesi uno scenario che non considerava le minori accise. L’analisi però restava negativa.

Vi contestano di essere manipolati dalla politica.R. È esilarante. Tutti sanno che non abbiamo le stesse idee politiche di Toninelli. L’idea è che con il M5S non si debba lavorare, punto. Ma se un ministro ci chiede di fare quello che proponiamo da 20 anni, perché non dovremmo? Con questo incarico ci siamo bruciati qualsiasi possibilità di lavorare con i prossimi ministri. Ci rimetteremo. Dispiace poi che qualche collega metta in dubbio il nostro rigore scientifico, sapendo che non è così. L’accademia, poi, non è indipendente. Basta guardare i finanziamenti Ue per la ricerca sul “cambio modale”. Avremmo fatto l’analisi anche se ce l’avesse chiesta il predecessore di Toninelli, Delrio.

Perché non l’ha fatto?P. Il suo atteggiamento è stato incredibile. Aveva promesso di farla, in accordo con il consigliere economico di Renzi, Yoram Gutgeld e l’economista Roberto Perotti che si occupava anche di spending review. Renzi sosteneva che il Tav era inutile, io stesso ho lavorato a stilare parte del suo programma sui trasporti. Poi, la clamorosa retromarcia. Perotti, che stava lavorando con noi, si è dovuto dimettere, Gutgeld è stato spostato e Delrio ha varato un piano di infrastrutture da 130 miliardi senza uno straccio di analisi. Sulle grandi opere Renzi è diventato berlusconiano.

Sul Tav non avete “un pregiudizio ideologico”?R. Nessuna ideologia. Sono i dati a mostrare che né i benefici economici né quelli ambientali giustificano l’opera. Se la costruisse un privato, che indennizzi chi è danneggiato, non saremmo contrari. Ma non c’è, perché è inutile.

Bruxelles spinge per il Tav.P.So bene come funziona a Bruxelles. Gli Stati danno i soldi all’Ue e l’Ue, quando deve decidere su questi temi, chiede loro dove destinarli. È tutta politica. Un documento dello scorso anno della Corte dei conti europea spiega che le analisi costi-benefici su cui si basano le decisioni Ue non stanno in piedi: servono a giustificare decisioni insostenibili prese per ragioni politiche. E definisce come fallimentare il progetto di corridoi ferroviari europei ad alta velocità per i costi alti e gli scarsi benefici. I tecnici Ue il Tav l’hanno già bocciato.

Oggi a Palazzo Chigi inizia la “secessione dei ricchi”

Oggi alle 19, senza alcuna discussione pubblica preliminare, arriveranno in Consiglio dei ministri gli accordi per l’autonomia differenziata di Emilia Romagna, Lombardia e Veneto (la prima a guida Pd, le seconde Lega): siccome su alcuni punti non c’è ancora un accordo definitivo tra ministeri e Regioni, è probabile che la firma sui testi da portare alle Camere sarà apposta tra qualche settimana. Il carrozzone, però, è partito: una profonda riforma dell’architettura dello Stato (o una sua dissoluzione) – realizzata sulla base della pessima riforma del Titolo V del 2001 e della pre-intesa firmata dal governo Gentiloni a febbraio 2018 – portata a termine attraverso un confronto tra tecnici senza alcun coinvolgimento dell’opinione pubblica e dei (moribondi) corpi intermedi. Ecco un breve riassunto per punti di quel che si sa di un’iniziativa che è stata definita una “secessione dei ricchi”.

Post-democrazia. Le singole intese realizzate dai tecnici ministeriali con quelli delle tre regioni più ricche del Paese (oltre il 40% del Pil) verranno sottoposte al Parlamento: le Camere potranno accettarle o respingerle, ma non emendarle senza il consenso di Zaia e soci; le intese Stato-Regioni peraltro, giusta una sentenza della Consulta, non sono sottoponibili a referendum abrogativo. Per come è costruita la pre-intesa, poi, questi accordi sono una sorta di “legge delega”: uno schema che una commissione paritetica Stato-Regione riempirà di contenuti. E infine: senza consenso delle parti, le intese non sono modificabili per dieci anni.

Soldi/1. La faccenda è tutta qui. Il ricco Nord vuole tenersi la maggior parte del suo “residuo fiscale”, cioè all’ingrosso la differenza tra quanto ogni territorio paga di tasse e quanto viene poi speso in loco. Ovviamente, se il gioco è a somma zero, significa che meno soldi saranno trasferiti ai territori più deboli. Questa, al di là dei vincoli solidaristici pure scritti chiaramente nella Carta, non pare neanche una mossa intelligente: i fondi “trasferiti” al Sud a vario titolo finanziano infatti in larga parte l’acquisto di beni e servizi prodotti al Nord. Ma il gioco della trasformazione delle Regioni in staterelli semi-autonomi funziona, per i politici locali, solo se insieme alle competenze passano di mano anche i soldi: la formula è la “compartecipazione” al gettito territoriale dell’Irpef e di altri tributi (Irap, tassa sull’auto, etc). Il ministero dell’Economia, come anticipato dal Messaggero, ha finora opposto alle Regioni “la competenza statale esclusiva” su questi tributi, obiettando che in ogni caso – prima di parlare di soldi – andrebbero definiti i “livelli essenziali delle prestazioni” a cui ogni italiano avrebbe diritto secondo la Carta e la legge sul federalismo del 2009. Ieri sera, però, la ministra degli Affari regionali Stefani e il sottosegretario al Tesoro Garavaglia, entrambi leghisti, hanno annunciato che c’è un accordo “sulla parte finanziaria”: “Prevede l’approdo ai costi e fabbisogni standard partendo da una fase iniziale calcolata sulla spesa storica: la copertura sarà a saldo zero e le risorse sono garantite tramite la compartecipazione di imposte”. Se è così, la secessione dei ricchi è vicina.

Soldi/2. Non di sole tasse vive il potere politico. E allora i governatori di Lombardia e Veneto chiedono che passi alle Regioni tutto il sistema degli incentivi alle imprese (il fondo rotativo di Cdp, quello di garanzia per le opere pubbliche, quello per le Pmi, i fondi all’agricoltura) e persino la gestione della Cassa integrazione e delle politiche attive del lavoro (il che significa che il ministero di Luigi Di Maio dovrà accordarsi con ogni singola Regione per riuscire a erogare il reddito di cittadinanza).

Infrastrutture. Avendo già incassato il passaggio di proprietà delle grandi centrali idroelettriche e dei relativi canoni concessori, ora Attilio Fontana e Luca Zaia puntano ad autostrade, ferrovie e aeroporti, tutte opere costruite coi soldi di tutti. Le Regioni vogliono anche la competenza sulla loro quota dei fondi nazionali infrastrutturali. Il ministero di Toninelli finora ha detto no a quasi tutto.

Scuola. Ce ne saranno 21 diverse, tutto diventerà regionale, a partire dagli insegnanti, almeno i neoassunti: in realtà anche quelli che potranno conservare il ruolo statale – i quali saranno comunque sottoposti alla nuova disciplina “locale” – avranno interesse a passare sotto l’egida della Regione (il progetto prevede, grazie alla solita “compartecipazione”, un ricco contratto integrativo). Nei capoluoghi si deciderà su tutto: finalità e programmazione dell’offerta formativa, valutazione, alternanza scuola-lavoro e rapporto con le private (ottimi a Milano fin da Formigoni).

Sanità. È uno dei capitoli più spinosi. Le Regioni chiedono pieni poteri sul sistema tariffario e dei rimborsi, sull’edilizia, sulla governance e sui farmaci, sui fondi per personale, beni e servizi. Di fatto l’obiettivo è finanziare il sistema sanitario interamente “a carico del bilancio regionale”, uscendo così dal riparto nazionale che garantisce ogni anno una perequazione tra “ricchi” e “poveri”. In tutte le bozze d’intesa si sottolinea il ruolo dei fondi sanitari integrativi (le assicurazioni private). Si rischia, contemporaneamente, di avere 21 diritti alla salute diversi e di smantellare il nostro sistema pubblico.

Ambiente. Anche qui i governatori vogliono tutto. Si litiga in particolare sulla caccia, bacino di consenso che le Regioni vogliono interamente sottrarre al ministero, e sui rifiuti: Zaia e soci vogliono decidere da soli (trattando al massimo con l’Ue) per quali tipi di scarto autorizzare il riciclaggio (end of waste) nell’ambito della cosiddetta “economia circolare”. Anche qui: si punta a 21 sistemi di smaltimento in concorrenza tra loro.

Patrimonio. I governatori chiedono pure la piena potestà sui grandi tesori d’arte (musei, siti, biblioteche e quant’altro) e, con essa, “le relative risorse” insieme alle funzioni tecniche delle Soprintendenze.

Effetti. Questo incompleto riassunto (le materie da devolvere arrivano a 23) comporta un effetto poco considerato: togliere potere ai ministeri significa renderne superfluo il personale. È tanto vero che nella bozza veneta si parlava di enti da “ridimensionare”.

Gentiloni incontra Calenda e lo invita ad abbassare i toni

Nel Pd, Carlo Calenda è l’uomo del momento. Quello a cui tutti guardano, un po’ come guastatore, un po’ come possibilità. Sulla sua proposta di un listone, ci sono una serie di riflessioni in corso. Una riguarda la volontà di LeU di entrarci, se si tratterà effettivamente di un progetto socialdemocratico. Una, viceversa, riguarda Emma Bonino e Più Europa: loro non vogliono entrare, mentre l’ex ministro dello Sviluppo economico è convinto che alla fine lo faranno (lo sbarramento per le singole liste alle Europee è il 4%: sarebbe sufficiente incentivo a non presentarsi da soli).

In un clima in cui si comincia a riflettere sul dopo 4 marzo, la data in cui si terranno i gazebo, Calenda ieri ha incontrato Paolo Gentiloni. Il quale gli avrebbe detto di abbassare i toni, almeno fino alle primarie del Pd, per evitare di oscurarle e inquinarle. La griglia delle candidature alle Europee sarà il primo fronte su cui si misurerà il nuovo segretario del Pd. I posti saranno meno e gli equilibri cambiati. Così, i timori crescono. Restano i boatos di una candidatura come capolista al centro di Nicola Zingaretti. Notizia che finora il governatore e quasi segretario in pectore non ha mai confermato.

Un avvocato di B. al “tribunale” del Senato

In Abruzzo ha preso il 9,7 per cento, percentuale da buona lista civica, a conferma che i tempi in cui comandava il gioco sono un ricordo ingiallito. Eppure c’è un Palazzo dove Forza Italia domina ancora. E si chiama Senato, dove la presidente è Maria Elisabetta Alberti Casellati, di antico rito berlusconiano: e dove da qualche ora a presiedere il Consiglio di garanzia, il secondo grado della giustizia interna di Palazzo Madama, è un altro forzista, Luigi Vitali. Come forzista è anche Giacomo Caliendo, il presidente della Commissione contenziosa, il primo grado.

Ergo, il partito del Caimano ora controlla entrambi gli organi. Ed è un bel marameo ai gialloverdi e in particolare al M5S, che voleva alla presidenza del Consiglio di garanzia Ugo Grassi, docente di Diritto civile a Napoli. E invece niente, perché nella votazione di martedì i due membri del Pd, Valeria Valente ed Ernesto Magorno, hanno appoggiato il nome di FI, con un ritorno di fiamma da Nazareno che fu. Mentre Movimento e Lega, che sapevano come sarebbe andata a finire, hanno disertato la seduta lasciando posto ai due membri supplenti. Così è finita con quattro voti su cinque per Vitali, che non si è votato presentando scheda bianca. E adesso i Cinque Stelle si macerano, perché, ricordano “il Consiglio di garanzia assieme alla Commissione Contenziosa dovrà decidere su tutti i ricorsi sui vitalizi”. Cioè su una bandiera del M5S, che al Pd non piace e per FI è sterco del Demonio. E allora il M5S ha cattivi pensieri. Anche nei confronti di Casellati, che nomina i membri dei due organi lasciandoli liberi di votarsi il presidente, come da regolamento. “Però la presidente si era impegnata a lavorare per un accordo politico” è l’accusa fuori taccuino.

Ossia, doveva esercitare la sua moral suasion affinché venisse votato un presidente di maggioranza. Ma che ci abbia provato o meno ora il suo partito, FI, guida anche l’Appello del Senato. Con Vitali: avvocato brindisino alla sua quinta legislatura, due volte sottosegretario alla Giustizia con Berlusconi premier. In ottimi rapporti con Casellati. Insomma, comunque la si giri al centro della vicenda c’è la presidente, avvocato carissimo a Berlusconi. Ambiziosa, dicono da tutti i partiti. Al punto da coltivare il sogno di passare da seconda a prima carica dello Stato, di diventare presidente della Repubblica. E magari sono dicerie, cattiverie. Però si muove, la presidente.

Per esempio nello scorso dicembre ha firmato un protocollo d’intesa con la Rai, sottoscritto assieme all’amministratore delegato di viale Mazzini Fabrizio Salini, che come scandì la stessa Casellati “darà visibilità e diffusione a eventi, premi e produzioni speciali, finalizzati a valorizzare l’arte ma anche le migliori e più autentiche espressioni dell’italianità”. E d’altronde, chiosò, “questo è uno degli impegni che ho preso come presidente del Senato”. Ieri invece a Milano le hanno conferito il premio Excellent, con queste motivazioni: “Paladina della giustizia si è sempre battuta per i diritti della famiglia e delle persone. Oggi è presidente del Senato, prima donna nella storia e mirabile esempio per le generazioni attuali e future”. Mirabile e provvidenziale: perché con lei per FI il Senato è l’ultimo paradiso.

Ferrovie e Tesoro, lo Stato torna nella nuova Alitalia

L’obiettivo è chiudere l’accordo entro fine marzo, così da avere un successo da vendere in vista delle elezioni europee: ora c’è un partner industriale per l’Alitalia commissariata, cioè l’alleanza tra l’americana Delta Airlines e la britannica EasyJet che dovrebbero avere il 40 per cento del capitale. Il resto rimarrà italiano, anzi, pubblico: nel capitale ci saranno le Ferrovie dello Stato e, notizia di ieri, anche il governo.

Un vertice a Palazzo Chigi tra il premier Giuseppe Conte, il ministro dello Sviluppo Luigi Di Maio e quello dell’Economia Giovanni Tria ha stabilito ieri che anche il ministero del Tesoro potrà entrare nel capitale “a condizione della sostenibilità del piano industriale e in conformità con la normativa europea”. In caso contrario rischierebbe sanzioni dalla Commissione europea. La presenza pubblica potrebbe non finire qui. Secondo le indiscrezioni di questi giorni, anche altre aziende pubbliche potrebbero fare uno sforzo finanziario ed entrare nell’azionariato: si parla di Leonardo, dell’Eni, ma anche di Poste Italiane.

Le Ferrovie, guidate dal nuovo ad Maurizio Battisti, avevano posto come condizione di un proprio coinvolgimento che ci fosse anche un partner industriale, cioè un’altra compagnia aerea capace di offrire una prospettiva di rilancio. A lungo Fs e governo hanno esplorato l’ipotesi di Air France, sarebbe stato un ritorno per i francesi, ma poi quella pista è stata abbandonata anche – ma non soltanto – per le tensioni diplomatiche tra governo gialloverde e l’Eliseo di Emmaunel Macron. Poi c’era l’ipotesi Lufthansa, altro eterno pretendente di Alitalia, ma il gruppo tedesco non ha mai presentato un piano ufficiale pur minacciando almeno 3.000 esuberi. Uno dei membri del cda, Harry Hohmeister, aveva profetizzato: “Se tutto questo tira e molla durerà ancora a lungo, dell’orgogliosa Alitalia presto non rimarrà nulla”.

Ieri il Consiglio di amministrazione delle Ferrovie si è riunito e ha votato per una strada diversa, cioè Delta ed EasyJet. Le due compagnie aree si divideranno i compiti nel gestire il futuro di Alitalia: Delta sarà cruciale per il “lungo raggio”, cioè le tratte sulle distanze maggiori che sono anche le più redditizie. EasyJet, invece, garantirà il servizio point to point, cioè dagli aeroporti italiani agli hub internazionali, tipo Londra o Francoforte. L’eterno dibattito sulla “italianità” di Alitalia si avvia a chiudersi con un esito paradossale: l’azienda resta così italiana da aver dentro lo Stato in varie declinazioni, ma a decidere le strategie industriali saranno gruppi internazionali che saranno assai più sensibili alle rispettive priorità strategiche che agli interessi del sistema Paese. Ma gli esuberi e le riduzioni di perimetro aziendale, con questa situazione, dovrebbero essere minimi.

C’è poi la questione del prestito ponte: 900 milioni cconcessi dal governo Gentiloni ad Alitalia nel maggio 2017, al momento del commissariamento, per garantire la continuità aziendale. Quel prestito, dalla durata iniziale di sei mesi, deve essere rimborsato a giugno 2019, dopo ben 26 mesi. Incombe il giudizio della Commissione europea che, visti i tempi dilatati, potrebbe considerarlo aiuto di Stato. Una delle ipotesi è che il prestito venga convertito in azioni, ma la conversione deve avvenire a condizioni di mercato (cioè senza penalizzare lo Stato azionista) altrimenti, di nuovo, si configura l’aiuto di Stato.

Che Alitalia sia in condizione di restituirlo è assai dubbio, nonostante le rassicurazioni dei commissari: in cassa ci sono meno di 500 milioni e le fatture da pagare a due mesi ai fornitori ammontano a 500-550 milioni. Almeno 400-450 milioni di incassi, poi, sono dovuti a biglietti già pagati che devono essere trasferiti alla nuova società. La partita è lontana dalla conclusione ma almeno ora qualcosa si muove.

L’indagine Lo scoop del “Fatto”

20 dicembre 2016. L’ex ad di Consip, Luigi Marroni – interrogato dai carabinieri del Noe e dai pm di Napoli – rivela di esser stato avvertito dell’inchiesta sulla Centrale Acquisti in corso a Napoli dall’ex ministro Luca Lotti, dal generale Saltamacchia, dal suo presidente Luigi Ferrara (che gli riferì di averlo saputo dall’ex comandante dell’Arma, Tullio Del Sette) e dal presidente della fiorentina Publiacqua, Filippo Vannoni. Alle sue dichiarazioni, seguono alcune iscrizioni nel registro degli indagati della Procura di Napoli.
21 dicembre 2016.Lotti, Saltalamacchia e Del Sette vengono indagati per favoreggiamento e rivelazione di segreto. L’inchiesta passa a Roma per competenza. Qui viene indagato Tiziano Renzi, il padre dell’ex premier, per traffico di influenze, insieme l’imprenditore Carlo Russo. Secondo le accuse iniziali Russo prendeva accordi con Romeo, assicurando un’influenza sui vertici della Consip e ottenendo in cambio denaro per lui e per Tiziano (non sono stati mai trovati passaggi di denaro)
9 gennaio 2017. Il maggiore del Noe Gianpaolo Scafarto consegna ai pm un’informativa. Che i pm romani poi scopriranno contenere errori. Per esempio, in una conversazione veniva attribuita la frase “Renzi l’ultima volta che l’ho incontrato” all’imprenditore Alfredo Romeo, quando era stata pronunciata dall’ex parlamentare Italo Bocchino. Scafarto verrà indagato per i falsi.
29 ottobre 2018. Alla fine Roma si convince che Russo sia un millantatore: prendeva accordi all’insaputa di Tiziano. Così i pm chiedono l’archiviazione per Renzi senior., Romeo e Bocchino, tutti accusati di traffico di influenze

14 dicembre 2018.Per Lotti, Saltalamacchia e Vannoni, accusati di favoreggiamento, e per Del Sette (accusato anche di rivelazione di segreto) viene chiesto il processo. Russo rischia il processo per millantato credito, Scafarto per rivelazione di segreto, falso e depistaggio. Ora la palla passa al gip: l’udienza ci sarà il 28 maggio

 

Consip, perché la versione del complotto non regge

Il ritorno di Matteo Renzi sul ‘luogo del caso Consip’ ha il sapore di una minestra riscaldata male. Il nuovo libro ripercorre le tesi complottistiche del precedente aggiungendo alcune novità che talvolta sono smentite dai fatti, talvolta cozzano con le precedenti ricostruzioni dello stesso Renzi. Comunque non spostano di un centimetro il problema che l’ex premier rimuove da due anni: Carlo Russo. Per quanto si affanni ad attaccare i Carabinieri sostenendo la tesi del complotto non riuscirà mai a spiegare perché Carlo Russo, un amico di suo padre e non di Scafarto, entri nella stanza del re degli appalti (Alfredo Romeo) e si metta a trattare un compenso per sé e per Tiziano Renzi, ignaro delle richieste per i pm.

Ammettiamo anche che il capitano Scafarto abbia manipolato volutamente la famigerata intercettazione in danno di Tiziano, restano da spiegare ore di conversazioni tra Russo e Romeo ben più importanti di quella. Renzi continua a scrivere libri contro il Noe ma non scrive mai una riga contro Russo, definito millantatore dai pm. Non se ne esce: o il complotto è stato ordito anche da Russo, magari insieme ai Carabinieri, o il complotto è una balla.

Renzi poi sostiene nel libro che il capitano Scafarto “qualche mese prima dei fatti contestati esplicita la sua linea a un magistrato di Modena, Lucia Musti, che sotto giuramento al Csm riporterà le parole testuali: “Dammi le prove per arrivare a Renzi. Devo arrestare Renzi”. Probabilmente avrà letto un verbale che noi non abbiamo. O forse avrà letto le cronache di qualche grande quotidiano con frasi virgolettate mai pronunciate dal pm Lucia Musti. Al Fatto risulta una versione più sobria: “Scoppierà un casino, arriviamo a Renzi”. Parole riportate dalla Musti e smentite da Scafarto, ben diverse da quelle riportate da Renzi. Infine la versione del libro nuovo smentisce quella della precedente opera. Eravamo rimasti alle insinuazioni su un complotto a tre che avrebbe coinvolto il pm Henry John Woodcock, il Fatto Quotidiano e i Carabinieri del Noe. Nel vecchio libro Renzi argomentava la tesi ricostruendo in modo insinuante e sballato il nostro scoop del 2015: la pubblicazione della telefonata tra lui e il generale della GdF Michele Adinolfi, nella quale sparlavano di Enrico Letta. La conversazione era stata intercettata nel 2014 dal Noe e pubblicata dal Fatto il 10 luglio 2015. “Faccio la conoscenza del Noe, che su incarico di un pm di Napoli, il dottor Woodcock, mi intercetta. Apprenderò dell’intercettazione mentre sono presidente del Consiglio, grazie a uno scoop del Fatto Quotidiano firmato da un giornalista che si chiama Marco Lillo. Segnatevi mentalmente questo passaggio: Procura di Napoli, un certo procuratore, il Noe dei carabinieri, il Fatto Quotidiano, un certo giornalista. Siamo nel 2014, non nel 2017, sia chiaro. Che poi i protagonisti siano gli stessi anche tre anni dopo è ovviamente una coincidenza, sono cose che capitano”.

La tesi era falsa e già smentita dai magistrati di Napoli. Lo scoop, come era a tutti noto, è giunto al Fatto dagli avvocati e non dal pm Woodcock o dai Carabinieri. Ora Renzi torna a scrivere del complotto ma cambia tesi. Ovviamente scagiona Woodcock ma il suo obiettivo resta il Noe, cioé Ultimo e Scafarto. C’è però un buco logico tra i fatti nuovi svelati nel libro e questa nuova tesi: l’ex premier rivela di avere dato il suo assenso al passaggio di Ultimo ai servizi segreti. Sostiene che lo fece per catturare Matteo Messina Denaro. Peccato che l’Aise faccia tutt’altro. Quello sarebbe eventualmente il compito dell’Aisi.

Perché allora un premier che considera (sbagliando) il Noe un corpo inaffidabile già nel 2015, per lo scoop sulla sua telefonata (che invece arrivava dagli avvocati) si sarebbe messo nei servizi segreti uno come Ultimo? Per avere la risposta bisognerebbe sapere se Renzi e Ultimo prima del passaggio ai servizi si incontrarono, cosa si dissero e chi li presentò. Sarà per il prossimo libro.

Minniti, ma non solo: i messaggi cifrati dell’ex premier al Pd

Più che raccontare, Matteo Renzi allude. Manda messaggi che solo i diretti interessati possono cogliere. Con chi se la prende nel brano qui a fianco? Uno dei protagonisti non nominati è sicuramente Marco Minniti: nel 2015 era sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai Servizi segreti. Una scelta importante come il passaggio del capitano Sergio De Caprio (noto come “Ultimo”) dai carabinieri all’intelligence doveva per forza passare dal suo tavolo.

Renzi dice che il piano a lui prospettato era che Ultimo passasse ai Servizi per catturare Matteo Messina Denaro. Una missione che avrebbe richiesto una collocazione all’Aisi, il servizio interno. Invece Ultimo, con 23 carabinieri di fiducia, va all’Aise, il servizio segreto estero guidato dal generale Alberto Manenti dove non caccerà mafiosi, ma seguirà la sicurezza interna (che include il controllo sull’operato degli altri agenti). Una scelta non ovvia anche per ragioni di rapporti personali. Come ha ricostruito Emiliano Fittipaldi sull’Espresso, da carabiniere nel 2011 Ultimo indaga su Finmeccanica e si trova a intercettare proprio Manenti (mai indagato), mentre nel 2014 con i suoi colleghi del Nucleo operativo ecologico si dedica all’inchiesta sulla coop Cpl-Concordia. Nell’informativa dei carabinieri di Ultimo in quell’indagine si parla anche della Fondazione Icsa, creata da Minniti nel 2009 e che nel 2014 (quando Minniti non c’è più) riceve 20.000 euro da Cpl-Concordia. Quegli atti vanno a diverse Procure che non riscontrano però reati.

In questo strano intreccio, Renzi sembra vedere l’origine dei suoi guai, maturati alla vigilia del referendum costituzionale del 2016 ed esplosi subito dopo. In passato se l’era presa con i carabinieri del Noe, ora pare derubricare il maggiore Gianpaolo Scafarto, che ha indagato su Consip, ad anello finale della catena. Neanche un accenno al pm Henry John Woodcock che, da Napoli, è il primo a indagare sugli appalti Consip partendo da vicende napoletane dell’imprenditore Alfredo Romeo. I bersagli di Renzi qui sono tutti politici. Anche se le accuse più gravi restano senza nomi, l’ex premier sembra puntare sempre sullo stesso gruppo di persone. Dopo una difesa d’ufficio di Luca Lotti, accusato di aver spifferato l’inchiesta all’ad Consip Luigi Marroni, scrive: “Siamo certi che, nelle stesse ore, altri non abbiano trasmesso informazioni riservate a politici e amministratori di rilievo per evitare che nei principali scandali di quegli anni fossero implicate importanti personalità del mondo romano? Chissà”.

Il secondo bersaglio di Renzi è individuabile in Paolo Gentiloni. Se Ultimo ha fatto cose gravissime all’Aise, perché non c’è stata altra sanzione se non il brusco ritorno ai carabinieri? E se invece non ha fatto nulla, perché è stato rispedito indietro con tutta la sua squadra? Ultimo risulta essere il destinatario di una email da Scafarto con stralci dell’informativa sull’inchiesta Consip: una volta passato ai Servizi, non aveva più titolo a essere informato su indagini giudiziarie. Ma altro non è noto.

“Informarsi sull’andamento di inchieste giudiziarie per un agente dei Servizi è un reato, e se mai fosse accaduto per leggerezza, comunque De Caprio avrebbe dovuto subito avvertire il suo superiore gerarchico, cosa che non è avvenuta: perciò si è rotto il rapporto di fiducia”, così Gentiloni spiega nel settembre 2017 il ritorno del capitano ai carabinieri, davanti al Copasir, il comitato parlamentare che vigila sui Servizi. Lo ricostruisce Francesco Grignetti sulla Stampa e rivela che il 20 luglio 2017 Gentiloni aveva chiesto addirittura il licenziamento di Ultimo, poi diventato un trasferimento.

Renzi però evoca la possibilità che Gentiloni abbia coperto eventuali e imprecisate responsabilità più gravi. E anche per questo Renzi ha fatto di tutto per consegnare oggi la guida del Copasir a un fedelissimo come il deputato Pd, Lorenzo Guerini. Sullo sfondo, poi, l’ex segretario Pd cita la “strisciante tensione interna legata al cambio di vertice” dell’Arma: il generale Tullio Del Sette, vicino all’allora ministro della Difesa Roberta Pinotti, aveva preso il posto di Luigi Gallitelli nel 2014. Oggi Del Sette rischia il processo per l’accusa di rivelazione di segreto nell’indagine Consip e Gallitelli è stato lanciato, in modo improvviso ed effimero, da Silvio Berlusconi come un possibile candidato premier del centrodestra a fine 2017, in un’intervista tv. Anche quello era un messaggio cifrato?

“Hanno usato i servizi segreti contro di me”

Tra il 2015 e il 2016 i vertici dei servizi segreti mi comunicano che intendono procedere all’inserimento di una figura di rilievo nella struttura di intelligence. Si tratta del Capitano Ultimo, come si fa chiamare un ufficiale dei carabinieri che ha partecipato alla cattura di Totò Riina e che per questo gode dei favori di larga parte dell’opinione pubblica. Mi viene descritto come un segugio infallibile e l’operazione mi si prospetta come fondamentale per raggiungere il primo obiettivo che ho dato alla struttura, insediandomi al vertice del governo, (…) nel 2014: la cattura del nuovo capo della mafia, Matteo Messina Denaro. (…)

Quando mi presentano l’operazione “Capitano Ultimo”, rimango sorpreso. Perché coinvolgermi nella scelta dei singoli operativi? A differenza di molti predecessori e successori, ho deciso di non inserire nemmeno uno dei miei nella struttura dei servizi. (…) Quando mi viene detto, dunque, che per catturare Matteo Messina Denaro è assolutamente necessaria la competenza di Ultimo, la prendo come un’informazione e incoraggio l’operazione: se funzionale allo scopo di catturare Messina Denaro e dare al mondo l’immagine di un’Italia che continua la lotta contro la mafia, andate avanti e assicurate alla giustizia questo criminale sanguinario. Non immagino che quella vicenda, in realtà, nasconda qualcosa di diverso. Lo capirò soltanto dopo una serie di fatti, legati da un filo rosso, che altri – non il sottoscritto – avranno probabilmente intenzione di raccontare. Magari in forme non tradizionali.

Quel che è certo è che Ultimo viene coinvolto nella struttura dell’intelligence non da solo, ma insieme a un corposo nucleo di collaboratori, provenienti dall’arma dei carabinieri, che, unico caso nella storia dell’intelligence italiana, verranno espulsi dai servizi e rimandati indietro quando si scoprirà che hanno lavorato insieme a elementi dell’Arma i quali, secondo i magistrati, stavano manipolando le prove contro di me. Rumors dicono, infatti, che il gruppo di Ultimo, che arriva dal Noe, un particolare reparto dei carabinieri, non viene assegnato alla caccia di Matteo Messina Denaro, ma a un’altra missione. Sembra poi che qualcuno all’interno di quel gruppo sbagli cognome, sbagli Matteo. I magistrati di Roma hanno chiesto il processo per uno di loro, il colonnello Gianpaolo Scafarto. È lui che tecnicamente avrebbe manipolato le prove, secondo quanto risulta dalle indagini della Procura della Repubblica. Ed è lui che qualche mese prima dei fatti contestati esplicita la sua linea a un magistrato di Modena, Lucia Musti, che sotto giuramento al Csm riporterà le parole testuali: “Dammi le prove per arrivare a Renzi. Devo arrestare Renzi”. Cosa c’entravo io? E quale Renzi cercavano questi uomini del Noe? Perché scomodare un magistrato di Modena? E perché Scafarto, sotto processo, verrà poi investito del ruolo di “assessore alla legalità” in un comune campano, smettendo la divisa per fare politica in un’amministrazione guidata da avversari politici?

La vicenda si tinge di giallo per chi non ha chiaro il disegno generale. Prima o poi verrà alla luce se tutto sia davvero partito da altre indagini, archiviate molto rapidamente, su fondazioni e finanziamenti alla politica. E prima o poi si farà chiarezza su come da un’indagine su una cooperativa, Cpl-Concordia, all’improvviso si passi a Consip, il presunto scandalo su cui viene indagato il mio braccio destro, Luca Lotti. Sono assolutamente sicuro che Lotti non abbia mai passato alcuna notizia ai dirigenti di Consip. Ma siamo certi che, nelle stesse ore, altri non abbiano trasmesso informazioni riservate a politici e amministratori di rilievo per evitare che nei principali scandali di quegli anni fossero implicate importanti personalità del mondo romano? Chissà. Forse non sarà un articolo, forse non sarà una mozione parlamentare, forse non sarà una relazione tecnica, ma un giorno qualcuno troverà il modo di mettere nero su bianco quanto è successo.

Se davvero non è accaduto niente, perché tutto il gruppo di Ultimo, di colpo e con un atto senza precedenti, viene rimandato indietro e riprende servizio nei carabinieri? Magari ne capiremo la ragione e forse sapremo davvero quanto avveniva in quel periodo nell’Arma, istituzione straordinaria davanti alla quale mi inchino, ma che all’epoca pativa una strisciante tensione interna legata al cambio di vertice. In tutta questa dinamica mio padre (ovviamente estraneo a tutti i movimenti appena descritti) viene coinvolto per due anni, con le aperture dei quotidiani e dei Tg per giorni interi, in ragione di un presunto traffico di influenze – ipotesi di reato invero non chiarissima. Sarà la stessa procura a chiederne l’archiviazione. Ma se la verità processuale sarà scritta nelle aule dei tribunali, va sottolineato con forza che si pone un enorme tema di natura istituzionale. Il presidente del Consiglio dei ministri, comunque si chiami, non può essere oggetto di una campagna di aggressione da parte di elementi delle istituzioni.

Cantone si rimette la toga per finta: “Spero sia un viatico”

Il processoa Evita Perón va in scena sotto gli occhi di Raffaele Cantone nell’aula di “tribunale” al Teatro Eliseo. Il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione ha preso parte ieri al terzo appuntamento di La Storia a processo, lo spettacolo che porta sul palcoscenico magistrati, giudici e avvocati a guidare il dibattimento che deve stabilire se dei grandi personaggi (da Marx a Robespierre) siano colpevoli o innocenti davanti alla Storia. Questa volta non è toccato al presidente dell’Anac giudicare, perché decide il pubblico, ma da qui a un anno Cantone potrebbe tornare a emettere sentenze. È di pochi giorni fa la notizia della sua candidatura a tre procure. E ieri, a teatro, ha ribadito le sue intenzioni: “La toga per me è un’emozione e spero che sia un viatico per indossarla presto”. Il mandato all’Anac termina nel marzo 2020: Cantone ha spiegato di aver fatto domanda al Consiglio superiore della magistratura per incarichi a Perugia, Torre Annunziata e Frosinone “sapendo che i tempi non sarebbero stati brevi”.