È normale e anche giusto che don Aldo Buonaiuto faccia bene il suo mestiere. Cioè l’esorcista. Esponente della Comunità Papa Giovanni XXIII (fondata da don Oreste Benzi) e responsabile del Servizio nazionale anti-sette, il sacerdote ha duramente criticato una gag di Virginia Raffaele durante l’ultima edizione del festival di Sanremo. In pratica, la conduttrice ha “invocato” Satana ben cinque volte. Dice don Aldo: “Non si è tenuto conto della fede dei tanti cristiani che seguivano uno dei programmi più amati dagli italiani mancando così di rispetto specialmente alle tante persone che sono realmente oppresse dalle forze del male”. E fin qui, appunto, la denuncia dell’esorcista. Poi però irrompe la politica, sul filo del clericalismo che strumentalizza le cose di fede. Si va da Gasparri a Fioroni. Ovviamente l’intervento principe è quello di Matteo Salvini: “Capisco e condivido le preoccupazioni espresse da don Aldo Buonaiuto”. Il ministro dell’Interno non si lascia sfuggire un’occasione per parlare. Sul maligno però il vicepremier leghista ha un evidente conflitto d’interessi. Sono tanti infatti i cattolici italiani che hanno condiviso la copertina di Famiglia Cristiana qualche tempo fa: “Vade retro Salvini”. Insomma, a ciascuno il suo esorcismo.
Le cause della guerra dei pastori sardi
“Il prezzo del latte così basso non consente ai produttori di sostenere le spese di produzione”. Lo certifica anche l’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare (Ismea). Ed ecco il perchè della protesta dei pastori sardi: la bassa remunerazione alla stalla del latte di pecora sardo, che viene utilizzato per la produzione del pecorino romano. Una rivolta sbarcata ieri anche a Roma dopo che da mercoledì scorso la mobilitazione ha coinvolto tutta la Sardegna.
“Abbiamo rilevato che da ottobre 2018 a gennaio 2019 il prezzo al litro del latte ovino sardo è passato da 73 centesimi Iva esclusa a 56 centesimi. Mentre i costi variabili di produzione sono di 70 centesimi”, spiega il presidente di Ismea Raffaele Borriello. La flessione poi si ripercuote sul costo del formaggio, sceso da 7,7 euro al chilo a 5,2 euro tra il 2017 e il 2018. Una differenza in negativo di 14 centesimi che ha effetti molto pesanti sui 14mila pastori sardi che pascolano e mungono 2,6 milioni di pecore e il cui latte copre il 60% di quello impiegato per fare il pecorino romano a denominazione di origine protetta per un volume d’affari tra i 180 e i 200 milioni di euro. Insomma, fino ad oggi i pastori sardi non si sono mai arricchiti con il frutto del loro lavoro, ma almeno sono riusciti a chiudere in pareggio. Oggi, invece, possono chiudere e basta. “Non c’è contrattazione sul prezzo tra chi produce e chi trasforma e distribuisce; tutto viene quasi imposto ai pastori”, spiega Battista Cualbu, pastore e presidente di Coldiretti Sardegna. Che vede nel Consorzio per la tutela del pecorino romano dop l’origine dei problemi e ne chiede il commissariamento.
L’imposizione del prezzo più basso che deriva dalle forme di pecorino invendute che restano nelle cantine è legata a due fattori. Il primo, riporta l’Istat, è il crollo delle esportazioni di pecorino romano nel nostro mercato di riferimento, gli Stati Uniti. Dove non sono diminuiti i consumi, ma sono cambiati i Paesi di approvvigionamento. L’Italia nei primi 10 mesi 2018 ha esportato il 46% in meno di pecorino romano rispetto al 2017. Mentre sono aumentate le esportazioni dei Paesi dell’est Europa come Romania e Bulgaria. Un aspetto sottolineato anche dal ministro delle Politiche agricole Gian Marco Centinaio a Radio Capital: “Non possiamo permettere che il pecorino venga fatto con il latte romeno e poi noi ci troviamo con i pastori in seria difficoltà”. L’altro fattore è, invece, l’eccesso della produzione, operata da chi fissa i tetti: le industrie del Consorzio. Secondo il Piano di regolazione non si possono produrre più di 280mila quintali di pecorino dop, mentre ne sono stati prodotti 341mila. “Il limite che ha posto il Consorzio basato su quanto latte può assorbire il mercato – spiega Cualbu – è sforato proprio da 15 soggetti, tra aziende private e cooperative, che ne fanno parte”. I pastori sardi venuti ieri a protestare a davanti a Montecitorio hanno chiesto e ottenuto dal ministro dell’Interno Salvini e da Centinaio un tavolo per domani al Viminale per trovare una soluzione. E le idee ce le hanno: il commissariamento del Consorzio e, secondo Cualbu, un aiuto economico per liberare le cantine dove sono stoccate le forme di pecorino . Ma la cifra è ancora da quantificare.
Tria, la letterina che scippa 285 milioni alla Sardegna
È mistero su una lettera firmata dal ministro dell’Economia Giovanni Tria il 22 gennaio, spedita con posta ordinaria e arrivata fuori tempo massimo negli uffici della Regione Sardegna per consentire la riapertura del dialogo sulla vertenza “accantonamenti”, ossia le quote di risorse regionali dovute annualmente allo Stato come contributo alla finanza pubblica: la scadenza era il 31 gennaio, ma la lettera del ministero, recapitata per posta anziché per via telematica, è arrivata solo il 5 febbraio. “Cosa è successo? Bisognerebbe chiederlo a Tria. Noi da luglio gli abbiamo inviato 8 lettere via Pec, come si usa normalmente fra le pubbliche amministrazioni, e non abbiamo mai ricevuto risposta”, dice stupito l’assessore al Bilancio della Regione Sardegna Raffaele Paci, che insieme al presidente Pigliaru attendeva almeno qualche chiarimento in più dal premier Conte, ieri in Sardegna per discutere di un nuovo “piano di investimenti per l’isola”. Chiarimento che però non è arrivato, se non sotto forma di un generico impegno a “convocare un tavolo”.
Un paradosso, dato che da oltre un anno, dalla scadenza dell’ultimo Accordo triennale sulla finanza pubblica nel 2017, l’isola chiede la rinegoziazione dei contributi trattenuti da Roma, ritenuti troppo onerosi persino da una recentissima sentenza della Corte costituzionale che l’11 gennaio ha invitato lo Stato a restituire alla Regione quasi 300 milioni di euro di accantonamenti “non dovuti”. Diversamente dalle Regioni ordinarie, infatti, quelle autonome come la Sardegna non sono tenute a versare automaticamente il loro contributo, ma lo stabiliscono di volta in volta mediante uno specifico accordo che determina il livello di compartecipazione e la sua durata, secondo il principio della “leale collaborazione” tra amministrazione centrale e locale. Questo almeno sulla carta, nella realtà le cose sono andate molto diversamente.
Davanti all’iscrizione unilaterale degli accantonamenti sardi nelle ultime finanziarie nazionali l’isola ha impugnato dapprima le manovre 2016-17 del governo Renzi e poi quella Gentiloni nel 2018. La Suprema Corte accoglie in toto il ricorso della Regione Sardegna dichiarando illegittimo il passaggio della legge di Bilancio 2018 che chiedeva 285 milioni all’isola: una cifra “non equa” in ragione delle proporzioni della finanza regionale rispetto a quella pubblica e delle condizioni di “svantaggio strutturale e permanente” dovuti all’insularità. Lo Stato, insomma, ha preteso troppo dalla Sardegna che in questo modo non sarebbe nemmeno in grado di garantire i livelli essenziali dei servizi sociali, e dovrebbe ora trovare un’intesa per la restituzione delle somme non dovute.
“Noi però non abbiamo ricevuto nessun segnale in questo senso da Roma – dice l’assessore Paci –. La lettera del ministro Tria non indica alcuna proposta conciliatoria e incredibilmente non fa alcun riferimento alla sentenza dell’11 gennaio, che dice chiaramente allo Stato che non può fare quello che vuole, esercitando un potere “tiranno”. La Regione non arretra e ha già dato mandato ai suoi uffici legali di chiedere al giudice ordinario un’ingiunzione di pagamento sul credito illegittimamente trattenuto da Roma. “Oltre a questo chiederemo un giudizio di ottemperanza alla Corte costituzionale affinché di fronte all’inerzia statale nomini un commissario ad acta”, spiega Paci. Intanto è già stata convocata la seduta straordinaria della commissione regionale di bilancio per approvare il disegno di legge che inserisce nella finanziaria sarda 2019 i 285 milioni “scippati” dallo Stato. “Roma può continuare a far finta di nulla”.
“Popolo sovrano” debutta in prima serata su Raidue
“Vogliamostare dalla parte degli ultimi. Andare dove gli altri non vanno”. Alessandro Sortino presenta così la sua nuova trasmissione, nata da una costola di Nemo, che non andrà più in onda per cedere il posto a Popolo sovrano, al suo debutto domani alle 21.20 su Raidue. In conduzione ci saranno anche Eva Giovannini e Daniele Piervincenzi, il cronista che lo scorso venne aggredito a Ostia da Roberto Spada con la famosa testata le cui immagini fecero il giro del mondo. Nella prima puntata Sortino è andato a sentire le ragioni dei truffati dalle banche venete, mentre Piervincenzi ha documentato lo sgombero da parte delle forze dell’ordine della fabbrica dell’ex Penicillina a Roma. “Vogliamo abbattere tutti gli ‘ismi’. Popolo sovrano sarà un programma molto ancorato alla realtà e a quello che accade nel nostro Paese. E alla politica chiederemo risposte concrete”, afferma Sortino. Il giovedì non è una serata semplice e Popolo sovrano andrà a fare concorrenza a Piazza Pulita di Corrado Formigli (La7), puntando a confermare (e superare) gli ascolti di Nemo (tra il 5 e il 6%). L’altra costola di Nemo, un programma condotto da Enrico Lucci, andrà in onda, invece, il mercoledì.
Alfano jr. fa carriera in Poste e sbarca a Roma
C’è sempre chi ce la fa. Anzi chi ce la fa e alla grande. È il caso del fratello dell’ex ministro dell’Interno, Angelino Alfano, Alessandro. Che qualche anno fa era stato assunto in una società del gruppo Poste Italiane con uno stipendio favoloso. Ma gli strascichi polemici che ne erano seguiti, né le inchieste della magistratura che lo hanno lambito sembrano averne intaccato la carriera, almeno finora. Sulla sua fortunata ascesa in Poste è infatti ancora in corso l’istruttoria della Corte dei Conti della regione Sicilia. A cui la Guardia di Finanza ha consegnato da tempo un’informativa per segnalare talune anomalie, non avendo per esempio trovato atti da lui firmati che ne attestassero per un bel periodo di tempo, l’effettiva attività lavorativa. E ne giustificassero i compensi da super manager rispetto a quelli accordati ad altri suoi colleghi. Il procuratore capo della suprema magistratura contabile, Gianluca Albo ha disposto un supplemento di indagine.
Poi verificherà se ci siano gli estremi per contestare il danno erariale. Su questa vicenda sono stati versati fiumi di inchiostro. Specie da quando erano stati rivelati i contenuti di una intercettazione tra il faccendiere Raffaele Pizza e un collaboratore dell’allora ministro che parlavano dell’incarico fatto avere al fratello. In cui il primo sosteneva di averne facilitato l’assunzione inizialmente a Postecom, grazie ai suoi rapporti con l’ex amministratore di Poste Massimo Sarmi. Pizza, che ovviamente non sapeva di essere ascoltato, aveva pure confidato che Alfano jr non era stato particolarmente soddisfatto per l’emolumento da ‘soli’ 160 mila euro.
Fatto sta che pochi mesi dopo, nell’ambito di un’operazione riorganizzazione interna a Poste, dove al vertice era arrivato nel frattempo Francesco Caio, il suo contratto era stato ceduto a Poste e Tributi: per lui era scattato un aumento che aveva portato il suo cartellino a 180 mila euro. Che poi erano diventati 200 mila quando gli erano state spalancate le porte dell’azienda madre, oggi guidata da Matteo Del Fante. Che pochi giorni fa ha indicato proprio Alfano Junior alla guida di una struttura costituita all’interno di una delle funzioni più delicate di Poste, ossia quella preposta alla tutela aziendale: si occuperà di Protezione civile, assorbendo quota parte di attività e risorse precedentemente allocate nell’ambito dell’area della sicurezza. Per svolgere questo nuovo incarico il fratello dell’ex ministro si è dovuto trasferire dalla Sicilia a Roma. Senza che gli siano state riconosciute ulteriori indennità, fanno sapere dall’azienda. Che precisa inoltre che il suo ruolo, nello spostamento nella Capitale, risulta ridimensionato rispetto al passato.
Quel che è certo è che ora, dovendosi occupare di terremoti e altre sciagure, Alfano sarà costretto sicuramente a vergare atti uscendo dalla consuetudine dell’oralità che tanto aveva destato sospetti. Secondo l’ordine di servizio firmato dall’ad Del Fante sarà infatti a capo della struttura che dovrà “garantire e elaborare piani e procedure per la gestione di eventi calamitosi con impatto sull’azienda”. Dovrà inoltre interfacciarsi con il ministero dell’Interno per gli aspetti di difesa civile nell’ambito del coordinamento delle attività in caso di emergenza. E mantenere i contatti con gli enti anche internazionali preposti a fronteggiare questo tipo di crisi, garantendo la partecipazione di Poste alle esercitazioni che si fanno per rodare le strutture operative del sistema nazionale di Protezione civile che vengono attivate per esempio nel caso di eventi sismici. Auguri.
Voli di Stato, catering e vino: il cambiamento non decolla
Il 24 dicembre, la vigilia di Natale, Palazzo Chigi ha firmato un contratto da 120mila euro – “affidamento in economia” – per il catering sugli aerei di Stato. Il 31 dicembre, il giorno del veglione, la stessa struttura ha ordinato 1.482 euro in vini per i passeggeri. La propaganda contro la casta ha un limite invalicabile, un muro che spesso la respinge: la realtà. Pure il governo gialloverde di Cinque Stelle e Lega – che propugna una politica francescana, essenziale, mezzi pubblici e felpe sdrucite – perpetua la solita gestione dei famigerati voli blu, fastidioso emblema del potere. Più che il cambiamento, si manifesta la perfetta continuità: ogni dicembre – e il governo di Conte non ha ribaltato la tradizione – Palazzo Chigi pianifica le spese per il ristoro a bordo e stanzia sempre all’incirca 120mila euro.
Il vino è una simbolica eccezione, tra l’altro un calice di rosso è salutare, e dunque si sopperisce semmai a una mancanza del passato. Qui la vicenda, e non la morale, va oltre qualche euro in più che di certo non infierisce sul bilancio italiano. Il tema è il rapporto “normale” – né populista né sovranista – tra i gialloverdi e i voli di Stato. Il portale del governo ha una pagina, aggiornata con estrema puntualità, che enumera i voli blu per ragioni di governo, umanitarie o di Stato. Questa pagina è soprattutto un cimelio che rammenta ai politici il controverso passaggio dei tecnici al governo: è la legge n. 98 del 2011, all’epoca di Mario Monti, che impone la trasparenza. Forse trasparenza è una parola eccessiva, un impegno esagerato, perché la legge scherma i viaggi del presidente della Repubblica, del presidente del Consiglio, dei presidenti di Camera e Senato e di quelli che restano segreti per ragioni di sicurezza nazionale. In sostanza: la trasparenza è una promessa che non si può mantenere.
Dal 1° luglio al 29 ottobre 2018, per esempio, il servizio voli di Stato riferisce che il 31esimo Stormo dell’Aeronautica militare ha svolto 25 missioni. E l’elenco propone i viaggi ampiamente raccontati dai media dei ministri, di Giovanni Tria o di Elisabetta Trenta o di Matteo Salvini. Con una richiesta d’accesso agli atti, però, il Fatto ha scoperto che il 31esimo Stormo ha completato 105 missioni nel periodo citato. E la discrepanza non si giustifica con le visite istituzionali delle più alte cariche dello Stato. Anche la dotazione per il catering da 120mila euro è superflua: l’esborso è più consistente, ma diluito nel tempo. Sempre dal 1° luglio al 29 ottobre 2018, come già documentato dal Fatto, le carte di credito di Chigi hanno acquistato 26.540 euro di catering in Italia, 14.851 all’estero, 3.720 per corredo al catering, cioè porcellane dell’azienda Manifattura di Venezia.
Allora è impossibile ricostruire il costo annuo dei voli di Stato: Palazzo Chigi li autorizza con l’ufficio del tenente colonnello Filideo De Benedictis e copre le spese impreviste (catering a parte); il 31esimo Stormo li controlla e si occupa di manutenzione, carburante, equipaggio. Nei prospetti finanziari del ministero della Difesa ci sono le previsioni di un triennio di “trasporto aereo di Stato” (non è incluso il personale): 25,1 milioni di euro per il 2018; 26,1 per il 2019; 26,1 per il 2020. I Cinque Stelle hanno celebrato più volte la rottamazione dell’Airbus A340 – il famoso Air Force Renzi da più di 150 milioni di euro per sette anni – e l’interruzione del contratto di leasing con Etihad (ex azionista di Alitalia), ma l’enorme quadrimotore è ancora parcheggiato a Fiumicino, il contenzioso legale con la compagnia emiratina è appena cominciato e il risparmio – ormai il danno è fatto – sarà di poche decine di milioni di euro. Al contrario, il 31esimo Stormo ha una flotta di almeno due elicotteri per ricerche e soccorso, tre modelli di Falcon, tre Airbus A319CJ. Il più capiente ha 50 posti. Il governo di Enrico Letta voleva vendere una coppia di Airbus: uno è andato all’asta e non ha ricevuto offerte, l’altro è di nuovo operativo. Perché per governare occorre volare. Non solo con la fantasia.
Quando Renzi chiamò Putin per denunciare una fake news
Nel libro in uscita domani per Marsilio, Un’altra strada, Matteo Renzi racconta anche di una sua telefonata a Vladimir Putin per protestare contro una fake news di cui sarebbe stato vittima. Ad anticiparlo, riportando alcuni brani del libro, è un articolo del New York Times. In particolare, il quotidiano Usa racconta lo sconcerto di Renzi davanti al fatto che la Rt, la televisione internazionale russa, titolava come manifestazione di protesta contro di lui, un evento del 29 ottobre 2016 a favore del referendum costituzionale. “Ti sembra ragionevole che Russia Today usi spesso titoli che non sono veri?”, chiese dunque a Putin in una telefonata. “Perché oggi devono avere rapporti su alcune proteste contro di me, se quella piazza è piena di gente, che difende la nostra riforma?”. Putin avrebbe risposto: “Matteo, tu sai che non dipende da me cosa fanno i giornalisti. Ma cercherò di vedere se posso aiutari”. Quattro ore dopo, il titolo era corretto. La vicenda mostra che alcune settimane prima delle elezioni americane che hanno portato Donald J. Trump alla Casa Bianca, il sospetto di intromissione russa era già alto tra le nazioni europee guidate da liberali in pericolo.
“Giornalisti in pericolo”: Italia e Russia insieme prime in Europa
L’Italia è fra i Paesi con il maggior numero di segnalazioni per minacce ai giornalisti, nel 2018, alla pari con la Russia, al primo posto nell’Ue. Dodici i casi segnalati negli ultimi mesi dalla piattaforma di organizzazioni internazionali che partecipano al progetto per la protezione degli operatori dell’informazione del Consiglio d’Europa. Tutto ciò in un clima che il Rapporto intitolato “Democrazia a rischio: minacce e attacchi contro la libertà dei media in Europa” definisce ostile alla libera stampa. “La violenza contro i giornalisti è particolarmente preoccupante”, si legge nella sezione dedicata all’Italia. Mafia e organizzazioni criminali vengono citate tra le maggiori minacce, insieme ai gruppi neofascisti. Il Consiglio d’Europa (organizzazione distinta dall’Unione europea) ha sottolineato che il deterioramento delle condizioni di lavoro e di vita dei giornalisti s’è verificato in concomitanza con l’arrivo al governo di Salvini e Di Maio, che “regolarmente hanno espresso attraverso i social media”, “una retorica ostile contro gli giornali e tv”. “Libertà di informazione e democrazia sono elementi inscindibili”, ha detto, a proposito del rapporto, Mattarella, ricevendo i vertici dell’Fnsi.
Conte a Strasburgo liti e insulti: “Europa lontana dal popolo”
Non era nata sotto i migliori auspici la trasferta di Giuseppe Conte in Europa. La presenza di Jean Claude Juncker durante il discorso che il premier italiano doveva tenere ieri di fronte al Parlamento europeo era già stata negata e sostituita dal vicepresidente Katainen. Alla base del diniego non meglio precisati “questioni di agenda” (leggi: contrasti tra Roma e Parigi), a cui aveva posto rimedio solo un incontro riservato tra lo stesso Juncker e Conte, appena atterrato a Strasburgo, utile almeno per calmare le acque. C’è anche da ricordare come all’Eurocamera la maggioranza dei parlamentari è ancora nelle mani di popolari, socialisti e liberali, che certamente non vedono di buon occhio i populisti – soprattutto quando e dove sono al governo. E che hanno dimostrato di non amare il presidente del Consiglio italiano.
L’affondo più diretto è arrivato da un veterano dell’aula come il liberale Guy Verhofstadt, leader della supereuropeista Alde, lo stesso con cui gli eurodeputati M5S provarono a fare un accordo due anni fa quando tentarono di uscire dall’alleanza con Farage. “Per quanto tempo ancora – ha urlato Verhofstadt durante il suo intervento in aula, rivolgendosi a Conte in italiano – lei sarà il burattino mosso da Matteo Salvini e Luigi Di Maio?”. E ha poi concluso: “Mi fa male vedere l’Italia, uno dei Paesi fondatori dell’Unione, passare a essere fanalino di coda”.
Nella sua replica, il presidente del Consiglio italiano, ha risposto direttamente al capogruppo liberale con queste parole: “Io burattino non sono. Sono invece orgoglioso di interpretare la voglia di cambiamento del popolo italiano e di sintetizzare la linea politica di un governo che non risponde alle lobby”. Aggiungendo una stoccata finale a Verhofstadt e all’establishment europeo: “Forse i burattini sono coloro che rispondono a lobby e comitati d’affari”
L’orgoglio populista di Conte, d’altra parte, era già emerso nel lungo – e ampiamente contestato, soprattutto da socialisti e liberali – intervento in aula del pomeriggio.
Durante il suo discorso sul futuro dell’Unione, il presidente del Consiglio ha voluto sottolineare la fase critica che sta attraversando l’Ue e suggerire come la risposta a questa crisi, che dura ormai da tempo, sia stata tutt’altro che efficace. “La politica europea, di fronte a una crisi economica senza precedenti, si è ritratta impaurita, al di qua della fredda grammatica delle procedure”, ha detto Conte in uno dei passaggi chiave del suo intervento, “finendo col perdere progressivamente il contatto con il suo popolo e rendendo sempre più incolmabile la distanza, che non è solo geografica, tra Bruxelles e le tante periferie del Continente. La politica ha rinunciato alla sua funzione legittimante e rappresentativa, apparendo – agli occhi dei cittadini – distante e oligarchica”. Inoltre, l’Europa è diventata più grande, integrandosi e unificandosi, ma le è mancato un elemento essenziale: quello della costruzione di un vero popolo europeo. “Non abbiamo avuto il coraggio di costruire un modello inclusivo che, realisticamente, al di là di ogni retorica, favorisse la creazione di un demos”, ha concluso Conte.
In un dibattito parlamentare insolitamente più italiano che europeo – tanto da meritare il richiamo ai temi meno nazionali da parte del presidente dell’Europarlamento Antonio Tajani – e in un emiciclo che i deputati a Strasburgo hanno sottolineato essere vuoto (e certamente non pieno come fu, ad esempio, per Angela Merkel e per Emmanuel Macron), arriva anche il sostegno di Alessandra Mussolini, alfiera dell’italianità, che ha chiesto di “invitare Macron la prossima settimana” per sottoporlo allo stesso processo.
Dal fronte opposto dello schieramento, l’europarlamentare de Pd David Sassoli attacca: “Quello italiano è un governo isolato, criticato aspramente dai maggiori gruppi parlamentari”, aggiungendo che “non si era mai vista tanta compattezza e responsabilità europeista”.
B. da D’Urso: “Italiani fuori di testa: votano i 5 Stelle, non me”
“Gli italiani sono diventati tutti pazzi”, per aver votato il Movimento 5 Stelle. Si è visto un Berlusconi-fiume ieri ospite da Barbara D’Urso a Pomeriggio 5. Tra l’ironia e la polemica, in un quasi monologo di una ventina di minuti, il Cavaliere ha parlato della campagna elettorale per le elezioni europee, degli italiani che non lo votano più e delle sue televisioni. “Solo 5-6 italiani su 100 mi votano alle elezioni, una cosa fuori dal mondo” e gli preferiscono altre forze politiche ha detto. Così lui guarda al 26 maggio, data in cui si vota per il Parlamento europeo: “Ho preso in affitto un appartamento a Bruxelles e forse lo comprerò, perché all’Europa voglio dedicare tempo, la voglio cambiare”. Il suo giudizio non è affatto generoso invece verso chi ha fatto del “cambiamento” la cifra della propria politica: “Il signor Di Maio che cosa ha fatto? Di Battista chi è? E gli diamo in mano l’Italia… siamo usciti di testa”. La recente intervista che Di Battista ha rilasciato a D’Urso offre all’ex presidente del Consiglio lo spunto per una sottile critica alla rete: “Devo intervenire, non mi invitate mai nelle vostre tv. È colpa di Confalonieri, adesso non lo saluto più”.