Stamattina 654 precari della società pubblica Anpal Servizi terranno un nuovo sit-in di protesta sotto la sede di Roma. Sono anni che seguono la ricollocazione dei disoccupati e chiedono di ottenere un posto fisso. Ora più che mai lo rivendicano per l’arrivo del reddito di cittadinanza. Questa volta, infatti, la protesta cade proprio mentre il governo Conte cerca un accordo con le Regioni – ieri pomeriggio l’ultimo incontro – per assumere, sempre a tempo determinato, altri 7.600 operatori con i quali rinforzare i servizi per il lavoro. Insomma, questo paradosso italiano sta per emergere ancora più chiaramente rispetto al passato, anche se il ministro Luigi Di Maio vuole risolverlo nei prossimi due anni. La macchina statale che guiderà i beneficiari del sussidio nella ricerca di un’occupazione sarà retta da precari. Cioè da persone che non avranno certezze nemmeno sul proprio posto di lavoro. Come detto, non è una novità nel nostro Paese, dove non c’è mai stato un grande investimento nelle politiche attive del lavoro e il personale impiegato nel reinserimento dei disoccupati è da sempre appeso a un filo. Anpal Servizi, nata come Italia Lavoro, nel 2016 è diventata la società in house dell’omonima Anpal, agenzia per le politiche attive nata con il Jobs Act. Un aneddoto aiuta a capire quanto sia datata la mobilitazione: quelli che nel 2010 furono definiti “l’Italia peggiore” dell’allora ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta erano proprio precari di Italia Lavoro che stavano manifestando. Nel frattempo, nessun governo ha affrontato la questione e oggi l’azienda pubblica conta 134 operatori a tempo determinato e 520 inquadrati come co.co.co. Il decreto sul reddito di cittadinanza ha stanziato un milione di euro per le stabilizzazioni: solo una ventina di loro potrà ambire al posto fisso. Tra pochi mesi, inoltre, il governo assumerà i famosi 6 mila navigator in Anpal Servizi, anche questi precari. Questa scelta ha fatto storcere il naso alle Regioni che rivendicano le proprie competenze costituzionali in materia di politiche attive del lavoro. L’esecutivo quindi spera di accordarsi con i venti assessori almeno sulle modalità di selezione. Intanto le stesse Regioni potranno reclutare nei centri per l’impiego 4 mila nuovi dipendenti a tempo indeterminato più altri 1.600 a termine previsti da un accordo del 2017. Nell’incontro di ieri, Di Maio ha detto che questi ultimi potranno diventare stabili dopo il 2021. Per farlo, però, servirà un concorso, quindi nessuno potrà mettere la mano sul fuoco sul fatto di superarlo. Per ora i servizi per il lavoro resteranno nelle mani di professionisti precari. Oggi a rivendicare la stabilizzazione sono in 654; tra due anni potrebbero superare gli 8 mila.
La Banca d’Italia non è più quella di Baffi e Sarcinelli
Esattamente 40 anni fa. Era il 24 marzo 1979 quando scattò il più violento degli attacchi mai visti all’indipendenza della Banca d’Italia. Mario Sarcinelli, allora vicedirettore generale e responsabile della Vigilanza, fu arrestato e portato in carcere. Il governatore, Paolo Baffi, evitò la cella solo per la sua età avanzata. C’è chi ricorda questa aggressione ai vertici di Bankitalia per paragonarla a ciò che succede oggi, con il governo Cinquestelle-Lega che non ha riconfermato Luigi Federico Signorini come vicedirettore generale. Quarant’anni fa a muoversi fu la Procura di Roma, su cui aleggiava il potente influsso di Giulio Andreotti e del suo gruppo di potere. Il pubblico ministero Luciano Infelisi e il giudice istruttore Antonio Alibrandi incriminano Baffi e Sarcinelli per interesse privato in atti d’ufficio e favoreggiamento: per non aver trasmesso all’autorità giudiziaria un rapporto ispettivo del giugno 1978 sull’attività del Credito industriale sardo, banca che aveva largamente finanziato il gruppo chimico Sir dell’imprenditore Angelo Rovelli. Le accuse ai due massimi dirigenti di Bankitalia erano pretestuose: non avevano alcun obbligo di inviare ai giudici quel documento e furono completamente prosciolti nel 1981, quando fu accertata l’assoluta infondatezza dell’incriminazione.
Il blitz della Procura romana aveva ben altri obiettivi, come documenta anche l’ultimo libro di Giuliano Turone, Italia occulta (Chiarelettere): punire la Banca d’Italia per il suo atteggiamento rigoroso nei confronti delle banche e delle operazioni condotte in quegli anni dagli uomini protetti da Giulio Andreotti e dalla sua cerchia.
Il 5 settembre 1978, Sarcinelli era stato convocato d’urgenza dal braccio destro di Andreotti, Franco Evangelisti, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Era appena tornato da New York, dove aveva incontrato riservatamente un Michele Sindona già ricercato per bancarotta fraudolenta. Sindona era latitante, sottoposto da tempo a una complessa indagine della Procura di Milano, eppure erano andati a trattare con lui, negli Stati Uniti, anche lo stesso presidente del Consiglio Giulio Andreotti e il ministro del Lavoro Gaetano Stammati. Quest’ultimo aveva in comune con Sindona l’appartenenza alla loggia massonica segreta P2 guidata dal Maestro Venerabile Licio Gelli. Di ritorno dall’incontro newyorkese, Evangelisti sottopone a Sarcinelli un piano di salvataggio per le banche sindoniane, di fatto a spese dell’erario: Sarcinelli ascolta, capisce e giudica il piano “improponibile”.
Erano tempi complicati. Cinque mesi prima, il 17 aprile 1978, Bankitalia aveva mandato i suoi ispettori presso il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi (anch’egli iscritto alla P2), in cui erano state rilevate numerose irregolarità, subito segnalate al giudice di Milano Emilio Alessandrini.
Sotto osservazione della Vigilanza, già dal 1977, era anche l’Italcasse, l’istituto di credito delle Casse di risparmio italiane, che poi “salta” nel novembre 1979, quando diciannove società del gruppo Caltagirone sono dichiarate fallite e vengono emessi mandati di cattura per Gaetano Caltagirone e i suoi fratelli Camillo e Francesco.
Sindona, Calvi, Caltagirone: tre campioni del sistema andreottiano, coacervo armonioso di politica e affari consustanziale alla massonica loggia di Gelli. Tre personaggi del teatro italiano del potere assai disturbati dal rigore di una Banca d’Italia che vigila e controlla, valuta e analizza, segnala alla magistratura (quella milanese, non il romano “porto delle nebbie” degli anni Settanta e Ottanta) e blocca i progetti “improponibili” (come quelli che puntano a salvare il bancarottiere Sindona).
Per piegare quella Banca d’Italia scatta la magistratura romana, che fa eseguire due arresti senza alcuna base giuridica. È poi il presidente del Consiglio Giulio Andreotti in persona che – andreottianamente – s’incarica di sbrogliare la matassa che aveva fatto ingarbugliare: scrive di suo pugno una assai anomala lettera al giudice Alibrandi, proponendogli la revoca della sospensione dall’ufficio che Alibrandi aveva disposto per Sarcinelli, garantendo però che “al dottor Sarcinelli, qualora riammesso in servizio, sarebbe affidato un settore diverso da quello cui si collega l’indagine giudiziaria in corso”. Insomma – conclude Turone – è “personalmente Andreotti a garantire il rispetto della pesante e ricattatoria condizione imposta alla banca centrale: mai più Sarcinelli al settore della Vigilanza”.
Il 5 maggio 1979 ottiene la libertà provvisoria. Baffi si dimette da governatore il 16 agosto. Il commissario liquidatore delle banche di Sindona, Giorgio Ambrosoli, era stato ucciso un mese prima, la notte dell’11 luglio 1979, dal sicario italoamericano Joseph Aricò pagato dal bancarottiere. Il 29 gennaio 1979 era toccato ad Alessandrini, ammazzato da un commando di Prima Linea. Nel 1982 fallisce il Banco Ambrosiano. Nello stesso anno viene sciolta la P2, dopo che la Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Tina Anselmi conclude che la loggia è una “organizzazione criminale” ed “eversiva”.
Difficile paragonare questa vicenda che puzza di massoneria e polvere da sparo con quanto accade oggi. Non solo perché un arresto ingiustificato è imparagonabile a una eventuale mancata riconferma, ma soprattutto perché la Banca d’Italia di Baffi e Sarcinelli fu duramente “punita” perché svolgeva bene il suo compito d’istituto, mentre la Bankitalia di Ignazio Visco e Signorini è sotto accusa, al contrario, per “non aver visto né sentito” e per aver gestito in modo almeno inadeguato l’ultima crisi delle banche italiane, da Montepaschi alla Popolare di Vicenza.
Decretone, 1.570 emendamenti: più vincoli sul reddito di cittadinanza
Sono1570 gli emendamenti presentati al decretone, il provvedimento che include quota 100 e reddito di cittadinanza e che all’esame della commissione Lavoro. Oltre la metà arriva da Fratelli d’Italia, circa 80 dalla maggioranza di cui 34 dal Movimento 5 Stelle e 43 dalla Lega. Mentre le Regioni minacciano ricorso per le competenze sulla selezione dei navigator per il Reddito di Cittadinanza, il M5s sollecita un intervento sulla scala di equivalenza che di fatto penalizza le famiglie numerose nella percezione del sussidio. La ‘nuova’ scala di equivalenza, si legge, “è pari ad 1 per il primo componente del nucleo familiare ed è incrementato di 0,3 per ogni ulteriore componente minorenne, fino ad un massimo di 2,5″. Il precedente parametro era 0,2 a minore, per un massimo di 2,1. La Lega presenta invece proposte per i disabili (concessione della pensione di cittadinanza anche agli anziani che vivono con disabili, aumento dei coefficienti della scala di equivalenza, esclusione dell’assegno di invalidità dal calcolo dell’Isee), propone l’obbligo di un anno di servizio civile i beneficiari del Reddito tra 18 e 28 anni, prova a ridurre la platea prevedendo che almeno uno dei componenti del nucleo familiare “abbia corrisposto, nei dieci anni precedenti, imposte e contributi da lavoro, in un qualsiasi importo e per almeno 24 mesi, anche non continuativi”. Poi esclude la possibilità che per chiedere il Reddito sia sufficiente la presenza di un familiare in possesso di un permesso di soggiorno mentre un altro emendamento stabilisce l’obbligo di certificazione, tradotta in italiano, della composizione del nucleo. Una proposta del M5s, invece, cambia il metodo di calcolo contributivo e prevede che il trattamento pensionistico dei lavoratori impegnati in attività sindacali dovrà essere uguale a quello della categoria professionale di riferimento al fine di “correggere le storture”. Proposte di modifica anche sul riscatto agevolato della laurea: sempre il M5s chiede di estenderlo da 45 a oltre i 55 anni, ma con un diverso impegno economico che cresce con l’aumentare dell’età.
Trucchi e intese d’oro anche per i nuovi vertici Anas
Altro che fine dello stipendificio Anas, come aveva annunciato speranzoso il ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli. Nell’azienda pubblica delle strade la cura del proprio reddito rimane l’attività prediletta dai dirigenti. Anche la coppia di nuovi capi, il presidente Claudio Gemme e l’amministratore delegato e direttore generale Massimo Simonini, non si sottrae a prassi consolidata. Alla prima occasione, cioè nel corso della prima riunione del Cda del 21 dicembre 2018, di cui Il Fatto ha potuto leggere il verbale, prima di mettere la testa su qualsiasi altro dossier, Gemme e Simonini hanno ritenuto opportuno sistemare subito e per bene le retribuzioni. Adottando lo stesso schema retributivo e contrattuale che ha consentito al predecessore, Gianni Armani, di lasciare l’Anas mettendosi in tasca, dopo nemmeno 4 anni di attività, più di 1 milione di euro oltre il Tfr (Trattamento di fine rapporto). E ponendo così le premesse per uno spreco bis di soldi pubblici, seppur assolutamente legale e per di più blindato da un dettagliato e accurato contratto nazionale collettivo di lavoro dei dirigenti dell’azienda. I soldi che i capi si assegnano con disinvolta prodigalità sono interamente pubblici, non incassando l’Anas nemmeno mezzo euro dal mercato. Per poter ripetere il miracolo dell’indoramento delle retribuzioni e delle buonuscite i nuovi capi di Anas hanno prima dovuto sistemare con cura la faccenda dell’uscita di Armani ponendo le basi per vantaggi futuri. Dalla lettura del verbale si capisce che quello di Armani è stato un finto “licenziamento”. Nel senso che è stato costretto davvero a lasciare l’incarico perché ritenuto dal nuovo governo incompatibile con i nuovi indirizzi di politica dei trasporti. Ma dal punto di vista formale e retributivo l’operazione è stata concordata in ogni dettaglio in Anas e si è configurata come una risoluzione consensuale strapagata del rapporto di lavoro.
Oltre che ad dell’Anas, Armani più di un anno fa si era autoproclamato direttore generale e in questa veste, in quanto lavoratore dipendente, i nuovi capi che gli sono subentrati avrebbero avuto il potere di proporgli di restare in azienda magari assegandogli una nuova mansione. Evitando così di dover pagare la salatissima buonuscita che l’Anas ha invece deciso di riconoscere volentieri. In apertura di riunione Gemme e Simonini hanno stabilito che “occorre preliminarmente che il Consiglio deliberi di richiedere all’ex ad di rassegnare le proprie dimissioni anche dalla carica di Direttore generale”. Detto fatto. “Alle ore 17.45 i lavori vengono sospesi per consentire al Presidente di definire con l’ing. Armani quanto sopra”. Quindici minuti dopo “il Presidente comunica di aver ricevuto dall’ing. Armani le dimissioni” che hanno consentito a quest’ultimo di passare giulivo alla cassa per ritirare il milione di euro e oltre di buonuscita. Passa qualche altro minuto e i presenti sistemano le loro posizioni: “Il Consiglio delibera di nominare quale amministratore delegato e Direttore generale l’ing. Massimo Simonini”. Con una scelta che prevede di nuovo lo sdoppiamento dell’incarico, due stipendi, la nomina anche a direttore, la possibilità di applicargli il supercontratto dei dirigenti al momento della risoluzione del rapporto di lavoro.
Lo stesso firmato a suo tempo da Armani e concordato con una disponibilissima “controparte” sindacale nella persona di Antonello De Sanctis. Il quale, forse anche in virtù di questi meriti, è stato nominato dai nuovi capi Anas responsabile del settore Finanza. A Simonini per la carica di amministratore il Consiglio ha concesso il ragionevole compenso di 60 mila euro l’anno. Per la carica di direttore, invece, al posto della cifra c’è un’indicazione generica: è riconosciuto “il compenso definito nel rispetto delle policy di gruppo”. Il compenso da direttore di Armani non è mai stato ufficialmente reso pubblico, in azienda tutti sanno che era di 350 mila euro l’anno.
Firenze, la guerra per la pista che nessuno vuole pagare
Un filo rosso lega Firenze alla Val di Susa. Così come nelle valli alpine, una lobby insistente pretende la costruzione del Tav con la tautologica affermazione che va fatto perché va fatto, sulle rive dell’Arno la lobby dei renziani, sebbene malconcia, usa in sostanza lo stesso argomento perché venga costruita la nuova pista dell’aeroporto di Peretola. Solo i costi previsti sono in proporzione diversi: più di 8 miliardi di euro in Val di Susa, 365 milioni e mezzo a Firenze. Nell’un caso e nell’altro lo Stato italiano dovrebbe impegnare risorse ingenti. Per l’aeroporto toscano in ballo ci sono 150 milioni pubblici rivendicati dalla società aeroportuale di gestione controllata dall’87enne argentino Eduardo Eurnekian che l’aveva acquistata con appena 60 milioni di euro.
Ancheper la pista di Firenze, così come per la Val di Susa, il ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli, è assai riluttante a tirar fuori i soldi ritenendoli buttati al vento. In Val di Susa perché il traffico di merci su quella direttrice è scarso, a Firenze perché non ci sono argomenti convincenti a sostegno della nuova opera e anzi, da un punto di vista dello sviluppo del turismo e dei trasporti, sarebbe eventualmente più opportuno puntare sullo scalo vicino e complementare di Pisa. Come il Tav, la pista di Firenze resta però inesorabilmente all’ordine del giorno. A farla procedere è un complesso sistema innescato a suo tempo e non senza forzature dalla lobby renziana, una macchina burocratico-amministrativa che avanza quasi per inerzia anche a dispetto del governo attuale.
Alcuni giorni fa la Conferenza dei servizi ha dato il via libera alla costruzione della nuova pista fiorentina e a livello locale qualcuno ha scambiato il passaggio come una svolta decisiva a favore dell’aeroporto di Firenze. Non è così: quell’ok significa solo che non ci sono ostacoli urbanistici e ambientali tali da vietare la nuova pista. Continua a mancare tutto il resto, però. Mancano soprattutto i finanziamenti pubblici e non ci sono non solo perché il ministro Toninelli è recalcitrante, ma perché anche volendo sarebbe impossibile utilizzarli per Firenze. Tutt’al più, ha fatto sapere il ministro, i 150 milioni di euro richiesti potrebbero essere concessi in cambio di azioni, proposta che ha fatto inorridire il presidente della società di gestione dello scalo fiorentino, il renzianissimo Marco Carrai.
In base al Contratto di programma tra l’Enac-Ente dell’aviazione civile e la società dell’Aeroporto fiorentino (Contratto peraltro mai approvato né dal ministero dei Trasporti né dal Tesoro), lo Stato dovrebbe sborsare circa 70 milioni di euro solo per consentire gli espropri necessari alla nuova pista. È stato chiesto dal governo italiano il parere dell’Europa ed è scontato che l’Europa blocchi la faccenda considerandola un aiuto fornito da uno Stato a una società privata. Non è finita, perché per legge è vietata l’erogazione di fondi pubblici a favore di un sistema aeroportuale con più di 5 milioni di passeggeri l’anno. E il sistema controllato dalla società di Eurnekian supera abbondantemente questa soglia: nel 2017 nell’aeroporto di Firenze sono transitati 2 milioni e 600 mila passeggeri a cui vanno aggiunti i 5 milioni e 200 mila dell’aeroporto di Pisa che dipende dalla stessa società di gestione di Firenze e con Firenze costituisce un unico polo aeroportuale.
Quattro anni fa, alla vigilia delle elezioni regionali, la gestione pubblica e in utile dello scalo di Pisa fu tramutata in gestione privata grazie alla cessione a Eurnekian delle quote possedute dalla Regione Toscana decisa a sorpresa dal presidente, Enrico Rossi. Fino a quel momento Rossi si era sempre dichiarato favorevole alla proprietà pubblica dell’aeroporto pisano; il cambio di posizione gli assicurò la ricandidatura a governatore nelle liste Pd con il sostegno di Renzi. Il controllo di Pisa era fondamentale per Firenze: senza Pisa non avrebbe mai potuto ambire alla classificazione di aeroporto strategico del Centro Italia e ai finanziamenti connessi.
Così la lobby delle banche cerca di rinviare la trasparenza dei costi
Per il neopresidente della Consob, Paolo Savona, i dossier roventi da affrontare non mancano e fra gli ultimi c’è anche una curiosa lettera presentata dalla lobby bancaria la scorsa settimana e rivelata da Gianfranco Ursino del Sole 24 Ore. In questo documento Abi, Assoreti, Assogestioni e Assosim (le principali associazioni di riferimento del mondo bancario italiano e del risparmio gestito) fanno fronte comune e chiedono di sospendere quanto richiesto dalla normativa Mifid2, la direttiva sui mercati degli strumenti finanziari, riguardo la trasparenza sui costi da comunicare ai risparmiatori, perché desiderano maggiori chiarimenti. Diverse associazioni dei consumatori (e non solo) sono già sul piede di guerra come l’Adiconsum che ha richiesto alla Consob e al ministero dell’Economia di respingere immediatamente al mittente la richiesta “affinché non si generino ulteriori squilibri nel mercato e soprattutto riduzioni delle tutele dei consumatori”.
In Italia mettere per iscritto i costi dei prodotti finanziari è come parlare di corda in casa dell’impiccato visto che l’industria del risparmio gestito vanta il primato poco invidiabile di far pagare ai propri sottoscrittori fra i costi più elevati di tutta Europa, come ha indicato recentemente uno studio proprio dell’Esma. Proprio l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati a cui la triplice alleanza banche-reti-società di gestione chiede, tramite la Consob, di sospendere la partita dopo che l’arbitro ha già comunicato da anni le regole che gli intermediari dovrebbero rispettare.
Nel decennio 2008-2017, secondo i calcoli dell’Esma, i costi degli strumenti azionari venduti alla clientela retail in Italia hanno impattato per il 37% sulle performance lorde quando la media europea si è fermata ad appena il 24%. E la scorsa settimana ha fatto scalpore un report di Mediobanca securities che picchia duro contro molte società del risparmio gestito, tirando fuori i dati di un precedente studio. Nel 2016 le società quotate a Piazza Affari si sono portate a casa mediamente un 3% di ricavi commissionali dai fondi consigliati alla clientela. Con alcune società di gestione (Azimut, Banca Generali e Banca Mediolanum) che sono riuscite a incamerare un ulteriore 0,84% alla voce commissioni di performance anche per fondi che avevano registrato nella realtà rendimenti negativi.
Non sfuggirà che la richiesta di rinvio dei rendiconti Mifid2 avviene dopo il 2018, un annus horribilis, con gli intermediari che dovranno mettere per iscritto che magari il -10% di rendimento ottenuto dal risparmiatore su 100.000 euro di capitale deriva sì dall’andamento dei mercati, ma soprattutto dall’aver consigliato strumenti che si sono mangiati il 5% del rendimento.
Per effetto della normativa europea Mifid2 tutte le imprese d’investimento devono illustrare ai propri clienti i costi dei prodotti e strumenti finanziari consigliati nell’anno precedente. Cosa significa? Se, per esempio, avete investito 100.000 euro dovreste riceverete un rendiconto che vi spiega in valore assoluto e in valore percentuale quanto vi sono costati i prodotti e gli strumenti finanziari che il consulente vi ha consigliato e, inoltre, quanti di questi soldi che avete pagato sono ritornati alla banca o alla rete per cui lavora sotto forma di commissioni. È un po’ come se acquistate un viaggio organizzato e il venditore è costretto a specificare quanto è costato il volo, l’albergo, le escursioni e quanto ha ricevuto di commissioni dalla compagnia aerea e dall’albergo che vi ha consigliato. Così potete capire quanto ha guadagnato e giudicare se il servizio prestato è stato all’altezza.
Le quattro associazioni del risparmio gestito sostengono, nel documento inviato alla Consob, che c’è poca chiarezza su come rendicontare i diversi costi alla clientela e chiedono di poter inviare i rendiconti nel corso del 2019, riferiti al 2018, solo dopo aver ricevuto tutte le informazioni e aver effettuato le elaborazioni dei dati, cosa che appare a molti legali e addetti ai lavori fuori tempo massimo.
L’applicazione della normativa Mifid2 era stata già rinviata di un anno e fatta slittare a gennaio 2018, mentre il regolamento della Commissione europea è stato pubblicato nell’aprile 2017. L’Esma aveva già comunicato che la rendicontazione ex post deve essere fornita a partire dal gennaio 2019 as soon as possible ma banche e reti italiane provano evidentemente a buttare tutto in caciara.
Intanto l’associazione delle società di consulenza finanziaria indipendenti (Ascofind) consiglia ai propri associati di adempiere alla normativa senza indugio e anche Nafop, l’associazione dei consulenti finanziari autonomi (persone fisiche) è contro il rinvio all’italiana. “La nostra associazione – spiega Massimo Scolari, presidente di Ascofind – sostiene l’importanza della trasparenza dei costi applicati alla clientela. Abbiamo dato indicazione alle società associate di fornire le informazioni sui costi, senza alcuna dilazione, nei tempi e secondo le modalità previste dalle norme in vigore. Tutto questo seppure in un quadro in cui le società di consulenza indipendenti, adempiendo agli obblighi di trasparenza sulle commissioni applicate, potrebbero subire paradossalmente effetti negativi nel confronto dei servizi offerti dagli altri intermediari che hanno posticipato il rilascio delle informazioni ai clienti”. Sulla trasparenza dei costi non ammette ritardi nemmeno Adiconsum che ha scritto una lettera alla Consob e al ministero dell’Economia. “La nostra associazione consumatori – dichiara Danilo Galvagni , vice presidente di Adiconsum – sostiene l’importanza della trasparenza dei costi applicati alla clientela come strumento di tutela irrinunciabile e non dilazionabile. Visti gli innumerevoli scandali legati alla scarsa trasparenza del settore, siamo convinti che i provvedimenti debbano entrare in vigore immediatamente e senza ulteriore dilazione, nei tempi e secondo le modalità previste dalle norme in vigore”.
Richiedere adesso di aprire un tavolo europeo di consultazione su come rendicontare i costi sospendendo l’invio dei rendiconti ai risparmiatori appare quindi bizzarro e sarà interessante vedere la risposta della nuova Consob del professore Paolo Savona.
Corto circuito al vertice di Banca Intesa
È una tradizione italiana disdicevole ma consolidata: di solito i banchieri vigilati difendono il vigilante, cioè la Banca d’Italia (un po’ per gratitudine, un po’ per senso delle istituzioni). Per questo colpisce l’ultima intervista di Carlo Messina, ad di Intesa Sanpaolo: una intera pagina sul Corriere della Sera che esce nel giorno dello scontro tra i 5Stelle di governo e Via Nazionale sul rinnovo del vicedirettore Signorini come primo atto di guerra contro il governatore Ignazio Visco. Messina sul punto non dice una parola. Al pomeriggio, però, il presidente Gian Maria Gros Pietro, cui pure non mancherebbero i giornali cui parlare, detta all’AdnKronos una dichiarazione sulla Banca d’Italia come “istituzione indipendente che nel nostro Paese è sempre stata rispettata”. Messina si è da tempo messo in una posizione dialogante col governo e, tra 5Stelle e vecchio establishment, sembra aver fatto una scelta chiara. Gros Pietro quella opposta.
In aprile vanno rinnovati i vertici di Intesa. Messina è sicuro della riconferma (i risultati contano assai più della sintonia politica che, però, non guasta). Gros Pietro un po’ meno, anche perché intorno a quella poltrona è in corso uno di quegli scontri tra poteri che non si vedevano da tempo. Gros Pietro ha bisogno dell’appoggio della Compagnia di San Paolo, primo socio della banca con il 6,7%, sulla quale ha un peso importante il Comune di Torino guidato da Chiara Appendino. Che, per quanto autonoma, è pur sempre un sindaco M5S. Tutte le parti attive intorno alla partita di vertice di Intesa aspettano un suo cenno: benedirà la conferma di Gros Pietro, anche se il manager 77enne difende la Banca d’Italia che il governo attacca e in curriculum vanta la privatizzazione di Autostrade dall’Iri e poi il poco elegante passaggio alla presidenza della stessa società? O invece la Appendino farà qualcosa per imporre discontinuità, anche se questo potrebbe mettere a rischio l’ormai anacronistica pretesa di garantire una certa “torinesità” di Intesa Sanpaolo?
Centrali da spegnere nel 2025: Enel va alla guerra del carbone
Mai l’immagine dell’Enel è stata così verde: energie rinnovabili e auto elettriche. Eppure l’azienda controllata dallo Stato è anche impegnata in una battaglia per difendere le sue centrali a carbone o, almeno, farsi pagare a caro prezzo il loro spegnimento. Nel 2017 il governo Gentiloni approva la tanto sospirata Strategia energetica nazionale (Sen) che prevede, tra l’altro, la progressiva dismissione delle centrali elettriche a carbone entro il 2025. Il 22 novembre scorso, il ministro dell’Ambiente Sergio Costa emana un decreto in cui sollecita i proprietari delle centrali ad adeguarsi. Il bersaglio sono Enel, A2A, Edison e tanti altri.
La Regione Sardegna, con il governatore uscente Francesco Pigliaru (Pd), ha subito impugnato il decreto davanti al Tar: “Il provvedimento ministeriale comporterebbe la chiusura delle centrali Grazia Deledda di Portovesme e di Fiumesanto a Porto Torres al 2025 senza che sia stato chiarito lo scenario sostitutivo e, oltre che essere illegittimo, produrrebbe effetti negativi per la sicurezza del sistema energetico regionale e per l’economia sarda”. Preoccupazioni esagerate, replicano dal ministero dell’Ambiente: c’è già un piano alternativo al carbone che prevede di passare a un’altra fonte fossile ma meno inquinante, il gas, con depositi costieri, autobotti e un elettrodotto dalla Sicilia.
L’Enel è ancora più battagliera della Regione Sardegna. Come ha raccontato Quotidiano Energia, a fine gennaio l’azienda guidata da Francesco Starace ha mandato al ministero la documentazione per il riesame delle autorizzazioni ambientali delle centrali a carbone. Invece di spiegare come e quando inizierà a spegnerle, l’Enel ha contestato le richieste del ministero: “Il potere di prescrivere la cessazione definitiva di un determinato combustibile non è espressamente attribuito, né appare comunque ricavabile, dalla normativa in materia di Autorizzazione integrata ambientale”. Neppure la Sen, cioè la strategia energetica del 2017, può imporre lo stop al carbone nel 2025, perché è una “disposizione di rango non primario” che subordina “l’impegno politico” di uscita dal carbone al 2025 “alla realizzazione di nuova capacità di generazione e di accumulo oltreché di nuove interconnessioni”.
Traduzione: per cominciare a spegnere le centrali a carbone, l’Enel pretende in cambio investimenti compensativi che richiedono tempo e che, dettaglio rilevante, per l’Enel diventano nuove opportunità di guadagno. Se invece il ministero vorrà procedere forzando lo stop, Enel è pronta a “far valere davanti alla autorità giudiziaria i vizi di legittimità” del decreto.
Eppure soltanto un anno fa l’ad Starace usava toni e argomenti diversi, ricorda sempre Quotidiano Energia. Spiegava che delle cinque centrali a carbone di Enel “tre non andranno oltre il 2021 in termini di operatività” (La Spezia, Fusina e Sulcis). Per le altre due (Brindisi e Civitavecchia) la vita utile andrebbe invece ben oltre il 2025. Proprio il sindaco di Civitavecchia Andrea Cozzolino (Cinque Stelle) si è allarmato quando ha visto i documenti mandati dall’azienda di Starace al ministero: “Enel non ha espressamente prospettato la cessazione definitiva dell’utilizzo del carbone ai fini di produzione termoelettrica entro il 31 dicembre 2025”. L’Enel gli ha risposto con una nota che smentisce i timori ma in realtà finisce per confermarne la fondatezza: “Il phase out di tali impianti dovrà essere inserito all’interno di un articolato programma di sviluppo di nuova capacità e di adeguamento infrastrutturale del sistema elettrico, che permetta tale transizione in condizioni di sicurezza del sistema”. Senza questa “nuova capacità”, non si ferma il carbone.
Come fa l’Enel a sfidare i Cinque Stelle su un argomento per loro così sensibile, come la lotta alle energie fossili? Francesco Starace è il più abile dei manager pubblici a riposizionarsi: dopo aver avuto fama di renziano, ha iniziato a coltivare rapporti con i Cinque Stelle molto prima della vittoria del 2018. La prova di questo asse si è vista il 4 febbraio quando il premier Giuseppe Conte e mezzo governo (Cinque Stelle) hanno scelto l’auditorium dell’Enel di Roma per presentare la card del reddito di cittadinanza. “Non era un evento di partito ma della Presidenza del Consiglio, l’auditorium non viene affittato a esterni quindi per Enel non c’è stato alcun costo”, specificano dall’azienda. Ma tutti hanno ricevuto il messaggio: tra l’Enel di Starace e i vertici M5S c’è un legame d’acciaio. Anzi, di carbone.
Fischiettando fake news muore lo Stato centrale: “C’è un’aria…”
Se Gaber ne parlava nel ’93 forse si tratta di una condizione a cui rassegnarsi, eppure… “c’è un’aria che manca l’aria”. Il pezzo, come si sa, era dedicato ai media e potrebbe essere stato scritto domani. Per capirlo basta il flusso delle notizie di ieri, un enorme numero di articoli e servizi che riporta una notizia falsa: il governo vuol vendere l’oro di Bankitalia per evitare l’aumento dell’Iva. Per confermare la cosa si cita un ddl del leghista Borghi, che però dice tutt’altro: un solo articolo, la classica norma di interpretazione autentica, per dire che le riserve auree Banca d’Italia le ha in “deposito”, ma la proprietà resta allo Stato. Niente Iva, niente trasferimento dei lingotti al Tesoro, ma una precisazione non del tutto inutile se lo stesso dg di Bankitalia Rossi ritiene che sul tema debba decidere la Bce (e perché?). Usare l’oro per il governo è peraltro impossibile: l’art. 127 del TFUE assegna infatti alla Bce il compito di “detenere e gestire le riserve”. Sul nulla, dicevamo, fiumi d’inchiostro; sull’autonomia differenziata regionale, rectius “secessione dei ricchi”, pochi articoli che sposano (quasi tutti) il punto di vista dei governatori leghisti (che poi è anche quello del Pd): basta ritardi, dateci ciò che è nostro! Cioè autostrade e ferrovie costruite coi soldi di tutti e potestà su ogni aspetto della vita pubblica: è la morte dello Stato centrale, a cui ci avviamo fischiettando fake news spacciate dalla presunta opposizione coi media al guinzaglio e il sorrisino condiscendente del (residuo) pubblico pagante. C’è proprio un’aria che manca l’aria. E non da ora.
Ecco perché
Sanremo, come tutti i giochi, è una cosa serissima (o come la situazione di Flaiano, grave ma non seria). Chi scrive è tra gli autori del ribaltone del podio, ultimo scandalo elettorale in un Paese a cui a nessuno frega un cazzo se per due legislature si vota con una legge incostituzionale, ma ci si straccia le vesti scoprendo che con il nuovo Sanremellum le giurie soi disant di qualità, insieme hanno lo stesso peso del televoto. Cominciamo con il dire che l’argomento del televoto a pagamento è una sciocchezza: che gli sms costano è circostanza che viene anche esplicitata dal regolamento del Festival, a prova diciamo di ingenuo. E poi: i cittadini non sono i consumatori. Dunque parlare di popolo (televotanti) contro élite (giornalisti e giuria d’onore) fa abbastanza ridere. Da notare una cosa che nei giorni dello scandalo è stata ripetuta da diversi colleghi: giurie “altre” rispetto al voto da casa sono state introdotte per bilanciare il televoto. Ricordate il 2010, quando vinse “a far l’amore in tutti i luoghi e in tutti laghi”? L’orchestra, ricorda Antonella Nesi sul sito dell’Adnkronos, lanciò in aria gli spartiti per protestare contro l’esclusione dal podio di Malika Ayane.
Chiarite le questioni di metodo, veniamo alla sostanza. Perché la Sala stampa (che pesa per il 30%) ha votato Mahmood? La risposta più probabile è: quello che in gergo si chiama “hook” (l’amo che fa abboccare l’ascoltatore) di Soldi cattura l’orecchio più delle altre. Eppure c’è chi ha scritto che i giornalisti hanno voluto dare una lezione a Salvini e chi che sarebbero stati imbeccati da Soros… Forse è il momento di prender le distanze (con tante scuse a Giorgio Gaber): l’anno prossimo, qualunque sia il regolamento, meglio astenersi.
Detto ciò, tutto è precipitato perché è scoppiato il caso Ultimo, che voleva esser evangelicamente e legittimamente primo. È arrivato secondo e non l’ha presa niente bene. Dopo aver accusato i giornalisti di “avergliela tirata” scrivendo che la canzone poteva vincere, ha precisato: “Avete solo questa settimana per sentirvi importanti e rompete il cazzo”. A fianco, i più navigati tenorini del Volo lo invitavano alla calma. Poi ci si sono messi pure loro, accusando la Sala stampa di averli bullizzati. Com’è ormai noto all’intero orbe terracqueo, il gruppo è protagonista di un caso: in un video i tre vengono insultati (cosa che non si fa, mai); in un altro sono i protagonisti di uno sketch che da decenni viene recitato in sala stampa (fin dai tempi in cui era presidente della Sala stampa il mitico Paolo Zaccagnini). Mentre Il Volo si esibisce, un collega dalla voce potente gli indirizza un “In galera” che è una citazione di Giorgio Bracardi da Alto gradimento. Una cosa che è accaduta mille volte (Mino Reitano, ricordava ieri Marco Mangiarotti del Qn, ringraziava) e che, oltre a sciogliere la tensione di una serata faticosa, è un omaggio a quella meravigliosa epoca. Tempi in cui ci si prendeva meno sul serio e l’importante era anche partecipare (Zucchero e Vasco arrivarono penultimi, caro Ultimo). Quella della banda di Renzo Arbore era una comicità demenziale, gioiosa, piena di goliardia e cazzeggio eppure mai sgraziata: una cosa oggi inimmaginabile. Non si può più dire nulla, nemmeno esprimere il proprio gusto, che il Codacons e l’associazione dei criceti albini (esisterà di sicuro) presentano un esposto. Se il Volo si è sentito bullizzato merita tutte le nostre più sentite scuse. Però non è un bel posto dove stare quello in cui non si può scherzare (e non ci riferiamo agli ingiustificabili insulti, né a quelli indirizzati al Volo né a quelli inviati ai giornalisti dopo). E sarebbe così liberatorio certe volte poter dire, in un educatissimo francese si badi bene, con il grande Proietti: nun me rompe er…