Salerno, chiude “La Città” di Salerno”

Leditore de La Città di Salerno scioglie la società dopo aver messo al riparo la testata dentro un’altra società schermata, sbarra le porte della redazione ai giornalisti che tornavano al lavoro dopo 10 giorni di sciopero, termina le pubblicazioni e avvia le procedure per la messa in mobilità dei 13 redattori, di cui 4 appena reintegrati dopo essere stati licenziati il primo febbraio. Finisce così in maniera ingloriosa l’avventura degli imprenditori Giovanni Lombardi e Vito Di Canto che nel novembre 2016 avevano rilevato la testata dal gruppo Espresso, costretto a cedere per restare nel tetto del 20% delle tirature nazionali. Il Cdr lanciò subito l’allarme sull’operazione e invitò Carlo De Benedetti a ripensarci. La mail rimase lettera morta e dopo pochi mesi la nuova proprietà iniziò, tra girandole societarie e drastici contenimenti dei costi, il piano di smembramento conclusosi ieri. Le cui linee erano chiare al precedente direttore, Andrea Manzi, dimessosi il 31 dicembre 2017 in polemica contro la politica editoriale delle “cesoie buone a tagliare e non a risanare” e dopo essersi rifiutato di firmare la black list dei licenziamenti. Al suo posto è arrivato Antonio Manzo, sfiduciato nei giorni scorsi dalla redazione per aver accettato di firmare quella lista. Ne sono seguiti i 10 giorni di sciopero e l’amara sorpresa di ieri, mentre è in corso il congresso nazionale Fnsi. Secondo il segretario del sindacato campano, Claudio Silvestri, “è in atto un tentativo di far rinascere la Città con altri giornalisti scelti dalla nuova proprietà e costi dimezzati: vigileremo affinché ciò non accada”.

“Così la Chiesa francese ha protetto il mio orco”

“La Chiesa mi ha mentito. Aveva promesso di rimuovere il prete che mi aveva molestato. Ma dopo 6 mesi quel sacerdote era di nuovo a contatto con i bambini. Per questo abbiamo citato in giudizio Philippe Barbarin, cardinale di Lione, e Luis Francisco Ladaria, prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede. Perché Barbarin sapeva e ha lasciato che un pedofilo restasse a contatto con i bambini. Come era successo a me”. François Devaux, 39 anni, parla senza rabbia. Dalla sua denuncia è cominciato il processo che a Lione in questi giorni ha portato sul banco degli imputati il cardinale Barbarin, uno dei massimi prelati di Francia: è accusato di aver coperto padre Bernard Preynat che avrebbe abusato di 70 minorenni. Una storia che arriverà in tutta Europa con la pellicola Grâce à dieu di François Ozon in concorso a Berlino. Toccherà all’attore Denis Ménochet rappresentare Devaux.

François, ricorda quel giorno?

Era il 1990, avevo dieci anni. Frequentavo gli scout, un gruppo felice, selvaggio. E c’era padre Bernard. Un giorno, alla fine dell’incontro, mi chiese di restare. Ricordo i risolini dei miei amici, ma non capivo perché ridessero. Poi, appena restammo soli, Preynat mi tolse gli occhiali, cominciò a toccarmi le gambe, su, sempre più su, lungo le cosce, sotto i calzoni. Capisce cosa intendo? Vedendomi reagire si fermò, prese a baciarmi. Le guance, poi la bocca. Ero atterrito. Non lo dimenticherò mai. Io sono stato ‘fortunato’, se posso dire così, non sono stato… del tutto violentato come altri bambini.

Riuscì a raccontarlo ai suoi genitori?

Sì. E loro mi credettero. Non cercarono di mettere a tacere o rimuovere. Andammo alla Curia, raccontammo tutto al vicario. Accettammo di non denunciare il prete perché ci dispiaceva mandarlo in carcere, ma ci fu promesso che l’avrebbero rimosso subito.

Preynat fu davvero allontanato dai bambini?

Nel 2015 ho scoperto che sei mesi dopo avermi molestato era stato rimesso a svolgere un servizio con i piccoli. Allora ho deciso di denunciare.

Che fine ha fatto Preynat?

Chiedete alla Chiesa dove è nascosto. Presto ci sarà il processo per le violenze. Ma noi abbiamo denunciato il cardinale Barbarin, perché lui sapeva e non ha fatto niente.

Barbarin è stato assolto una prima volta, ma adesso è di nuovo sotto processo.

Purtroppo il procuratore ha sostenuto che i fatti precedenti al 2014 erano prescritti e quelli successivi non avevano prove certe. Le nostre, però, non sono opinioni, ma fatti. Ho denunciato alla Curia le molestie nel 1991, sanno da quasi trent’anni. Non solo: Barbarin ha ammesso di conoscere le inclinazioni di Preynat dal 2007. Eppure quel prete nel 2013 è stato destinato a un incarico con i bimbi.

Voi puntate il dito anche contro il Vaticano.

Abbiamo chiesto che fosse citato Luis Francisco Ladaria, prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede. In una lettera (sequestrata dagli investigatori) Ladaria avrebbe consigliato Barbarin di “prendere appropriate misure disciplinari” ma di “evitare lo scandalo pubblico”.

Ora arrivano il processo e il film di Ozon. La Chiesa francese sarà travolta?

La Chiesa è già stata travolta. Eppure continua a prendere provvedimenti solo quando scoppiano gli scandali.

Com’è cambiata la vita dopo quel giorno con padre Bernard?

Oggi sono sposato, ho tre figlie. Ho cercato di vivere. Però non saprò mai che uomo sarei stato se non fosse successo. È stato un colpo terribile, ma almeno l’ho affrontato con i miei genitori, ne ho parlato con le persone che amo. Altre vittime hanno taciuto tutta la vita, non sono riuscite a dirlo ai genitori, alle mogli…

È riuscito a salvare il suo rapporto con Dio?

Io non credo. Non so se dipenda dalla violenza. Sono ateo, ma non ce l’ho con Dio, né con la fede. Rispetto tutti.

Lei si batte a difesa delle vittime col sito La parole liberée (che collabora con la Retelabuso.org di Francesco Zanardi). Non prova rabbia neanche contro la Chiesa?

Abbiamo raccolto 100 mila firme per far dimettere Barbarin, ma è ancora lì. Al di là delle responsabilità penali un uomo che non ha il discernimento per distinguere un buon prete da un pedofilo non può fare il pastore di anime. Lo dice anche il Vangelo di proteggere i più piccoli. Ma la Chiesa ci ha lasciati soli in mano a dei pedofili.

Il sindaco Bucci e le multe bloccate, esposto in Procura

Il senso di Bucci per le multe. Un esposto alla Procura e un’interrogazione in consiglio comunale. A Genova si parla ancora dello stop alle multe nella via dove abita il sindaco Marco Bucci e dove sua moglie ha un negozio. Tutto era avvenuto sabato mattina quando i vigili urbani avevano cominciato a sanzionare decine di auto ferme in via Alessi dove era previsto il lavaggio della strada. Poi ecco uscire il sindaco che aveva telefonato al comandante dei Vigili e dopo dieci minuti la raffica di contravvenzioni era stata bloccata. Ieri la storia è approdata in Procura dove Fulvio Monfrecola, segretario del sindacato Csa, ha presentato un esposto riferendo i fatti e chiedendo che sia accertato “se emergano elementi di illiceità”. In sostanza si chiede di capire chi ha preso la decisione di sospendere le multe e perché.

Ma l’affaire multe intanto era approdato anche in Consiglio Comunale dove Bucci ha risposto alle richieste di chiarimenti dell’opposizione: “Ho il diritto e il dovere di fare il sindaco anche sotto casa mia. Ed è dovere di un amministratore quello di segnalare se una procedura non funziona bene e cercare di migliorare le cose”. Caso chiuso? Si vedrà.

Suicidio della 17enne australiana. Aveva denunciato la violenza sessuale subita da un tassista

L’inferno può essere racchiuso in un luogo piccolo e angusto come l’interno di un’automobile, un taxi in cui la 17enne morta ieri, dopo essere precipitata dal sesto piano di un appartamento della zona sud della Capitale, sarebbe stata violentata lo scorso gennaio. Ieri mattina, mentre i medici dell’ospedale San Giovanni lottavano invano nel tentativo di salvare la vita della studentessa di origini australiane, gli inquirenti erano già a lavoro per approfondire le cause di quello che sembrerebbe essere un suicidio. I magistrati cercano eventuali collegamenti tra due distinti fascicoli. In entrambi la vittima è la Sara (il nome è di fantasia) che viveva e studiava all’Aventino. Il primo fascicolo è stato aperto ieri dal pm Silvia Sereni. Non ci sono indagati e viene ipotizzato un solo reato: istigazione al suicidio. Al suo interno c’è anche il verbale dell’amica, la proprietaria dell’appartamento dal quale la vittima si sarebbe gettata, in via Pomezia.

La 19enne ha raccontato alla polizia di essere uscita con Sara lunedì pomeriggio. Sono poi tornate nel suo appartamento e senza che se ne accorgesse Sara si sarebbe avvicinata ad una finestra. Gli inquirenti stanno cercando di capire il perché di quel gesto. E per farlo stanno approfondendo un secondo fascicolo, aperto per violenza sessuale nei confronti di una minore. Il 19 gennaio scorso Sara, che da tempo era seguita da un terapista, aveva infatti denunciato di essere stata violentata. I suoi ricordi erano confusi a causa di un mix di psicofarmaci e alcol. La ragazzina aveva spiegato agli inquirenti di aver conosciuto un tassista fuori da locale. I due avrebbero trascorso parte della serata insieme. Ma l’uomo, di cui Sara non ricordava nome e volto, non si sarebbe fermato quando la studentessa non gradiva più le sue attenzioni. E avrebbe approfittato di lei, in macchina, nella strada che da Roma porta a Fiumicino.

La denuncia del Garante minori: “Minorenne sparita, riportata a Dacca perché troppo integrata”

A 17 anni costretta dalla sua famiglia a lasciare scuola e amici per rientrare nel Paese d’origine, il Bangladesh. Insegnanti, compagni di classe, servizi sociali e il Garante per i Diritti dei Minori delle Marche sono fortemente preoccupati sulla sorte della ragazza. Da oltre due settimane di lei non si hanno più notizie. Da un giorno all’altro è letteralmente scomparsa e solo pochi giorni fa si è scoperto che la madre e il fratello l’hanno accompagnata in un viaggio, per ora di sola andata, verso Dacca, la capitale del Paese asiatico. Lei si era integrata, ormai anconetana al 100% dopo quasi dieci anni in Italia e le scuole frequentate con ottimo profitto nel capoluogo marchigiano.

La vita normale di una adolescente, tra amici, una storiella con un coetaneo e la sua frequentazione dei social network. A preoccupare è proprio questo aspetto: “Non sappiamo se lei abbia voluto lanciare un allarme – spiega il dirigente scolastico dell’istituto frequentato dalla 17enne – visto che il giorno dopo la sua partenza tutti i suoi canali social sono stati oscurati. Lei è stata portata in Bangladesh per assistere al matrimonio di un cugino, un tentativo per farle cambiare idea sulle usanze culturali e le differenze tra i due Paesi”. E il timore è proprio quello che dietro alla sua sparizione forzata ci sia un matrimonio combinato: “Quando la segnalazione è arrivata sul mio tavolo ho voluto subito vederci chiaro – aggiunge il Garante, Andrea Nobili –, per questo ho inviato una richiesta di intervento alla Procura. Incontrando i docenti della giovane ho avuto la conferma del pericolo. Ci vogliono prudenza e riservatezza, ma vorrei che si facesse il possibile”. Ad Ancona è rimasto soltanto il padre della studentessa, sentito dagli inquirenti, ma per ora poco collaborativo. Il timore è che si possa ripetere il dramma di Cameyi Mosammet, la 15enne bengalese scomparsa ad Ancona il 27 maggio del 2010, i cui resti sono stati trovati un anno fa dentro un pozzo a due passi dall’Hotel House, il palazzone multietnico di Porto Recanati (Mc).

Audio “hot”(privato) diffuso sui telefoni di mezza Italia: caccia al primo che lo ha condiviso

La polizia postale di Catania ha aperto un’indagine per dare un nome alla persona che per prima ha diffuso su WhatsApp l’audio hot, inviato privatamente da una ragazza catanese, che adesso si trova sui telefoni di mezza Italia. Una nota vocale dai contenuti spinti inviato dalla giovane a una persona frequentata per un certo periodo che però lo ha diffuso al suo gruppo di amici dando il via a un tam-tam che ha portato presto all’identificazione della donna e alla diffusione delle sue foto. La polizia postale, presumibilmente in assenza di denuncia, sta cercando questa persona.

Alla diffusione dell’audio ha contribuito anche Radio 105, durante la trasmissione Lo zoo di 105, nella quale è stata trasmessa la nota vocale remixata con canzoni varie. Tutti gli audio, compresi i vari campionamenti e un secondo messaggio inviato dalla ragazza catanese a un amico, nel quale la giovane spiega in lacrime l’accaduto (audio anch’esso poi diffuso) sono adesso oggetto di indagini da parte della polizia postale che sul caso mantiene però il massimo riserbo al fine di tutelare la donna che si è cancellata dai social, dopo la diffusione delle sue foto.

Il reato di diffusione di “riprese e registrazioni di comunicazioni fraudolente” sono punibili anche con quattro anni di reclusione in seguito all’introduzione dell’art.1 del decreto legge 216/2017, che disciplina casi del genere. La ragazza però non è sola: se da un lato tanti hanno riso all’ascolto dell’audio, molti oggi sono coloro che stanno dimostrando la propria vicinanza alla donna e che la invitano a denunciare quanto accaduto. Del caso ha parlato anche l’associazione di volontariato Panagiotis di Palermo che nelle ultime lezioni tenute nelle scuole del capoluogo sul tema del bullismo, ha trattato l’argomento, invitando i giovani ad avere più cura nell’invio di messaggi e a denunciare chiunque faccia azioni di cyberbullismo, come quella accaduta alla giovane catanese.

Cuscinetti sui lampioni per “salvare” gli zombie-pedoni dello smartphone

Le nostre città sono invase dagli zombie. Camminano con la gobba e la testa rivolta verso il basso. Sono ovunque: sulla metropolitana o sui marciapiedi, nei bar e talvolta anche al volante. Spesso barcollano e quasi mai si accorgono del mondo che li circonda. Per definirli in maniera più precisa c’è un neologismo, coniato dieci anni fa in Germania e sempre più diffuso anche in Italia: sono gli “smombie”. Gli zombie dello smartphone: i pedoni distratti, con la testa rivolta allo schermo del loro cellulare. A Bolzano nei giorni scorsi hanno rivestito i lampioni con i cuscini: sono dei paratesta, pensati per proteggere gli “smombie”. Chi è immerso nelle chat di Whatsapp o nelle storie di Instagram d’ora in avanti potrà schiantarsi amabilmente contro i piloni, senza il rischio di un trauma cranico o di una frattura al setto nasale.

Una provocazione? In effetti sì, visto che sui cuscini c’è la scritta “Staysmart.it”. Digitandola si finisce sul sito di una campagna, pensata dalla Provincia autonoma per promuovere un uso consapevole del cellulare. Contro il rischio di dipendenza, di esposizione eccessiva alle onde elettromagnetiche e soprattutto di investimenti e incidenti stradali. Un pericolo concreto, tanto che in Sardegna, a Sassari, i vigili urbani hanno dichiarato guerra agli “smombie”. In nove mesi ne hanno multati 100, appellandosi all’articolo 190 del codice della strada che obbliga i pedoni a stare attenti quando attraversano la strada.

La sanzione è di soli 22 euro, con lo sconto del 30% per chi paga entro cinque giorni. È una cifra simbolica, ma serve ai vigili per convincere i pedoni a fare più attenzione, dato che nella sola Sassari ci sono in media 100 investimenti ogni anno. All’estero, alcune città hanno riservato una corsia agli “smombie”, come si fa con le piste ciclabili. In Cina utilizzano il termine “dai tau juk”, traducibile come “la tribù con la testa all’ingiù”. Chongqing, città del sud ovest della Cina con più di 30 milioni di abitanti, è stata la prima a riservare una corsia a chi cammina usando il cellulare, ancora nel 2014. A Xi’an, nella Cina centrale, hanno fatto lo stesso nei pressi di un centro commerciale. Ma qualcosa di simile c’è anche in Europa. In Germania, nella città bavarese di Augusta, hanno posizionato i semafori per terra. Stessa cosa a Bodegraven, in Olanda. Così chi cammina è attratto dai led luminosi prima di attraversare un incrocio. In Corea del Sud il Garante per le telecomunicazioni ha sviluppato un’applicazione che blocca gli smartphone dopo cinque passi. Un’esagerazione? Secondo i dati Istat, la causa principale per gli incidenti stradali è la “distrazione”. Succede nel 16% dei casi, solo dopo arriva il mancato rispetto delle precedenze (14%) e l’eccessiva velocità (10%). Lo ha ribadito ieri Vittoria Buratta, direttrice dell’Istat per le statistiche sociali, rivolgendosi alla commissione trasporti della Camera. Non sarà colpa solo degli smartphone, ma è meglio non fidarsi di uno zombie al volante.

Sotto scorta anche il magistrato che indaga sull’Asilo

Non solo la sindaca Chiara Appendino. Anche al pm che si occupa dei fascicoli sull’Asilo, Manuela Pedrotta, è stata affidata una misura di protezione, la cosiddetta “tutela”. Insomma le minacce da parte della rete di anarchici di questi giorni vengono prese sul serio. Compresa la scritta “Appendino appesa”, di cui sono imbrattati alcuni muri della città. La prima cittadina infatti nei giorni scorsi è finita sotto scorta su decisione della prefettura di Torino “per l’innalzamento del clima di tensione”. Intanto la rete anarchica torinese ha lanciato una nuova protesta: “Chiara, veniamo noi questa volta!”, è lo slogan. I manifestanti si sono dati appuntamento oggi alle 13 in via Garibaldi, all’angolo con via Milano, praticamente accanto al Comune. L’intento è quello di presentarsi “con pentole e coperchi” in Sala Colonne di Palazzo Civico dove alla stessa ora è prevista la presentazione di “Torino living lab”, progetto di raccolta dati sulle periferie curato dal Comune. Visti gli episodi di guerriglia degli scorsi giorni, che hanno causato danni per le strade del centro, l’attenzione della questura e della prefettura è molto elevata.

“Sto con gli anarchici, sovversivo è lo Stato”

È tra i filosofi più presenti nel dibattito pubblico, accademico e mediatico. Saggista ed editorialista, ha vissuto sotto protezione fino a qualche mese fa per le minacce ricevute da gruppi neonazisti e neofascisti. Sabato scorso, nel pieno della guerriglia a Torino, si è schierata pubblicamente “dalla parte degli anarchici dell’Asilo, centro sociale sgomberato senza motivo”.

Ci sono indagini della magistratura in corso, 8 arresti convalidati, si parla di una vera “rete sovversiva”, non le sembra pericoloso il suo endorsement?

Ho scritto quel post perché penso, insieme a molti altri, che sgomberare in modo così violento un centro sociale come l’Asilo che esiste da 24 anni nella città di Torino sia stata un’iniziativa immotivata: un’operazione spot.

Il questore di Torino ha detto: “Non è un centro sociale normale, sono devastatori che vogliono sovvertire l’ordine democratico dello Stato”.

Sono rimasta sorpresa, e indignata, da questo linguaggio. Il questore, a proposito degli arrestati, ha parlato di “prigionieri”: parola che mi sembra inappropriata, rimanda a uno scenario bellico, da Stato di polizia. In linea con il ministro dell’Interno Matteo Salvini che ha chiesto “la galera per gli infami”, e col consigliere leghista che ha invocato un’altra Diaz. Tutto questo, sì, è allarmante per la democrazia.

L’attività investigativa identifica nell’ex Asilo Okkupato un centro operativo di una rete che ha come obiettivo la distruzione dei centri per i rimpatri dei migranti, attraverso incendi da innestare all’interno dei cpr e colpendo le aziende che collaborano nel comparto dell’immigrazione.

Chiariamolo subito: sono contraria a ogni forma di violenza fisica. Ma di cosa sono accusati gli anarchici dell’Asilo? Di aver istigato dei migranti di un Cpr a ribellarsi attraverso dei messaggi inviati in palline da tennis? Dovremmo metterci tutti davanti alle porte dei Cpr, questa è la verità. È lì che avviene la sovversione della democrazia.

Leggo già il tweet di Salvini sull’“intellettuale di sinistra radical chic”.

A certe espressioni folkloristiche ormai siamo abituati. Ma è venuto il tempo di avere il coraggio di essere impopolari, di posizioni devianti contro il consenso imperante. I Cpr sono strutture in cui le persone sono trattenute per essere espulse e scontano una detenzione per un iter amministrativo, senza aver commesso reati, solo perché stranieri. Questo fa parte, come più volte ho sostenuto, dell’universo concentrazionario. Bisognerebbe essere quindi grati a chi manifesta la propria indignazione contro questi centri. Condanno gli scontri di sabato, ma bisogna distinguere. Incendiare un materasso in un Cpr non è violenza: è violenza quella che viene esercitata dentro al centro su persone che, ripeto, non hanno commesso alcun reato. Ci sono stati degli atti che hanno incitato a forme di disobbedienza? Ce ne dovrebbero essere di più. I cittadini sono tali solo se si interrogano sulla legittimità delle leggi.

Dall’elogio della disobbedienza alla violenza il confine è sottile.

Viviamo in un’epoca autoritaria, in cui lo Stato-nazione ha perso sovranità e mostra il suo lato violento innalzando muri. Ecco perché l’anarchismo oggi è estremamente attuale: è la visione opposta al sovranismo, perché volge lo sguardo all’interno, negli interstizi di questa governance poliziesca. Non è un insulto. Anzi. È essere politici, oggi.

“Siamo forti, è il momento di radicalizzare la lotta”

“Io sono un anarchico da scontri, faccio roba violenta, non sono un tipo da agorà”. Antonio Rizzo, leccese trapiantato a Torino parla chiaro. La scorsa settimana è stato arrestato con altri sette. Tra loro Silvia Ruggeri, brianzola anche lei residente a Torino nell’ex asilo occupato di via Alessandria 12. “Abbiamo delle capacità elevate – dice la Ruggeri –, bisogna radicalizzare la lotta”. Si discute nel covo di corso Giulio Cesare 45. E intanto la microspia registra. Le intercettazioni finiscono nelle 238 pagine dell’ordinanza. L’accusa: “Sovvertire violentemente gli ordinamenti economici e sociali costituti nello Stato”.

Gli anarchici così affinano i metodi. Per gli attentati è meglio che la zona sia “buia”, senza telecamere. Spiega lo svizzero Giuseppe De Salvatore: “Dobbiamo fare una mappatura con il raggio che ha la telecamera”. Sul piatto della lotta i Centri di permanenza e rimpatrio (Cpr). A far da manifesto il volantino I cieli bruciano e altri, come Maestrale, Tornanti o Dentro la Bufera. Ventuno gli attentati attribuiti. Ordigni o pacchi esplosivi come quello alla Manital Idea di Bologna nel 2016. Scrivono gli artificieri: “Il plico avrebbe causato ferite a mani, braccia, testa, organi interni, a rendere maggiore l’effetto vi erano componenti metalliche”. Un’arma letale contro una società che lavora con i Cpr

Per questo a partire dal 2011 è stata istituita un’utenza “espulsioni” per tenere i contatti con gli stranieri trattenuti. Nel 2016 l’indagata Giada Volpacchio è al telefono con uno straniero: “Se siete incazzati ci possiamo organizzare. Noi siamo un gruppo di persone che lottano contro i Cie per distruggerli”. Un altro: “Se mi porti un accendino brucio tutto io”. Ancora la Volpacchio: “Sappi che in Italia prima c’erano 12 Cie adesso ce ne sono solo 4, tutti gli altri sono stati distrutti da dentro”. Ancora un terzo all’indagata Manuela Mauriello: “Dio è grande anche grazie a voi”. “Abbiamo questo numero per cercare di capire cosa fare insieme”. L’attività “di istigazione” aumenta anche quando lo straniero è impaurito: “Avete paura? Tanto siete reclusi, peggio di così non c’è niente”. La lotta eversiva, ipotizzata dalla Procura, si alimenta della stessa disperazione dei migranti. Uno di loro dice: “Aiutami a uscire da qua, ho fuori una famiglia e una casa”. Il 17 ottobre 2018 Mohamed chiama l’utenza Cie: “Hanno bruciato le celle, non finisce qua”. Chiara la risposta: “Non deve finire qua, continuate”. Lotta ai Cpr ma anche controllo del territorio nel quartiere Aurora. L’Asilo – scrive il gip – è diventato il punto di riferimento di cittadini stranieri che trovano appoggio per le occupazioni abusive”. Questo legame è però messo a rischio dalla riqualificazione del quartiere.

Ne parla la Ruggeri: “L’asilo è a rischio sgombero anche dopo la riapertura della nuova sede della Lavazza”, più volte assaltata dagli anarchici. Nel covo di corso Giulio Cesare, De Salvatore spiega la sua idea: “Mi interessa rilanciare le lotte”. Aggiunge la Ruggieri riferendosi a una rivolta interna al Cpr: “È stata alimentata dai messaggi solidali e dai contatti telefonici”. La cellula torinese allarga i contatti a livello nazionale. Di recente sono emersi contatti tra anarchici torinesi e “compagini in Val di Susa”, tra queste “i collettivi Briser Les Frontieres e Chez Jesus”. Anche se la gestione dell’ordine pubblico del questore fa esclamare alla Ruggeri “la città è finita”, per questo “si è puntato ad allargare le pratiche di lotta per vedere se questo creava un corto circuito”. Che però non si vede.