Jihadisti, scudi umani e truppe curde: Baghuz, ultimo assalto all’Isis

Sconfitti e assediati sul confine iracheno, i combattenti dell’Isis in Siria controllano adesso un’area grande come quella di Villa Borghese a Roma, meno di tre chilometri quadrati. Nel 2015 ne controllavano 90 mila, un territorio grande come il Portogallo, fra Siria e Iraq. Oggi ciò che resta del Califfato di Abu Bakr al Baghadi in Siria è Baghuz, un villaggio semidistrutto e sventrato dalle bombe in fondo a una valle arida, senza via d’uscita. In ostaggio dei miliziani islamisti ci sono circa 1.500 civili che nei giorni scorsi non sono riusciti a fuggire dalla zona e che gli uomini dell’Isis usano come scudi umani. I combattenti delle “bande nere” sono un migliaio, asserragliati con donne e bambini. Qualcuno si arrende, altri stanno trattando per un corridoio “umanitario”. Ma non ci sarà tregua. Sul posto oltre agli uomini del Syrian Democratic Front sostenuti dalle formazioni curde, ci sono anche reparti delle Forze speciali Usa. Fra i jihadisti secondo i report dell’intelligence ci sono molti foreign fighter: francesi, tedeschi, britannici, svedesi, ceceni e molti arabi. Per ora a coloro che si arrendono vengono prese foto e impronte digitali, i prigionieri sono indirizzati verso i campi nell’interno della Siria. Donne e bambini vengono separati dagli uomini, finiranno nei campi profughi in attesa del loro destino.

Il villaggio è accerchiato e non c’è via di fuga. A ovest, gli islamisti sono circondati dalle forze governative siriane. A sud c’è il confine iracheno, dove sono schierate le truppe di Baghdad. Da Nord e da Est, vengono combattuti da una milizia curda e dal Syrian Democratic Front. Baghuz è l’ultima traccia del territorio controllato dallo Stato Islamico in Siria ma questo non comporta certo la fine della minaccia il califfato. Migliaia di combattenti dello Stato islamico – con le loro famiglie – sono già sfuggiti a ciò che rimane del Califfato assediato. Si nascondono nei deserti della Siria meridionale e orientale, alcuni si sono ricongiunti nelle popolazioni tribali sunnite della Siria orientale, dove godono ancora di una certa simpatia popolare.

Un rapporto confidenziale del Dipartimento di Stato Usa valuta in 5-6.000 i miliziani ancora operativi in Siria fuggiti verso spazi non ancora completamente controllati e altre sacche nel nord e nell’ovest. Un studio riservato Onu della scorsa settimana stima che il gruppo abbia ancora tra 10.000 e 15.000 combattenti solo in Iraq, dove continuano ad aumentare gli attacchi. L’Isis ha perduto il territorio e sta entrando in una mutazione ritrovando le sue origini militari: d’ora in poi sarà una guerriglia fatta di attacchi, attentati e omicidi mirati di leader locali che si oppongono al Califfato.

Lo Stato islamico si è riorganizzato in Iraq da quando è stato dichiarato sconfitto dal governo nel dicembre 2017. Le cellule rimangono attive nelle aree tribali sunnite lungo i fiumi Eufrate e Khabour. Nelle aree liberate della Siria e dell’Iraq, i gruppi armati stanno portando avanti assassini, istituendo check-point e distribuendo volantini mentre gettano le basi per un’insurrezione che potrebbe guadagnare forza man mano che le forze Usa inizieranno a ritirarsi. Secondo il Washington Institute for Near East Policy, nel 2018 l’Isis ha compiuto 1.271 attacchi e 148 omicidi di leader locali solo nel nord Iraq. Le tattiche indicano chiaramente che i miliziani non hanno nessuna intenzione di rinunciare a Iraq e Siria. La guerra al terrore islamista non è finita. Così come l’uccisione di Osama bin Laden in Pakistan rappresentò un colpo formidabile ad al Qaeda, segnandone il declino, alla guerra contro lo Stato Islamico manca la morte o la cattura del suo leader, del Califfo, di Abu Bakr al Bagdadi: è comparso in pubblico solo una volta (a Mosul, in Iraq, nel 2014) poi soltanto nastri con i suoi sermoni. Ci sono state notizie sulla sua morte o sul suo ferimento, comprese le segnalazioni di funzionari russi lo scorso anno che affermavano che c’era “un’alta probabilità” che al Baghdadi fosse stato ucciso in un raid aereo a Raqqa. Cia e militari americani sono certi che sia vivo e attivo. Potrebbe essere proprio a Baghuz. La caccia continua.

Quando “Le Ragazze” non passavano per vallette

Dio creò la donna, la Tv la fece valletta. La maggiorazione al potere, un pensiero unico, un chiodo fisso. Un colpo grosso. Il primo merito di Le ragazze (conclusosi domenica su Rai3) è ribellarsi alla videotirannia maschilista, tirare giù dai troni e dai calendari l’immagine della donna e accompagnarla nella vita. Ma il tema più profondo del programma è la giovinezza, l’unica età della vita senza passato (l’infanzia è senza tempo), l’Isola che non ci sarà più. Due coetanee si raccontano, una nota e l’altra meno, così lontane e così vicine, siccome tutte le giovinezze si assomigliano ma ognuno è giovane a modo suo. La scrittrice Dacia Maraini e la sarta Livia Filippucci sono due ragazze degli anni Cinquanta. Gli anni in cui, racconta Livia, nascere nella campagna umbra da una famiglia operaia e pretendere di sposarsi per amore, valorizzare il proprio talento e inventarsi una professione significava sfidare il mondo. Gli anni in cui, racconta Dacia, gli artisti avevano legami molto forti, esisteva in Italia una società letteraria oggi dissolta nel nulla. Abbiamo sempre sospettato che le ragazze del secolo scorso abbiano avuto una vita più avventurosa dei loro padri, dei loro fratelli, dei loro mariti; Ragazze ce lo prova nello stile della casa di produzione Pesci Combattenti, la narrazione della memoria. Bisogna resistere alla sirena della nostalgia, eppure non si scappa: come ebbe a dire una ragazza degli anni Quaranta, la nostalgia non è più quella di un tempo.

Caro Di Maio, smettetela di tirarvi la zappa sui piedi

Egregio vicepresidente Di Maio, le scrivo la presente, che spero leggerà. Sono uno dei tanti che non rimpiangerà mai quella tragedia storica chiamata renzismo e ride molto quando i fan vedovili di Boschi & altri demoni gridano ora al “peggior governo di sempre”. Poveretti: neanche ricordano il Berlusconi 2001-2006, autentica vergogna a cui il centrosinistra si oppose con la fermezza di un fagiolo depresso. Il Salvimaio, invero sempre più bruttino, contiene buone cose e troiai autentici. E – soprattutto – al Salvimaio subentrerà il Salvusconi: ovvero il male assoluto. Avverto, in giro, un grande senso di “disillusione e smarrimento”. Che è poi anche il mio. Aggiungo che non me ne frega nulla di Macron, che ogni volta che usano a caso le parole “fascismo” e “razzismo” mi vien quasi voglia di difendere Salvini (è un paradosso, eh) e che tutti i media che vi tratteggiano come “brutti sporchi e cattivi”, da ultimo lo scatenato Pansa ospite del mansueto Formigli, fanno il vostro gioco. Godete di un’opposizione quasi sempre ridicola e insopportabile, e (solo?) per questo avete ancora come governo il 60% o giù di lì dei consensi.

Ciò nonostante, trovo che il suo M5S stia vivendo una fase oltremodo confusa e deludente, come confermano i sondaggi e la prevedibilissima scoppola in Abruzzo. Da qui alcune considerazioni. 1. Dire che siete meglio di Renzi è una banalità ridondante e puerile: anche un ramarro sgozzato lo sarebbe. Se io mi proponessi a una donna dicendole “Sai che son più figo di Orfini?”, lei mi sfanculerebbe subito. Giustamente. 2. Il mantra “È colpa di quelli di prima” è il peggio del peggio della vecchia politica. Basta 3. Toninelli ha torto anche quando ha ragione (e ha ragione spesso, sui contenuti). Spesso vi date la zappa sui piedi da soli e il problema della classe dirigente M5S esiste eccome. 4. Gli unici che non vi criticano mai sono i tifosi talebani che, anche nei confronti di questo giornale, dicono “Che bravi!” quando vi diamo ragione e “Che servi!” quando solleviamo critiche. Siete una forza politica o una curva di calcio? 5. Lei parla di “boom economico”, Conte di “2019 fantastico”, la Trenta di “ottimismo profumo della vita”. Ecco: oltre a fracassare le gonadi, l’ottimismo stolto è esattamente ciò che ha ammazzato Renzi. Sveglia. 5 bis. Il suo post su Sanremo era una “poracciata” senza precedenti: queste cose le lasci a gente che non conta nulla, tipo Sibilia. 6. Lei dice di fregarsene dei sondaggi, perché vi sottovalutano sempre. Si ricorda per caso cosa dicevano i sondaggi del 2014 e come andò poi a finire? 7. Stare dalla parte dell’improponibile Giarrusso e non di Morra, sulla vicenda sì/no a Salvini-Diciotti, è un capolavoro di incoerenza tremebondo. 8. Salvini non fa nulla di concreto, ma sale; voi vi fate il mazzo, ma scendete. È solo colpa dei giornalisti cinici e bari? 9. Non parli di “democrazie millenarie”, Francia o non Francia. Nel dubbio usi sempre la parola “decennio”. La “democrazia” è di per sé labile. Praticamente impalpabile. 10. Quando parlate di Salvini fate spesso i pesci in barile e per questo avete rispolverato il randellatore Di Battista. Ma l’escamotage non sta pagando. Sappia che questa vostra pavidità nei confronti di Salvini è uno dei motivi dell’erosione di consensi. 10 e lode. Conte, con cui di recente ha litigato di brutto, è il 5 Stelle che piace di più agli italiani. Sa perché? Perché parla poco e talora male (l’inglese, quantomeno), ma lavora tanto e tutto sommato bene. Chiacchiere tanto, proclami poco. Prenderlo come esempio, no?

Potrei andare avanti, ma mi fermo qui. Per ora.

Pansa, i suoi libri e i consigli del golpista

Le ultime imprese di Giampaolo Pansa, dal libro Quel fascista di Pansa alle esternazioni televisive sul governo Conte che sarebbe “un governo di terroristi”, meritano qualche piccola considerazione e qualche piccolo numero. Dal 2003, quando uscì Il sangue dei vinti, il giornalista piemontese non ha fatto altro che descrivere i partigiani e la Resistenza, in particolare i comunisti e i “garibaldini”, come un branco di assassini, sdoganando per il grande pubblico la Storia della guerra civile in Italia di Giorgio Pisanò, del 1965. E suddividendo in vari libri, fino all’ultimo, le ricerche fatte dal reduce di Salò sui fascisti uccisi dopo la Liberazione.

Pisanò stimò il numero dei morti fascisti in circa 48 mila, comprendendovi tuttavia le vittime delle foibe. Secondo stime più verosimili, come quelle dello storico Guido Crainz, basate su varie fonti, i fascisti uccisi o scomparsi sarebbero stati 9.364. Cifre impressionanti, certo, ma davvero piccoli numeri se messi a confronto con quelli delle vittime della guerra nazifascista.

Nella Seconda guerra mondiale, scatenata dal nazismo e in seguito, dal 1940, combattuta dal fascismo italiano al fianco di Hitler, i morti furono oltre 50 milioni, tra i quali 30 milioni di vittime civili. Secondo lo United States Holocaust Memorial Museum, poi, le vittime dell’Olocausto, inclusi i non ebrei, sono state tra i 15 e i 20 milioni: agli oltre 6 milioni ebrei, infatti, andrebbero aggiunti i civili russi, polacchi e serbi, i rom, i disabili, gli omosessuali, i testimoni di Geova e altre minoranze.

Gli ebrei deportati dall’Italia nazifascista furono circa 7.500; ne sopravvissero poco più di 800. Per il Centro di documentazione ebraica contemporanea, le vittime identificate sono state 7.579, ma c’è la certezza che “un buon numero di persone fu arrestato senza lasciare tracce e senza possibilità da parte nostra di identificarne il nome e il cognome perché entrati disordinatamente in Italia senza registrazione alle frontiere”. Si tratta dunque “di almeno altre 900-1.000 persone che portano il totale delle vittime ad almeno 8.529”.

Per Pansa, però, la grande tragedia italiana, peraltro a suo dire negata per decenni (il che non è vero), sarebbe rappresentata dai fascisti uccisi dopo la fine della guerra. La storia e i contesti storici, il confronto tra l’immane banalità del male nazifascista e i delitti commessi dai partigiani, una “goccia” nel gran mare dell’essere nazifascista, non interessano a Pansa. Per lui conta solo portare a compimento, con ossessione, ciò che gli aveva chiesto il golpista Junio Valerio Borghese, capo della Decima Mas. Negli anni Settanta, come ha ricordato Dino Messina sul Corriere della Sera, “Borghese raccomandò a Pansa, se voleva davvero completare il lavoro intrapreso, di occuparsi della ‘resistenza fascista’. Usò proprio questa espressione”. E Pansa cominciò a resistere.

Libia, la vera disputa con i cugini francesi

Luigi Di Maio non doveva incontrare a Montargis, in Francia, alcuni leader dei Gilet gialli, fra cui Christophe Chalençon che è uno dei più estremisti, che si oppongono, a volte anche con la violenza, al governo Macron. Non vale l’escamotage – così spesso usato anche da Salvini – che questo incontro Di Maio lo ha voluto come capo politico dei Cinque Stelle e non come vicepresidente del governo italiano. Un uomo che fa parte delle Istituzioni, per soprammercato a così alto livello, non può parlare e agire come privato cittadino o peggio ancora come leader di un partito, quando parla e si muove lo fa sempre come rappresentante del governo italiano. È stata quindi giusta la reazione di quello francese a una inammissibile intromissione da parte di un soggetto istituzionale negli affari interni della Francia.

Precisato questo, bisogna dire che i francesi hanno una bella faccia tosta e sono in perenne contraddizione con se stessi. Se Di Maio non si può intromettere negli affari interni della Francia, per lo stesso motivo la Francia non si può intromettere, come invece sta facendo insieme ad altri Paesi europei, negli affari interni del molto più lontano Venezuela. Ma anche Di Maio è in piena contraddizione.

Il governo italiano, secondo me giustamente come ho scritto in vari articoli, ha preso una posizione di neutralità nello scontro che oppone Guaidó al presidente Maduro. Ma per la stessa ragione deve astenersi dal prendere posizione a favore dei Gilet gialli contro il presidente Macron.

In quanto allo scontro in atto con i cugini d’oltralpe (in realtà “fratelli coltelli”) origina principalmente dall’intervento francese in Libia supportato dal solito “amico americano” ma appoggiato anche, sciaguratamente, dal governo italiano, presidente Berlusconi. Quell’intervento, del tutto illegittimo e che ha eliminato politicamente con la violenza il colonnello Gheddafi e poi lo ha ucciso nel più barbaro dei modi, con un linciaggio a cui erano presenti i soldati transalpini, aveva il solo scopo di sottrarre all’Italia la primazia economica in Libia. Il solo rappresentante del governo italiano che ha ricordato questo precedente è stato il sempre molto criticato – francamente non capisco per quali ragioni – il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli: “È un peccato che la Francia non chieda scusa per l’intervento in Libia del 2011”. È quindi molto comprensibile che gli italiani abbiano motivi di malumore nei confronti dei francesi visto anche che quell’intervento si è rivelato per noi un danno non solo economico, ma oserei dire epocale riversando sulle nostre coste centinaia di migliaia di disperati che partono da una Libia totalmente fuori controllo.

Ma c’è qualcosa di più, che non riguarda solo noi italiani. Io non credo ai Tribunali internazionali deputati a giudicare dei “crimini di guerra”, ma visto che esistono Sarkozy, Obama e lo stesso Berlusconi dovrebbero essere trascinati davanti a un tribunale di questo genere perché l’illegittima e immotivata aggressione alla Libia di Gheddafi, con tutto ciò che ne è seguito, dovrebbe essere considerata un “crimine di guerra” da chi crede a questo tipo di reati. Naturalmente questo non avverrà mai proprio perché tali tribunali sono i soliti “tribunali dei vincitori” alle cui spalle sta il processo di Norimberga attraverso il quale i vincitori, per la prima volta nella Storia, non si accontentarono di essere più forti dei vinti ma pretesero anche di esserne moralmente superiori. Così non è stato.

Visto quello che hanno fatto, dopo la fine della guerra mondiale, gli americani, i sovietici, gli inglesi e gli stessi francesi che furono i primi, quando non si era ancora spenta l’eco delle nobili parole pronunciate a Norimberga secondo le quali la guerra avrebbe dovuto essere espunta dalla vita della società internazionale, a soffocare con l’atroce brutalità di sempre un disperato tentativo del Madagascar di liberarsi delle manette coloniali.

Mail box

 

Se la prendono con i centri sociali, tollerano le discoteche

Confesso, da ex manifestante sono quasi sempre dalla parte dei manifestanti. Conosco la violenza di chi dovrebbe garantire l’ordine e conosco la rabbia dei giovani che mal la tolleravano. Non posso quindi condividere l’attacco mediatico nei confronti dei giovani che a Torino hanno manifestato contro lo sgombero dell’Asilo occupato da oltre vent’anni. Lo sgombero è stato fatto senza violenza? Era un covo di delinquenti che volevano sovvertire lo Stato? Be’, se così fosse direi che più che altro erano degli imbranati. Dal ’95 cosa hanno fatto contro lo Stato? Direi che dovrebbero andare a ripetizione dai nostri servizi segreti. E poi, sinceramente, cosa abbiamo contro i centri sociali? A me risulta che facciano molte cose positive, molte iniziative culturali, offrono spazi ai giovani che vogliono parlare, insomma coprono uno spazio lasciato vuoto dalle istituzioni. Preferiamo i giovani che frequentano le discoteche? Veri luoghi di “cultura” vio lenta (risse, scontri fisici che spesso culminano con uccisioni, ecc.) e di spaccio di ogni tipo di droghe. Perché lo Stato, con le proprie istituzioni, non si occupa di questa realtà?

Albarosa Raimondi

 

Gli abruzzesi di memoria corta premiano chi li ha insultati

Da abruzzese quale sono, conosco bene le bellezze naturali della regione e apprezzo lo spirito schietto e tenace dei miei conterranei, le qualità delle persone di questi luoghi non hanno bisogno di essere rimarcate, come inutile sarebbe fare il lunghissimo elenco delle specchiate personalità che hanno avuto i loro natali tra le montagne, le valli e le spiagge di questa splendida regione. Se un appunto si può muovere a noi abruzzesi è di essere alquanto smemorati.

Ci basta poco per dimenticare affronti e offese subìte (forse è dovuto al nostro proverbiale buon cuore), prova ne è il fatto che nelle ultime elezioni regionali ben il 27 per cento dei votanti ha espresso il suo appoggio alla Lega di Matteo Salvini.

La stessa Lega e lo stesso Salvini che per più di vent’anni ci hanno coperto d’insulti e di contumelie insieme a tutti i “non padani”, definendoci “parassiti”, “terroni”, “cafoni”, “mafiosi”, “camorristi” e altre delicatezze simili. Sono bastati un paio d’anni nei quali il capo dei “Lumbard” ha cambiato nemici (i “negher”), si è presentato con la sua bella felpa d’ordinanza e, come d’incanto, le pregresse offese, insulti e minacce sono spariti. Non c’è che dire: noi abruzzesi siamo buoni dentro… Chi ha detto cretini?

Mauro Chiostri

 

Concedere l’autorizzazione è una priorità (pure per i 5S)

Il direttore Travaglio ha chiarito nel dettaglio tutti i pro e contro, giuridici, politici e istituzionali, relativi alla vicenda del rinvio a giudizio di Salvini. L’elemento che più appare preoccupante è quello della creazione di un “pericoloso precedente” per cui la formula di un presunto (e generico) superiore “interesse nazionale”, invocato da Salvini, potrebbe fare da paravento a qualsiasi delitto. Mutatis mutandis il pensiero va fatalmente alle parole con le quali in parlamento Mussolini arrogava a sé la responsabilità della morte di Matteotti. Nessun confronto è possibile, ma è comunque già inquietante l’averci dovuto pensare. Assolutamente meglio che i 5 Stelle votino affinché la magistratura vada avanti in tutta autonomia dal potere esecutivo, cosa che dovrebbe esser cara anche a Salvini se veramente tenesse sia al superiore interesse nazionale sia a smentire con i fatti quei detrattori che hanno scommesso che non si sarebbe mai fatto processare.

Carlo de Lisio

 

Sanremo ha una vincitrice morale: Loredana Bertè

Dove non è arrivata la giuria e il patetico televoto, ci ha pensato il pubblico dell’Ariston, che ha incoronato Loredana Bertè vincitrice morale del 69° Festival. Loredana si è dimostrata la vera dominatrice della canzone italiana, riuscendo a mantenersi fisicamente e musicalmente al passo con i tempi. Basti pensare che la scorsa estate una delle canzoni più trasmesse in radio era Questa sera non dico no.

Abbiamo avuto modo di apprezzare la componente emotiva della sorella minore di Mimì durante la prima edizione del talent/vip “Ora o mai più” rimanendo incantati dal suo animo così spontaneo, oltre che dalle originali e sempre efficacissime doti canore. Loredana rappresenta l’italianità intesa come la capacità di risollevarsi e tornare a marciare da numeri uno anche di fronte al declino e alle avversità.

Fabrizio Vinci

Ambrogiana. Lotti conferma: il Demanio, non i cittadini, deciderà le sorti della villa

Non lo faccio quasi mai, ma oggi è impossibile evitarlo. Devo smentire quanto scritto su di me nell’articolo dal titolo Un hotel nella Villa Medicea Con lo zampino di Lotti, a firma Tomaso Montanari. E voglio farlo in modo netto e chiaro. Comprendo la passione del direttore Travaglio e del suo giornale di sbattere il mio nome in prima pagina, ma stavolta davvero faccio fatica a capire di quali tremende colpe io debba rispondere. Caro Montanari, quando lei scrive dello “zampino di Lotti” a cosa si riferisce? Può essere così gentile da spiegarlo a me e ai suoi lettori? Provo ad aiutarla: se si riferisce, per caso, al mio lavoro di parlamentare, di sottosegretario e di coordinatore del Cipe per liberare la Villa Medicea di Montelupo e restituirla alla comunità allora le dico che è proprio quello che ho fatto! Se mi avesse chiamato prima di scrivere l’articolo glielo avrei confermato: ma non è stato un mio “zampino”, ho solo fatto tutto quello che rientrava nelle mie competenze. E anzi le dirò di più: lo avevo promesso in campagna elettorale e poi ho lavorato per mantenere quella promessa. So bene che voi amici e appassionati dei 5Stelle non ci siete più abituati, ma un politico si impegna ogni giorno per mantenere le promesse fatte ai cittadini. Funziona così. In questo caso specifico ho lavorato affinché la Villa Medicea superasse la fase dell’Opg e il suo futuro venisse gestito dal Demanio. E il mio lavoro si è concluso qui. Se invece, caro Montanari, quando scrive “zampino di Lotti” allude a miei atti o a miei comportamenti non regolari lo dica chiaramente: soprattutto ci dica quali, quando, dove, in che modo? Insomma sia preciso e coraggioso nelle sue accuse, tanto quanto lo è nell’uso delle parole.

Luca Lotti

P.S. Lasciatemi infine fare una piccola riflessione: usare i giornali come clave forse fa vendere (oggi) qualche copia in più, ma allontana (domani) tutti noi dalla verità dei fatti, che per me resta sacra come lo è la libertà di stampa.

 

Gentile Lotti, la ringrazio davvero per quello che definisce un “aiuto”. Vede, non avrei mai scritto che in questa vicenda c’era il suo “zampino”, e infatti non l’ho scritto. Ora però è lei a raccontarci in quale direzione ha lavorato (se con la zampa, la mano o i piedi non saprei): perché il futuro dell’Ambrogiana “venisse gestito dal Demanio”. Questa è una notizia. Ed è una notizia importante in primo luogo per i cittadini di Montelupo.

Le spiego. Il sindaco (del suo partito) dice che i cittadini se lo possono sognare di decidere il futuro della Villa, perché a decidere è il Demanio: e questo, fino alla sua lettera, significava tirare la palla a Roma. Ma ora è lei stesso a dirci che questo esito non era affatto scontato: la palla è stata data a Roma da un montelupino doc come lei.

Le cose sarebbero potute andare altrimenti: per esempio, attraverso una convenzione, un accordo, tra ministero della Giustizia e Comune. Una strada che, però, aveva il grosso inconveniente di potersi aprire alla partecipazione dal basso: con quelle scocciature dei comitati, delle associazioni, dei cittadini. Molto meglio una sana burocrazia romana, saldamente in mano all’esecutivo. Nessun comportamento irregolare, ci mancherebbe: è il modello Firenze, dove durante il governo renziano ogni spazio pubblico è stato regalato al mercato, mentre andava in scena, attraverso prese in giro di massa come i “cento luoghi”, una caricatura della partecipazione. A Montelupo almeno quest’ultima ci è stata risparmiata: si decide “a Roma”, e zitti. Tutto regolare.

Tomaso Montanari

Minacce sul web: il Garante dei detenuti denuncia

Insulti e minacce. Molti hanno riempito in questo modo la sezione commenti sotto un articolo che riportava alcune criticità sollevate da Mauro Palma – garante dei detenuti – in un rapporto sulle sezioni carcerarie che ospitano detenuti al 41-bis, il regime di carcere duro apparso sulla pagina Facebook “Polizia Penitenziaria Società Giustizia e Sicurezza”. Dopo aver visitato diverse carceri, quindi il garante ha pubblicato il proprio parere. Che non deve esser piaciuto a molti. Sulla pagina Facebook il tenore dei commenti degli utenti a volte appare aggressivo. C’è chi scrive infatti “ma perché non ti fai ammazzare c…e ,vallo a dire ai parenti delle vittime che il 41 è inaccettabile” e “La smetta subito, lei è sul filo di un rasoio si faccia garante per la Polizia Penitenziaria xké lei è un piccolo uomo”. I post polemici sono pressoché la totalità dei commenti. Si legge ancora: “Garante dei delinquenti! A cosa serve questa figura se già vi è il magistrato di sorveglianza che fa la stessa cosa!”. E ancora: “Questi garanti fanno più male che bene! E chi garantisce per le vittime?”. Il sindacato degli agenti penitenziari non ha rimosso i commenti e il garante ha sporto denuncia alla Polizia postale.

Guasti e ritardi, problema risolto: soppresso il treno Siracusa-Ragusa

Nella Sicilia dalle infrastrutture assenti sorridono amaramente i pendolari della linea Siracusa-Caltanissetta alla notizia dei treno superveloce che potrebbe collegare Palermo a Catania in dieci minuti. Loro infatti impiegano più di quattro ore per 150 km, nelle giornate in cui i treni riescono a non accumulare ritardi. Ed accade raramente: per questo motivo i pendolari della linea, riuniti in una associazione, hanno redatto un reportage in cui vengono segnalati tutti i ritardi, circa dieci al mese per ogni treno che copre la tratta Siracusa-Caltanissetta. “Abbiamo riscontrato un peggioramento della puntualità dei treni – scrivono – sulla tratta Siracusa/Ragusa/Caltanissetta, dove esistono numerosi passaggi a livello che frequentemente si guastano”. Oltre ai guasti però il problema di fondo è rappresentato dal binario unico che costringe i treni a lunghi stop nelle stazioni in attesa di un altro convoglio in arrivo. Emblema della condizione della ferrovia è il treno 26667, il primo della mattina, il quale spesso accumula ritardi superiori a un’ora che non permettono a insegnanti e lavoratori di arrivare in orario nelle rispettive sedi di lavoro.

Tutti i ritardi e i problemi elencati nel report hanno però sortito l’effetto contrario all’amministrazione regionale, che dopo diverse audizioni ha posticipato di mezz’ora il primo treno del mattino, cancellando quello Siracusa-Ragusa delle 8, rendendo quindi impossibile arrivare in tempo per chiunque lavori in uno dei capoluoghi siciliani. La scelta ha causato non pochi problemi ai lavoratori che chiedono un tavolo tecnico con le ferrovie e l’assessore alle Infrastrutture Marco Falcone. “È una scelta unilaterale e improvvisa che va in un’unica direzione – ha scritto in un’interrogazione il deputato regionale Stefania Campo (M5s) – quella di smantellare, anziché potenziare, il servizio ferroviario in Sicilia”.

Crisi al Porto di Gioia Tauro: dopo i 377 lavoratori a casa, c’è il rischio di altri licenziamenti

I 377 lavoratori licenziati nel 2016, e reintegrati dal Tribunale del Lavoro, sono ancora a casa. Le promesse di nuovi investimenti da parte della Mct – la società di gestione del porto di Gioia Tauro – sono rimaste tali. E l’ultimatum del ministro Danilo Toninelli, che il 18 dicembre aveva minacciato la revoca delle concessioni, è ampiamente scaduto senza che sia successo nulla. La crisi del porto di Gioia Tauro non si ferma così come la guerra sotterranea tra i soci di Mct per la governance dello scalo. A farne le spese sono sempre i lavoratori. Proprio in virtù della decisione dei giudici di reintegrare i portuali licenziati due anni fa, infatti, Msc e Contship (i due soci al 50 per cento della Mct) hanno annunciato l’apertura di una nuova procedura di licenziamenti dovuti anche al calo dei volumi del 12% rispetto al 2017. I sindacati calabresi (Cgil, Cisl, Ugl e Sul) chiedono l’intervento del governo e ricordano l’incontro avuto con il ministro dei Trasporti che aveva descritto la situazione del porto “come un disastro” e per questo aveva chiesto a Mct “risposte chiare in termini di investimenti”. Risposte che non sono arrivate. “A due 2 mesi da quell’incontro – scrivono – le organizzazioni sindacali non hanno ancora avuto la possibilità di sapere come procede la discussione fra Msc e Contship e quali interventi strutturali ha deciso di fare il governo il cui disimpegno su Gioia è ormai eloquente”. L’unica certezza sono i licenziamenti (si parla di diverse centinaia) giustificati dall’azienda proprio con la decisione del Tribunale del lavoro che ha dato ragione ai portuali. Per i sindacati di categoria si tratta “una guerra fra poveri. Siamo fermamente contrari alla contrapposizione dei lavoratori con altri lavoratori. Questa drammatica situazione sta portando alla chiusura del porto”. Oggi il prefetto di Reggio Calabria Michele Di Bari ha convocato un incontro per capire se ci sono le condizioni per evitare nuovi licenziamenti.