Strage di Viareggio, la Procura: “Condannare l’ex ad Moretti a 15 anni e 6 mesi di reclusione”

Quindici anni e sei mesi perché nel frattempo si sono prescritti i reati di incendio colposo e lesioni plurime. Al termine delle quattro udienze del processo di appello sulla strage di Viareggio del 29 giugno 2009, arriva la richiesta della Procura Generale di Firenze nei confronti di Mauro Moretti, in qualità di ex amministratore delegato di Rete Ferroviaria Italia e di Ferrovie dello Stato. A Moretti il pm di Lucca Salvatore Giannino, affiancato dal sostituto pg Luciana Piras, contesta i reati di incendio colposo, omicidio e lesioni plurime colpose e disastro ferroviario. In primo grado Moretti era stato condannato a 7 anni, nonostante la richiesta del pm Salvatore Giannino fosse stata di 16. Ieri però, subito dopo la requisitoria di Giannino, Moretti ha rilasciato una dichiarazione spontanea in cui ha annunciato di voler “rinunciare alla prescrizione”: “Lo faccio – ha detto in aula – per il rispetto delle vittime, dei familiari e del loro dolore. Lo faccio perché mi ritengo innocente”.

Mentre Moretti stava lasciando l’aula poi è stato seguito da una familiare delle vittime, Daniela Rombai, che nel cortile del Palazzo di Giustizia di Firenze gli ha urlato contro: “Pulisciti la bocca prima di parlare delle vittime”. Ieri la Procura Generale di Firenze ha anche chiesto 14 anni e sei mesi per l’ex ad di Rfi Michele Elia, 7 anni e sei mesi per l’ex ad di Trenitalia Vincenzo Soprano e 12 anni e sei mesi per Giulio Margarita, ex responsabile sicurezza di Rfi. Tutte richieste scontate di sei mesi per l’intervenuta prescrizione: “È poco decoroso che lo Stato, trascorso il tempo, non debba più esercitare l’azione penale” ha concluso il pm Giannino nella sua requisitoria.

Tesseramenti ai baby calciatori africani. Indagato l’ex “furbetto del quartierino”

Indagati in coppia. Inseparabili. Sono l’ex furbetto del quartierino Gianpiero Fiorani e Gabriele Volpi, diventato miliardario con il petrolio nigeriano e oggi secondo azionista Carige. Nonché patron dello Spezia Calcio e della Pro Recco di pallanuoto. I due amici stavolta sono indagati a La Spezia in un’inchiesta sul tesseramento di giocatori di calcio nigeriani minorenni. L’ipotesi della Squadra Mobile è che siano stati compiuti tesseramenti fittizi di baby calciatori provenienti dal paese africano. Lo schema, secondo gli investigatori, era questo: i giovani giocatori sbarcavano presso squadre dilettantistiche in attesa di compiere i 18 anni e di finire allo Spezia. Scrive il gip: “Lo Spezia si è trovato ad avere la ‘proprietà’ di calciatori di valore molto giovani, appena maggiorenni, senza averli pagati nulla ad eccezione delle spese sostenute per realizzare la loro immigrazione fraudolenta da minorenni e il successivo mantenimento in Italia fino alla maggiore età, potendo così cederli ad altre società con un plusvalore di 5,9 milioni”. I calciatori, ignari, sono tutti estranei alle accuse. Tra loro anche tre giovani stelle: Umar Sadiq, attaccante della Roma in prestito al Perugia in Serie B, e Abdullahi Nura, arrivati nel 2013 a costo zero allo Spezia e rivenduti due anni dopo alla Roma per 5 milioni, e David Okereke, stella dello Spezia. Gli indagati sono 15: tra questi Maurizio Felugo (ex campione della Pro Recco di cui oggi è presidente), l’ex calciatore di serie A Renzo Gobbo (all’epoca dei fatti allenatore in Nigeria), Luigi Micheli (ad dello Spezia), Stefano Chisoli (presidente della società) e Giovanni Plotegher (presidente della società dilettantistica Valdivara Cinque Terre). Gli investigatori parlano di un tentativo di “violare le disposizioni in materia di immigrazione clandestina”. I minori selezionati alla scuola calcio di Abuja poi avrebbero ottenuto dall’ambasciata in Nigeria il permesso per venire in Italia e partecipare a tornei. Ma dopo la competizione venivano fatti risultare come “minori non accompagnati” e prima della scadenza del visto temporaneo affidati a persone legate indirettamente allo Spezia, che ottenevano la nomina a tutore. Un’inchiesta che chiama in causa tanti nomi del potere ligure. C’è il duo Fiorani-Volpi: amici di gioventù, hanno cominciato a fare affari insieme. Con qualche inciampo: a maggio la Procura di Genova li aveva indagati, sempre in tandem, per evasione fiscale.

Ma dello sbarco di Fiorani in Liguria si parla da tempo. Negli anni d’oro delle scalate il banchiere sognava di reinvestire il denaro in operazioni immobiliari in Riviera. A Imperia si ricorda il suo volo in elicottero con Claudio Scajola a caccia di terreni. Poi, dopo le disavventure giudiziarie, rieccolo al fianco di Volpi. Si è parlato di un suo interessamento alle sorti Carige dove nel collegio sindacale erano comparsi suoi fedelissimi. L’influenza di Fiorani su Volpi emerge dalle intercettazioni di questa inchiesta: “È inutile parlare con Volpi se prima non si parla con Gianpiero”. Un duo potente in cerca di sponda politica nel centrodestra: agli eventi mondani di Volpi sono stati segnalati Matteo Salvini e Giovanni Toti.

Ora ecco Fiorani e Volpi nell’inchiesta sullo Spezia. Tra gli indagati compare Plotegher, genero di Luigi Grillo. Sì, quel Grillo che all’epoca dei furbetti del 2005 era l’uomo di Silvio Berlusconi nel mondo delle banche. Adesso si ritrovano tutti sotto il sole delle Cinque Terre.

“Un’operazione di pubblica sicurezza, non uno sgombero”

L’intervento all’ex Asilo di via Alessandria “è stato un’importante operazione di pubblica sicurezza eseguita dalla Questura sotto l’impulso della magistratura nell’ambito di una inchiesta per associazione sovversiva, non certo per rispondere a un presunto piano di sgomberi del Viminale o della Città”. Lo ha spiegato in consiglio comunale la sindaca Chiara Appendino, la quale ha ricordato che “l’immobile resterà pubblico e verrà destinato a realtà non profit che metteranno in piedi reali attività di utilità sociale”. Intanto ieri si è tenuta l’udienza del processo “Scripta manent”. Una cinquantina di anarchici – nel settore destinato al pubblico dell’aula bunker delle Vallette – ha urlato lo slogan “Giù le mani dall’Asilo”, per impedire al pm Roberto Sparagna di prendere la parola. La Corte ha interrotto l’udienza del processo in cui 23 anarchici sono imputati per terrorismo per le azioni dei gruppi della Fai, la Federazione anarchica informale. Dopodiché il pubblico è stato allontanato. Poco dopo l’udienza è ripresa con la requisitoria dell’accusa. “È penoso dover vedere estrinsecare la forza in un’aula di giustizia in uno Stato di diritto e in un ordinamento democratico”, ha detto il pm.

Quei rinforzi arrivati dalla Croazia

Il sindaco di Torino Chiara Appendino da due giorni è sotto scorta. Sui muri scritte di minaccia (“Appendino appesa”) con firma anarchica. Domenica l’assalto al carcere de Le Vallette. Dopo la guerriglia di sabato, la città si risveglia sotto assedio. A riavvolgere il film degli ultimi giorni i fatti impressionano. “Abbiamo salvato la città”, confida un investigatore. Gli scontri sono stati feroci e il bilancio di appena quattro feriti è un grande successo per chi ha gestito l’ordine pubblico. Del resto l’ex Asilo, sgomberato il 7 febbraio, era occupato dal 1995 ed era soprattutto la centrale anarchica più importante d’Italia che ospitava l’ala libertaria più oltranzista e violenta.

Partiamo allora dalla sera del 7. Sono le 22, lo stabile è già stato sgomberato, circa 300 anarchici si concentrano in via Cecchi davanti alla sede di Radio Blackout. Da qui ripartono verso il quartiere Aurora. Davanti alla Lavazza si scontrano con la polizia. È già guerriglia la sera del 7. Vengono lanciati ordigni ad alto potenziale. Tre persone saranno fermate. L’obiettivo è riprendersi l’Asilo, la polizia li respinge, nonostante decine di cassonetti messi per strada e incendiati. È solo l’inizio. L’8 febbraio è giornata di organizzazione. Sui siti d’area la voce di un corteo per il sabato sta già girando. A Torino in serata in 300 si riuniscono all’Edera Squat di via Pianezza. Ci sono anarchici da tutta Italia. Poche ore dopo, il pomeriggio di sabato, il corteo partirà da piazza Castello. Sono circa 1.000 tra anarchici, centri sociali e movimenti no Tav. I casseur sono arrivati anche da Spagna, Germania, Francia, Svizzera, Croazia.

Tutto quello che succederà sabato è stato pianificato. Una guerriglia organizzata sia dal punto di vista delle armi usate sia dal punto di vista logistica. In pieno stile Black bloc con cambiamenti di direzione repentini e assalti frontali con la polizia. Al netto dei quattro feriti e del bus assaltato, l’ordine pubblico, materia complicatissima, ha funzionato. L’obiettivo era circoscrivere gli incappucciati verso la periferia e così è stato. A questo vanno aggiunti 11 fermati e il tentativo sventato di riprendersi l’asilo. In via Giulia di Barolo già le prime avvisaglie.

La caserma dei carabinieri viene imbrattata con scritte chiare: “Carlo vive”, “Acab-1312” “No border”. Da qui, parte dei mille, inizia a incappucciarsi e punta verso corso Giulio Cesare. Obiettivo: riprendersi l’Asilo. Le forze dell’ordine sbarrano il passo. Il manipolo devia in via XI febbraio e poi sul ponte in corso Regio Parco. Qui lo scontro è violentissimo. I livelli sono quelli già vista a Milano nel 2015 durante il corteo del primo maggio. Si lancia di tutto, bombe carta e razzi sparati ad altezza uomo. Scena rivista in via Bazzi. I movimenti sono studiati, la devastazione ha una strategia. In corso San Maurizio due contingenti di carabinieri vengono assaltati con lancio di almeno due molotov.

Bastoni e cassonetti bruciati sono ovunque lungo il tragitto. La guerriglia respira un poco. Poi in via Bava riprende cruenta. Gli anarchici vogliono sfondare il cordone di polizia. Si lancia di tutto, anche pezzi di marciapiede. Poco dopo le 20.30 la carica finale. Risultato: danni limitati e undici fermati. Ma sembra solo il primo tempo.

Un solo telefono e inneschi via posta per il piano eversivo

Un numero di telefono. Sempre lo stesso, ma fatto girare a varie persone. Gestito per coordinare azioni eversive dentro e fuori il Centro di permanenza e rimpatrio
(Cpr) di via Brunelleschi a Torino. Il telefono passa di mano, ma la scheda non cambia per evitare che il piano eversivo venga interrotto. La scoperta è fondamentale per l’inchiesta della Procura di Torino che il 7 febbraio scorso ha portato all’arresto di sei anarco-insurrezionalisti. Tutti, nel tempo, hanno avuto ruoli importanti all’interno dell’ex Asilo Okkupato di via Alessandria, sgomberato il 7 febbraio. Che ha poi scatenato la guerriglia di sabato. L’indagine parte dalla rilettura di atti legati alla maxi-operazione “Scripta Manent” del 2016. Dopodiché sono iniziate le operazioni tecniche. L’obiettivo dell’associazione sovversiva, secondo i pm, sono le politiche sull’immigrazione e in particolare i Cpr. Gli anarchici puntano da un lato a diminuire le capacità ricettive, provocando incendi all’interno delle strutture, e dall’altro colpiscono con pacchi esplosivi le aziende che collaborano con i Cpr. Un profilo di lotta che segue il documento strategico I cieli bruciano. Si tratta di venti pagine che a partire dal 2015 hanno avuto diverse stesure e aggiornamenti. L’indirizzo è, però, sempre lo stesso: “Rilanciare la lotta contro la macchina delle espulsioni. I Cpr si chiudono con il fuoco”. Segue elenco dettagliato con nomi e indirizzi delle aziende che lavorano nel comparto. Su tutte, Poste italiane e la compagnia aerea Mistral che organizza i voli charter per i rimpatri.

Torniamo allora a quel numero di telefono che sarà ritrovato su un volantino multilingue lanciato all’interno del Cpr di Torino. Il pizzino eversivo era nascosto dentro a una pallina da tennis. In questo modo gli anarchici stabilivano contatti importanti con gli stranieri del centro per poter pianificare al meglio azioni violente. Fatte all’esterno, ma anche all’interno. Qui venivano fatti arrivare plichi contenenti addirittura inneschi per poter appiccare gli incendi. L’arrivo dei pacchi veniva annunciato in anticipo attraverso il numero di telefono. L’obiettivo, come detto, era quello di ridurre la capacità di accoglienza, distruggendo la struttura e facendo spostare i migranti in altri luoghi. I danni quantificati, negli ultimi anni, superano il milione di euro. Dalle carte della Procura emerge, poi, come questa strategia di lotta sia stata adottata da gruppi anarchici di Roma, Brindisi, Bari e Potenza.

Centro operativo della cellula anarchica era l’ex Asilo di via Alessandria, occupato nel 1995. La struttura si trova nel quartiere Aurora, area ad alto tasso di criminalità. Un elemento sfruttato dal gruppo eversivo. In sostanza gli anarco-insurrezionalisti intervenivano quando la polizia effettuava controlli nei confronti degli stranieri. In diversi casi gli agenti sono stati aggrediti, in uno il fermato è stato trascinato fuori dalla volante. Questo controllo del territorio, per i pm, rassicurava l’ambiente criminale, in cambio gli anarchici ottenevano aiuti per contrastare i tentativi di sgombero dell’Asilo. Ma se via Alessandria è un indirizzo noto, teatro anche di iniziative pubbliche, molto più discreto il secondo covo scoperto dalla Procura. Si tratta dell’immobile occupato in corso Giulio Cesare 45. Qui gli anarchici, secondo la magistratura, hanno pianificato ben 21 attentati: 15 plichi esplosivi e 6 bombe. Le linee guida sono quelle de I cieli bruciano.

Non a caso, dopo l’aggiornamento del 2015, iniziano i primi attentati. Qui si ha un vero salto di qualità. Veicolato anche da una forte propaganda sul web, attraverso siti di riferimento come il blog Macerie e la trasmissione Macerie su Macerie mandata in onda da Radio Blackout. Gli attentati non sempre hanno provocato danni. E questo a causa dell’imperizia di chi ha gestito gli ordigni, comunque confezionati in modo professionale. Per le sei bombe sono stati usati timer analogici e circuiti elettrici. In due casi, il 20 aprile e il 9 giungo 2016 a Torino, sono stati identificati gli autori degli attentati, un uomo e una donna. Danni ingenti si sono avuti il 29 giugno 2016 quando una bomba ha divelto un bancomat delle Poste in via Lagaccio a Genova. Il ritrovamento di un volantino di rivendicazione induce poi la Procura a ipotizzare che tutti i 21 attentati siano da collegare al gruppo dell’ex Asilo. Il volantino indirizzato alla sede romana di Repubblica viene ritrovato al centro postale di Bologna il 22 febbraio 2016. La rivendicazione fa riferimento agli attentati avvenuti tra il 28 maggio e il 12 agosto 2015, periodo in cui il gruppo torinese, dopo l’aggiornamento del documento I cieli bruciano effettua un salto di qualità, dando vita a un circuito relazionale con le cellule anarchiche di Roma, Lecce, Potenza.

L’appiglio “penali” non basta. Una guerra da 3,2 miliardi

La vera guerra sul Tav parte adesso. La pubblicazione dell’analisi costi-benefici è il punto d’inizio di una sfida a suon di dati, il cui prologo si è già visto in queste settimane. La Lega è infatti pronta a puntare tutto sui presunti costi, o meglio “penali”, da pagare in caso di stop all’opera. Peccato però che i numeri siano assai inferiori a quelli fatti uscire nelle scorse settimane.

“Un potenziale no all’alta velocità non rappresenterebbe un no alle infrastrutture in generale”, ha avvisato ieri il premier Giuseppe Conte. “Va finito quello che si è cominciato”, ha attaccato Matteo Salvini, a cui è stata consegnata l’analisi. Secondo il leghista, avrebbe dovuto essere discussa in serata in un incontro con Conte e Luigi Di Maio, ma il vertice è saltato. La tensione, però, è alle stelle.

L’obiettivo della Lega è replicare quanto successo con il Terzo Valico ligure. L’opera, invisa ai 5Stelle, è stata bocciata dall’analisi costi-benefici affidata da Toninelli agli esperti capitanati da Marco Ponti. Nello scenario ottimistico i primi superavano i secondi di 1,5 miliardi (in quello più realistico di 2,5 miliardi), ma il governo ha dato lo stesso il via libera perché l’analisi tecnico-giuridica, affidata ad altri uffici ministeriali, mostrava il rischio di dover pagare “penali” per 1,2 miliardi. Costo che impropriamente si è deciso di confrontare con l’effetto negativo del dossier costi-benefici arrivando alla conclusione che l’opera non andava fermata.

Stavolta le cose sono più complesse. L’analisi tecnico-giuridica – che verrà pubblicata oggi e che il Fatto ha potuto visionare – arriva, nello scenario peggiore, a quantificare costi per circa 1,7 miliardi. I numeri arrivano tutti dal costruttore italo-francese Telt: dai 135 ai 405 milioni per rescindere i contratti già firmati per servizi di ingegneria e lavori; da 16 a 81 milioni come “penalità” per la violazione del Grant Agreement del 2015 che disciplina i finanziamenti dell’opera, anche quelli Ue; 400 milioni in caso di “integrale rivalsa” della Francia sui costi già sostenuti; 535 milioni di fondi già versati dall’Unione europea dal 2001 al 2015; altri 682 milioni che Bruxelles non verserà all’Italia visto che non farà l’opera, di questi, 297 sono destinati alla Francia e per questo Parigi potrebbe “avanzare pretese risarcitorie”, anche se l’analisi spiega che difficilmente la pretesa “raggiungerebbe l’intero ammontare”.

A conti fatti si arriva a un massimo di 1,7 miliardi nel peggiore dei casi, nel migliore di 1,3, anche se il dossier ammette che si tratta di ipotesi “ipotetiche”, seppur “prudenziali”. Il conto preciso, infatti, non lo sa nessuno. Grandi gare d’appalto per i lavori del tunnel non sono state ancora bandite (Toninelli le ha congelate in accordo con Parigi), il Grant agreemen prevede che “nessuna delle parti è autorizzata a chiedere un risarcimento in caso di risoluzione dell’opera da parte di uno dei contraenti”; e che l’Ue chieda indietro i fondi spesi è un’ipotesi considerata remota anche a Bruxelles. Curioso poi considerare come un costo i fondi europei non spesi da restituire.

A questi dati vanno aggiunte altre due voci di spesa: 347 milioni per ripristinare i luoghi se i cantieri dovessero essere smantellati e 1,4 miliardi per ammodernare la vecchia linea ferroviaria del Frejus (un automatismo tutto da dimostrare). Entrambe le voci, però, sono già conteggiate nell’analisi costi benefici: anche sottraendole, il risultato del dossier resta negativo per 5,7 miliardi (invece di 7). Anche usando lo stesso schema del Terzo Valico (considerare gli 1,7 miliardi di “penali” come costi da confrontare con i benefici) non cambierebbe lo scenario.

Accise, pedaggi, tempo ed emissioni tra calcoli gonfiati e stime generose

È definito minor gettito e corrisponde a quanto costa in termini di mancati introiti fiscali per lo Stato la realizzazione e lo spostamento di merci e passeggeri dalla strada alle rotaie. “Gli Stati – si legge nell’analisi – subiscono una perdita netta di accise che supera 1,6 miliardi e i concessionari una riduzione delle entrate da pedaggio, al netto della riduzione dei costi per la minore usura della infrastruttura, che sfiora i 3 miliardi”.

Meno consumo di benzina, meno pedaggi, meno tasse ai concessionari, meno entrate per il fisco. Per le accise, l’analisi ha tenuto conto del consumo di carburante delle varie tipologie di veicoli e dell’incidenza delle diverse componenti fiscali per litro. È stato calcolato il prelievo fiscale per veicolo a chilometro sulla base degli ultimi dati del ministero dello Sviluppo economico, facendo poi una media anche sui dati di Francia e Spagna, soprattutto per i mezzi pesanti. Per i pedaggi, invece, l’analisi tiene conto della media tra Italia e Francia. Un calcolo essenziale: era già stato utilizzato nell’analisi costi-benefici del 2011, realizzata dall’Osservatorio Tav di Palazzo Chigi guidato da Paolo Foietta (favorevole all’opera) e che, basandosi su uno scenario più ottimistico di variazione modale rispetto a quello utilizzato in questa analisi, di conseguenza prevedeva anche una maggiore riduzione di accise e pedaggi: 7 miliardi di mancate entrate per lo Stato e 9,5 miliardi per gli operatori autostradali.

La ‘perdita’ era però compensata da un sovrastimato beneficio in termini ambientali, valutato economicamente in circa 5 miliardi di euro. Beneficio che praticamente si annulla nello scenario attuale. La voce più rilevante riguarda la qualità dell’aria: “Sulle emissioni di Co2 si osserva come la riduzione attesa con l’acquisizione della ferrovia del 37 per cento dei flussi si attesti intorno alle 500 mila tonnellate – si legge -. Tale quantità rappresenta cir ca lo 0,5 % delle emissioni di gas serra nel settore dei trasporti in Italia (su dato 2016, ndr), lo 0,05 % delle emissioni del settore dei trasporti in Europa e lo 0,12% del totale delle emissioni in Italia”. Numeri piccolissimi. Sono poi stati analizzati i valori di PM10 e NO2 da otto stazioni di misurazione lungo gli assi che conducono ai trafori del Monte Bianco e del Fréjus. “Tra il 2007 e il 2017 c’è stata una significativa tendenza di riduzione della concentrazione che era pari in media a 23 microgrammi/m3 nel 2007 e si è attesta a 17 microgrammi/m3 nel 2017” si legge. Inoltre, anche immaginando scenari di traffico con un aumento del 2 e del 3 per cento di mezzi pesanti entro il 2030 “le emissioni totali di ossidi di azoto si ridurrebbero nel primo caso dell’80 per cento e nel secondo del 77 per cento rispetto al 2016”, complici i vincoli normativi sulle emissioni automobilistiche e il progressivo rinnovo del parco veicolare. “I flussi veicolari internazionali rappresentano una quota molto modesta del totale dei traffici a livello locale/regionale – dice l’analisi – . Si pensi che a fronte dei circa 5mila veicoli giornalieri al traforo del Fréjus di cui poco più di 2mila mezzi pesanti, sulla ‘tangenziale’ di Torino transitano ogni giorno oltre 300mila veicoli, circa il 20 per cento mezzi pesanti”.

In ultimo, la questione della congestione e del risparmio di tempo, anche questi irrisori: “I benefici economici dei risparmi di tempo da congestione, che nel loro valore totale annuo superano nell’ultimo anno di analisi i cento milioni di euro, derivano in realtà da risparmi di tempi individuali molto piccoli”. Se per la lunga percorrenza dei passeggeri, sommando anche il potenziamento delle linea storica Torino, Avigliana e Bussoleno, il beneficio sul tempo di viaggio è di un’ora, si stima che in media, nell’arco della giornata, la durata dei viaggi dei mezzi pesanti tra Milano e Parigi si riduca di 2 minuti e 20 secondi, quelli tra Milano e Lione di 1 minuto e 20 secondi mentre il tempo di attraversamento della tangenziale di Torino diminuirebbe di circa 5 secondi.

Il Tav costa troppo e non serve a nulla: 7 miliardi di motivi

Uno spreco di soldi pubblici con pochi precedenti nella storia italiana. Nel migliore dei casi si arriva a un effetto negativo (sbilancio tra costi-benefici) di 5,7 miliardi; nel peggiore si sfiorano gli 8 miliardi; in quello “realistico” si arriva a 7 miliardi tondi. L’analisi costi-benefici – prevista dal contratto di governo – sul Tav Torino-Lione è ormai completata. Il dossier affidato dal ministro dei Trasporti Danilo Toninelli (M5S) a una squadra di cinque esperti capitanati dall’economista Marco Ponti è stata consegnata a Matteo Salvini e Luigi Di Maio e verrà pubblicata oggi. Il Fatto può anticiparne i contenuti. Il risultato è una stroncatura, anche considerando i costi necessari per fermare l’opera. I benefici, per dire, si fermano a 800 milioni.
Da settimane la Lega, da sempre favorevole, e il M5S, da sempre contrario, litigano su un documento a cui entrambi hanno deciso di sottoporre l’opera. Il Tav si è ormai di fatto ridotto al solo tunnel di base tra le stazioni di Bussoleno e Saint Jean de Maurienne – 9,6 miliardi, di cui 3 a carico dell’Italia, il 35% dei lavori per un tunnel per due terzi in territorio francese A questi si aggiungono gli 1,7 miliardi del collegamento italiano al tunnel. In totale: poco meno di 12 miliardi.

L’analisi ha un punto di forza notevole. Ponti e colleghi utilizzano due scenari: nel primo si basano sulle stime di traffico, merci e passeggeri, stilate a partire dal 2011 dall’Osservatorio sul Tav di Palazzo Chigi, i cui vertici sono favorevoli all’opera; nel secondo le stime, assai ottimistiche, sono riviste alla luce di scenari “più realistici”. Il risultato è negativo in entrambi. Basta legge i dati per capire un bluff lungo 25 anni.

Nel primo scenario si assume che il traffico merci ferroviario fra Torino e Lione (oggi fermo ai livelli del 2004 e inferiore a 20 anni fa) si moltiplicherebbe di 25 volte, passando dai 2,7 milioni di tonnellate annue del 2017 ai 51,8 del 2059; i passeggeri diurni sui percorsi internazionali passerebbero invece da 0,7 a 4,6 milioni e quelli regionali raddoppierebbero dagli 4,1 a 8 milioni all’anno. Questo miracolo avverrebbe grazie allo “spostamento modale” dalla strada (e dall’aereo per i passeggeri) alla ferrovia che sarebbe innescato dall’opera. Si basa su tre assunti considerati “inverosimili” da Ponti & C.: un tasso di crescita dei flussi del 2,5% annuo; che la nuova linea ferroviaria acquisisca un flusso pari al 18% di quanto oggi transita via Svizzera (Sempione e Gottardo), al 30% dei flussi stradali che transitano al confine di Ventimiglia – distante 200 chilometri – al 55% di quelli del traforo del Fréjus e al 40% di quelli del Monte Bianco.

Nonostante i numeri stellari, l’analisi di redditività dei tecnici risulta assai negativa. Con riferimento ai costi “a finire”, cioè escludendo gli 1,4 miliardi già spesi in studi, scavi geognostici e progetti, il Valore attuale netto economico dell’investimento (Vane) risulta negativo per 7.805 milioni di euro; quello a costo completo arriva a -8.760 milioni. Anche con il taglio della tratta italiana Avigliana-Orbassano, che la Lega ha provato inutilmente a proporre ai 5Stelle per dare l’ok all’opera (il “mini Tav”), si passerebbe rispettivamente a -7.212 milioni e -8.167. Il motivo è semplice: senza quel raccordo si riducono i costi (1,7 miliardi), ma anche i benefici.

Nel secondo scenario le stime vengono rese più realistiche. Il tasso di crescita dei flussi si riduce all’1,5% annuo, si assume che per le merci lo spostamento da strada a ferrovia non interessi i segmenti di percorso più lontani dal tunnel e che la domanda generata per il segmento di lunga percorrenza sia pari al 50% di quella esistente (invece del 218%) e quella dei passeggeri regionali al 25% (invece del 50%). Il risultato è nella tabella sopra: il Vane sarebbe negativo: -6.995 milioni considerando i costi “a finire” e -7.949 milioni qualora si faccia riferimento al costo intero. Senza la tratta nazionale si passa a -6.138 milioni e -7.093 milioni. Un disastro.

I fan dell’opera attaccano il lavoro di Ponti e compagnia perché considera tra i costi il mancato gettito fiscale dello Stato: le merci si spostano su rotaia, con meno pedaggi pagati ai concessionari autostradali e quindi minori tasse pagate. L’accusa è che così si truccano i conti e si ignorano i benefici ambientali. Si tratta però di una scelta perfettamente logica in una analisi economica, infatti è ormai una prassi consolidata a livello internazionale, al punto da essere incorporata anche nelle analisi dell’Osservatorio, che addirittura le sovrastima rispetto ai numeri della commissione ministeriale. Ovviamente l’analisi di Ponti e colleghi tiene conto dei benefici ambientali (sicurezza, rumore, inquinamento, effetto serra, decongestione stradale etc.) usando gli standard Ue: ogni tonnellata in meno di Co2 immessa nell’atmosfera, per dire, genera un effetto positivo (90 euro) di minori danni ambientali ma al contempo comporta una riduzione delle entrate fiscali di circa 400 euro che hanno un impatto pesante sui conti dello Stato (meno incassi, minori esercizi statali oppure incremento di altre forme di prelievo). I benefici ambientali appaiono risibili, spiegano i tecnici. Parliamo, nello scenario ottimistico, di 7-800mila tonnellate annue di Co2 in meno (500 mila in quello realistico), quando il solo traffico di Roma ne genera 4,5 milioni. Non più dello 0,5% sul totale nazionale dei trasporti.

A conti fatti il risultato è negativo, bene che vada, per 7 miliardi, praticamente inesistenti. L’analisi è spietata: anche assumendo che servano 1,5 miliardi per ripristinare i luoghi dei cantieri e ammodernare la vecchia linea del Frejus, come sostiene il costruttore italo-francese Telt ma che rappresentano in realtà l’ipotesi di gran luna più pessimistica (il conto potrebbe risultare assai più lieve), il risultato resta negativo per 5,7 miliardi. La stroncatura nasce dal fatto che una vera domanda di traffico non sembra esserci. Nel tunnel autostradale del Frejus, che secondo i fans dell’opera dovrebbe essere decongestionato, passano 2.154 mezzi pesanti al giorno, una miseria (sulla tangenziale di Torino sono 80 mila). Secondo Ponti & C. la riduzione dei costi di trasporto generata dal Tav, come ipotizzata dall’Osservatorio (7 euro per tonnellata trasportata e un’ora di tempo risparmiato) “non è sufficiente a spostare rilevantissime quantità di domanda da gomma a ferro. Perché ciò accadesse il beneficio del tunnel dovrebbe essere molto superiore” alle stime. Che si basavano su previsioni poi rivelatesi, per stessa ammissione dell’Osservatorio, “smentite dai fatti”.

Fine della discussione: il progetto è uno spreco

Fine della discussione sul Tav Torino-Lione: l’analisi costi/benefici della commissione guidata da Marco Ponti al ministero dei Trasporti arriva alla conclusione che l’opera ha un valore attuale netto economico negativo tra i 6,1 e i 6,9 miliardi, a seconda che si faccia o meno la tratta Avigliana-Orbassano. In questi anni il progetto Tav è già costato 1,4 miliardi: 740 milioni per la parte italiana, finanziati con 402 milioni di euro statali e 328 della Ue. Che si consideri o meno questo costo non recuperabile, il bilancio dell’intero arco di vita del progetto resta negativo. Anche nell’ipotesi che l’analisi giuridica di eventuali penali, ripristino dei luoghi, restituzione (improbabile) dei fondi europei già spesi preveda un costo – è stato fatto filtrare – tra i 2,8 e i 4 miliardi, l’unica decisione razionale sul destino della linea ad alta velocità tra Piemonte e Francia è sospendere i lavori e spendere in modo diverso i fondi pubblici.

Chi avrà la pazienza di leggere questo dossier che riassume l’analisi costi-benefici, che il Fatto

può anticipare, potrà farsi un’idea esaustiva del metodo seguito da Ponti e dagli altri professori nelle 70 pagine del loro rapporto. Alcuni aspetti sono tecnici, altri richiedono giusto le tabelline: nel 2016 passavano dai trafori del Frejus e del Monte Bianco circa 5.000 veicoli al giorno. La capacità giornaliera che già ora è di 13.500 veicoli al giorno, dopo l’apertura della seconda canna del traforo salirà a 30.000. Serve un treno per le merci quando di merci ne passano così poche rispetto alla capacità massima?

Non si vede alcuna possibilità che lo scambio tra Italia e Francia aumenti al punto da rendere necessaria un’altra infrastruttura. Le stime dell’analisi costi-benefici dell’Osservatorio di Palazzo Chigi del 2011 (favorevole al Tav) sono ormai abbastanza vecchie da essersi rivelate completamente sballate, di oltre il cento per cento, rispetto al traffico che si è registrato.

L’analisi di Ponti considera anche i benefici indiretti: se si spostano merci dalla gomma al binario, diminuisce il traffico e tutti vanno più veloci. Ma chissà se l’autista di un veicolo pesante sulla tratta Milano-Lione si accorgerà di risparmiare un minuto e venti secondi. E per chi pensa che a giustificare lo sforzo del Tav ci sia l’ambiente, Ponti e colleghi ricordano che in tutte le stazioni di monitoraggio della zona coinvolta dall’opera si registra una concentrazione di PM10 di 17 grammi per metro cubo, con il limite di legge a 40. Per il solo effetto del rinnovo del parco auto, con veicoli inquinanti che vengono sostituiti da altri più ecologici, le emissioni totali di azoto sulla tratta scenderanno tra il 77 e l’80 per cento rispetto al 2016. Poiché il traffico su gomma in Italia è molto tassato, lo spostamento sulla linea ad alta velocità finirebbe per determinare un impatto sociale negativo: un pesante calo di gettito per gli Stati coinvolti a fronte di impercettibili miglioramenti della qualità dell’aria.

Se proprio si vuole sostenere l’export italiano, suggerisce la commissione, non serve scavare tunnel: poiché ogni veicolo pesante che passasse dalla strada al Tav otterrebbe un beneficio medio di 50 euro, basta ridurre di pari importo i pedaggi per attraversare Monte Bianco e Frejus. Il Tav è inutile, si può continuare a difenderlo come battaglia di principio (costi quel che costi, per dare un segnale di sviluppo), oppure come un enorme e inefficiente sussidio a un territorio che non è mai riuscito a diventare post-industriale, dopo il declino della Fiat, il tutto a spese di incolpevoli contribuenti. Ma di argomenti sensati e sorretti dai numeri non ce ne sono più. E ormai è chiaro che non ce ne sono mai stati.

Alitalia: Lufthansa resta in pista ma servono 3.000 esuberi

Scopre le carte Lufthansa e svela che la sua offerta per Alitalia prevede “circa 3.000” esuberi. A dirlo è Harry Hohmeister, un membro del cda della compagnia tedesca che è in lizza per rilevare la ex compagnia di bandiera italiana. Parlando con il quotidiano tedesco Handelsblatt, il manager avverte che “se tutto questo tira e molla durerà ancora a lungo, dell’orgogliosa Alitalia presto non rimarrà nulla”. Hohmeister fa riferimento all’ennesimo rinvio, probabilmente a marzo, della soluzione per l’ex vettore di bandiera. Nonostante tutto, però, l’amministratore conferma che Lufthansa resta in corsa come possibile partner di Fs contro il blocco Delta-Easyjet, dopo che Air France si è sfilata per le crescenti tensioni politiche tra Francia e Italia. “La decisione è ancora aperta. E lo abbiamo sempre detto: il mercato italiano è molto forte e importante per noi”, spiega Hohmeister, che precisa che il piano di Lufthansa è quello di rafforzarsi comunque nel Belpaese, a prescindere dalla conquista o meno del timone di Alitalia, magari attraverso la propria controllata Air Dolomiti. Alitalia è già stata ristrutturata due volte ed è passata da 20 mila dipendenti a poco più di 11.500 addetti.