Un errore. O meglio, “un errore materiale macroscopico”, per usare le parole fatte filtrare ieri dal ministero delle Infrastrutture, con cui il conto delle presunte “penali” da pagare nel caso venisse fermato il Tav è lievitato da 1,7 a 4,2 miliardi. Cifra astronomica per un’opera i cui appalti principali non sono stati banditi, ma che è rimasta per ore su siti e agenzie prima che il ministero corresse ai ripari. Ieri il ministro Danilo Toninelli ha pubblicato, oltre all’analisi costi-benefici affidata alla task force di Marco Ponti, anche quella tecnico-giuridica. La prima serve a verificare se l’opera è un vantaggio per la collettività, la seconda a quantificare i costi di un eventuale stop. È stata coordinata dall’avvocato dello Stato Pasquale Pucciarello.
Il dossier è stato rivisto fino all’ultimo. Ed è proprio in extremis che è stata fatta la modifica che ha innescato l’errore. Nell’ultima bozza le penali erano quantificate in 1,7 miliardi nello scenario “massimo”, cioè peggiore (1,3 miliardi in quello minimo). È la somma di queste voci: da 16 a un massimo di 81 milioni come “penalità” per la violazione del Grant Agreement del 2015 che disciplina i finanziamenti dell’opera, anche quelli Ue; 400 milioni in caso di “integrale rivalsa” della Francia sui costi già sostenuti; 535 milioni di fondi già versati dall’Ue dal 2001 al 2015; altri 297 milioni rappresentano la quota di fondi Ue destinata alla Francia ma non ancora versata, su cui Parigi potrebbe “avanzare pretese risarcitorie”; infine si va dai 135 ai 405 milioni per rescindere i contratti già firmati per servizi di ingegneria e lavori. A quest’ultima cifra, nella bozza si arrivava applicando una percentuale dal 10 al 30% di possibile risarcimento sui contratti già firmati, quantificati al 31 agosto in 1,3 miliardi.
La segreteria tecnica del ministero ha deciso di eliminare il riferimento a questa cifra nella versione finale. È rimasto solo il rischio di dover pagare “un massimo del 30% dell’ammontare dell’importo della parte di utile ancora da conseguire al momento dello scioglimento dei contratti”.
L’Ansa ha applicato quella percentuale all’intero valore dell’opera, o meglio del tunnel di base, quantificato nel dossier in 9,9 miliardi. Così il costo di rescissione dei contratti è balzato da 400 milioni a 2,8 miliardi e il conto finale massimo delle penali è passato da 1,7 a 4,2 miliardi. Per quasi cinque ore la cifra è stata ripresa da telegiornali, siti e agenzie prima che il ministero fosse costretto a chiarire che si trattava di un “errore”, anche se motivato da una ragione tecnica. La spiegazione è questa: poiché la percentuale di potenziale risarcimento si applica solo al valore residuo, cioè quanto non ancora pagato dei soli contratti in essere, si è deciso di non inserire la cifra perché nel tempo possono essere saldati gli importi e quindi l’ammontare finale cambierebbe, mentre il dossier non può essere modificato. Al di là dei tecnicismi, oggi si scopre che degli 1,4 miliardi “già spesi” per lavori, 1,3 ancora non sono stati pagati. A ogni modo anche gli 1,7 miliardi “massimi” di penali sono assai incerti.
La relazione si basa sui numeri forniti dal costruttore italo-francese Telt ma spiega che gli importi massimi sono “difficilmente raggiungibili”, visto che “i molteplici profili evidenziati non consentono di determinare in maniera netta i costi in caso di scioglimento”. Insomma, dati certi non esistono, essendo coinvolti due Paesi, Italia e Francia, e un’entità sovranazionale come la Commissione Ue.
Che la Francia sia legittimata a chiedere i danni per i 400 milioni già spesi, visto che la relazione costi-benefici spiega che continuare a spendere è uno spreco, è da vedere. Il dossier giuridico ammette che “è lecito ipotizzare che la pretesa risarcitoria legittima difficilmente raggiungerebbe l’intero ammontare”, così come per i fondi non spesi che sarebbe costretta a restituire a Bruxelles. Anche sui contratti le stime sono, come negli altri casi, “puramente ipotetiche”: si va dal 10% di penali, di norma usato nel diritto italiano, al 30% ipotizzato nel caso di richieste francesi. L’analisi giuridica non quantifica i costi di ripristino dei luoghi e quelli ipotizzati da Telt per ammodernare la vecchia linea del Fréjus in caso di stop al Tav. I primi sono certi, i secondi non è detto che debbano essere spesi. In ogni caso ammontano, secondo il costruttore, a 1,8 miliardi. L’analisi costi-benefici di Ponti e compagnia ne tiene conto: anche con quelli risulta negativa per 5,7 miliardi.