Penali, l’ultimo pasticcio Ma il conto è 1,7 miliardi

Un errore. O meglio, “un errore materiale macroscopico”, per usare le parole fatte filtrare ieri dal ministero delle Infrastrutture, con cui il conto delle presunte “penali” da pagare nel caso venisse fermato il Tav è lievitato da 1,7 a 4,2 miliardi. Cifra astronomica per un’opera i cui appalti principali non sono stati banditi, ma che è rimasta per ore su siti e agenzie prima che il ministero corresse ai ripari. Ieri il ministro Danilo Toninelli ha pubblicato, oltre all’analisi costi-benefici affidata alla task force di Marco Ponti, anche quella tecnico-giuridica. La prima serve a verificare se l’opera è un vantaggio per la collettività, la seconda a quantificare i costi di un eventuale stop. È stata coordinata dall’avvocato dello Stato Pasquale Pucciarello.

Il dossier è stato rivisto fino all’ultimo. Ed è proprio in extremis che è stata fatta la modifica che ha innescato l’errore. Nell’ultima bozza le penali erano quantificate in 1,7 miliardi nello scenario “massimo”, cioè peggiore (1,3 miliardi in quello minimo). È la somma di queste voci: da 16 a un massimo di 81 milioni come “penalità” per la violazione del Grant Agreement del 2015 che disciplina i finanziamenti dell’opera, anche quelli Ue; 400 milioni in caso di “integrale rivalsa” della Francia sui costi già sostenuti; 535 milioni di fondi già versati dall’Ue dal 2001 al 2015; altri 297 milioni rappresentano la quota di fondi Ue destinata alla Francia ma non ancora versata, su cui Parigi potrebbe “avanzare pretese risarcitorie”; infine si va dai 135 ai 405 milioni per rescindere i contratti già firmati per servizi di ingegneria e lavori. A quest’ultima cifra, nella bozza si arrivava applicando una percentuale dal 10 al 30% di possibile risarcimento sui contratti già firmati, quantificati al 31 agosto in 1,3 miliardi.

La segreteria tecnica del ministero ha deciso di eliminare il riferimento a questa cifra nella versione finale. È rimasto solo il rischio di dover pagare “un massimo del 30% dell’ammontare dell’importo della parte di utile ancora da conseguire al momento dello scioglimento dei contratti”.

L’Ansa ha applicato quella percentuale all’intero valore dell’opera, o meglio del tunnel di base, quantificato nel dossier in 9,9 miliardi. Così il costo di rescissione dei contratti è balzato da 400 milioni a 2,8 miliardi e il conto finale massimo delle penali è passato da 1,7 a 4,2 miliardi. Per quasi cinque ore la cifra è stata ripresa da telegiornali, siti e agenzie prima che il ministero fosse costretto a chiarire che si trattava di un “errore”, anche se motivato da una ragione tecnica. La spiegazione è questa: poiché la percentuale di potenziale risarcimento si applica solo al valore residuo, cioè quanto non ancora pagato dei soli contratti in essere, si è deciso di non inserire la cifra perché nel tempo possono essere saldati gli importi e quindi l’ammontare finale cambierebbe, mentre il dossier non può essere modificato. Al di là dei tecnicismi, oggi si scopre che degli 1,4 miliardi “già spesi” per lavori, 1,3 ancora non sono stati pagati. A ogni modo anche gli 1,7 miliardi “massimi” di penali sono assai incerti.

La relazione si basa sui numeri forniti dal costruttore italo-francese Telt ma spiega che gli importi massimi sono “difficilmente raggiungibili”, visto che “i molteplici profili evidenziati non consentono di determinare in maniera netta i costi in caso di scioglimento”. Insomma, dati certi non esistono, essendo coinvolti due Paesi, Italia e Francia, e un’entità sovranazionale come la Commissione Ue.

Che la Francia sia legittimata a chiedere i danni per i 400 milioni già spesi, visto che la relazione costi-benefici spiega che continuare a spendere è uno spreco, è da vedere. Il dossier giuridico ammette che “è lecito ipotizzare che la pretesa risarcitoria legittima difficilmente raggiungerebbe l’intero ammontare”, così come per i fondi non spesi che sarebbe costretta a restituire a Bruxelles. Anche sui contratti le stime sono, come negli altri casi, “puramente ipotetiche”: si va dal 10% di penali, di norma usato nel diritto italiano, al 30% ipotizzato nel caso di richieste francesi. L’analisi giuridica non quantifica i costi di ripristino dei luoghi e quelli ipotizzati da Telt per ammodernare la vecchia linea del Fréjus in caso di stop al Tav. I primi sono certi, i secondi non è detto che debbano essere spesi. In ogni caso ammontano, secondo il costruttore, a 1,8 miliardi. L’analisi costi-benefici di Ponti e compagnia ne tiene conto: anche con quelli risulta negativa per 5,7 miliardi.

Arrivano i numeri e sparisce il governo: sul Tav tutti muti

Nel giorno in cui il ministero delle Infrastrutture pubblica l’analisi costi-benefici sull’alta velocità Torino-Lione, anticipata dal Fatto e ampiamente negativa, non si può non convenire col capo della commissione che ha steso il rapporto, Marco Ponti, professore in pensione di Economia applicata al Politecnico di Milano e consulente per 13 anni della Banca mondiale: “Sembra che l’Italia sia impazzita. Il Tav si è caricato di significati metafisici”, politica e opinione pubblica si sono “troppo radicalizzate”. Piccola consolazione: “Non succede solo qui: una cosa simile mi capitò a San Francisco per un ponte o nel Regno Unito per la nuova Londra-Edimburgo, ma rimane una follia. L’importante è che resti la cultura del fare i conti sulle opere, è una conquista civile, poi la decisione resta politica”. Prima di decidere, però, la politica non ci ha risparmiato un coretto di reazioni senza alcun rapporto con la suddetta cultura dei numeri, tentando soprattutto di negare alla radice la validità dell’analisi di Ponti & C., a volte con esiti comici: il quasi ex commissario governativo per il Tav, Paolo Foietta, per dire, ha attaccato duramente l’analisi nonostante uno dei due scenari che “condannano” l’opera sia basato sui numeri del suo Osservatorio (“perde lo stipendio, è comprensibile che sia nervoso”, la stilettata di Ponti).

La politica, dicevamo. Il Pd, Forza Italia e FdI sono per fare il tunnel in ogni caso, subito, senza neanche sapere cosa ci passa e perché: per questi tre partiti, pur così diversi tra loro, l’analisi pubblicata dal ministero è “carta straccia”, basata su “dati falsi”, “manipolata da interessi politici” e via così. Prove? Nisba. Anzi, una c’è, denuncia il dem piemontese Gariglio: uno dei membri della commissione – Pierluigi Coppola, “l’unico esperto neutrale” (?) – non ha firmato l’analisi, che quindi va “invalidata” (?). Peccato che Coppola non abbia proprio partecipato allo studio, ma ha avuto modo – ci informa l’Ansa – di consegnare a Toninelli “una nota con ulteriori elementi di valutazione sulla Tav, che si discostano dalle conclusioni ufficiali della relazione costi-benefici” chiedendone “la pubblicazione” (?).

Fin qui, si dirà, è l’opposizione che fa il suo mestiere. E il governo? Che fa? Niente. L’unica presa di posizione degna di nota, per quanto scontata, è quella di Danilo Toninelli, che affida le sue parole a una nota scritta mattutina e poi tace per il resto della giornata: “Come ciascuno adesso può vedere da sé, i numeri dell’analisi economica e trasportistica sono estremamente negativi, direi impietosi: stiamo parlando di costi che, su un trentennio di esercizio dell’opera, superano i benefici di quasi 8 miliardi, tenendo conto del solo esborso per il completamento”.

Per il resto – al fuoco di fila di dichiarazioni che comprende pure un grande momento di tv tra un Silvio Berlusconi convinto di aver vinto in Abruzzo e Barbara D’Urso – non si sono aggiunti i leader di M5S e Lega, che al contrario svicolano che è un piacere: Salvini rilancia sul referendum ma sostiene, come Giorgetti, di non aver letto lo studio (“ma resto della mia idea”, dice in serata distruggendo decenni di epistemologia); Luigi Di Maio si è addirittura smaterializzato dopo la scoppola abruzzese e ieri non ha partecipato a un vertice con Conte a Palazzo Chigi a metà mattina, preferendo dedicarsi a un paio di tavoli tecnici al ministero dello Sviluppo, pezzi di mobilio – per così dire – poco frequentati finora dal capo politico grillino.

Sono rimaste in campo, dunque, le seconde, terze e quarte linee, che hanno ribadito come un sol uomo le posizioni del partito come sono sempre state: i 5 Stelle contrari al Tav e i leghisti a favore. I primi si fanno forti dell’analisi costi-benefici appena pubblicata, i secondi – per non citare che il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari, piemontese – sostengono che “è un’analisi tecnica come un’altra, non il Vangelo”. In sostanza, la posizione della Lega è: il Tav va fatto, volendo si può rimpicciolire, al massimo facciamo il referendum. Tutto come prima. E la “cultura del fare i conti”? Magari la prossima volta.

Ora, non dovessero arrivare novità nella notte, del Tav potranno discutere oggi almeno fra loro: entro la mezzanotte andrebbe nominato il commissario Inps, visto che l’incarico di Tito Boeri scade domani. Lì non c’è l’analisi costi-benefici, ma una posizione comune manca lo stesso: favorita, pare, sarebbe Marina Calderone (quota Lega), la numero 1 dei consulenti del lavoro italiani che arriverebbe all’ente previdenziale con un bel conflitto d’interessi al seguito (l’interessata, peraltro, pare tentenni per motivi economici).

I vedovi

La vedovanza è sempre una condizione penosa, dunque i vedovi del Tav meritano grande rispetto, oltre alle condoglianze di rito. Dev’essere terribile perdere all’improvviso la compagna di una vita (la chiamano “la Tav”). E ancor più doloroso scoprire che era un compagno (un treno merci). Né può sollevarli apprendere che quel compagno non è mai esistito: il buco di 57 km a cui avevano dedicato 30 anni di vita era solo il frutto della loro fantasia, meno consistente di una bambola gonfiabile. Così come il “cantiere” che i poveri umarell ogni tanto visitavano, senza che nessuno li avvertisse che era solo per un paio di buchetti esplorativi. Così ora non avranno neppure una tomba su cui piangere, né una bara vuota su cui deporre fiori. Il caro estinto era molto caro, questo sì: 1,4 miliardi già spesi per fingere di fare una cosa inutile che alla fine della fiera ce ne avrebbe fatti perdere altri 7 o 8.

Un Paese serio, dopo il rapporto costi-benefici del governo, la finirebbe qui. Ma siamo in Italia, dunque il coro dei vedovi e delle prefiche seguiterà a strillare un altro po’. Chi ha pagato mazzette e vorrebbe avere qualcosa in cambio. Chi le ha prese e teme di doverle restituire. Chi aveva promesso a costruttori e coop rosse una paccata di soldi nostri e ora deve render conto. E i trombettieri del Tav travestiti da giornalisti, che spacciavano per oro colato i dati farlocchi della Banda del Buco, vaneggiando di collegamenti con la Francia e l’Europa (già collegate), di mega-boom del Pil, di mirabolanti vantaggi ambientali, di miracoli che tramutano i Tir in treni e la gomma in rotaia, di nuove Transiberiane da Lisbona a Kiev (disegnate a pennarello). Dovrebbero ammettere di aver raccontato un sacco di balle. Oppure, vedi Repubblica e l’Espresso, spiegare perché fino a pochi anni fa pubblicavano le inchieste di Luca Rastello e Tommaso Cerno (e anche commenti di Adriano Sofri) contro il Tav e ora, proprio in articulo mortis, hanno sposato il carissimo estinto, unendo le nozze alle esequie. Le prime reazioni frignanti dei vedovi inconsolabili all’atto di morte di 80 pagine consegnato al governo dal prof. Ponti e dai suoi 4 colleghi sono peggio di quelle dei No Vax o dei fan di Stamina dinanzi alle evidenze scientifiche: perché, diversamente da questi, quelli si piccano di essere moderni, istruiti, scientifici, competenti. Anzi, passano il tempo a denunciare le fake news degli altri. Purtroppo, dinanzi alle decine di tabelle, dati e calcoli scientifici dei cinque esperti, non oppongono nulla che ricordi non dico la scienza, ma neppure la tabellina del 2.

Che so, un’addizione, una sottrazione, una divisione, una moltiplicazione sbagliata. No: frignano e basta. Del resto la loro analisi costi-benefici era affidata a 7 madamine torinesi, note scienziate, al momento disperse. L’analisi vera dice che i benefici del Tav sono di 800 milioni, non di 20 miliardi come dicevano i costruttori Telt? E vabbè, pazienza. Le merci necessarie per giustificare l’opera dovrebbero essere 25 volte quelle attualmente circolanti, e anche in quel caso il Tav sarebbe in perdita, visti i 2 mila Tir giornalieri al Fréjus contro gli 80 mila sulla tangenziale di Torino? Massì, dai, arrotondiamo. La Co2 risparmiata sarebbe lo 0,12% delle emissioni nazionali? Che sarà mai. Il guadagno di tempo da Milano a Lione sarebbe di 1 minuto e 20 secondi? Vuoi mettere. Nessuno prova a smentire un solo dato. Meglio affidarsi alle supercazzole. Per Repubblica l’analisi di Ponti&C. è “una partita truccata perché 5 tecnici su 6 erano schierati” (cioè avevano dei dati e delle idee anche prima, e sono rimasti coerenti), mentre “il sesto, Pierluigi Coppola, non ha ritenuto sottoscrivibile il documento: una spaccatura che mette in discussione la terzietà delle conclusioni”. Cioè: 5 dicono una cosa, il sesto ne dice un’altra (non si sa quale) e chi vince? Il sesto: “l’unico a non aver espresso in precedenza una opinione negativa sul progetto” (era Sì Tav, quindi era imparziale; invece gli altri non sono “terzi” (infatti sono quintupli).

Un altro bel vedovo, l’ex capo dell’Osservatorio di governo Paolo Foietta, parla di “analisi-truffa”. Smentisce almeno un calcolo? No, però “i tecnici hanno attaccato il carro dove voleva il padrone”. Il guaio è che Ponti non ha padroni e lavora gratis, mentre lui un padrone ce l’aveva: i governi Sì Tav che lo pagavano. Chiamparino, ex sindaco, ex banchiere e si spera presto ex governatore del Piemonte, dice che è “come affidare a Dracula la sorveglianza sulla banca del sangue”. Buona questa, infatti non è sua: è di Grillo su Gava ministro dell’Interno. Ma qui l’unico Dracula è Chiamparino, che svuotò le casse del Comune con le Olimpiadi del 2006 e ora vorrebbe proseguire l’opera con le casse dello Stato. Il nostro vedovo preferito è il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, noto collezionista di fiaschi: “L’apertura di questi cantieri a regime determina 50 mila posti di lavoro”. Tutte balle: l’occupazione prevista è di 4 mila addetti che, per un’opera da almeno 13 miliardi, ci costerebbero 3,2 milioni a cranio. Prezzi modici. Massima solidarietà a Marco Imarisio del Corriere, che ha dedicato gli ultimi dieci anni a dipingere il Tav come la nona meraviglia del mondo, i No Tav come le nuove Br e le madamine come le reincarnazioni di madame Curie. “Le cifre catastrofiche citate nel documento – scrive, senza smentirne mezza – non corrispondono affatto alla verità assoluta, ma alle personali convinzioni del gruppo di studiosi… Per citare lo stesso prof. Ponti, i ‘suoi’ risultati sono frutto di studi e metodi personali”. Ma va? Un analista utilizza i suoi metodi personali, anziché quelli delle madamine. E manco una telefonata a Imarisio. Ma sarà legale?

Occhio all’ascolto: “Soldi” vince ancora poi si “classificano” Ultimo e Irama

Non ha ancora deciso se andrà all’Eurovision Song Contest (“grande impegno, ci devo pensare”), ha diviso anche nelle opinioni l’ex coppia Salvini-Isoardi, ma ha già sbancato le classifiche con il suo all-in sulla roulette sanremese. Tutta l’Italia canta Mahmood: e lo scarica su Spotify. In meno di due giorni dalla conclusione del Festival, Soldi è già boom per gli streaming: quasi un milione e mezzo, e a poche migliaia di download dal record assoluto, detenuto da Sferaebbasta & Ghali con la loro collaborazione dello scorso anno su Peace & Love. Centomila clic sono arrivati pure dall’estero per il trapper meneghino, e la sua canzone è la più trasmessa dalle radio. Il sorpasso su Ultimo non si è dunque verificato solo sul palco dell’Ariston, ma anche nella hit parade. Il cantautore di San Basilio, che era stato in testa alla top 50 italiana di Spotify per tutta la settimana della kermesse baglionesca, è ora in seconda posizione: più di 900mila stream per la sofferta ballata I tuoi particolari (dedicata alla sua ormai ex fidanzata), quasi a voler ribadire la plausibilità del verdetto in Riviera. Al terzo posto Irama, a lungo giudicato dai bookmaker un possibile outsider per la vittoria a Sanremo con il gospel-pop de La ragazza con Il cuore di latta e la sua scomoda storia di un incesto: quasi 700mila ascolti per l’ex idolo di Amici. In quarta piazza altri due beniamini dei teenager, Federica Carta e Shade (438mila) seguiti a un’incollatura dall’ineffabile Achille Lauro (432mila) e dai Boomdabash. Due posti più gìù, dopo l’intruso Coez, c’è un altro presidio festivaliero, con Loredana Berté. Quindi Nigiotti. Inevitabilmente, Sanremo rules.

Dai soldati alle élite: regolamento che fai, polemiche che trovi

Soldati, sindacalisti, schedine truccate, denunce, brogli (o presunti tali), persino inchieste. L’edizione appena conclusa, con il trionfo di Mahmood e le proteste di Ultimo, non fa eccezione: la scelta del vincitore di Sanremo è sempre stata fonte di polemiche. Stavolta è diventata addirittura un caso politico, scontro ideologico tra popolo e élite: da una parte il televoto e il giudizio dei cittadini, dall’altra gli intellettuali della giuria d’onore e della sala stampa. In mezzo cantanti e canzoni, persino politici con gli interventi dei vicepremier Salvini e Di Maio. Davvero troppo per pensare che il Festival non cambierà il prossimo anno.

Lo ha lasciato intendere Claudio Baglioni (“Questo mix non funziona”), e soprattutto Marcello Foa, presidente della nuova Rai gialloverde: “Il sistema va corretto perché il pubblico si senta rappresentato”. Il problema è come, perché quello tra esperti e spettatori, qualità e quantità, è da sempre un equilibrio precario, stravolto decine di volte nella storia del Festival. Attualmente il regolamento dà al televoto un peso del 50%, con l’altra metà divisa tra sala stampa (30%) e giuria d’onore (20%): è lo stesso meccanismo che l’anno scorso assegnò la vittoria alla coppia Ermal Meta-Fabrizio Moro, e che andava avanti con percentuali leggermente variate da cinque edizioni. Con una differenza, però: dal 2018 nella serata finale alla giuria demoscopica è stata sostituita la sala stampa, spostando così l’equilibrio dagli spettatori agli esperti. Dal popolo all’élite, appunto. Ma non è sempre stato così.

Gli annali riportano ancora i nomi dei giurati delle prime due edizioni: vertici istituzionali, persino il presentatore Nunzio Filogamo (immaginate oggi le polemiche con Baglioni in giuria…) e una non meglio identificata “signora” del pubblico. Da allora sono state tentate le formule più disparate: giurie popolari in sala o dislocate in varie città, a metà degli Anni Sessanta i primi collegi di esperti per ripescare le canzoni scartate ingiustamente (non lo fecero però nel ’67, l’edizione del suicidio di Luigi Tenco, con la sua Ciao amore ciao). E ancora: vip, musicisti, soldati (come nel ’75: trionfò la sconosciuta Gilda), persino sindacalisti (nel ’78). Nel 1983 la rivoluzione del Totip, con il voto associato alle schedine per garantire più partecipazione popolare, nel 2004 l’avvento del moderno televoto, abbinato ad altre giurie o da solo.

Il Festival non ha mai trovato pace: ogni epoca ha conosciuto le sue polemiche. Gli scandali più clamorosi li ricordiamo bene perché sono anche i più recenti: nel 1996, l’anno del successo di Ron e Tosca su Elio e le storie tese, il Festival finì addirittura in procura, con un’inchiesta che pur archiviata portò alla luce una serie di storture. Anche la via del televoto, oggi invocata da più parti, ha alimentato sospetti di manipolazioni e malfunzionamenti: come nel 2010, con la rivolta dell’orchestra (un unicum nella storia sanremese) per il podio del trio Pupo, Emanuele Filiberto e Luca Canonici, a loro volta beffati da Valerio Scanu con una strana affluenza di preferenze negli ultimi minuti.

Questi sono gli anni più difficili per il Festival: quelli in cui la finale viene decisa tutta da casa e si moltiplicano i vincitori usciti dai talent (Marco Carta, Scanu, Emma Marrone), che possono contare su orde di giovani fan scatenati col telefonino. Tanto che il televoto viene messo in discussione: non cancellato (anche perché alla Rai frutta centinaia di migliaia di euro), solo ridimensionato. È così che si è arrivati alla formula attuale, col televoto al 50%, che sembrava funzionare. Ma era solo un’illusione. Adesso le regole probabilmente cambieranno di nuovo. Le polemiche, invece, continueranno.

Brizzi zen riparte dal “cerchio di fiducia” e dal telefono spento

“Non è una rivincita, ma il mio lavoro”. A pochi giorni dall’archiviazione delle accuse di violenza sessuale a suo carico, Fausto Brizzi torna con Modalità aereo, dal 21 febbraio su 400 schermi con 01 Distribution: “‘Ritorno al cinema’ mi fa sorridere, nel 2017 avevo un film da me diretto (Poveri ma ricchissimi, ndr), poi ho scritto il vincitore delle ultime Feste (Amici come prima, ndr), e ora eccomi con un altro titolo. Semplicemente, ero in modalità aereo, ovvero meno visibile del solito”.

Al centro della commedia un ricco, libertino e molto social imprenditore vinicolo, Diego Gardini (Paolo Ruffini), che dimentica lo smartphone nei bagni dell’aeroporto di Fiumicino prima di imbarcarsi per Sydney: nelle 24 ore di volo la sua vita viene distrutta, complice l’addetto alle pulizie Ivano (Lillo) che si impossessa del telefonino e twitta a sua insaputa.

Anche sceneggiatore con Ruffini e Herbert Simone Paragnani, Brizzi parla di “favola disneyana”, cita Una poltrona per due di John Landis per ispirazione e Scrooge quale modello per il protagonista, ma sono ovviamente le sue vicissitudini personali a tenere banco: “Faccio autobiografia da sempre, da Notte prima degli esami. Qui parlo della schiavitù dei telefonini, ma non a caso è un film sull’amicizia, sull’importanza di un gruppo di amici, di un cerchio della fiducia, che ti raccoglie quando sei in difficoltà”. Alcuni li individua nel cast, dove accanto a Ruffini e Lillo ci sono Violante Placido, Dino Abbrescia e Caterina Guzzanti, un altro sodale è Luca Barbareschi, che al fianco di Rai Cinema produce con Casanova Multimedia e ha messo Fausto a capo di Eliseo Cinema: “Luca mi ha dato fiducia, ha scommesso sul mio buonumore, e non era così scontato”.

Oltre al buonumore, giacché pur con una costruzione intorcinata e qualche debolezza drammaturgica, Modalità aereo è comunque superiore alla media delle commedie italiane ultime scorse, Brizzi mostra clemenza: non ne ha per Wildside, la società cinetelevisiva da lui co-fondata nel 2009 e di cui vendette precipitosamente le proprie quote (5%) all’indomani dello scandalo, né per Warner Bros., che decise di non coinvolgerlo nella promozione di Poveri ma ricchissimi, uscito il 14 dicembre del 2017. Sul primo versante, Fausto sconfessa ogni parallelismo tra le proprie sorti e quelle del Diego di Ruffini, che viene esautorato dall’azienda di famiglia per i “danni d’immagine” arrecati alla stessa: “Ho protetto Wildside, non erano solo i miei soci, ma i miei amici, e andavano salvaguardati dalle possibili conseguenze, da un danno che al momento non era calcolabile”. O forse sì: si temeva grandemente per l’Amica geniale, prodotto da Wildside e Fandango con l’americana Hbo (qui stava il pericolo, in epoca #metoo), e l’amico Brizzi dovette scansarsi, per il bene di tutti. Sul secondo versante, minimizza: “Il mio nome era nei titoli di Poveri ma ricchissimi, non c’ero in conferenza stampa per una questione d’opportunità, avrei finito per catalizzare le domande”.

Viceversa, Fausto ce l’ha con la stampa e i social: “Sono molto pericolosi i media, un tweet può rovinarti la vita, oggi è tutto dentro quella scatoletta che abbiamo in tasca e che può diventarti nemica”. Ma sono accuse generiche, persino tiepide, perché la parola d’ordine è “gentilezza” e l’invito a staccare: “Bisogna vivere in modalità aereo, perché è lì che ci accadono le cose più belle della vita”. Eppure, qualche oggetto di scena (la Jacuzzi) e qualche battuta raccontano un’altra storia, quantomeno la evocano: “Ci sono uomini che ci provano e uomini che ci riescono”, “Ogni avvenimento, anche il più spiacevole, accade per insegnarci qualcosa”, “Quella è una profumiera, te la fa annusare”, “La regola è non scoraggiarsi, anche un calcio in culo ci fa andare avanti”. Modalità silenziosa, non era meglio?

 

Mahmood e gli altri nati ai bordi di periferia

Questi si affacciano sul Raccordo, quelli sulla Tangenziale. Due cinture metropolitane. Ma una puoi viverla come un abbraccio, l’altra come una stretta soffocante. Roma e Milano, coi ragazzi di periferia che alzano il volume sopra il rombo delle auto, e la certezza che se vuoi avventurarti altrove non potrai farlo a piedi, e con pochi spiccioli in tasca. Le due capitali e un derby per la supremazia della nuova scena musicale: anche se molti campioni del trap, del pop e dell’indie li trovi ovunque, da Genova a Rieti passando per Bologna e Napoli. Ma le due metropoli si guardano allo specchio, in cagnesco, per una contesa socio-antropologica che va oltre le differenze di stile tra gli artefici del Suono di fine decennio. I romani rivendicano con orgoglio la natura di figli della Città Estrema, mentre i milanesi sognano di emanciparsi dall’hinterland, corrono appena possono a Corso Como, si immaginano in un superattico al Bosco Verticale. I coatti e gli zarri, eserciti con strategie opposte.

I capitolini si nutrono di indolenza, non gliene frega niente di conquistare i Parioli o l’Aventino: se ne stanno rintanati nei quartieri della cerchia esterna e nelle borgate perché lì trovano carburante per l’anima, guai a sradicarli, vivrebbero come una colpa il trasloco nelle strade chic, nelle loro orecchie risuonerebbe l’eco del rimprovero della loro gente, quella che resta lì, dove sai che sarà sempre casa tua, e gli amici sapranno come farti stare bene. C’è un fondo di neorealismo, negli spiriti dei musicisti romani: è qualcosa che vivono sottopelle, guai a pretendere una metamorfosi. Al massimo si spostano di giorno a San Lorenzo o all’Ostiense, così come vent’anni fa i breaker e i rapper partivano dai capolinea della metro e si radunavano al Corso o a Piazzale Flaminio. Poi di notte a casa con l’ultima corsa, come faceva il Piotta verso Montesacro, e i Cor Veleno, i Colle del Fomento. Ancora oggi è così: punti un dito sulla mappa e vedi che Gemitaiz è della Serpentara, Coez (salernitano, ma da sempre a Roma) apre la finestra e sente il vocìo della Garbatella, Noyz Narcos vaga tra Prenestina e Casilina, e Lady Larry, la stella rosa della galassia dell’Urbe, rappa sulla Collatina. Se abitano nel cuore della città quasi si giustificano: i tre della Dark Polo Gang sono stati bambini tra Monti e Campo de’ Fiori, “ma quando ancora c’erano le puttane per le vie, e non ci abitavano i vip”, spiegano. Carl Brave e Franco 126 (ieri in duo, oggi solisti) gravitano attorno alla Trastevere di Via Glorioso, i 126 gradini della scalinata dove vivacchiava la loro crew, e risiedeva Sergio Leone. Ma con quella smagatezza, li senti affini alle strade lontane dal Fiume: laggiù dove, come a San Basilio, trovi da tempo più cantautori che rapper. Vedi Fabrizio Moro, Mannarino o l’inquieto Ultimo. Aree di confine, dove se vedi i fuochi in cielo non è una festa ma il segnale che è arrivata una nuova partita di droga. Accade anche poco distante, nel Tufello del freestyle di Rancore o di un trapper riconvertito al punk allusivo come Achille Lauro. Lui sì, se n’è andato, è emigrato a Milano.

Lassù, nel capoluogo lombardo, i nuovi idoli non vivono comodamente nelle tane di periferia: premono per uscirne in fretta, vogliono lasciarsi alle spalle quel senso di spiazzamento urbano che li svuota dentro, spingono per affrancarsi dal destino di emarginati. C’è chi lo fa con sensatezza, come Ghali (da Baggio) o Mahmood (dal Gratosoglio), che prima di vincere Sanremo si è consolidato come autore per Mengoni, Elodie, Fabri Fibra. Chi invece con la sfrontatezza di credersi una star adornata di Rolex, come Sferaebbasta. Alcuni sono riusciti a scappare: Fedez da Buccinasco, J-Ax da Cologno, Emis Killa da Vimercate. Pensi ai Club Dogo e rivedi Guè Pequeno a Lambrate e Jake la Furia a Corvetto. Passeggi per la Barona e ripensi a quando Marracash fece scena portando lì un elefante. “Amo Milano”, cantava Dargen D’Amico, guardando fuori dalla vetrina di un bar deserto del quartiere Isola, “l’occasione mancata per L’avan-garde, l’isola che non c’è della mia città, che sfoggia la sua magia triste”, commentava lui, scherzando sulle Cinque Giornate, che non sono Risorgimento ma il conto di una settimana: “Cinque di operatività e due di aperitività”. Ecco, il centro. Ci puoi capitare partendo da lontanissimo, come Salmo da Olbia, o come la misteriosa Myss Keta, che si esibisce in maschera, non vuol far sapere chi sia ma quando prende di mira “Le ragazze di Porta Venezia” sai che lei non abita lì. Anche se forse lo vorrebbe.

Venezuela, governo su posizioni opposte

Oggi il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, sarà in Parlamento a riferire sul Venezuela, su richiesta delle opposizioni. Previsto il voto delle mozioni. E così proprio la politica estera sarà la prima prova da affrontare per Lega e Cinque Stelle dopo il voto in Abruzzo. Sul Venezuela le due forze di governo continuano a essere su posizioni opposte, con il Carroccio di Salvini che ripete appoggio al presidente “auto-proclamato” Juan Guaidò e i Cinque Stelle vicini a Maduro. Ieri Salvini è stato l’unico ad accettare l’invito di Guaidò e a incontrare una delegazione di venezuelani – che è stata anche ricevuta in Vaticano – composta dal presidente della Commissione Esteri dell’Assemblea nazionale venezuelana, Francisco Sucre, accompagnato dall’ex sindaco di Caracas, Antonio Ledezma, e da Rodrigo Diamanti, rappresentante di Juan Guaidó per gli aiuti di emergenza provenienti dall’Europa. Ha pure telefonato al presidente incaricato, promettendogli il suo sostegno a elezioni libere.

E in serata in tv a Porta a Porta ha ribadito: “Sto Maduro prima se ne va meglio è”. L’“alleanza” con Guaidò funziona, tanto è vero che il leader del Parlamento di Caracas ha poi mandato una lettera-appello agli italiani nel quale ha espresso “profondo sconcerto” per “la posizione politica italiana” che non lo ha ancora riconosciuto come presidente.

Non hanno accolto l’invito a un incontro, invece, né Giuseppe Conte, né Di Maio. Ma a parlare con la delegazione a nome del governo è stato lo stesso Moavero. Che in questi giorni, però, è sotto tiro: da più parti, anche ai piani alti della Lega, viene criticato per la sua gestione non solo della crisi venezuelana, ma pure di quella francese.

Così, mentre Forza Italia ha presentato la sua mozione che richiede il riconoscimento di Guaidò, la maggioranza sta lavorando a una bozza, che dica tutto e niente e permetta a entrambe le forze di votarla.

Si impegna il governo “a sostenere gli sforzi di dialogo – anche attraverso fori multilaterali – al fine di procedere, nei tempi più rapidi, alla convocazione di nuove elezioni presidenziali che siano libere, credibili e in conformità con l’ordinamento costituzionale”, prevede il testo. Nel dispositivo si sollecitano anche iniziative umanitarie, per lo stop alle violenze e per la tutela degli italiani che vivono nel Paese. Trattativa in corso su come nominare Maduro. L’indicazione sarebbe quella di riconoscere l’Assemblea eletta, ma non esplicitamente lui.

Intanto Maduro ha dato il via a esercitazioni militari per i 200 anni del Congresso di Angostura, con l’obiettivo di ostentare le capacità dell’esercito. Dopo la Colombia, anche il Brasile annuncia l’apertura di un deposito vicino al confine per immagazzinare gli aiuti umanitari internazionali. Elvis Amoroso, Controllore generale – incarico con funzioni equivalenti a quelle della Corte dei Conti – ha annunciato l’apertura di un’indagine sul patrimonio di Guaidò: avrebbe “falsificato dati contenuti nella dichiarazione giurata” e “ricevuto denaro dall’estero, senza giustificarlo”.

Catalogna, i leader dietro le sbarre tranne Puigdemont

inviata a Madrid

Inizia oggi a Madrid sotto i peggiori auspici sociali e nel contesto politico più convulso degli ultimi anni il processo ai leader indipendentisti catalani che il 1° ottobre 2017 portarono a compimento il cosiddetto “proces”: il divorzio della Catalogna dal resto della Spagna con un referendum non riconosciuto dalla Costituzione e l’unilaterale proclamata di indipendenza il 27 aprile del 2017.

Il clima si è fatto teso da qualche settimana inasprendosi definitivamente sabato scorso, allorché le destre spagnole hanno colto l’occasione per indire per la domenica una manifestazione contro la proposta del governo socialista di Pedro Sanchez – ritirata poche ore dopo – di riaprire attraverso un “mediatore” il dialogo con il governo catalano pronto con Erc e PdeCat a bloccare con un super-emendamento la fiducia al Bilancio dello Stato in agenda al congresso dei deputati proprio per domani.

“Manifestazione fallita” gridano la sinistra e Podemos. In piazza a Madrid infatti non c’erano più di 200 mila persone e la foto finale dei leader della destra in piazza Colon sembrava più di posa che di convinzione. Sicuramente una mobilitazione dovuta questa, soprattutto per accondiscendenza – è l’accusa unanime degli altri partiti ai popolari di Pablo Casado – nei confronti di Vox, il partito di ultradestra appena insediatosi in Andalusia insieme al Pp e a Ciudadanos. La nuova formazione infatti è salita alla rapida ribalta proprio grazie agli slogan contro la “collusione” di Sanchez con gli indipendentisti “spacca paese”. Intanto il presidente catalano Quim Torra chiede di tornare a dialogare con il governo, proprio in nome di quella mancata adesione alla protesta di domenica. Al centro di questi intrecci che rischiano di far cadere il governo – che pare stia valutando la possibilità di convocare elezioni anticipate il 14 aprile – o lo stesso giorno di europee e municipali – il Tribunale supremo di Madrid apre le porte al proces che sarà trasmesso anche in streaming e sulla tv pubblica in diretta, per accogliere in parte la richiesta della difesa che alle udienze partecipassero osservatori internazionali.

Sul banco degli imputati saliranno oggi in tutto 12 leader, nove dei quali si trovano in prigione, trasferiti dalle carceri catalane di Lledoners e Puig de les Basses a quelle madrilene di Soto del Real e Alcalá-Meco: tra loro Oriol Junqueras, ex vicepresidente della Generalitat che rischia 25 anni carcere per ribellione aggravata da malversazione, gli ex consiglieri del presidente Carles Puigdemont, Joaquim Forn, Jordi Turull, Josep Rull, Raül Romeva e Dolors Bassa 16 anni per gli stessi reati; i “Jordi” Sànchez e Cuixart – rispettivamente leader dell’Assemblea nazionale catalana e dell’associazione Òmnium – e l’ex presidente del Parlamento catalano Carme Forcadell rischiano 17 anni di prigione per ribellione. Gli altri tre, in libertà provvisionale, sono accusati di malversazioni di fondi pubblici e disobbedienza. Si tratta di Carles Mundò, ex consigliere di Giustizia, Metirxell Borras, ex consigliera del Governo, e Santi Vila, ex consigliere per le imprese e l’educazione del Generalitat catalana.

A testimoniare saranno un lungo elenco di politici, tra cui l’allora premier Mariano Rajoy, la sua vicepresidente Soraya Sáenz de Santamaría e il ministro del Tesoro, Cristóbal Montoro che dovrà pronunciarsi sui fatti in relazione all’accusa di malversazione, la sindaca di Barcellona Ada Colau oltre all’attuale presidente del Parlamento catalano Roger Torrent. Il Tribunale di Madrid ha invece rifiutato le testimonianze di Carles Puigdemont, altro imputato latitante, condizione “incompatibile” con l’obbligo di testimonianza, il re Felipe VI, perché vietato dalla legge spagnola e l’attuale portavoce al Senato del Partito Popolare Ignacio Cosidó, che aveva accusato l’Alto Tribunale di essere politicizzato.

A difenderli gli stessi avvocati, ma con strategie diverse. Mentre alcuni pensano di poter essere assolti con il codice penale alla mano, altri mettono in dubbio l’imparzialità del tribunale, lo accusano di ingerenze politiche e credono che l’avranno vinta solo davanti al Tribunale europeo dei diritti umani di Strasburgo. Di certo c’è che mentre il Tribunale da oggi proverà a dimostrare che tutto il processo sia stato un moto di ribellione, la difesa cercherà di evidenziare che quella dei propri clienti sia stata soltanto una dura provocazione per muovere il governo a trattare sull’indipendenza.

In prima linea: il fotoreporter Micalizzi colpito da un razzo

Notizie contrastanti: “È ferito gravemente”. Poi la smentita: “Non è in pericolo di vita”. Un pomeriggio di tensione ieri in Italia per la sorte di Gabriele Micalizzi, fotoreporter che si trovava in Siria, nell’area di Deir Ezzor, per seguire l’ultima offensiva dei curdi contro l’Isis.

Secondo la testimonianza di un giornalista brasiliano che era con lui, Micalizzi era in un edificio assieme a una troupe della Cnn: la struttura è stata presa di mira dagli estremisti islamici con razzi Rpg e raffiche di armi leggere; Micalizzi è stato colpito al volto assieme a un militare curdo. Il giornalista è stato a Sulaymaniyya, nel Kurdistan iracheno, per essere medicato: il fotografo se in grado di viaggiare, potrebbe tornare presto in Italia.

Micalizzi fa parte del collettivo CesuraLab con cui lavorava il fotoreporter Andy Rocchelli, ucciso in Ucraina nel 2014. Dopo avere iniziato nel capoluogo lombardo occupandosi di costume. Micalizzi ha viaggiato per lavoro anche in Medioriente e aree di conflitto: ha realizzato lavori a Sirte, in Libia, come pure in Donbass e Thailandia, è stato a Gaza nel 2014 e ha seguito la rivoluzione di piazza Tahrir. Sulla sua pagina Facebook una sorta di indicazione su come intende valorizzare il suo lavoro: “Progetti di lungo termine in cui può sviluppare il suo linguaggio personale”. Le foto del reporter sono state pubblicate su giornali nazionali e internazionali, fra cui New York Times, New Yorker, Newsweek e Wall Street Journal. Appena l’1 febbraio Eleonora Bianchini del Fattoquotidiano.it aveva ascoltato Micalizzi sull’annosa questione del mestiere di fotoreporter, ormai in declino: “Non lavoro con le grosse agenzie – aveva detto –, perché una volta arruolato cedi a loro i diritti delle tue foto. Gliele vendi e non sono più tue, finito. Una cosa che per me snatura il mio lavoro. Sono lontani i tempi d’oro della Magnum, quando i diritti delle foto rimanevano a chi le aveva fatte”.