Montalbano: in Italia si solidarizza per fiction

Quando eravamo piccoli ci chiedevamo “Cosa dirà la mamma?”. Ora che siamo diventati grandi ci chiediamo “Cosa dirà Salvini?”. Era meglio la mamma, ma Salvini è dappertutto, impossibile sfuggirgli. Cosa dirà Salvini di Mahmood? E cosa dirà del commissario Montalbano, il cui nuovo episodio L’altro capo del filo

andato in onda lunedì ha avuto un prologo dedicato ai salvataggi dei migranti sulla costa di Vigata con Salvo lui personalmente in persona a condurre le operazioni di salvataggio? Una scelta di campo singolare, considerato che la piaga della Sicilia, e dell’Italia intera, come tutti sappiamo, è il traffico. Salvini personalmente in persona si è subito preoccupato di rassicurare quanti volevano correre in suo aiuto. “Io adoro Montalbano”, ha twittato e se da Vespa si è presentato senza indossare la sua divisa è solo perché Montalbano divise non ne porta. Ma pur in maniche di camicia il commissario ha totalizzato oltre 11 milioni di telespettatori e il 44.8 di share: una Rai1 a trazione Camilleri vincente quanto il centrodestra a trazione leghista. Le interpretazioni di una simile maggioranza sono molteplici. Gli italiani sono pronti a solidarizzare in massa per fiction. Nella realtà, molto meno. Oppure – fiction per fiction – meglio scegliere i romanzi di Camilleri come ha fatto Luca Zingaretti, delle primarie del Pd, per cui ha optato il fratello Nicola. Ancora: nell’arco di vent’anni la serie Montalbano ha raggiunto e conservato un’ammirevole fusione tra testo letterario e scrittura visiva, un equilibrio da cui tante altre alleanze avrebbero da imparare. Così a Salvo Montalbano è consentito tutto, perfino toccare i fili più scottanti della cronaca, da sempre severamente proibiti nelle fiction Rai. Insomma, a parte Gio Evan, stavolta a Salvini è andata come con la Isoardi: non sempre coloro che adoriamo ci adorano.

Sardegna, liste irregolari. Rischia anche Salvini

Nubi dense sulle Regionali in Sardegna: il Tribunale civile di Sassari ha accolto l’esame di un ricorso, presentato alcune settimane fa, che mette in dubbio la validità di cinque liste, fra cui quella della Lega di Matteo Salvini, per la mancata raccolta delle firme necessarie alla partecipazione alle elezioni del 24 febbraio. Il ricorso, presentato in tutti i collegi nonché presso il Tribunale amministrativo regionale, trova quindi una prima conferma della sua fondatezza con l’ammissione al dibattimento presso il tribunale ordinario del capoluogo sassarese. L’udienza per la discussione è stata fissata con carattere d’urgenza martedì 19 febbraio dal giudice Giuseppina Sanna che dovrà decidere nel merito di un’intricata faccenda che rischia di far precipitare nell’ incertezza l’esito della competizione elettorale isolana.

A rischiare sono, oltre la Lega, anche le liste di Sardegna Civica, Forza Italia Sardegna, Energie per l’Italia e Sardegna in Comune: in pratica tutte avrebbero aggirato la raccolta delle firme necessaria per legge avvalendosi dell’ “adesione tecnica” di un consigliere regionale uscente, che sarebbe poi risultato candidato regolarmente in altre liste. Per questo il ricorso chiede di dichiarare “l’incandidabilità e l’inammissibilità” dei consiglieri regionali e procedere alla “ricusazione della lista di appartenenza presentata il 21 gennaio 2019, conseguentemente al passaggio, da una forza politica ad un’altra”.

Per la formazione di Salvini, in particolare, ci sarebbero anche ulteriori rilievi a carico di Eugenio Zoffili, commissario regionale della Lega che stando a quanto si legge nel ricorso sarebbe “soggetto non titolato” alla presentazione delle liste nell’isola, dato che lo Statuto della Lega non prevede la figura del “commissario”.

Ma non basta. All’azione del giudice sassarese si aggiunge nelle ultime ore quella del Presidente facente funzioni del Tribunale civile di Oristano, Antonio Angioi, che pur ritenendo il contenzioso in materia elettorale di competenza sostanzialmente amministrativa ha fissato, con proprio decreto, al 27 marzo, udienza nei confronti dei consiglieri regionali Paolo Luigi Dessì, Gianni Lampis, Antonello Peru, Marco Tedde e Valerio Meloni, cioè coloro i quali hanno consentito, con la loro adesione “fittizia”, di evitare la raccolta delle firme a 5 partiti in vista delle elezioni sarde del 24 febbraio.

In caso di accoglimento del ricorso, la prassi prevede che l’ordinanza sia trasmessa con tutti gli atti alla Procura per valutare eventuali profili di carattere penale.

Moavero il neutralissimo tiene uniti grillini e Lega

Nicolás Maduro è illegittimo, l’Assemblea nazionale eletta in Venezuela nel 2015, viceversa, pienamente legittima. Ma non c’è nessun riferimento esplicito al riconoscimento del Presidente auto proclamato, Juan Guaidò. Il governo italiano, però, “chiede nuove elezioni presidenziali nei tempi più rapidi possibili. Che devono essere naturalmente libere, credibili, trasparenti e devono essere riconosciute come tali dalla comunità internazionale”.

Dopo settimane di incertezze, il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, ieri è intervenuto in Parlamento e ribadendo la linea della neutralità fa comunque un passo avanti verso la posizione della comunità europea sulla vicenda venezuelana. Contemporaneamente, però, mantiene una linea della quale è pienamente convinto: ovvero che non ha motivo per pensare che Guaidò dia più garanzie di Maduro.

D’altra parte, il premier Giuseppe Conte, davanti all’Assemblea di Strasburgo, lo dice chiaro e tondo: “L’Italia non appoggia assolutamente Maduro. Noi non riteniamo che Maduro abbia legittimazione democratica. Chiediamo elezioni libere e democratiche al più presto. Ma non riteniamo che la soluzione sia un presidente autoproclamato, anzi riteniamo che questo rallenterà il processo democratico”.

Il né con Maduro, né con Guaidò viene confermato dalla reazione del ministro degli Esteri venezuelano, Jorge Arreaza: “Il governo italiano è stato molto saggio in questa situazione. Non vuole imporre una soluzione, che è quello che invece vuole fare il governo Usa. Stare dalla parte degli Stati Uniti vuol dire stare dalla parte sbagliata della storia”.

Alla relazione di Moavero si arriva dopo una lunga mediazione tra Lega e Cinque Stelle, condotta nella notte tra lunedì e martedì da Di Stefano e dal sottosegretario leghista, Guglielmo Picchi. E dopo un vertice a Palazzo Chigi. Presenti Conte, il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, Moavero, il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Riccardo Fraccaro e il sottosegretario Giancarlo Giorgetti. Assente Luigi Di Maio.

Da sottolineare che nel testo della mozione Lega-Cinque Stelle, approvata dalla maggioranza sia alla Camera sia al Senato, anche al riconoscimento dell’Assemblea ci si arriva per via indiretta. La vaghezza è il segno che sulla politica estera il governo gialloverde continua a barcamenarsi tra due posizioni non proprio identiche. Ma anche che la volontà di non spaccarsi è predominante.

Uno dei passaggi più controversi del testo è quello sull’impegno a garantire “il necessario flusso di aiuti nel rispetto del diritto internazionale”. Il timore del M5S era che la definizione degli aiuti fosse troppo larga e fosse il varco per aprire ad altri tipi di iniziative. E poi c’è il passaggio sul riconoscimento dell’Assemblea. Che viene fatto solo in maniera indiretta e citando la posizione dell’Unione europea che “ha reiterato il sostegno all’Assemblea nazionale”, e riservandosi, ove non fossero indette le elezioni, “il riconoscimento alla leadership del Paese, ai sensi dell’articolo 233 della Costituzione venezuelana”. La Lega rivendica in questo passaggio la legittimazione di Guaidò, i Cinque Stelle, viceversa, possono ribadire che l’Italia non sta né con Maduro, né con il Presidente autoproclamato. Tanto è vero che la delegazione venezuelana in Italia, ieri, ha rinnovato l’appello al governo perché riconosca Guaidò come capo provvisorio dell’esecutivo.

Nel dibattito in Aula, le opposizioni hanno denunciato le ambivalenze della posizione del governo. Su tutti, l’intervento di Emma Bonino in Senato: “Se Maduro non è riconosciuto da tutti i Paesi europei, compreso il nostro, chi dovrebbe fare il processo elettorale chiaro e limpido? Il processo elettorale non si fa da solo, né in modo assembleare”. E dunque, il governo italiano dovrebbe riconoscere “il governo ad interim Guaidò che deve supplire all’emergenza umanitaria e al processo elettorale”.

Calenda: il Pd firma il manifesto ma litiga sulla lista

Il Pd ha aderito al Manifesto “Siamo europei” promosso da Carlo Calenda: il presidente Matteo Orfini, a nome dei tre candidati alla segreteria, ha formalizzato la sottoscrizione della proposta di una lista unitaria di tutti i progressisti alle elezioni di maggio. Una decisione che però fa storcere il naso a qualche dirigente di punta come Antonello Giacomelli, mentre, dopo il risultato in Abruzzo del centrosinistra, Roberto Giachetti e Anna Ascani hanno detto forte e chiaro il loro “no” ad una coalizione modello Unione, e soprattutto al “ritorno a casa” dei fuoriusciti di Leu. Calenda ha sottolineato che l’adesione comporta, oltre alla condivisione dei contenuti, anche l’impegno a fare una lista unitaria per le Europee del 26 maggio. Una prospettiva condivisa in linea di principio da tutti, ma rispetto alla quale ci sono molti distinguo. Giacomelli, vorrebbe una lista in cui tutti i candidati eletti poi vadano a Strasburgo nel gruppo dei Progressisti, mentre Calenda si rivolge anche a +Europa, Verdi, Italia in Comune piuttosto che ai centristi di Bea Lorenzin e Pierferdinando Casini che poi andrebbero con il Ppe. Da notare: né Bonino né Pizzarotti hanno aderito. La discussione promette di entrare nel vivo dopo il congresso.

Danno la percezione di essere diventati un’oligarchia chiusa

I dati sulle elezioni in Abruzzo dicono che il Movimento ha perso circa 185mila voti, ma più che negli altri partiti questi consensi sono confluiti nell’ampio fronte degli astenuti. I 5 Stelle dovranno quindi pensare a come stimolare di nuovo queste persone che hanno preferito stare a casa. Dalle nostre interviste risulta che un tema che sta da sempre molto a cuore agli elettori grillini è quello della partecipazione e questo può essere uno spunto utile su cui interrogarsi per recuperare terreno: riaprire una conversazione con gli elettori, coinvolgerli maggiormente nelle scelte. La percezione dei cittadini è che le decisioni le prendano ormai soltanto in pochi e che il Movimento faccia a meno della base. Anche nel caso del contratto di governo, votato online dagli iscritti in poche ore, si è trasmesso un messaggio di poca condivisione: non c’è più quella freccia dal basso verso l’alto, dagli elettori ai rappresentanti, quella trasversalità che di certo non può essere mantenuta intatta quando si è al governo ma che comunque non deve venire meno. Se Di Maio viene percepito come Salvini c’è qualcosa che non va: la Lega è abituata a avere un leader, un punto di riferimento, gli elettori del Movimento 5 Stelle no.

Invece al Movimento conviene crisi subito e andare a sinistra

Il problema dei consensi del Movimento 5 Stelle ruota tutto attorno all’alleanza con Matteo Salvini. Sembra che finora il leader della Lega abbia giocato coi grillini, portandoli sul suo terreno, costringendoli a imitarlo, tanto è vero che Alessandro Di Battista, tornato dal Sudamerica, è stato visto come il contro-Salvini da schierare per la campagna elettorale europea. Mi viene da dire che a questo punto ai 5Stelle converrebbe strappare con la Lega e tornare alle elezioni, incassando quel 25-26-27 per cento che secondo me ancora potrebbero ottenere. Qui poi c’è un altro tema: non sono d’accordo con chi dice che le forze politiche si dividano soltanto tra europeisti e anti-establishment, perché le distinzioni tra destra e sinistra rimangono. E io sono da sempre convinto che lo spazio del Movimento 5 Stelle, pur essendo ambigui e complessi, sia a sinistra, perché hanno nel dna temi come l’ambientalismo, la difesa del lavoro, il concetto di decrescita, tutte cose da sinistra radicale. E allora conviene puntare su questi punti, sia nel tentativo di mangiarsi l’elettorato di centrosinistra sia poi per eventuali accordi futuri con altre forze politiche, a differenza di quello che è successo lo scorso anno.

No alla tentazione di rompere, i 5S devono governare di più

La tentazione più immediata per invertire la rotta nei sondaggi sarebbe quella di staccare la spina al governo, ma per il Movimento sarebbe un errore. Certo, il suo elettorato è fatto di uno zoccolo duro fedele all’anima barricadera, ma lo scorso marzo i 5Stelle sono stati votati da tantissime persone che hanno chiesto loro di governare, con l’idea che fossero maturi per essere forza di governo e non di opposizione. Credo che questi elettori non spingano per la fine del governo, ma chiedano al Movimento di fare le cose. Giuste o sbagliate che siano, le promesse fatte non possono rimanere a metà. I 5Stelle pagano un difetto di credibilità rispetto alla Lega, perché anche se Salvini di concreto non ha fatto molto, la percezione degli elettori è che il Carroccio sia un partito strutturato, con una consuetudine antica di governo. Per recuperare terreno su questa credibilità non c’è altra strada che governare di più, tenere il punto su temi come l’acqua pubblica o le concessioni autostradali. Un esempio per tutti: per giustificare il No al Tav, il Movimento ha citato la necessità di altri interventi più utili, come l’alta velocità Roma-Pescara. Detta così rimane però una sparata che va bene quando si è all’opposizione, se non la si trasforma in un atto politico vero si trasmette soltanto un’idea di approssimazione.

Di Maio e l’ipotesi “rimpastino” per girare pagina dopo il flop

Davanti alla pattuglia dei ministri Cinque Stelle, neanche troppi giorni fa, Luigi Di Maio l’aveva detto: “Ragazzi, qualcosa non va”. E adesso che la batosta dell’Abruzzo è arrivata dritta in faccia al Movimento, l’idea si sta facendo largo: è il momento di cambiare. Non basta fare autocritica sulla comunicazione che non ha funzionato. Forse deve saltare qualche testa. Nel mirino ci sono alcuni degli esponenti che il capo politico ha portato a palazzo Chigi, Barbara Lezzi e Giulia Grillo su tutti. Non il gaffeur nazionale, il titolare delle Infrastrutture Danilo Toninelli: pur con tutti gli scivoloni fatti, resta un fedelissimo di Di Maio e farlo fuori proprio ora che la partita sul Tav è entrata nel vivo, finirebbe per essere un autogol.

Il rischio, sia chiaro, è preso in considerazione anche per le due ministre: cambiare, oggi, potrebbe essere preso anche come un segnale di debolezza, un prestare il fianco agli appetiti della Lega. Ma cambiare si deve. E le due donne di governo, mediaticamente poco esposte e assai deludenti agli occhi dei vertici M5S, sarebbero le caselle più facilmente “liberabili” per fare posto a qualcuno di più efficace nella nuova narrazione con cui Di Maio vuole affrontare la campagna per le Europee.

La parola d’ordine è “Basta cose contro”. Tradotto, significa che il Movimento è convinto di aver pagato caro il battage “antagonista” delle ultime settimane. Per capirci, dagli attacchi alla Francia in giù. Il simbolo degli errori, suo malgrado, è diventato Alessandro Di Battista: tornato per tirare la volata alle amministrative, è finito per spaventare gli elettori più moderati. Alcuni parlamentari l’hanno perfino chiamato per dirglielo. E lui, raccontano, ha lasciato intendere di aver capito che forse ha esagerato. Tant’è che ieri, su La7, sul punto ha risposto: “Mi sopravvalutate, nel bene e nel male”.

Basta cose contro, dicevamo. E non è un caso che i vertici M5S notino come una delle poche cose memorabili del ministero targato Grillo sia la destituzione del Consiglio superiore di Sanità. O che del Sud guidato da Barbara Lezzi, finora, sia rimasta soprattutto la litigata col governatore Michele Emiliano. Adesso che è arrivato il momento di “battere sui temi nostri”, ragionano, servono volti capaci di fronteggiare l’onnipresenza salviniana. Nulla è deciso, la valutazione dei rischi è ancora in corso. Così come per l’autorizzazione sul caso Diciotti. Quello che è certo è che la campagna per le Europee dev’essere tutta diversa da quella che si è vista finora. “Niente sovranismo, nessuna chiusura a riccio – dice il presidente della commissione per le Politiche Ue, Sergio Battelli – e soprattutto basta parlare di immigrazione. Facciamo proposte sulla modifica dei trattati, sull’equità fiscale: parliamo solo dei nostri temi”. È su quelli che bisogna insistere: “Vi rendete conto che abbiamo fatto lo spazzacorrotti, il decreto dignità, il taglio dei vitalizi, il reddito di cittadinanza?”, si domanda il capogruppo alla Camera Francesco d’Uva.

Da due giorni Luigi Di Maio è sparito dai radar, ieri mattina non ha nemmeno partecipato al vertice di governo. Raccontano che “è stanco, ha bisogno di riposare”. Ma dal Movimento smentiscono si stia lavorando a una squadra di supporto, a una “segreteria”. Per ora, per dirla con i suoi fedelissimi, “non è detto che si debba formalizzare come nei vecchi partiti, basta che ci diamo un’organizzazione tra di noi”.

Il commissario non firma l’analisi (a cui non ha lavorato)

Nel giorno in cui viene pubblicata l’analisi costi-benefici (negativa) sul Tav, siti e giornali hanno aperto a lungo su una presunta spaccatura nella commissione di esperti incaricati del dossier e guidati da Marco Ponti. A segnalarla è stato il parlamentare del Pd, Davide Gariglio, che ieri è sbottato: “Il documento è da invalidare”. Il motivo è che è stato firmato da cinque esperti, mentre il sesto, l’ingegnere Pierluigi Coppola, non l’ha sottoscritto. L’esperto, sostiene il deputato dem, era “l’unico neutrale presente tra i commissari scelti dal ministro Toninelli, che si è peraltro apertamente dissociato dai risultati finali”. L’ingegnere – originario di Napoli, cresciuto alla scuola di Ennio Cascetta e docente a Tor Vergata chiamato al ministero nella struttura tecnica di Missione da Graziano Delrio – ha poi fornito una sua personale nota al ministro Danillo Toninelli con ulteriori elementi di valutazione su Tav, che si discostano dalle conclusioni ufficiali della relazione costi-benefici, chiedendo di pubblicarla. Il ministero però, ha chiarito che Coppola “a prescindere dalle valutazioni, non era comunque organico a questo studio”, a cui non ha partecipato. Non si è mai riunito con i tecnici né analizzato con loro i dati, salvo contestare l’esito finale. Tanto è bastato ieri per far diventare il caso una specie di giallo, con la “commissione spaccata” che campeggiava su tutti i siti, partito da una segnalazione di un perlamentare. Coppola, a quanto filtra, è l’esperto più critico della decisione di considerare tra i costi dell’analisi le mancate accise riscosse dallo Stato dovute al trasferimento del traffico merci dalla strada alla ferrovia, una metodologia però prevista dalle linee guida Ue e francesi e perfino nell’ultima analisi costi-benefici dell’Osservatorio Tav di Palazzo Chigi, favorevole all’opera. Coppola avrebbe sollevato gli stesi dubbi anche quando toccò all’analisi sul Terzo Valico ligure.

La furia dei pasdaran, uniti nel fanatismo

È come sottoporre un trattato del professor Burioni ai No-vax. Manco lo guardano: “Tutte puttanate”. Logica stringente: essendo il luminare favorevole ai vaccini, se dimostra che i vaccini servono ci sta imbrogliando. Il caso del Tav è ancor più agghiacciante. Il terrapiattista che rischia di far morire di morbillo il figlio per dimostrare che Burioni è un coglione, è un caso statisticamente inevitabile .

Ma sul Tav si manifesta il fanatismo di un’intera classe dirigente. I sedicenti competenti hanno intonato un coro da osteria contro l’economista Marco Ponti e gli altri autori dell’analisi costi-benefici, accusandoli di essere prevenuti. Il maestro del coro è il commissario di governo per Tav, Paolo Foietta, sedicente servitore dello Stato che ieri lo ha sobriamente servito dichiarando che “lo studio da farsa corre il rischio di trasformarsi in truffa”. Il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, altro uomo delle istituzioni definisce Ponti e gli altri “cinque capricciosi esperti No-Tav”, neanche avessero detto che Toninelli è nipote di Mubarak.

In nome dell’ambiente e della razionalità economica, i neofanatici vogliono rapinare i contribuenti per togliere i camion dall’autostrada meno trafficata d’Italia (e non, per esempio dall’A22 del Brennero, che è dieci volte più trafficata, ma lì i pedaggi li incassa anche la provincia di Reggio Emilia, cioè il collegio elettorale di Graziano Delrio). Da decenni molti autorevoli economisti spiegano con calma, come se parlassero a persone normali, che è un’idiozia. Per esempio Roberto Perotti, bocconiano, commissario alla spending review scelto da Matteo Renzi, lo ha detto già dieci anni fa: “Deturpare una vallata per ridurre le emissioni dell’1% al costo di 16 miliardi è un buon investimento per le imprese appaltatrici, ma non per il Paese”. Ponti dice le stesse cose da ancora prima, perché sono evidenti. Ma i nostri terrapiattisti, imitando i sottosegretari grillini che amano spernacchiare, ringhiano: “Questo lo dice lei”. Allora Ponti glielo spiega in 80 paginette in cui una delle frasi più tirate via è “P=V*Dj– Dj/Vf * V2 (1)”. È qui che i terrapiattisti ferroviari si incazzano e gli danno del falsario.

È proprio Delrio, ex ministro delle Infrastrutture che pure l’analisi costi-benefici l’aveva promessa senza mai farla, a dare il la: “Uno studio cieco e inaffidabile”. Il prossimo segretario Pd Nicola Zingaretti, gli fa eco: “Lo studio è manipolato da interessi politici”. Zingaretti deve sapere qualcosa, forse gliel’ha detto il fratello Montalbano. Par di vederlo Ponti, a 78 anni, che va da Toninelli e gli dice: “Dimmi Danilo, quale numero vuoi che ti manipoli? Vediamo: SO = SM × (1 – d) × (1 – t), che ne dici? Tolgo un meno e aggiungo un più? No, dai, Chiamparino se ne accorge”. E infatti il governatore del Piemonte, obiettivo come sempre, ha scoperto il gioco: “Affidare lo studio a Ponti è stato un po’ come affidare a Dracula la guardiania della banca del sangue”.

Poi c’è B., che ha il cemento al secondo posto tra i profumi preferiti: “Uno studio costruito apposta per dare ragione ai 5 stelle, ma è pieno di sciocchezze”. Paolo Zangrillo, fratello del suo medico messo in Parlamento, misura le parole: “Una pagliacciata”. Giorgia Meloni, fresca vincitrice delle regionali abruzzesi con i voti di Salvini, si adegua: “Una buffonata”.

Poi c’è la tragedia dei posti di lavoro. I trucchi di Ponti “ne faranno perdere 50 mila”, tuona il presidente della Confindustria Vincenzo Boccia. “Cinquanta mila, sì sì”, ripete la leader della Cisl Annamaria Furlan. In realtà i posti di lavoro dei cantieri Tav saranno 450 in media per dieci anni: una media impresa che si aggiungerà alle 4 mila già esistenti. E questo dato non se l’è inventato il No-Tav Ponti. È sul sito dell’Osservatorio di Foietta. La distanza da 450 a 50 mila misura la disperazione di chi riponeva nel grande affare speranze di vario tipo.