“È importante preservare l’indipendenza della banca centrale e delle istituzioni dei mercati finanziari”. Dopo che nei giorni scorsi è esplosa la polemica su Bankitalia e Consob, con Lega e M5s che si sono scagliati a favore del cambiamento dei vertici dei due istituti (in particolare con la mancata riconferma del vicedirettore generale di Via Nazionale Luigi Federico Signorini), il vicepresidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis si allinea alla posizione del ministro dell’Economia Giovanni Tria e diffida l’esecutivo italiano dall’attaccare istituzioni indipendenti. Ma dal vicepremier Salvini arriva una sorta di apertura: “Mi fido di Conte e Tria, mi affido alla loro competenza e alle loro scelte. Non conosco Signorini ma troveremo un accordo in Cdm. È chiaro che qualcosa va cambiato, non necessariamente qualcuno ma almeno qualcosa”.
Mps, Iva e contanti: le confessioni di Padoan
In quattro anni da ministro dell’Economia il tecnico Pier Carlo Padoan ha esibito un talento da vero politico: parlare, anche parecchio, senza mai dire niente di afferrabile, mai una notizia, mai un titolo, ma tutto ben argomentato. Nel libro Il sentiero stretto, che esce ora per Il Mulino, viene intervistato dal giornalista del Sole 24 Ore Dino Pesole. E, per la prima volta, qualcosa dice.
Padoan, oggi senatore Pd, si intesta l’idea del bonus 80 euro. Racconta che quando Matteo Renzi gli propone di fare il ministro gli chiede anche: “Qual è la prima cosa che farebbe?”. E lui: “Un taglio delle tasse a due cifre (…) sul costo del lavoro”. Per la verità, però, da mesi Yoram Gutgeld, allora grande consigliere renziano, argomentava la necessità di un bonus Irpef, lui immaginava di 200 euro, sui redditi medio-bassi.
Poi ci sono le ammissioni. La prima: è stato sbagliato far salire il deficit invece che l’Iva, per disinnescare le clausole di salvaguardia in parte ereditate in parte inserite proprio dal governo Renzi: “Se avessimo deciso di aumentare l’Iva, avremmo avuto 19 miliardi a disposizione da utilizzare per altri interventi. La priorità di Renzi era tagliare le tasse. Un po’ per le imprese, un po’ per le famiglie”.
Poi l’evasione fiscale: Padoan, da economista, aveva sempre sostenuto che più banconote girano, più carburante c’è per l’evasione fiscale. Poi Renzi decide di alzare da 1.000 a 3.000 euro il limite per l’uso dei contanti – anche gli evasori votano – e Padoan dice: “Non è vero che il tetto più alto aumenta l’evasione”. Oggi, nel libro, ammette: “Ero contrario. Non è stato un bel segnale. Fu un provvedimento fortemente voluto da Angelino Alfano, ed ebbe diversi sostenitori, tra cui ricordo una reazione entusiastica del presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca”. Senza grande entusiasmo, Padoan confessa errori anche sulle banche, in particolare il Monte Paschi: nel 2016 il governo Renzi per mesi ha sostenuto che ci fosse una soluzione di mercato, cioè investitori (un fantomatico fondo del Qatar mai palesatosi) pronti a salvare l’istituto che però sarebbe scappato se al referendum costituzionale il governo fosse stato sconfitto. Oggi Padoan racconta la storia con una significativa correzione: “Abbiamo perseguito inizialmente una soluzione di mercato, con l’idea che gli investitori internazionali e i fondi avrebbero investito nel Mps per un ammontare cospicuo, anche sulla spinta del successo del referendum”. Quello che gli economisti come Padoan chiamano whishful thinking, un auspicio ma niente di più.
C’è poi una parte del libro che piacerà ai Cinque Stelle in guerra con la Banca d’Italia cui contestano di aver danneggiato il sistema bancario avallando regole europee che penalizzavano l’Italia, nel 2015. Questo il lapidario commento di Padoan: “Presso la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sottolineato che la gestione delle crisi bancarie non aveva evidenziato carenze generalizzate della vigilanza. Quando emerse la necessità di attivare il burden sharing, si ipotizzò uno scenario in base al quale Etruria, Marche, Chieti e Ferrara, ripulite delle sofferenze, sarebbero poi state nuovamente appetibili sul mercato. Non è andata proprio così”. Tradotto: il disastro del 2015, con il caos innescato dalle quattro banchette mandate in fallimento, è colpa delle errate valutazioni della Banca d’Italia.
L’oro di Bankitalia, l’ultimo miraggio anticrisi dei governi
Quanto valgono, a che cosa servono, di chi sono veramente le oltre 2.452 tonnellate di oro del valore di 90,8 miliardi di euro detenute dalla Banca d’Italia? E si possono vendere per finanziare lo Stato? Come una bolla di sapone, è esplosa di nuovo l’annosa questione dell’oro di Bankitalia. L’ultima suggestione arriva dal leghista Claudio Borghi che, attraverso una proposta di legge, chiede di portare sotto il controllo governativo le riserve auree nazionali e non di utilizzare la vendita dei lingotti per scongiurare l’aumento dell’Iva nel 2020. Per il momento l’obiettivo leghista è rendere “l’oro è di proprietà degli italiani, non di altri”, ha decretato Salvini. Peccato che non ci sia niente di nuovo né nella proposta né nella possibile realizzazione.
L’Italia naviga nell’oro. È Bankitalia – il quarto detentore di riserve auree al mondo dopo la Federal Reserve, la Bundesbank e il Fondo monetario internazionale –, a gestire le oltre 2.400 tonnellate di riserve in valuta e oro, come prevede l’art. 127 del Trattato sul funzionamento dell’Ue. Ma presso la sede di via Nazionale ce ne sono solo la metà. Il restante oro si trova negli Usa, presso la Banca d’Inghilterra e la Banca centrale svizzera per diminuire il rischio in caso di instabilità politica.
Il proprietario. La discussione attorno alle riserve auree nasce dall’assenza di una dicitura in cui si definisca che la proprietà dell’oro è dello Stato. Bankitalia ha, infatti, dovuto depositare (virtualmente) presso la Banca centrale europea circa 100 tonnellate d’oro in virtù dell’appartenenza al sistema delle banche centrali. E come ha più volte ribadito il direttore generale di Bankitalia, Salvatore Rossi, solo la Bce può dirimere la questione su chi sia il titolare del diritto di possesso dell’oro. Ipotizzarne un trasferimento al Tesoro significherebbe un’espropriazione che il trattato Ue vieta tassativamente.
La riduzione del debito. A spiegare che vendere parte delle riserve auree per ridurre il debito non è una strada praticabile, giuridicamente impossibile e nemmeno efficace è Salvatore Rossi, direttore generale di Bankitalia: “Parliamo di 90 miliardi di euro quando il nostro debito pubblico è intorno a 2.300 miliardi”. Una goccia nel mare che “darebbe il segnale di un gesto disperato del Paese”.
I precedenti. Il patrimonio enorme di Via Nazionale nel 2007 aveva già suscitato l’interesse del governo Prodi (che suggeriva vendite per finanziare lo sviluppo e fu attaccato violentemente in quella occasione dal centrodestra) e poi di Giulio Tremonti, che nel 2009 tentò di tassare le plusvalenze sull’oro di Bankitalia, ma fu bloccato dalla Bce di Jean-Claude Trichet. E ancora. Nel pieno della crisi dei debiti sovrani, a metà del 2011, Prodi e Alberto Quadrio Curzio proposero la costituzione di un Fondo finanziario europeo, con capitale costituito da riserve auree degli Stati membri, per abbattere il debito pubblico. E l’allora ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, aggiunse che l’uso delle riserve “non può essere un tabù”.
Patroni Griffi e il mercato infame
Alla quindicesima domanda di una fluviale intervista, il giornalista della Stampa entra in argomento: “Il Consiglio di Stato è investito da indagini giudiziarie, con giudici arrestati o indagati, decine di sentenze vendute come in un supermarket giudiziario”. Il presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi, che oggi celebrerà la cerimonia di insediamento, alza la voce ed esce dall’argomento: “Ma quale supermercato delle sentenze! Siamo i primi a voler fare pulizia”. Manco il tempo di comprendere il nesso tra le due perentorie affermazioni e parte la filippica: “Ogni volta che si parla di noi noto un sovrappiù di sospetti, di maldicenze, di allusioni, di disonestà intellettuale che con il legittimo desiderio di giustizia nulla hanno a che fare”. C’è infatti “un clima di caccia alle streghe e un’imperante demagogia che vuole mortificare ogni requisito di competenza e ogni garanzia di indipendenza, trattandole come merce da sbattere sui banchi del mercato dell’infamia”. Così parla quello che ha sbattuto sui banchi del mercato immobiliare per 800 mila euro l’appartamento sfilato all’Inps per 177 mila grazie a una sentenza del Consiglio di Stato, emessa ovviamente con competenza e in nome dell’indipendenza.
Manzione nel mirino (con tre anni di ritardo)
Meglio tardi che mai. Nonostante da ben tre anni svolga la funzione di consigliere di Stato, solo ora si accerterà sul serio se Antonella Manzione abbia davvero i titoli per ricoprire un incarico tanto delicato come quello a Palazzo Spada. Dove era entrata dal portone principale grazie al governo allora guidato da Matteo Renzi che, una volta diventato presidente del Consiglio, l’aveva voluta con lui a Roma a capo del Dipartimento affari giuridici e legislativi di Palazzo Chigi. Salvo poi dirottarla al Consiglio di Stato, nonostante non avesse neppure l’età minima per essere nominata e a dispetto dei dubbi che erano stati avanzati pure sul livello del suo profilo considerato non eccellente. Ma a quanto pare neppure questo aveva scoraggiato Renzi. Che senza farsi alcun problema era andato avanti, mandando la pratica al Colle dove la nomina di Manzione era stata finalizzata con decreto dal Presidente della Repubblica. Proprio per questo, l’Associazione nazionale magistrati amministrativi, che ne ha contestato la correttezza, ha chiamato in causa non solo Manzione ma pure il Quirinale oltre che la Presidenza del Consiglio, ossia tutti i livelli più alti dell’amministrazione statale che con quella faccenda hanno avuto a che fare.
E l’altroieri gli stessi colleghi di Manzione al Consiglio di Stato, organo di appello del Tar che in primo grado aveva respinto il ricorso, hanno deciso che invece è proprio il caso di chiarire la questione. Ordinando che vengano acquisiti i documenti che la riguardano e che sono custoditi al comune di Firenze. Dove l’attuale consigliera di Stato lavorava, a fianco di Renzi, prima che le loro strade si rincrociassero a Roma. Ma che carte cercano?
Per essere nominati consiglieri di Stato bisogna come minimo essere professori universitari, avvocati di rango, o almeno magistrati di Corte d’appello. Non avendo nessuno di questi profili e non sapendo che pesci prendere, il Consiglio di presidenza di Palazzo Spada all’epoca aveva certificato che il curriculum di Manzione poteva tranquillamente essere equiparato a quello di dirigenti generali o funzionari di primaria importanza di ministeri, organi costituzionali e delle altre amministrazioni pubbliche. Nonostante le perplessità di più d’uno, tra quelli che furono chiamati a valutarne la piena idoneità. Compreso Giuseppe Conte che all’epoca sedeva nell’organismo chiamato a decidere e che inutilmente aveva cercato di far notare che l’ex capo dei vigili urbani di Firenze non aveva esattamente le competenze e il profilo richiesto, mentre era piuttosto chiara la natura fiduciaria che la legava a Renzi.
Per accertare la legittimità della nomina, ora dovrà essere acquisita “la documentazione idonea a definire, in modo chiaro e preciso, quali specifiche e analitiche funzioni competessero – in concreto – alla dott.ssa Manzione in ragione dei predetti incarichi svolti, nonché le esatte grandezze del personale e della dotazione finanziaria in tali ruoli dalla stessa amministrato, le eventuali funzioni propositive di indirizzo amministrativo generale ovvero le eventuali attribuzioni di coordinamento, direzione e sanzione di personale con qualifica dirigenziale a lei formalmente sottordinato”. E non basta. Per i giudici del Consiglio di Stato servono anche “chiarimenti” sulle procedure con cui le vennero conferiti quegli uffici a Firenze e quali titoli di studio o qualifiche li hanno giustificati. Insomma, pare di capire che si voglia approfondire sul serio. Alla buon’ora.
Ecco l’accordo: su scuola e sanità l’Italia è divisa in 2
Autostrade, scuole, ospedali, previdenza: lo Stato è pronto a cedere poteri e risorse per decine di competenze a Veneto, Lombardia e Emilia Romagna. Entro venerdì Regioni e governo dovrebbero stilare i testi definitivi delle intese, ma le bozze dicono già molto sui punti di caduta delle trattative, incagliate da mesi tra i dubbi dei grillini – preoccupati dalla tenuta dei conti e dalle conseguenze per il Sud – e il decisionismo leghista.
Veneto e Lombardia chiedono il trasferimento di 23 materie, sei in più rispetto all’Emilia Romagna. Per ogni competenza, lo Stato cede anche i fondi corrispondenti. Ma non è così semplice: “Le modalità per l’attribuzione delle risorse finanziarie – si legge nelle bozze – sono determinate a) in termini di spesa sostenuta dallo Stato nella Regione; b) fabbisogni standard, che entro cinque anni dovranno diventare il parametro di riferimento”. Questi fabbisogni saranno però tarati “in relazione alla popolazione residente e al gettito dei tributi maturati sul territorio regionale in rapporto ai rispettivi valori nazionali”. Tradotto: più alto è il gettito, più soldi potranno tenersi le Regioni, col rischio di creare scompensi nella distribuzione delle risorse a livello nazionale.
A gestire nel dettaglio la parte economica delle autonomie saranno le Commissione paritetiche Stato Regione, costituite ciascuna da nove rappresentanti di nomina governativa e altrettanti in rappresentanza delle Regioni autonomiste.
Il lavoro non mancherà. La scuola, per esempio, uscirà rivoluzionata: Veneto e Lombardia otterranno poteri sulla “disciplina, anche mediante contratti regionali integrativi, dell’organizzazione e del rapporto di lavoro del personale dirigente, docente, amministrativo, tecnico e ausuliario”. I neo-assunti diventeranno dipendenti regionali, con possibilità di accedere a compensi anche superiori al contratto nazionale del settore, mentre chi già lavora come dipendente statale potrà scegliere se “trasferirsi” alla Regione.
Sui trasporti la partita è enorme. L’Emilia vanta già un’intesa per “la potestà legislativa e amministrativa” sulla rete stradale, autostradale e ferroviaria, proprio come la Lombardia: “Sono trasferite al demanio della Regione le tratte autostradali comprese nella rete autostradale nazionale insistente sul territorio lombardo. I beni, gli impianti e le infrastrutture sono retrocesse al demanio della Regione alla scadenza delle concessioni”. Qui sta il potere più grandi per i governatori, che potranno decidere sull’affidamento “e l’approvazione di costruzione ed esercizio di autostrade e sulla vigilanza delle medesime”. La possibilità fa gola a Zaia, che ancora non ha raggiunto l’accordo per la gestione delle autostrade ma intanto ha inserito in bozza la competenza su 18 tratte ferroviarie e il controllo degli aeroporti, con la Regione pronta a subentrare al ministero nelle miliardarie trattative per le concessioni.
E se la sanità è già in parte di gestione regionale, le autonomie conferiscono ancor più poteri a Veneto, Lombardia e Emilia, che potranno “rendere più flessibile la capacità di gestione della spesa, mediante la rimozione di vincoli specifici presenti e futuri in materia di personale”, gestire i percorsi formativi e rivedere “la compartecipazione alla spesa”.
Nel mare magnum dei trasferimenti finisce poi molto altro: le previdenze complementari (Veneto e Lombardia), la gestione delle accise sul gas (Veneto), l’organizzazione della protezione civile (comune a tutte e tre), ma anche l’ordinamento sportivo locale o l’amministrazione del patrimonio culturale (anche in questo caso comuni alle tre Regioni, pur in forme diverse). Tenendo presente un principio fondamentale: “L’eventuale variazione di gettito maturato nella Regione rispetto alla spesa sostenuta dallo Stato nella Regione o successivamente riconosciuta con i fabbisogni standard, è competenza della Regione”. E gli autonomisti possono brindare.
Il video di Marrazzo: l’editore di Libero perde contro l’Unità
La Corte di Appellodi Roma ha dato ragione all’ex direttrice dell’Unità Concita De Gregorio e alla cronista Maria Grazia Gerina, che avevano impugnato la condanna in primo grado a risarcire, in solido, 20 mila euro – e la sola Gerina altri 5 mila – all’ex deputato Pdl, imprenditore ed editore di Libero Antonio Angelucci. La condanna era arrivata per un articolo del 7 novembre 2009, in cui la giornalista raccontava dell’esistenza di due filoni d’indagine: uno della Procura di Roma sulla “trattativa” tra i media del video che riguardava l’ex governatore Piero Marrazzo e vedeva Angelucci interessato in quanto editore; l’altro della Procura di Velletri che aveva chiesto l’autorizzazione a procedere con gli arresti domiciliari per l’onorevole che avrebbe fatto pressioni in Regione per evitare che le sue aziende, San Raffaele e Tosinvest, risentissero del taglio del budget del comparto. L’articolo riferiva inoltre di un incontro riservato tra Marrazzo e Angelucci nel periodo in cui girava il video dell’ex governatore pochi giorni prima che lo stesso deputato intervenisse in un incontro tra i direttori delle sue cliniche e il direttore generale della sanità del Lazio. Per la Corte è stato esercitato il diritto di critica e di cronaca.
Il patto con Salvini esaspera le debolezze del Movimento
Non c’è niente da fare: lo scorso marzo la parabola del Movimento 5 Stelle ha toccato il punto più alto e ora è destinata a una discesa inevitabile. Questo calo è in parte fisiologico e in parte dovuto a scelte politiche, perché di certo l’alleanza con la Lega ha aggravato il conflitto interno e ne ha esasperato le debolezze. Non credo che basti qualche riposizionamento a guadagnare i consensi perduti, anzi, spesso ormai i 5 Stelle si trovano in situazioni lose/lose, in cui si perde sempre. Anche il Tav, per esempio, non fa guadagnare voti: se restano fermi sul No, continueranno semplicemente a scendere, se cambiano idea sarà un crollo più rapido. L’unico modo per fermare l’emorragia di consensi potrebbe essere il Sì all’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini sul caso Diciotti, che a quel punto però significherebbe una crisi di governo. In quel caso, nel breve termine il Movimento recupererebbe qualcosa, ma non sarebbe comunque abbastanza per risolvere i problemi di fondo, relativi soprattutto alle sue contraddizioni: nel 2013 proponevi Gino Strada, Emma Bonino e Gustavo Zagrebelsky alla presidenza della Repubblica, oggi stai dalla parte della Lega.
Una svolta a sinistra è la tattica migliore: a destra vince la Lega
Il Movimento non è in una posizione facile. Staccare la spina all’esecutivo rischia di essere un boomerang, perché i 5 Stelle potrebbero trovarsi di fronte a un Abruzzo 2.0 se si votasse nel giro di pochi mesi. Il Movimento paga il fatto di essere strutturato come partito perfetto per l’opposizione, facendosi forza con argomenti largamente condivisi a destra e a sinistra, per esempio la trasparenza o la lotta contro gli sprechi. Adesso mantenersi alti nei consensi è difficile, perché governare significare sempre scontentare qualcuno. E così anche temi forti come il reddito di cittadinanza o il Tav hanno finito per spaccare quel 30 per cento di consensi. I sondaggi e i flussi elettorali dicono però che il Movimento, se vuole crescere, ha molto più spazio a sinistra, perché quella crisi di leadership che c’era a destra negli anni dell’ascesa grillina adesso è stata colmata da Salvini, che riesce pure ad attrarre l’ala più a destra dello stesso Movimento. Virare a sinistra, recuperando alcuni temi storici dei 5 Stelle – come il Tav o il lavoro – sarebbe la tattica migliore, anche se implica un progetto che ha bisogno di essere a medio-lungo termine per essere credibile. Questa strada aiuterebbe anche a smarcarsi da Salvini, percepito come il vero leader del governo
Caro Luigi, quattro incarichi sono troppi: fai il capo e basta
Stimo molto Di Maio, che considero il politico migliore di questa nuova generazione, ma mi stupisco di come lui e i 5 Stelle non si accorgano che non può ricoprire quattro cariche: vicepremier, leader del Movimento, ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico. Sarebbe troppo anche per Churchill. Se i 5Stelle vogliono recuperare consensi devono sfruttare la capacità di Di Maio di essere un buon leader politico, “sacrificato” però dal lavoro di governo. Se Di Maio va un giorno in Abruzzo a fare campagna elettorale, trascura altri tre ruoli. Certo, anche Salvini ricopre tre cariche, ma in realtà fa una cosa sola, ovvero una continua campagna elettorale. Individuare delle figure competenti per i suoi ministeri consentirebbe anche a Di Maio di dedicarsi di più all’indirizzo strategico del Movimento e di comprendere meglio il proprio elettorato di riferimento, che da sempre è come un mucchietto di sabbia, fatto da granelli tutti diversi tra loro. Proprio perché il popolo dei 5 Stelle è molto eterogeneo non è un compito facile interpretarlo nel modo giusto, soprattutto dovendo sempre trattare con Salvini, ma ri-avvicinarsi all’elettorato è l’unico modo per uscire da questa situazione.