Politici, massoni e ’ndrine dietro la truffa dei diamanti

Dietro il business miliardario dei diamanti venduti in banca a prezzi gonfiati, che ha distrutto i risparmi di migliaia di italiani, c’erano altissimi dirigenti del credito, politici, avvocati massoni legati alla ‘ndrangheta. Quando un ispettore della Banca d’Italia che controllava Mps, una delle banche coinvolte, ha scoperto gli snodi di questa vicenda, i superiori lo hanno costretto a una perizia psichiatrica (che lo ha dichiarato idoneo al servizio), demansionato, sottoposto a procedimento disciplinare e sospeso da servizio e stipendio. Il Fatto ha raccontato questa storia il 26 ottobre. La puntata di Report in onda stasera, firmata da Emanuele Bellano, fa nomi e cognomi dei protagonisti a partire da quello del funzionario di Bankitalia, Carlo Bertini.

I diamanti erano venduti in banca da due società, Dpi – Diamond Private Investment – di Maurizio Sacchi e Idb – Intermarket Diamond Business – di Claudio Giacobazzi, suicidatosi quando è esploso lo scandalo. Dal 2012 Dpi e Idb hanno firmato accordi con Mps, UniCredit, Intesa Sanpaolo e Banco Bpm. Le pietre erano vendute ai clienti in base a un “listino prezzi” pubblicato sul Sole24Ore, che non riportava però prezzi di mercato ma dati autoprodotti da Idb e Dpi. Le banche ricevevano lucrose commissioni e i bancari più bravi a vendere premi come cellulari, tablet, denaro, gioielli. Dal 2013 al 2017 Mps ha venduto pietre di Dpi per 340 milioni, incassando commissioni per 42 milioni. La Procura di Milano ha sequestrato oltre 700 milioni e ora un centinaio di manager rischiano il processo per truffa e autoriciclaggio.

Il 21 novembre 2019 Il Fatto aveva rivelato che già cinque anni e mezzo fa Bankitalia sapeva delle anomalie usate dal Monte per piazzare diamanti ai clienti. Lo dimostrava l’esposto anonimo inviato l’8 gennaio 2016 da un “onesto impiegato di Mps” alla Vigilanza e alla filiale di Firenze di Bankitalia, alla Procura di Siena e allo stesso Montepaschi. “Il risparmiatore paga 10mila euro un oggetto acquistato a meno di 2.000 e l’80% dei suoi risparmi è diviso tra banche, il broker Dpi e sponsor”, scriveva il bancario. “Mps è stata oggetto di numerose ispezioni della Banca d’Italia, come altre banche. Gli ispettori non hanno visto nulla?”, chiedeva l’esposto.

In realtà l’ispettore Bertini scopre che il primo accordo tra Mps e Dpi è del 2012, quando a guidare la banca c’erano il presidente Alessandro Profumo e l’ad Fabrizio Viola. Sotto il loro mandato la vendita si consolida fino al culmine tra 2015 e 2016. Un dirigente Mps il 13 settembre 2013 appunta: Sacchi ha incontrato Viola.

In una mail del 12 ottobre 2012 si legge: Sacchi ha un contatto diretto con Profumo. Il 7 febbraio 2013 due bancari di Mps si scrivono che Profumo “è amico di Mario Baldassarri”, ex viceministro all’Economia, nel 2013 senatore del Pdl e amministratore di Dpi, la società che vende tramite Mps. Il meccanismo l’ha messo in piedi Massimo Santoro, per trent’anni direttore centrale della Vigilanza di Banca d’Italia che nel 2011 diviene presidente di Dpi. Quando il business si blocca, Sacchi trasferisce soldi all’avvocato Giancarlo Pittelli, legale di Dpi, ex parlamentare di Forza Italia poi in Fratelli d’Italia, avvocato delle famiglie di ‘ndrangheta Piromalli e Mancuso, legato alla massoneria. Ma quando il funzionario ne parla con i suoi superiori in Banca d’Italia, Ciro Vacca, capo della supervisione bancaria, Paolo Angelini, capo della Vigilanza, e Alessandra Perrazzelli, vicedirettrice generale, viene sanzionato: l’ispettore ha fatto il suo lavoro troppo bene, dunque va punito.

Piazza Fontana, il Senato rilancia la pista anarchica

Citare ancora gli anarchici come possibili esecutori della strage di piazza Fontana, 52 anni dopo. E dopo che le sentenze definitive hanno sancito che a mettere le bombe del 12 dicembre 1969 furono certamente i fascisti di Ordine nuovo. Eppure è successo: e addirittura nel sito del Senato. “Sostenere che ‘per Piazza Fontana, gli anarchici vennero completamente assolti dall’accusa di strage’, significa (…) affermare un falso storico”.

Così dice la relazione firmata da due ex senatori del Movimento sociale italiano, Alfredo Mantica e Vincenzo Fragalà, linkata ieri sul profilo Twitter ufficiale del Senato in occasione del 52° anniversario della strage. “Storia di depistaggi: così si è nascosta la verità”, hanno scritto dal Senato nel tweet collegato proprio a quella relazione che sì depista e travisa, tornando sulla pista anarchica, mentre le indagini hanno evidenziato, come ricordato anche ieri dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che quell’attentato, 17 morti, fu neofascista.

Il segretario di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni, ha attaccato duramente la presidente del Senato Elisabetta Casellati: “Un oltraggio alle vittime, ai loro familiari, alla città di Milano”. La presidente Casellati si è ben nascosta dietro l’ufficio stampa di Palazzo Madama che in una nota nel tardo pomeriggio, dopo aver rimosso il tweet, si è assunto la colpa: “È per un mero errore di collegamento al link delle relazioni depositate in sede di Commissione stragi che un tweet dell’ufficio stampa del Senato, e non della presidente, dava accesso anche alle relazioni di minoranza presentate a titolo individuale da alcuni componenti dell’epoca. Nessun intento di avvalorare tali opinioni così come quelle di altri”. La nota finisce per essere una pezza peggiore del buco, perché concede dignità di “opinioni” a quelli che sono invece clamorosi errori e veri depistaggi.

Anche il giornalista Primo Di Nicola, senatore del Movimento cinque stelle, ha criticato l’accaduto: “Utilizzare i siti social del Senato per rilanciare le tesi neofasciste intorno alle responsabilità degli anarchici sulla strage del 12 dicembre del 1969 è semplicemente un’operazione vergognosa di mistificazione storica. Un colpo alla memoria delle vittime e alla sofferenza dei familiari. Le responsabilità dei movimenti clandestini neofascisti dell’epoca e le collusioni degli apparati deviati dello Stato sono ormai un fatto acquisito. Mi auguro che la presidente del Senato Casellati faccia sentire presto la sua voce per tutelare l’immagine e il prestigio del Senato”.

Ma la voce, appunto, non è pervenuta. Anzi, anche nelle celebrazioni della mattinata, Casellati aveva evitato di citare i reali responsabili della strage limitandosi a queste parole senza accennare ad alcuna matrice: “Lo sdegno dell’Italia intera per la strage di piazza Fontana non si è mai spento. Il 12 dicembre 1969 ci furono sgomento, dolore, indignazione. Fu l’inizio di una lunga stagione di sangue. Ma a 52 anni di distanza, il pensiero per le 17 vittime e il ricordo di quel barbaro crimine devono essere un monito affinché le trame eversive e le sofferenze che ne derivarono, individuali e collettive, non si ripetano più nel futuro”.

Nella cerimonia in piazza Fontana, ieri, è stato contestato il sindaco Giuseppe Sala, che a proposito dello sciopero indetto per il 16 dicembre ha detto: “Lo sciopero è probabilmente sbagliato, ma è un diritto”. Fischi e grida hanno interrotto il suo intervento.

“Fondo il mio terzo polo a sinistra. E in Puglia serve un altro mandato”

“L’ipotesi di un nuovo terzo polo è non solo possibile ma praticabile. Un’idea fruttuosa per il centrosinistra, un modo anche per arginare le fluttuazioni destabilizzatrici prodotte da Calenda e Renzi”.

La moda di questa stagione politica è il terzo polo. In genere identificato nel partito gnè gnè: gnè di qua gnè di là. E così a Michele Emiliano, governatore della Puglia, è venuto in mente di fondare qualcosa che assomigli a quel che già altri vagheggiano e produrre su carta la variante di centrosinistra del centro.

Parto da questa considerazione: c’è una rispettabile collina di voti che vagano nel mare magnum del centrosinistra ma non trovano un porto sicuro. Elettori che non scelgono Pd e Cinquestelle ma non sono di centrodestra. A costoro cosa diciamo?

Cosa diciamo?

Una federazione che raccolga le sigle, da sinistra verso il centro, che da sole non riuscirebbero a superare lo sbarramento.

In altri tempi si sarebbero chiamate liste civetta.

Civetta un corno! Non sono escamotage elettorali ma attrattori periferici dei voti che altrimenti andrebbero dispersi e perduti.

Massimizzare il voto, supervalorizzarlo. Un po’ quel che si fa con le plusvalenze nel mercato del calcio.

Cosa vede di strano nel dare uno sbocco positivo e un approdo sicuro a chi sceglie il centrosinistra ma resta fermamente dell’idea che il suo è un voto civico?

Lei immagina un rassemblement dei piccoli e piccolissimi?

Il civismo, l’espressione territoriale, potrebbe fruttificare. Enrico Letta e Giuseppe Conte avrebbero di che gioirne. Enrico vuole il campo largo del centrosinistra?

E lei vuole zappellare l’orticello.

L’atomizzazione di questa presenza sulle schede elettorali è un grande problema perché di fatto rende ininfluente la partecipazione alla politica di un sacco di gente. Se è un problema, troviamo una soluzione.

Una soluzione per contrastare la tattica di Calenda e Renzi. Al furbo lei propone un furbo e mezzo.

È una possibile risposta a coloro che navigando al centro massimizzano questa posizione marginale e riescono a ostruire, a rendere perigliosa la navigazione. Io so che col centrodestra, se ciascuno mette in campo per bene le forze, siamo pari. Ce la giochiamo la partita delle elezioni.

Emiliano fa di testa sua pur di sparigliare oppure chiede consiglio a Letta?

L’ipotesi regge solo se c’è intesa e convinzione. Se Pd e Cinquestelle ritengono che sia utile. Non spariglio, mi adopero per costruire.

E si candiderebbe a guidare questo terzo polo?

Nooo, faccio il governatore e qui voglio restare.

Lei è infatti uno di quelli che spingono per abbattere il vincolo dei due mandati.

Ne serve un terzo.

Quindici anni al potere. Più che governatori diverrete principi ereditari.

Il Covid ha rallentato, quando non proprio sospeso, programmi e progetti. Vogliamo recuperare il tempo perduto. L’Anci è unita nel chiedere anche per i sindaci la revisione di questi vincoli al mandato.

Lei a Bari, il terzo polo rosé a Roma.

Non soltanto civismo. Alcuni simboli, penso all’arcipelago che l’altra volta dette vita a Leu, potrebbe utilmente intestarsi questa battaglia per combattere il male endemico della dispersione elettorale, della parcellizzazione che diventa nulla poi in Parlamento.

Michele Emiliano è un terzista nato.

Mi piace amministrare e la mia idea della politica si condensa solo nell’atto quotidiano di fare le cose. Perciò sono più laico, più aperto.

Le piace pescare di qua e di là.

Ai tempi del Pci c’erano gli indipendenti di sinistra. Adesso esiste nella società un numero impressionante di cittadini che si esprimono solo attraverso istanze civiche. Che fa, li mandiamo a mare?

Li portiamo al seggio.

Ecco, li portiamo al seggio. Da candidati o da elettori. Granello su granello si fa una montagna di sabbia.

Aveva detto collinetta.

E le farebbe schifo la collinetta?

“Un patriota al Quirinale”. Meloni un po’ fredda su B.

“La pacchia per il Pd è finita: zero compromessi, il centrodestra ha i numeri per essere determinante sul prossimo Presidente della Repubblica. Deve essere un patriota”. Alle 12.30, in una fredda domenica di metà dicembre, Giorgia Meloni sale sul palco di Atreju e lancia l’identikit del candidato del centrodestra per la Presidenza della Repubblica. Matteo Salvini da oggi ha annunciato di voler sentire tutti i segretari di partito per cercare una convergenza, ma la leader di Fratelli d’Italia non vuole essere da meno. Non ha alcuna intenzione di lasciare il boccino in mano al suo competitor nel centrodestra. La leader della coalizione è lei, sembra dire Meloni, e quindi è lei a dover dare le carte per il Colle. D’altronde, la versione natalizia di Atreju (“Il Natale dei conservatori”), con tanto di strenne, presepi viventi e pista di pattinaggio in piazza Risorgimento, a pochi passi dal Vaticano, ha dato a Meloni una centralità quasi insperata. Tutti i leader – da Giuseppe Conte a Enrico Letta, da Matteo Salvini a Matteo Renzi – sono arrivati alla sua corte, nonostante FdI sia l’unica forza di opposizione al governo Draghi. Per eleggere il prossimo Capo dello Stato bisognerà passare anche da lei.

Nel suo discorsodi chiusura della kermesse, Meloni non fa nomi ma spiega che il prossimo Presidente dovrà essere un “patriota” che “faccia gli interessi della Nazione”. Ergo: una figura che, in caso di vittoria del centrodestra, le dia l’incarico per governare. Per esempio, Mario Draghi? “Non ho ancora elementi per dire se è un patriota, lo valuterò sui dossier come Tim, Autostrade, la Borsa italiana” glissa Meloni poco dopo, intervistata da Lucia Annunziata a Mezz’Ora in Più. La leader di FdI a ha un ottimo rapporto con il presidente del Consiglio e i suoi fedelissimi raccontano che, in caso di candidatura dell’ex banchiere, Meloni gli avrebbe già assicurato il suo sostegno. Ma per il momento, meglio tenere le carte coperte. E Silvio Berlusconi? Nel suo discorso conclusivo Meloni non lo nomina mai. Un gesto che fa capire quanto nemmeno lei creda più di tanto nell’elezione del leader di Forza Italia al Colle. Tant’è che, stuzzicata da Annunziata, prima Meloni spiega che Berlusconi sarebbe un “patriota” perché ha “difeso gli interessi nazionali” e che “non è un candidato di bandiera”, ma poi fa capire che la sua elezione è impresa complicata: “Ricompatterebbe il centrodestra ma bisogna vedere se ha i numeri”. Ad ogni modo, Meloni per il momento dice che i nomi “si fanno a gennaio”. L’identikit però è quella: “Serve un patriota”. Un modo per compattare i suoi e alzare l’asticella per eleggere un candidato di centrodestra. Tant’è che ieri, nell’area dibattiti di Atreju, girava molto il nome di Marcello Pera. Identikit – quella del “patriota” – su cui non c’è accordo tra le forze politiche. Anche perché piuttosto fumosa. Enrico Letta nel pomeriggio twitta ironicamente una foto di Sandro Pertini (“Capo dello Stato patriota”) per far capire che su quella definizione i partiti hanno idee molto diverse. Dal Nazareno spiegano che tutti i Presidenti di espressione centrosinistra sono stati “patrioti”. Per ora, siamo alla pre-tattica.

Il dialogoperò se lo intesta Salvini che oggi chiamerà i leader e trova subito la sponda di Italia Viva: “Bene l’iniziativa della Lega – dice il renziano Ettore Rosato – serve una convergenza ampia”. Ipotesi su cui la Meloni è più fredda: “Proviamoci ma non è facile”. D’altronde, nel suo discorso davanti agli esponenti dei partiti conservatori e sovranisti di tutta Europa (dallo spagnolo di Vox Jorge Buxadé al conservatore inglese James Wharton fino al polacco Radoslaw Fogiel), Meloni ne ha per tutti. Per il Pd che vuole “un presidente gradito ai francesi”: “Palazzo Chigi prende ordini dall’Eliseo e Letta è il Rocco Casalino di Emmanuel Macron”. Per Conte che “non si sa come sia diventato premier”. Parla ai suoi Meloni, deve scacciare l’ombra di essere scesa a patti con il nemico. Il discorso, che dura oltre un’ora, è identitario. Il pantheon lo dimostra: alterna citazioni di Giuseppe Prezzolini a quelle di Giorgio Almirante. “Mi candido a guidare iconservatori” conclude Meloni. La partita del Colle sarà uno snodo fondamentale.

Caro-bollette, Draghi sottrae 200 milioni dal “Fondo disabilità”

Togliere 200 milioni di euro al Fondo per la disabilità per contenere la nuova stangata delle bollette dell’energia. L’importante è non scomodare mai i redditi più alti. L’ennesima trovata del governo, alla ricerca disperata di miliardi, non è delle più geniali e spinge al ricorso della vulgata popolare: non si dovrebbero mai fare le nozze con i fichi secchi. Un consiglio, s’intende, che dovrebbe essere seguito dalla politica, soprattutto quando si ha a che fare con la categoria più svantaggiata e bisognosa di risorse. Andiamo con ordine. Negli scorsi giorni il Consiglio dei ministri ha deliberato risorse aggiuntive che verranno utilizzate anche per il caro-bollette. Si tratta di una specie di artificio contabile che, utilizzando diversi fondi non spesi, consente al governo di aumentare di 1 miliardo di euro, a quota 3,8, lo stanziamento totale per calmierare gli aumenti delle bollette energetiche. In manovra, infatti, ci sono 2 miliardi, a cui si aggiungono 500 milioni dal tesoretto fiscale e altri 300 secondo l’intesa già siglata in Consiglio dei ministri. Ma l’impiego di queste risorse in più rappresenta comunque un pannicello caldo. Gli aumenti di oltre il 40% che si abbatteranno dal primo gennaio su famiglie e piccole imprese, le più colpite dagli aumenti esorbitanti di gas e luce, potranno essere sterilizzati solo se il governo arriverà a stanziare oltre 7 miliardi di euro. Fino a ora sul piatto ce ne sono la metà.

Così, se il premier Mario Draghi, che oggi partecipa alla Conferenza nazionale sulla disabilità, va ripetendo che sulle bollette si deve ancora lavorare, il ministro dell’Economia Daniele Franco può solo ingegnarsi a lavorare di cesoie sulla manovra, togliendo da una parte e spostando soldi su altre voci. Un giochetto contabile che ha finito per colpire pure il fondo per la disabilità e la non autosufficienza che si è così visto prosciugare il proprio stanziamento.

Per semplificare al massimo, va detto che questo fondo, creato per dare attuazione alla legge delega sulla disabilità, è stato istituito con la legge di Bilancio 2020 con una dotazione di 200 milioni di euro per il 2021 e di 300 milioni di euro annui a decorrere dal 2022. La Camera, però, ha approvata la legge delega solo lo scorso 9 dicembre, agganciandola al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Questo significa che gli obiettivi preposti non solo vengono spalmati nei prossimi anni, ma che ci saranno 20 mesi a disposizione per scrivere i decreti attuativi per rendere operative le misure, come il nobilissimo obiettivo di realizzare una effettiva inclusione nella società delle persone con disabilità. Tanto da far incrementare il Fondo di 50 milioni annui dal 2023 al 2026 con la prossima manovra e la cui gestione passa al Mef. Ma tecnicamente, quello che pensano a Palazzo Chigi e al Ministero dell’Economia e delle Finanze, è che risorse già stanziate non possono davvero restare ferme.

E da qui la bella pensata: dirottare questi soldi sul caro bollette. Eppure non ci sarebbe stato bisogno di scomodare il fondo per la disabilità se Lega, Forza Italia e Italia Viva avessero accettato la proposta del premier Draghi di congelare per un anno lo sgravio Irpef sui redditi sopra i 75 mila euro. Questo “contributo di solidarietà” da parte di un milione di contribuenti avrebbe consentito di reperire 248 milioni.

“Gli strani giri contabili sono inaccettabili soprattutto quando si ha a che fare con la disabilità. Siamo abbastanza preoccupati per questa decisione, anche se il governo ci ha tranquillizzati: il dirottamento dei fondi è solo temporaneo e lo stanziamento totale sui tre anni di 800 milioni verrà ristabilito non appena ci saranno i decreti attuativi”, spiega Roberto Speziale, il presidente Anffas (l’Associazione nazionale delle famiglie con persone con disabilità).

Che però non abbassa la guardia: “Quello che hanno fatto non è bel segnale, speriamo che non si tratti della più grande presa in giro per i disabili”.

Ma mi faccia il piacere

Due gocce d’acqua/1. “Berlusconi al Quirinale lo vedo benissimo. Credo che sarebbe il Presidente più straordinariamente simile a Pertini” (Gianfranco Rotondi, deputato FI, Lnews, 4.12). Faceva la Resistenza sulle montagne di Castiglion Fibocchi nella brigata partigiana P2.

Due gocce d’acqua/2. “Care toghe, riflettete: Zaki e Pittelli, casi simili” (Tiziana Maiolo, Riformista, 11.12). Quindi Gratteri e Al Sisi pari sono e Zaki è indagato per ‘ndrangheta.

Sua Altezza. “Governare è una cosa seria, non si può governare a cazzo. Berlusconi ha dimostrato di saper governare: in politica estera è stato un gigante” (Alessandro Sallusti, direttore di Libero, Piazzapulita, La7, 2.12). Come faceva le corna lui, nessuno.

Un uomo schivo. “Burioni tra i vip della Scala: ‘Spero di poter tornare presto nell’ombra’” (Corriere.it, 7.12). Perchè rimandare a domani quel che potresti fare già oggi?

Voce del verbo. “Suppletive a Roma-1 Calenda rompe con il centrosinistra” (Repubblica, 11.12). Più che altro, rompe.

Esigenze. “Non credo ci sia nessuna esigenza dei Cinquestelle in Italia. Perché dobbiamo avere i M5S? Non esistono più” (Carlo Calenda, leader Azione, Zapping, Rai Radio1, 10.12). Un solo grido si leva dall’Alpi al Lilibeo: “Abbiamo una sola esigenza: Calenda!”.

Chi è stata. “È stata la mano di Mattarella. Perché la gente gli chiede a gran voce il bis? Disamina del settennato dopo la standing ovation alla Scala. Un Presidente che ha piegato i populisti e tenuto insieme il Paese con umanità durante la pandemia” (Repubblica, 9.12). È stata la lingua di Repubblica.

In che stato. “… com’è ridotta la tv italiana” (Francesco Merlo, Repubblica, 28.11). Figurarsi che la Rai renziana sganciava 240mila euro l’anno al “consulente” Francesco Merlo.

Rosatellum. “Conte non si candida? Mi dispiace un sacco perché sono convinto che avrebbe perso… Come alleato è meglio Berlusconi di Conte, perché Conte l’ho già provato… Berlusconi fa parte del Ppe, FI è un partito con cui siamo con serenità al governo” (Ettore Rosato, presidente Iv, Un giorno da pecora, RaiRadio1, 7.12). Poverino, non sa di essere al governo coi 5Stelle di Conte. Ma la mamma non gli dice proprio niente?

Trucchetti. “Il trucco di ‘Mani Pulite’ per arrestare gli indagati” (Libero, 12.12). Li interrogavano e quelli confessavano: i soliti mezzucci, signora mia.

Spingitori di presidenti. “Amato di tutte le riserve della Repubblica il vicepresidente della Consulta è sempre in cima. E’ un problem solver, ha una cassetta degli attrezzi infinita, un’intelligenza poliedrica e velocissima. Un Dottor Sottile figlio di ferroviere perfetto per il Quirinale” (Antonella Rampino, Dubbio, 10.12). Il piccolo fiammiferaio: che tenero.

Innocenti a loro insaputa. “Rosa e Olindo, 15 anni senza pentimenti. Pronta un’istanza per chiedere la revisione del processo. Condannati all’ergastolo non si sono mai arresi” (Gianluigi Nuzzi, Stampa, 11.12). Oltre a non pentirsi e a non arrendersi, hanno fatto di più: hanno confessato.

Libera stampa. “Bonomi: lo sciopero è un errore” (Messaggero, 11.12). “Perchè è un errore” (Dario Di Vico, Corriere della sera, 8.12). “Un sindacato per vecchi” (Francesco Merlo, Repubblica, 9.12). “L’assembramento irresponsabile che vuole Landini” (Foglio, 9.12). “I sindacati dimenticano i giovani” (Stampa, 9.12), “Salvini e Bonomi attaccano Cgil e Uil” (Stampa, 12.12). Atroce sospetto: la stampa italiana non c’entrerà mica qualcosa con la Confindustria?

Siete circondati. “Effetto sciopero: Cgil e Uil isolate. Landini e Bombardieri sotto assedio. La Cisl: ‘Errore’” (Giornale, 9.12). I due sindacati che scioperano circondati dall’unico che non sciopera. “Comandante, ho fatto dieci prigionieri!”. “Bravo soldato, portali qui!”. “Ma comandante, non mi lasciano venire!”.

Senti chi parla. “Ermini: ‘Fermare le porte girevoli tra politica e giustizia’” (Repubblica, 9.12). Parola del parlamentare del Pd piazzato da Renzi alla vicepresidenza del Csm.

Già-less. “25 anni che i Jalisse tentano di andare a Sanremo e vengono respinti. So cosa vuol dire. È esattamente la mia storia con la segreteria del partito!” (Gianni Cuperlo, Pd, Twitter, 6.12). Maledetto televoto

Il titolo della settimana/1. “Il Cavaliere vuole vincere, non partecipare, per questo continua a fare scouting di parlamentari” (Dubbio, 11.12). Eh, ecco, mo’ si chiama “scouting”.

Il titolo della settimana/2. “’Volevamo assumermi ma resto voi grillini’. Giuseppi confessa: ‘Dopo l’addio a Palazzo Chigi ho rifiutato incarichi vantaggiosi da alcune multinazionali’. Cosa fa Conte pur di non lavorare” (Libero, 11.12). Roba da ergastolo.

Il titolo della settimana/3. “La Commissione antimafia è solo un ‘poltronificio’. E se la chiudessimo?” (Aldo Varano, Dubbio, 8.12). Ora B. completa lo scouting e poi la scioglie lui, nell’acido.

Il titolo della settimana/4. “Calenda lo sfida e Conte fugge. Salta il patto Pd-Travaglio” (Riformista, 7.12). Uahahahahah.

Abel Ferrara insegue Padre Pio e Nolan si dà al nucleare

In coincidenza con l’uscita nelle sale italiane di Diabolik prevista il prossimo 16 dicembre, i Manetti Bros. girano contemporaneamente due sequel delle avventure del celebre fumetto nero creato dalle sorelle Giussani, coinvolgendo questa volta come protagonista – al posto di Luca Marinelli – il 32enne italo-canadese Giacomo Gianniotti, noto per il personaggio del dottor Andrew DeLuca nella serie Grey’s Anatomy. Prodotti come il prototipo da Mompracem e Rai Cinema e ambientati fra Bologna e dintorni e Trieste, i due film vedono confermati nel cast sia Miriam Leone nella parte di Eva Kant sia Valerio Mastandrea in quella dell’ispettore Ginko.

Abel Ferrara dirige da qualche settimana in Puglia, a Monte Sant’Angelo, un nuovo film incentrato sulla figura di Padre Pio da Pietrelcina, interpretato dall’americano Shia LaBeouf oltre che da Ignazio Oliva, Brando Pacitto, Marco Leonardi, Luca Lionello e Roberta Mattei. Frutto di una coproduzione Germania/Italia tra Maze e Interlinea Film con il supporto di Apulia Film Commission, e ambientato nel 1920, racconterà l’arrivo nel paese del Gargano del giovane frate in piena crisi mistica e lo vedrà manifestare i primi miracoli e ricevere le prime stimmate in concomitanza con la prima vittoria socialista contadina repressa nel sangue.

Dopo il successo planetario di Tenet, Christopher Nolan sta per tornare sul set per girare Oppenheimer, un biopic che racconterà la storia del fisico statunitense Robert Oppenheimer, noto soprattutto per la costruzione della prima bomba atomica. Tratto dal libro American Prometheus: The Triumph and Tragedy of J. Robert Oppenheimer, il film sarà interpretato da Cillian Murphy nel ruolo del titolo e da Emily Blunt in quello di sua moglie Katherine, oltre che da Robert Downey jr., Matt Damon e Rami Malek.

“Voglio il tuo collo”: dopo il part-time all’Ikea Jesse The Faccio firma brani sentimentali

Le ballate apatiche di Jesse The Faccio hanno una caratteristica ben precisa: contengono riflessioni semplici, che risuonano fino a quando, all’improvviso, non acquisiscono una sottile profondità. E ti invadono. Sarà anche per quel suo stile da slacker, con l’inseparabile cappellino da baseball, che non toglie quasi mai dalla testa, “per non far vedere cosa c’è sotto”. O per quella voce un po’ roca, mentre canta troppo vicino al microfono, prima di iniziare un’incessante ripetizione di frasi, tipo “voglio il tuo collo”.

Il cantautore padovano all’anagrafe Jesse De Faccio, “l’articolo the dà un tocco internazionale”, prova una certa fierezza quando racconta che deve il suo nome al personaggio di una serie tv di cui la madre era appassionata: Fame, Saranno Famosi, una delle prime ad affrontare temi riguardanti le piaghe sociali che alla fine degli anni Settanta stavano diffondendosi negli Stati Uniti.

Mentre sbarca il lunario lavorando all’Ikea, “un part-time che mi lascia il tempo per dedicarmi ad altro”, Jesse coltiva il sogno di farsi strada nella musica con il suo progetto che è un mix di sonorità lo-fi, tradizione cantautorale, slacker Usa, pop.

Le sue canzoni confuse, a volte distorte, si rifanno a band leggermente storte degli anni Novanta. Nostalgia per un tempo neanche vissuto appieno. “La musica alternativa di quegli anni è stata quella che mi ha fatto appassionare. Ascoltare i Nirvana in quinta elementare è stata un’illuminazione”.

I Soldi per New York, disco d’esordio del musicista veneto, si rifà principalmente ad artisti come Beach Fossils e Mac Demarco, che “mi ha aperto un mondo, ho imparato molto da lui e dalle sue tecniche”. La cameretta, invece, è il centro del suo universo, “l’ambiente in cui scrivo di più, ma è in giro che mi appunto i pensieri. Vengo ispirato fuori dalla mia comfort zone, ma poi è lì che rielaboro il tutto”.

Nel nuovo Ep Cose Che Ho, composto da quattro brani, ricrea atmosfere alla Stephen Malkmus, mettendo nelle canzoni se stesso, i suoi sentimenti e le sue ossessioni, su un sound minimale, e per ognuna è stato girato un video. “Il disco nasce nel periodo del primo lockdown, durante il quale ho avuto un crollo in seguito alla fine di una storia d’amore importante. Mi trovavo ad avere un blocco nella scrittura, poi superata l’estate ho ritrovato la parola, e in breve tempo ho scritto testi e musica. In stile lo-fi, che rappresenta il mio stile di vita. All’inizio, non essendoci molti mezzi, senza avere grandi possibilità di produzione, è stato un approccio naturale”. La semplicità disarmante e l’universalità emotiva che riesce a esprimere sono il suo marchio di fabbrica, non sempre però le canzoni accolgono calorosamente l’ascoltatore nel suo mondo. In fondo, la crescita è l’unica testimonianza di vita.

Il ritorno a casa: cento opere riemergono dai magazzini

Un mese fa a Rotterdam ha aperto The Depot, un enorme edificio circolare dalle pareti a specchio: ricco di un labirintico interno, è stato concepito per offrire alla pubblica fruizione su 15 piani (distinti a seconda delle temperature idonee alla conservazione) le 151 mila opere custodite nei depositi della collezione d’arte Boijmans Van Beuningen – altre 8 mila sono visibili nella sede del Museo vero e proprio.

L’ambiziosa iniziativa olandese (che verrà presto imitata, pare, dal Victoria and Albert di Londra) ha portato alla ribalta l’importanza del “sommerso”, dei depositi: un patrimonio che nei musei nazionali d’Italia ammonta – così il ministro Dario Franceschini – a 4,5 milioni di opere (quelle esposte sono circa un decimo). Il più modesto (1 milione di euro) progetto del ministero della Cultura “Cento opere tornano a casa” imbocca una strada diversa da quella di Rotterdam, in omaggio alla consapevolezza che il nostro Paese vive di una fitta rete di musei (480 quelli nazionali, oltre 5.000 in tutto), molti dei quali poco noti al grande pubblico: preleva cioè singole opere dai depositi di grandi istituzioni (oltre 3.600 pezzi) e le destina a figurare per dieci anni in contesti espositivi più piccoli e decentrati, spesso legati all’origine delle opere stesse. È il caso di una testa di trave bronzea delle navi di Caligola che da Roma si sposta al Museo delle Navi di Nemi, o del Mitra tauroctono già al Getty e poi a Ostia Antica, che torna alla Villa Giustiniani di Bassano Romano donde proveniva; è pure il caso di alcuni dipinti già custoditi in chiese marchigiane (Federico Barocci, Simone Cantarini) che vengono spediti da Brera, dove li portò Napoleone assieme a tanta parte del patrimonio artistico della Cisalpina, alla Galleria Nazionale di Urbino; o ancora della Allegoria di Trieste e dell’Istria di Annibale Strata che nel 1861 fu regalata dai triestini a Vittorio Emanuele II per auspicare l’annessione all’Italia (nel quadro c’è tanto di barca dei garibaldini col tricolore) e ora da Torino – dove pure, in verità, aveva un suo senso – “torna” al Castello di Miramare. Questi “ritorni” sono talora imperfetti o impuri: perché due paesaggi del napoletano Salvator Rosa, oggi alle Gallerie Nazionali Barberini Corsini, vengono spediti al Museo di Matera, pure prezioso scrigno d’arte barocca? Perché un ritratto di Carlo V di Tiziano e bottega viene mandato dagli Uffizi al Palazzo Besta di Teglio in Valtellina? L’Immacolata Concezione di Brera, attribuita a Giovanni Baglione un ventennio fa, è destinata al Palazzo Altieri di Oriolo Romano solo perché lì ci sono affreschi del medesimo Baglione?

In realtà il progetto, come mostra la circolare ministeriale, era nato con un nome e un focus un po’ diversi (“Dai depositi ai musei”, sic et simpliciter) e dunque l’elemento del “ritorno a casa” è stato aggiunto a posteriori, non sempre a proposito. Al netto di ciò, l’obiettivo di promuovere i musei “minori” è lodevole, e così quello di restaurare le opere “invisibili” in occasione del loro trasferimento, e – si spera – di studiarle. La cooperazione con Rai Documentari frutterà una serie di video sui viaggi delle opere a bordo di “pulmini speciali brandizzati” (hélas!): li vedrà il pubblico delle reti generaliste italiane e poi, pare, quello europeo.

“Paolo sul set è affettuoso, Capuano un maestro iroso e Servillo serio ‘da paura’”

Le parole sono importanti, specialmente se l’occhio del riflettore all’improvviso è diventato gigante: “Speriamo di non offendere nessuno”. In cosa? “Per quello che dirò”. Pericolo già percepito o solo presupposto. “Ancora non mi rendo pienamente conto; (sorride, si sistema i capelli) mi stanno arrivando messaggi da persone che non vedo né sento da decenni. È stata la mano di Dio sta avendo un impatto che non capita mai”.

Teresa Saponangelo è la donna sulla lambretta tra il padre di Paolo Sorrentino e il Sorrentino giovane.

Teresa Saponangelo è la mamma; la mamma allegra, scherzosa, giocoliera con le arance (“quanto mi sono allenata”), imprevedibile, rabbiosa, giustamente gelosa. Una donna complessa, soprattutto se il regista si chiama Sorrentino e la storia è sua nei fatti, non nei sogni: “E Paolo ha pure dato poche indicazioni, mi ha solo tranquillizzata: ‘Quando sorridi sei proprio lei; quando sei seria diventi mia zia’”.

Lei è una bravissima attrice, specialmente di teatro, una da gavetta, quella vera, con gli alti e i bassi, certezze e illusioni, disperazione e telefonini che squillano.

Fino a quando la mano di Dio l’ha accarezzata.

Tra poco per il cinema sarà “la mamma”…

(Sorride) Lo so, lo so. Perché ho questa natura dolce.

A 48 anni improvvisamente famosa.

Ho i social invasi dai messaggi, non mi era mai capitato: cerco di rispondere a tutti; per me è una scoperta quotidiana per capire tanto le reazioni altrui quanto le mie rispetto agli altri.

Cos’è per lei il successo?

La continuità nel lavoro, la possibilità di scegliere un ruolo e di poter passare dal teatro al cinema e viceversa; (pausa) la continuità è al primo posto.

Ansiosa?

Sul lavoro non particolarmente, nonostante abbia vissuto lunghi momenti di pausa.

E nel frattempo?

Magari studiavo danza, canto, cucina o seguivo i corsi più disparati, anche all’estero; alcuni colleghi mi prendevano per il culo.

Suo figlio come ha reagito al clamore?

È orgoglioso: l’altro giorno l’ho sentito chiudere una conversazione online con la frase “scusate, ma devo andare alla prima di Sorrentino”, con il tono di chi è superiore a queste cose e le ritiene una palla. In realtà è felicissimo; è pure convinto di aver trovato la sua strada: “Lavorerò con Paolo”.

Perfetto.

Ogni volta rispondo la verità: “I suoi aiuti sono tutte persone colte e laureate. Quindi se non studi non ti prende”.

Sorrentino uno zio.

Più che altro è un riferimento altissimo per i giovani; loro sono sempre attratti da chi nella vita ha ottenuto conferme importanti e lui, forte pure di un Oscar, in questo film manda un messaggio potente: quello di poter uscire da un tunnel, anche se il tunnel appare infinito.

Si è mai imbarazzata a interpretare la madre morta del regista?

Forse all’inizio, per la responsabilità: dovevo prima emozionare lui e poi il pubblico.

Riguarda i suoi lavori?

Mai, non mi piace.

Rifarebbe tutto?

Assolutamente. Oggi più di ieri; non condivido l’atteggiamento di alcuni registi che in questi anni mi hanno rimproverata per scelte giudicate “non artistiche”. Lì mi sono offesa: se li avessi ascoltati sarei sparita, morta come attrice. Non sarei qui.

Nella lista dei film sbagliati di sicuro non c’è Ferie d’agosto.

Lì ho un rimpianto: ero talmente imbarazzata e intimidita da un cast così importante (al solo ricordo ancora si imbarazza e si intimidisce perché inizia a infilare una serie di frasi disarticolate, smozzicate) … poi in quel momento facevo fatica, insomma… no… poi ero… ero piccola… venivo da Napoli… ancora non avevo capito… cioè dov’ero…

Quindi?

Insomma, ogni volta che finivo di girare scappavo da Ventotene e tornavo a Roma; così mi sono persa la foto ufficiale del manifesto: lì dovevo starci pure io.

Di quel cast chi la intimidiva di più?

Paolo Virzì in primis, poi Ennio Fantastichini; (pausa) Ennio ancora non lo conoscevo bene, mi sembrava duro, respingente; tempo dopo ci siamo ritrovati all’Asinara e ho scoperto una persona incredibile, di una dolcezza spiazzante, un uomo generoso e un collega onesto; (sorride) a Ventotene c’erano anche Laura Morante e Sabrina Ferilli, per me rappresentavano mondi inarrivabili.

Servillo all’inizio la intimoriva?

L’ho corteggiato.

Cioè?

La prima volta l’ho incontrato a Venezia e non ci conoscevamo; anzi, lui non conosceva me. L’ho fermato: “Voglio lavorare con lei”; (pausa) lo seguivo in ogni spettacolo, era meraviglioso, provavo un’ammirazione totale. Ancora adesso lo sto implorando di tornare insieme sul palco.

Ammirazione o cotta?

Giuro, solo ammirazione, si vede in alcune scene di È stata la mano di Dio: lo guardo in maniera particolare; lui poi è molto serio, non dà confidenze, utilizza riferimenti culturali che possono intimorire l’interlocutore. Toni ha rappresentato una delle preoccupazioni maggiori prima del set con Paolo (Sorrentino, ndr).

Per il confronto diretto?

A teatro era tostissimo, così avevo quell’eco nell’orecchio: temevo di non essere all’altezza del rapporto marito-moglie, di non risultare alla pari.

Alla fine com’è andata?

C’è stato solo un attimo di panico, non riuscivo a girare una scena, si era riproposta la dinamica attore-regista. Poi l’ho superata.

Cosa pensava di Sorrentino prima di questo film?

Abbiamo iniziato insieme nel 1995.

E…

Era timido, silenziosissimo: stava in produzione mentre debuttavo come attrice cinematografica. Dopo quel film gli diedi da leggere una sceneggiatura e il feedback fu molto diretto: “Fa schifo”. Negli anni successivi ci siamo un po’ persi, poi ho partecipato al provino per The Young Pope ed è andato male.

Gli ha chiesto perché?

Mai.

Che ne pensa di lui dopo averci lavorato?

È stato affettuoso, dolce, accogliente e sul set qualcuno spifferava: “Non è sempre così!”; (cambia tono) è come se si fosse affidato, è come se sul set avesse ricreato una famiglia artistica.

In qualche modo siete tutti collegati…

Io e lui ci siamo conosciuti 26 anni fa, Toni gli è legatissimo, Roberto De Francesco è super amico, Antonio Capuano non ne parliamo, quindi non poteva maltrattarci, gli era più semplice coccolarci. C’era la sua Napoli.

A che età è arrivata a Napoli?

A due anni.

E com’era la città quarant’anni fa?

Da una parte divertente, da mattina a sera vivevo per strada in estrema libertà; però, dall’altra, aleggiava un pericolo costante, con frequentazioni finite sotto la droga e la piccola criminalità.

Sua madre.

Era molto giovane, vedova a 23 anni, costretta a lasciarci un’autonomia non comune ai miei coetanei.

Suo padre…

Era un marinaio ed è morto in un incidente sul lavoro: è caduto sul rimorchiatore, ha battuto la testa e non è più tornato a casa.

A Sorrentino quando ha rivelato di essere pure lei orfana?

Credo mai. Forse già lo lo sapeva, ma non ne abbiamo parlato.

Possibile?

Non c’è questa grande confidenza. Lo so, è pazzesco, ma secondo me gli orfani si riconoscono d’istinto.

Vi sarete confrontati per il ruolo?

(Ride) Questa domanda una volta l’hanno posta contemporaneamente a me e a Luisa Ranieri. Ci siamo guardate e insieme abbiamo risposto: “No”. Paolo non ha sviscerato situazioni intime, contesti emotivi sui quali lavorare, ci ha solo indicato una strada.

Da bambina cosa sognava di diventare?

Una hostess, ma il mio metro e 58 lo ha reso decisamente impossibile; poi a quattordici anni ho capito che il mio desiderio più profondo toccava il teatro, grazie a Mariangela Melato.

In È stata la mano di Dio Antonio Capuano urla contro una teatrante.

Gesto vero, alla Capuano; lui ha un rapporto complesso con il teatro, è più esigente di quando va a vedere un film. Poi è un grande conoscitore di testi; (ride) anni fa mi ha diretta in un monologo scritto da Francesco Piccolo: oltre a recitare dovevo arrampicarmi su una pertica, una sorta di lap dance. La sera dell’esordio ero emozionata, quindi avevo un tono di voce leggermente più basso: a un certo punto dal fondo della sala sento qualcuno urlare: “Voce! Voce!”. Dentro di me mi domando “ma chi è?”, e subito dopo mi do la risposta: “Capuano”.

A teatro per combattere la timidezza.

No, per niente; (ci ripensa) anzi, qualcosina c’è, ma è più legata al timore di esporsi, di raccontarsi, poi, però, vince il desiderio di esibirsi.

Si sente sexy?

Io? No! Eppure mi dicono che lo sono; (ride) dopo lo spettacolo con la pertica mia madre ha incontrato Francesco Piccolo e la sua curiosità ha vinto sull’imbarazzo: “Scusa, ma perché hai pensato proprio a mia figlia?”. “Perché è brava e sexy”.

Lo vede…

Ho appena finito di girare la serie televisiva tratta dai libri di De Silva sull’avvocato Vincenzo Malinconico: interpreto l’ex moglie del protagonista, in una scena devo sedurlo per riconquistarlo. A un certo punto il regista ha fermato le riprese: “Teresa, più accattivante”; (pausa, ride) oddio, l’aggettivo giusto era un altro, ma va bene così, comunque io sono scoppiata a ridere: “Più di così?”.


In questi anni chi dei suoi colleghi l’ha colpita maggiormente?

Soprattutto gli attori maschi: ho sempre guardato e imparato da loro, esclusa la Melato.

Come mai?

Non lo so, mi hanno ispirato di più personalità come Sergio Rubini e Fabrizio Bentivoglio; (pausa) Sergio è uno degli attori più emozionanti, mentre con Fabrizio ho lavorato su un set di Capuano.

Capuano tratta male pure sul set?

Malissimo! Ma questo suo modo esprime un grande amore: è un artista fisico (sorride). Antonio nel corso di questi 25 anni è stato la persona che mi ha maggiormente tirata fuori dai momenti di sconforto, di delusione e stanchezza rispetto a questo lavoro. E nel film lo è anche per il Sorrentino ragazzo.

Ha mai pensato di mollare la carriera di attrice?

Sì, per brevi momenti.

Quale era il piano B?

L’insegnante o l’estetista: sono molto brava con i massaggi, ho imparato a teatro, tra di noi è normale allentare reciprocamente le tensioni fisiche.

A cosa è sopravvissuta?

Alla spocchia altrui; come dicevo prima, penso ai registi che mi giudicavano a priori.

Intorno a lei ora avverte invidia?

Più che altro curiosità da parte di persone che prima non mi si filavano.

Lei chi è?

Una mamma che in questo momento fa grande fatica nel suo ruolo; poi sono una donna e un’attrice alla soglia di una maturità che un po’ mi spaventa.