Liguria: voleva “forni” per gli stranieri, l’ex candidato patteggia

I leoni da tastiera dimostrano spesso di avere gli artigli spuntati nel mondo reale. Nel 2017 in un post su Facebook l’ex candidato del centrodestra alle amministrative di Santo Stefano, in provincia di La Spezia, Davide Tempone aveva scritto “Forni al posto delle case popolari” riferendosi ai cittadini stranieri. Al post aveva messo like anche la vice presidente del gruppo parlamentare della Lega Nord al Senato, Stefania Pucciarelli, che era corsa poi a dissociarsi, sostenendo di averlo fatto per distrazione, dopo che l’associazione “Comitato per gli immigrati” li aveva querelati entrambi. Archiviata la posizione della Pucciarelli, l’altro ieri l’associazione ha portato in tribunale un faldone che raccoglieva molte delle frasi più dure di Tempone, come “la miglior giustizia sta nella canna del fucile” e “ai poveri comunisti bisogna tagliare la testa”. In aula Tempone non ha rivendicato il suo post ma ha chiesto il patteggiamento e si offerto di pagare una cifra di riparazione, fissata dal giudice in 500 euro. Ma la vicenda non è conclusa: l’assegno che l’ex candidato aveva già inviato non è arrivato al “Comitato”, per cui il giudice ha fissato una nuova udienza il 15 marzo.

“Se l’Italia nega il processo al ministro rischia una sanzione dalla Corte Ue”

Il caso Diciotti si fa sempre più ingarbugliato. Nel giorno in cui il presidente della Giunta Gasparri ha deciso di inviare alla Procura di Catania le dichiarazioni di “corresponsabilità politica” allegate dal premier Conte e dai ministri Di Maio e Toninelli alla memoria difensiva di Salvini, abbiamo chiesto lumi a Gianluigi Pellegrino, avvocato esperto di diritto pubblico e amministrativo.

Avvocato, nella memoria allegata dal ministro Salvini il premier e i due ministri si auto-denunciano?

C’è molta strumentalizzazione sul punto. Ciò che viene imputato a Salvini dai magistrati è una specifica condotta, rispetto alla quale né Conte, né Di Maio né Toninelli dicono di aver collaborato. È quella di aver costretto i migranti a stare chiusi nella Diciotti per cinque giorni. I magistrati sostengono che sia sequestro di persona: il processo è complesso, niente è scontato. Quello che è certo che il premier e i due ministri non affermano affatto di aver collaborato a questa specifica condotta, ma si limitano a ribadire l’indirizzo politico del governo che non è in discussione, tanto che ne danno atto anche i magistrati.

Aveva ragione il senatore Grasso che sosteneva che gli atti presentati dal ministro Salvini erano irricevibili?

Andavano intesi per quello che erano; la ribadita e pacifica linea politica del governo. Sbagliato sostenere che queste carte fossero da inviare al Tribunale perché si è avallata la confusione tra due piani che sono invece distinti. La si butta in politica ancora di più. Credo che i magistrati diranno che non c’è alcuna dichiarazione di correità per le ragioni che ho appena detto.

Salvini ha agito dentro la politica dell’esecutivo, ma è un dato irrilevante: è così?

È scontato. I magistrati chiedono se agendo nel perimetro della politica del governo era necessario a difesa del supremo interesse nazionale fare scendere i migranti con cinque giorni di ritardo, il 25 e non il 20, tenendoli segregati. Secondo loro questo configura sequestro di persona. Perché la segregazione è stata se mai usata per avere più potere di trattativa con i Paesi Ue.

Si può usare la libertà delle persone a questo scopo?

Se l’Italia dice che la giustizia non può accertare se uomini, donne e bambini abbiano o meno subito un sequestro di persona, rischia una clamorosa sanzione della Corte europea dei diritti dell’uomo. La Convenzione sancisce in modo inequivoco che nessuno, nemmeno lo Stato nazionale può impedire di accertare che un diritto fondamentale come la vita o la libertà sia stato violato. Neanche, come prevede l’articolo 13, se l’ipotetica violazione avviene da parte di chi era investito delle funzioni pubbliche, come potrebbe essere nel caso del ministro.

Una norma prevede che sia il Parlamento ad accertare se sussiste il supremo interesse nazionale.

Certo: ma per essere compatibile con la Convenzione e con la nostra Costituzione deve ritenersi riferita a tutte le ipotesi di reato, tranne quelle che comportano violazione di diritti fondamentali incomprimibili come la vita o la libertà. Un ministro può compiere un falso nell’esercizio delle sue funzioni per il supremo interesse nazionale ma non può mai ritenersi autorizzato a uccidere o segregare persone. E lo Stato non può impedire che venga accertato. Se queste persone avessero voce direbbero: “Vogliamo sapere se siamo stati ingiustamente segregati”. Come diremmo io o lei. Non è che siccome sono migranti non hanno i diritti fondamentali dell’uomo. Peraltro la norma italiana del 1989 deriva da un referendum con cui i cittadini hanno abrogato il potere di veto della vecchia Commissione inquirente ribattezzata “porto delle nebbie” perché impediva sempre di accertare i reati ministeriali. Ora lo vorremmo rifare persino su un diritto fondamentale: altro che nebbia, è la notte della civiltà.

Di Maio fa il partito: così cambia il M5S che fu di Casaleggio

Il capo che doveva ricordare a tutti chi è il capo ha saltato il fosso. E dopo la grandine elettorale in Abruzzo ha calato la sua risposta, ossia che il Movimento deve diventare un partito, vero. Nonostante Davide Casaleggio, l’erede che non voleva saperne di toccare i codici del padre Gianroberto. E chissà se e quanto malgrado Roberto Fico, l’ortodosso che non avrebbe mai voluto un capo politico nel suo Movimento, a meno che non fosse Beppe Grillo. Invece comanda Luigi Di Maio, che ieri sul blog delle Stelle ha annunciato la sua rivoluzione, un M5S con una struttura: concreta. Con un capo politico chiaro, lui, affiancato però da una segreteria politica. E con norme nuove: quindi sì ad accordi elettorali con le liste civiche, come predicava da tempo un veterano come Max Bugani, e sì anche alla cancellazione del vincolo dei due mandati per gli eletti locali. Novità che per ora sono ancora “delle proposte”, che dovranno essere costruite anche con i parlamentari e poi votate dagli iscritti sul web, il liquido amniotico del M5S.

Ma il vicepremier vuole sempre più uscire dalla dimensione on line. E pensa a un M5S radicato sui territori, spalancato anche a candidati esterni, della società civile, e comunque con nomi filtrati per competenza e visibilità. Come aveva fatto aprendo agli esterni nei collegi uninominali per le Politiche e come farà anche per le Europee di maggio, con capilista scelti da lui: anche esterni. Insomma, Di Maio insiste e spariglia. Perché sulla graticola per l’Abruzzo e il costante precipitare nei sondaggi ci è finito lui, ed è logico. Ma c’è anche altro. C’è il Giuseppe Conte che da Palazzo Chigi ultimamente suona spesso note differenti, dissimulate tra toni felpati. C’è un gruppo parlamentare che avverte la distanza dal M5S di governo, e che non ha mai adottato Di Maio come capo, guardandolo più come il primo della classe che come leader. E c’è Casaleggio, che sul vicepremier aveva puntato con un patto tra moderati. Ma che pretendeva di lasciare così com’erano i comandamenti del padre, di Gianroberto.

Invece no, il Di Maio infinitamente più politico di lui ha deciso che ora basta, i tempi sono cambiati. Quindi spazio alla rivoluzione, come lo stesso vicepremier ha anticipato a Casaleggio a Milano, lunedì scorso: “Dobbiamo cambiare”. E l’erede ha dovuto rassegnarsi. Anche perché ora è debole, visto che una caterva di parlamentari è furibonda con lui, innanzitutto per il rompicapo delle restituzioni. Non ne possono più di dover dare ogni mese 300 euro del proprio stipendio alla piattaforma Rousseau gestita dalla Casaleggio. E ci sono veleni anche suRousseau, che in Abruzzo avrebbe “paracadutato nomi da una provincia all’altra, e ci abbiamo rimesso voti”.

Così serve anche qualcosa di diverso dal web, scrive Di Maio: “Dobbiamo affrontare il tema dell’organizzazione nazionale e locale, aprire ai mondi con cui sui territori non abbiamo mai parlato a partire dalle imprese, decidere se guardare alle liste civiche sul territorio. E questo processo richiederà mesi”. Sarà finito per le Regionali in Emilia Romagna, in autunno. E chissà come ci arriverà Di Maio, che avverte: “Per le amministrative serve sempre un percorso che preveda incontri con categorie, mondo del sociale, amministratori. Non improvvisando come a volte accade”. Ma nel post ci sono altre punture di spillo. E una è addirittura per Grillo: “Continueremo sempre a restituire gli stipendi, a costruire le trazzere, a regalare le ambulanze”. Ed è un dardo per il fondatore, che da un palco di Bologna aveva scherzato: “Gli abruzzesi ci ridiano i 700mila euro che gli abbiamo dato lo scorso anno, quattro ambulanze e gli spazzaneve a turbina”. Invece Di Maio non scherza affatto. E morde anche Matteo Salvini: “ Il M5S oggi è l’unico argine a Berlusconi ministro della Giustizia o dell’Economia”. Ossia, senza di noi la Lega starebbe col Caimano.

Nell’attesa, diversi parlamentari invocano fuori taccuino: “Ora la segreteria vogliamo votarla”. Ma a contare sono soprattutto le voci in chiaro. Quelle degli eletti vicini a Fico, che fiutano l’addio a vecchi princìpi. Così ecco il presidente della commissione Cultura di Montecitorio, Luigi Gallo: “C’è un solo modo per ripartire: fare le cose giuste seguendo principi, lavori e programma del M5S. C’è chi semina paura e odio, noi seminiamo compassione”. Tradotto, il vero nodo è il patto con la Lega. E poi c’è un altro deputato, Riccardo Ricciardi: “Militanza è la gente che monta i banchetti, non chi se ne sta alla finestra tutto l’anno e poi, sotto elezioni, grazie a un’iscrizione a Rousseau può rappresentare i cittadini”. Ergo, no agli esterni calati dall’alto. Cioè da Di Maio.

Gasparri “scuda” Salvini e inguaia Conte e i 5Stelle

Salvini? È “innocente” per mancanza di alternative. O meglio. Siccome non ha agito per fini privati né per movente politico, non può che averlo fatto per finalità di governo. E dunque perseguendo un preminente interesse pubblico: è questo il ragionamento seguito da Maurizio Gasparri che ha proposto alla Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato di negare il via libera ai giudici del Tribunale dei ministri di Catania. Che vorrebbero invece tanto processare Matteo Salvini a cui contestano il reato di sequestro aggravato in relazione alla gestione della Nave Diciotti. Sulla proposta ora dovranno esprimersi i senatori che siedono nell’organismo paragiurisdizionale di Palazzo Madama. Che ieri hanno iniziato a discutere del caso e delle determinazioni che Gasparri intende mettere ai voti. Il senatore forzista ha anche reso noto di voler trasmettere alla Procura di Catania i documenti allegati dal ministro dell’Interno alla sua memoria difensiva: ossia quelli predisposti in suo favore dal ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli in tandem con il vicepremier Luigi Di Maio. E pure quello, di contenuto analogo, del presidente del Consiglio Giuseppe Conte in cui ha rivendicato la responsabilità collegiale del governo in materia di immigrazione.

Proprio Conte – secondo la ricostruzione di Gasparri – è il principale “alibi” di Matteo Salvini. Che avrebbe rischiato di andare alla sbarra per aver – come sostengono i magistrati – arbitrariamente negato lo sbarco dei profughi a bordo della Diciotti dal 20 e il 25 agosto scorsi, solo se Conte, nella informativa del 12 settembre, avesse smentito o preso le distanze ufficialmente dalla sua condotta. “Allora avremmo potuto ipotizzare un interesse partitico e non governativo (del ministro-senatore della Lega, ndr). Ma questo non è avvenuto”, si legge nella bozza di relazione di Gasparri, che della Giunta è anche presidente. Che in questa partita compie un vero capolavoro, da fuoriclasse politico: scudare Salvini, che, come è noto, in molti nel centrodestra vorrebbero staccasse la spina all’alleanza con il Movimento 5 Stelle. Ed esporre il governo gialloverde a future e prevedibili fibrillazioni giudiziarie: l’autodenuncia di Conte e dei ministri pentastellati verrà infatti inviata, su proposta di Gasparri ma tramite un atto ufficiale della presidente della Camera, Maria Elisabetta Alberti Casellati alla procura di Catania. Che poi la trasmetterà al Tribunale dei ministri costituito nel capoluogo etneo. A voler pensar male, la duplice iniziativa del presidente della Giunta sembra proprio cogliere due piccioni con una fava.

Sull’autorizzazione a procedere contro il capo del Carroccio non sarà solo lui a decidere: entro una data attorno al 20 febbraio si esprimerà l’intera Giunta. Dove non è escluso che si arrivi ad una relazione di minoranza sottoscritta da quanti vorrebbero che delle eventuale colpevolezza di Salvini decidessero i magistrati. A favore del processo a Salvini dovrebbero votare i senatori del Pd, ma anche Pietro Grasso di Leu e Gregorio De Falco: per questi ultimi il riconoscimento dell’immunità rispetto al fine politico degli atti compiuti da Salvini è un precedente molto pericoloso. “Significa in sintesi far coincidere governo con lo Stato, c’è già passato qualcuno negli anni scorsi” dice l’ex M5S De Falco. Che pare rivolgersi ai suoi ex compagni di Movimento che ufficialmente ancora non hanno deciso come regolarsi ma sono ormai pronti a far scegliere il blog. Ieri hanno fatto solo qualche dichiarazione sui lavori della Giunta dove parleranno, forse, solo oggi. Il capogruppo Michele Giarrusso assicura: “Non tradiremo i nostri valori”. Ma a chi gli chiede se la base capirebbe la scelta di salvare Salvini, risponde: “Non esiste la base. Ci sono gli attivisti e gli attivisti capiscono”.

Il Festival di Sanscemo

Accadono cose fantastiche, ai confini della realtà, cose che voi umani ecc. Ne dico quattro, per motivi di spazio.

Il presidente della Giunta per le autorizzazioni del Senato, con rispetto parlando Maurizio Gasparri, propone di votare no alla richiesta dei giudici di processare Salvini per sequestro di persona nel caso Diciotti. Ma contemporaneamente invia ai giudici le relazioni di Conte, Di Maio e Toninelli che si autodenunciano col ministro dell’Interno per essere processati anche loro. Fermo restando che “i Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri” (art. 95 della Costituzione), spetterà ai pm stabilire se debba essere indagato qualcun altro, oltre a Salvini (che agì senz’alcun atto del Cdm). Ma che senso ha chiedere ai giudici di decidere se processare solo Salvini o anche Conte, Di Maio e Toninelli, e poi negare loro il permesso di processare chicchessia? Applicare la logica a Gasparri è un ossimoro, ma una risposta – soprattutto dal tentennante M5S – sarebbe gradita.

A Strasburgo un signore belga che si pettina e parla come Antonio Conte, tale Guy Maurice Marie Louise Verhofstadt, sedicente “liberaldemocratico”, lo stesso che due anni fa voleva accogliere i 5Stelle nel gruppo Alde ma non ci riuscì perché fu messo in minoranza dal gruppo Alde e ne rimase il leader come se niente fosse, pensa bene di combattere gli odiati populisti” con le stesse armi che li hanno portati alle stelle: il disprezzo e l’insulto. Dà del “burattino” a Conte (nel senso di Giuseppe, il premier italiano, il più popolare d’Europa). E riesce nell’ardua impresa di far solidarizzare con Conte anche le opposizioni, dal forzista Tajani al calendiano Calenda, oltre ad allargare la popolarità dei “populisti” e l’impopolarità della Ue. Al posto di Conte, affitteremmo questo genio e ce lo terremmo in giardino, per ogni evenienza.

Il Consiglio d’Europa piazza l’Italia fra gli osservati speciali, alla pari di Russia, Turchia e Ungheria, per le minacce alla libertà di stampa: quelle mafiose, fasciste ed eversive (vere) e quelle governative (false). Si parla della scorta di Saviano, fortunatamente confermata. Si citano gli attacchi di Salvini e Di Maio ai giornalisti (sbagliatissimi, ma un po’ meno frequenti di quelli di Renzi e molto meno di quelli di B.). Poi, sommando le mele con le patate, s’infila “l’abolizione dei sussidi pubblici alla stampa” (cioè ai giornali pagati da chi non li compra), che con la libertà di stampa non c’entra nulla.

Se non perché la limita vieppiù (che libertà può avere verso il governo un giornale che campa coi soldi del governo?). Infatti i soli quotidiani a prendere sul serio la classifica sono quelli più finanziati dallo Stato: Libero e il manifesto.
Intanto tutti i giornali (tranne il manifesto e il Fatto) spacciano l’analisi costi-benefici sul Torino-Lione per un bizzarro parere di cinque squilibrati 5Stelle e/o No Tav, senza peraltro contestare un solo dato dello studio di 80 pagine firmato da alcuni fra i massimi esperti di economia dei trasporti. Così il Consiglio d’Europa capirà finalmente chi sono i killer della libertà di stampa: i giornalisti. Le argomentazioni sono strepitose.

1) L’analisi sul Tav è sballata perché calcola le mancate accise sui carburanti e i mancati pedaggi autostradali: peccato che anche l’Osservatorio governativo ne abbia sempre tenuto conto senza destare polemiche; e così uno degli esperti ministeriali, Paolo Beria, nell’analisi sul sistema-traffico di Milano per la giunta Sala (Pd), senza che nessuno la ritenesse viziata.

2) L’analisi è farlocca perché non considera i “50 mila posti di lavoro” del Tav (Boccia di Confindustria e la Furlan della Cisl, oggi sposi): peccato che lo stesso sito dell’Osservatorio pro Tav parli di 450 lavoratori in aggiunta agli attuali 4 mila. Per passare da 450 a 50 mila bisogna fumare roba davvero buona.

3) La commissione sarebbe “spaccata” perché, su sei esperti, cinque arrivano a una conclusione e uno a un’altra: e, fra cinque e uno, ha ragione quell’uno (tale Coppola, portato in trionfo dai giornaloni come un eroe di guerra). Motivo: Ponti è prevenuto perché era anti Tav già prima di fare l’analisi, mentre Coppola è imparziale perché è sempre stato pro. Come se un tizio si facesse visitare ogni anno, il medico gli dicesse ogni volta che ha il colesterolo alto e quello, all’ennesima conferma, gli strillasse che è prevenuto e non è imparziale perché dice sempre la stessa cosa (le diagnosi sul colesterolo, com’è noto, sono una variabile indipendente dal tasso di colesterolo). Ecco: questo è il livello medio del dibattito sul Tav, almeno in pubblico. In Parlamento invece i deputati della commissione Trasporti hanno dovuto studiare, o almeno fare finta. E ieri, nell’audizione di Ponti e degli altri analisti ministeriali, hanno dato vita, per la prima volta nella storia, a un dibattito parlamentare sul Tav basato sui dati e non sulle supercazzole. Un bel paradosso, se si pensa che Toninelli e il M5S passano sempre per bifolchi allergici alla scienza e alla competenza. Alla fine Ponti&C. hanno rintuzzato, numeri alla mano, ogni obiezione. E ora quel che dice da 30 anni il movimento No Tav è finalmente agli atti del Parlamento. Ma ci vuol altro per zittire i trombettieri del Tav, che a favore di telecamera continueranno a spacciare la loro merce avariata. Del resto è gente di bocca buona. Chi giurava su Ruby nipote di Mubarak o sull’immacolata concezione di babbo Renzi e babbo Boschi può dire e contraddire di tutto. Funzionava così nelle monarchie assolute: se il re riceveva un messaggio sgradito, faceva ammazzare il messaggero.

Senza corde verso l’eternità: un climber impressiona Hollywood

Qual è il confine tra la follia e la voglia di sentirsi Dio? Fino a che punto ci si può prendere gioco della morte, portandola con sé come compagna di viaggio su una parete di quasi mille metri da scalare a mani nude e senza corde di protezione? Se soffrite di vertigini e non siete per la “terapia d’urto”, l’incredibile avventura di Alex Honnold non fa per voi. Ma se avete la minima curiosità umana di capire cosa spinge un ragazzo di 33 anni (31 all’epoca, il 3 giugno 2017) a sfidare la sorte per tre ore e 56 minuti, allora Free Solo è il punto di vista che cambierà per sempre la vostra concezione dell’affacciarsi al balcone del quinto piano. Fresco vincitore del Bafta e candidato agli Oscar come miglior documentario (se la vedrà con Hale county this morning, this evening, Minding the gap, Of fathers and sons, Rbg), sarà nelle sale dal 19 febbraio e in onda su National Geographic il 2 aprile alle 20.55.

Alex Honnold non è un uomo comune, certo. La sua amigdala, la ghiandola del cervello che gestisce le emozioni – la paura, prima di tutto – non funziona come la nostra (per lo meno, quella di chi scrive): per attivarsi ha bisogno di raggiungere un livello di stimolazione molto più alto del normale. Stesso ragionamento si può fare per la soglia del dolore, dal momento che Alex torna ad allenarsi a pochi giorni da una caduta che gli provoca due micro-fratture vertebrali e da un’altra con cui si sloga una caviglia. Ma il racconto della documentarista Chai Vasarhelyi e del fotografo alpinista Jimmy Chin non cerca ragioni medico-scientifiche. La telecamera segue Alex nell’anno precedente alla sua impresa mondiale, lo riprende durante la preparazione, lo lascia parlare. Ed è qui, forse, la risposta alla prima domanda. Il confine tra la follia e il sentirsi Dio non esiste, perché per Alex la vita è incollata alla parete di El Capitan, nel parco nazionale dello Yosemite, Sierra Nevada, California. La parete che tutti i climbers nella vita vorrebbero sfidare. E già con le corde è un’impresa. Anzi, per Alex quella parete è la vita stessa, l’asticella alzata verso l’eterno.

Figlio di un padre con possibile sindrome di Asperger, morto quando lui aveva 19 anni, e di una madre “che mi parlava solo in francese”, una per cui quello che fai non è mai abbastanza, Honnold ha studiato in un college internazionale e poi ha mollato Ingegneria a Berkeley per perseguire i suoi sogni. “Nella mia famiglia non sapevamo cosa fosse un abbraccio – racconta –,a 23 anni ho pensato che era il momento di imparare”. Timido, introverso, Alex ammette di aver avuto qualche ragazza, “ma tutte si mettevano in mezzo tra me e la roccia, tutte fingevano di preoccuparsi, tanto poi una volta morto io ne avrebbero trovato un altro”. Cinico, spietato, realista o soltanto incapace di aprirsi? “Se lassù ti raggiungesse il pensiero di me – gli chiede la fidanzata cui è riuscito a dire “ti amo” –, ne saresti influenzato?”. “No”. Non c’è spazio per i sentimenti quando guardi in faccia la morte e l’essere innamorato – confida l’amico climber Timmy O’Neill – rischia di farti perdere la concentrazione. E perdere la concentrazione, quando sei anche solo a cento metri di altezza – figuriamoci a 900 – significa cadere nel vuoto. “Posso anche non vivere a lungo”, anche perché tanti ne muoiono strada salendo. “Non pensavo sarebbe precipitato proprio da quella parete”, è il commento, non “non pensavo sarebbe precipitato”. Tanto la signora Morte prima o poi passa per tutti.

Free solo è un thriller e, anche se sai che nessuno si farà del male – altrimenti sarebbe stato un doc alla memoria –, l’adrenalina è talmente in circolo da trattenere il respiro a ogni singolo movimento di una mano sulla parete. E quando, dopo 90 minuti in crescendo, Alex mette finalmente i piedi su una terra orizzontale, tu puoi affacciarti al balcone e alzare le braccia al cielo. Dove Dio sta sicuramente ridendo.

Tutti in “ecstasy” per Lauro, l’ultimo dei poeti maledetti

Appena entra in scena si avverte che con lui sul palco è salita quella cosa, quel carattere disturbante che qualcuno ricorda da antichi scandali sanremesi (la Bertè con la pancia finta; Anna Oxa impenetrabile come una Sfinge, aperta come il delta di un fiume, biondissima, mora; Vasco Rossi che osa il nichilismo dell’autodistruzione, punito col penultimo posto). Achille Lauro prende il microfono, pronuncia le prime sillabe del suo canto eretico, dissonante e indecifrabile, e subito entra nel Pantheon dei disturbatori.

Non dovrebbe essere lì, un non-addomesticato come lui, nell’orario delle famiglie avvinte dai sentimenti esagerati-edulcorati delle canzoni. Se Sanremo è Carnevale, Lauro può essere il parafulmine perfetto di tutte le inversioni da far brillare nel finale, la strega da bruciare perché l’ordine sia ripristinato. Ma basta qualche strofa per capire che questo ragazzo strano e sfuggente è molto di più di un’anomalia funzionale al predominio dello status quo, come in tutti i rituali per abbindolare le masse.

Nel pallore della sua figura emaciata compare il fulmine ustionante del puro talento. Rolls Royce, la sua canzone dissipata, che lui canta in modo sgualcito e sbrigativo come se fosse stato catapultato qui da un altro pianeta e stesse cercando di tornare a casa, è una preghiera per star disperate, giovani dèi sacrificati alla bellezza, quasi tutti morti di barbiturici o eroina o tristezza (o di dissoluzione e un panino, come Elvis). Striscia La Notizia si studia il testo e decreta che contiene un invito subliminale al consumo di ecstasy. Il ministro Salvini, all’uopo recensore di tv, sorrisi e canzoni, interviene: “Penoso”. I giornali di destra godono: “Drogato”. Lauro si difende: giura di non aver mai sentito parlare di una pasticca che si chiama Rolls Royce (lui che viene dalla trap, mutazione chimica, sonnambula, apolitica del rap); evoca un immaginario anni ’50; cita Marilyn e il suo fantasma bianchissimo e il suo vagheggiato pianto sui sedili di un’auto di lusso.

Baglioni lo ripara dal fuoco di fila dei censori. Tutto si normalizza, per cinque giorni di finzione nella finzione. Lo scandaletto è il nulla: chissà cosa credevano fosse la “cocaine” di Eric Clapton, la “Coca cola” di Vasco Rossi, l’“Elisa” di Battiato e Alice; chissà perché Lucy volava nel cielo coi diamanti e cosa sono i paradisi artificiali di Baudelaire, l’oppio di De Quincey, il laudano del meraviglioso Coleridge… Si fa passare Rolls Royce per una canzonetta vuota, spurgata del suo difficile richiamo all’oblio. “Non sono stato me stesso mai”, canta per 4 volte Lauro all’Ariston, nel suo tuxedo bianco o nero impeccabile, da dandy strafottente e gentile, persino cerimonioso(“Signore e signori, sono onorato di essere con voi stasera”), il che è piuttosto punk in un senso post-postmoderno.

Sul red carpet sfila con un mantello nero, aristocratico e ambiguo come Rimbaud, con la faccia tatuata a sfregio della sua complicata bellezza. La domenica è ospite da Fazio, nel programma del ben comportarsi. Fazio, come già la Carrà con Eminem, gli mette una mano sulla spalla, come a dire “so che sei un bravo ragazzo dalla vita difficile; la colpa è di noi adulti, della società; ti prendo sotto la mia ala, vai nel mondo, sei sdoganato”.

Per fortuna le canzoni hanno il potere magico di andarci da sole, nel mondo, nell’irresponsabilità totale della loro forza poetica. Se anche la Sony avesse deciso di farne un prodotto di marketing (oggi si sfornano artisti come telefonini, soggetti come quelli a obsolescenza programmata), Lauro, seduto accanto a Marzullo e a Orietta Berti, resta distante, etereo, alieno.Ha scritto un libro dal titolo inopinato: Sono io Amleto (Rizzoli): sorte maledetta, essere nato per rimettere in sesto il mondo; prima di lui lo hanno saputo Camus e Artaud.

Una canzone per tutte: Thoiry (scritta con Boss Doms, Gemitaiz, Puritano, Quentin40) è una tragédie-lyrique rapida, dionisiaca e giunglesca in cui il sentimento è chiuso ermeticamente nella trance. La sua lingua è spezzata come quella di Saffo e dei poeti di guerra come Apollinaire: “Giusto sotto alle mie sca’ Conto i miei pa’ Bello mi’ la stra’ non me la sono pe’ Sfioro l’asfa’ non ti si vede più a pie’ Nascondino Instagra’… Fra Surrealismo e Duchamp Fai una foto ai Matisse Fanno le foto ai Basquiat Fanno le foto ai Dalì Fanno le foto ai Renoir Sembra Thoiry”. I poeti impegnati di oggi se lo sognano, di scrivere un testo così. Achille Lauro è l’ultimo dei romantici. Il nostro auspicio per lui: non farsi addomesticare, non farsi pastorizzare, inseguire il suo demone.

“La paranza dei bambini” che giocano alla guerra

Dell’innocenza perduta. O del raccontare il mondo attraverso Napoli e non viceversa, per dirla con Roberto Saviano. Ecco l’essenza de La paranza dei bambini trasformato in potente dramma generazional-emotivo da Claudio Giovannesi, ieri applaudito con calore alla 69ma Berlinale dove concorre per l’Orso d’oro e da oggi in 300 sale italiane per Vision Distribution. Lontano dunque dal rischio di uno scivoloso “Gomorra junior”, il quarto lungometraggio del regista romano, classe 1978, ha filtrato dall’omonimo romanzo d’ispirazione ciò che di universale è racchiuso nel cuore e nelle teste dei ragazzi raccontati: adolescenti della periferia napoletana (“ma potrebbero essere di qualunque suburbia metropolitana contemporanea”) che dal gioco passano alla guerra, entrando così nella criminalità endemica della loro città. Ma se giocando si può tornare indietro, in guerra si muore. E il binomio gioco/guerra è stato proprio il punto di partenza nell’adattamento cinematografico del libro di Saviano, al quale lo stesso scrittore ha partecipato insieme al sodale Maurizio Braucci e lo stesso Giovannesi.

Scorrazzando senza casco sui loro motorini, i “paranzini” guidati dall’impavido Nicola detto O’ Maraja hanno solo tre cose in testa: il denaro, i follower e l’aspetto fisico. “Chiunque pensa possa esserci dell’altro o c’ha i soldi o è fesso” sentenzia Saviano osannato da superstar a Berlino. L’esplorazione sottopelle dei teenager di rione Sanità effettuata da Giovannesi s’intuisce fin dalle prime immagini girate in Galleria Principe: nottetempo i guaglioni dei quartieri giocano alla conquista dell’albero di Natale per abbatterlo e farne un falò. La decorazione natalizia diventa un trofeo tribale, un rituale arcaico orientato al “possesso” e al successivo “annientamento” a suon di cori e schiamazzi esplosivi pari solo alla loro energia, folle e incontrollabile. Ma questo non basta, loro vogliono tutto, e O’ Maraja – che è boss per istinto – sa come iniziare: basta trovare la lampada di Aladino, che per lui ha la forma di una pistola. Dal gioco alla guerra, appunto.

A interpretare Nicola è Francesco Di Napoli, un adolescente pasticcere “scovato” nel rione Traiano, capace di spaccare lo schermo da attore navigato che non è: trovato nel mezzo di un casting monstre (almeno 4 mila ragazzi “provinati”) è apparso subito perfetto agli occhi del regista che di lavoro coi teenager se n’intende. Bellissimo volto innocente, conoscenza diretta delle tematiche e talento innato alla recitazione, ovvero la “capacità di portare la verità dei sentimenti sulla scena”. Perché al regista di Alì ha gli occhi azzurri (2012) e di Fiore (2016) questo è l’unico criterio consegnato ai suoi giovani attori: lavorare sui sentimenti scena per scena. E i sentimenti abbondano ne La paranza dei bambini film, a differenza del cinismo che emerge dal romanzo di Saviano. D’altra parte il produttore Degli Esposti ha voluto il romano e “umanista” Giovannesi non a caso, serviva distanza per universalizzare Napoli (benché vi abbia girato due episodi di Gomorra – La serie) ma soprattutto grande sensibilità verso i giovanissimi.

Da parte loro, Francesco e gli altri – tutti presi dai quartieri – hanno aderito con naturalezza a un progetto che vibra del loro sangue. “Vivo in un quartiere in cui questi personaggi ci sono davvero, per questo non mi è stato difficile diventare O’ Maraja” commenta Di Napoli. “Però nessuno è obbligato a diventare camorrista, ci sono alternative, io per esempio ho scelto di lavorare ma avrei potuto scegliere il crimine. Per me chi fa una scelta del genere e ha avuto un’alternativa è uno stupido”.

Ciò che è espresso dall’intelligenza emotiva di Francesco è – da anni – materia concettuale di Roberto Saviano. Ed è proprio il giornalista/scrittore con scorta – e relativa polemica – al seguito (“che non è un privilegio, ma un dramma. Ma vi garantisco che sono sereno e non mi farò intimidire dalle minacce di Salvini”) a rincarare l’allarme attualità. “La situazione è peggiorata, la camorra sta di nuovo chiedendo pizzo ovunque e le organizzazioni si stanno prendendo nuovi territori. Con uno Stato che ha abdicato alle proprie responsabilità, i ragazzi hanno capito che la camorra è l’unica struttura a credere in loro. Per questo si accendono ‘innocentemente’ di fronte alla promessa criminale di conquistare tutto e subito, e poi morire ventenni da eroi. I paranzini sono il sintomo di un’inversione di tendenza all’aspettativa di vita contemporanea: un Paese dei balocchi che sta tornando al Medioevo”.

La conta degli intellettuali non risparmierà nessuno

Giacomo Papi, scrittore e giornalista, ha scritto un romanzo divertente sul presente – quello in cui gli intellettuali sono il nemico da abbattere assieme al migrante – e su un futuro prossimo che un radical chic definirebbe, appunto, distopico. Un futuro in cui gli intellettuali saranno schedati, imbavagliati e magari buttati nel fiume con pesanti sacchi di libri legati alla caviglia. Il libro si intitola Il censimento dei radical chic e l’autore, tocca dirlo, ha tutte le caratteristiche per finire nel suo romanzo e fare una brutta fine. Laureato in filosofia (quindi un perditempo), ha lavorato per la rivista Diario (mica per Chi), ha collaborato con Daria Bignardi ne Le invasioni barbariche (una che già nel 2012 alla Parodi che le dava dell’intellettuale rispose “Intellettuale io? Macchè, ho condotto il Grande fratello!”, perché aveva capito che per quelli come lei buttava male), è consulente di Fabio Fazio a Che tempo che fa (le interviste a quell’attorone, intellettualone di Toni Servillo le scrive lui, lo so), scrive per Repubblica (dunque collega di Roberto Saviano il buonista) e a questo punto, visto che più indizi fanno una prova, di sicuro ha un attico a New York. Almeno un bilocale in Via Solferino.

Insomma, Giacomo Papi, a voler dar retta a quello che scrive, è uno che teme per il proprio futuro. E fa bene. Il primo intellettuale a fare una brutta fine ne Il censimento dei radical chic è Giovanni Prospero, un professore in maglione di cachemire color aragosta, che durante un talk show osa citare Spinoza. Non il blog. Il filosofo. Rimproverato dal conduttore (“Nel mio programma non permetto a nessuno di usare parole difficili”), bacchettato dal ministro dell’interno (“Lei fa citazioni mentre il popolo muore di fame!”), esce dallo studio e viene preso a sprangate. Muore per borioso sfoggio di cultura. Ed è solo l’inizio di un nuovo surreale e minaccioso Medioevo in cui un rozzo ministro dell’Interno (che per tutto il libro mi ha ricordato vagamente qualcuno ma non mi sovviene chi) sobilla un popolo rancoroso e ignorante contro chiunque abbia studiato, possieda dei libri in casa, utilizzi termini sofisticati. Contro chiunque preferisca Loredana Bertè a Mahmood insomma. “La complessità si frappone tra l’arrabbiato e la fonte della sua rabbia, quindi ostacola lo sfiato dei suoi istinti che regola la vita di un paese”, afferma con amarezza Olivia, la protagonista del romanzo.

Il ministro dell’Interno decide dunque di istituire un Registro Nazionale degli intellettuali e radical chic e inizia un ironico e sinistro rastrellamento casa per casa con i radical chic che buttano nei cassonetti scialli afghani e giacche di tweed e gli intellettuali che fanno resistenza e si tatuano la scritta “Adelphi” sul polpaccio o girano col bastone d’avorio. Si passa poi alla semplificazione della lingua scritta e parlata, perché l’élite e il suo linguaggio impenetrabile, destinato agli eletti, devono essere cancellati. Un commissione apposita partorisce dunque La nuova grammatica della lingua italiana, 57 pagine appena, contenente misure molto gradite alle masse quali l’abolizione del congiuntivo e dei trapassati prossimi e remoti. O il divieto di utilizzare parole complesse, per cui in uno dei passaggi più spassosi del libro si racconta quale sarà la nuova versione – quella accessibile a tutti – dell’Infinito di Leopardi: “Sono sempre stato affezionato a questa collina deserta e a questa siepe che mi impedisce di vedere completamente l’orizzonte lontano…”.

Il tutto provocherà un’escalation di violenza da una parte e dall’altra, mentre il Ministro dell’Interno – consapevole di manovrare le masse con un’intelligenza ben celata – spiega ad Olivia, con cinica lucidità, che “Lo schifo è quello che le persone hanno dentro. E io sono il ministro dell’interno perché sto dentro ognuno di voi”.

Chi sia quel “voi” il libro non riesce a spiegarlo fino in fondo, visto il sarcastico manicheismo nel quale è immerso: da una parte ci sono loro, gli intellettuali miti e incolpevoli che mangiano quinoa e leggono Nietzsche, dall’altra il popolo col forcone che invoca “la legittima difesa da ragionevole paura” e vuole gente che parli come mangia, anzi, che mangi e basta, visto che teatri sono diventati supermercati e “il cibo è il nuovo collettore sociale”.

Manca la zona grigia, nel romanzo di Papi. Quella degli intellettuali delusi da una sinistra senza spina dorsale, dei populisti istruiti, dei deboli che si aggrappano all’uomo forte, delle masse composite e meno barbare, meno involute di quelle descritte e tinteggiate ne Il censimento dei radical chic. Certo, il registro è satirico, e non c’era spazio per le sfumature. Quelle che spiega bene Edoardo Albinati nella sua Cronistoria di un pensiero infame in cui lo scrittore si domanda perché oggi tutto il rancore venga convogliato sulla parola intellettuale, perché gli intellettuali vengano percepiti come individui così distanti, dei saputelli arroganti e parassiti che fanno la predica agli altri. E spiega che “il termine li fa rabbrividire, ma sono intellettuali anche quei giornalisti e anche i blogger e financo gli uomini politici: adoperano le parole, creano e diffondono delle idee. Seppure le parole le usano come mazze e forconi, ciò non toglie che siano parole, e le idee, per quanto rudimentali e ridotte a semplici slogan, non c’è dubbio che le generi il loro intelletto, per quanto loro preferiscano chiamarlo ‘pancia’. Chissà perché dunque alcuni intellettuali nutrono tanto disprezzo per la categoria a cui appartengono”.

Ecco. Non so se in un censimento degli intellettuali finirebbe schedato pure il ministro che si fa il selfie col pane e Nutella, ma di sicuro i populisti non li riconosci dal forcone e gli intellettuali dal mocassino indiano. (Comunque il romanzo di Papi genera ilarità. Ah no, il termine ilarità è complesso, Il Garante per la semplificazione della lingua italiano me l’ha bocciato. Facciamo che fa ridere, ecco).

Dal blockchain all’Internet delle cose: regole cercansi

Si dice blockchain, Internet delle cose, intelligenza artificiale e si pensa immediatamente innovazione, nuove tecnologie, bitcoin. Ci si dimentica però che i nuovi procedimenti rispondono anche a nuove regole, a un diritto che in parte c’è già e in parte si sta sviluppando, nel tentativo di trovare un equilibrio tra la necessità di tutelare gli utenti e quella di non soffocare il progresso. Scenari che sono aperti in tutto il mondo, come raccontano e spiegano gli autori del volume “Diritto della blockchain, Intelligenza Artificiale e Iot”. Il Parlamento di Malta, ad esempio, nel 2018 ha approvato la versione finale di un pacchetto di norme che prevede addirittura la creazione di una autorità governativa (Malta Digital Innovation Authority) con il compito di rilasciare apposite autorizzazioni per le attività sulle nuove tecnologie e sorvegliare i soggetti che le svolgono, certificandone le soluzioni. Chi sviluppa lì non lo fa per un vantaggio fiscale ma per una serie di regole certe che permettono alle aziende di avere un confine giuridico definito.