Gli elettori volevano stabilità, i 5Stelle han scelto i Gilet gialli

Se fossi il capo politico dei Cinquestelle (per loro fortuna non lo sono) dopo il voto in Abruzzo mi segnerei su un foglietto tre numeri. Il primo: 19,7 % è quasi la metà di quel 40% raccolto dal Movimento alle Politiche di undici mesi fa. Non starei ad ascoltare i soliti che (per difendere la cadrega o per banale ruffianeria) stanno lì a ripetere che il M5S nelle Amministrative cala sempre (come se fosse un vanto). Invece, mi farei qualche domanda su quel 20 per cento che non c’è più. Chi erano? Perché li abbiamo delusi? Come possiamo recuperarli? In attesa di analisi più specifiche, mi fiderei del buon senso della politica che mi dice: chiedevano stabilità, gli abbiamo dato i Gilet gialli. Andrei a rileggere ciò che alcuni osservatori avevano scritto quando tutto sembrava andare per il meglio. Attenzione che nel vostro voto trasversale lo zoccolo duro è rappresentato sicuramente dai grillini doc, cresciuti nel fuoco dell’opposizione. Ai quali il 4 marzo si è aggiunto un robusto elettorato d’opinione, deluso soprattutto dal Pd e dunque abbastanza volatile che chiedeva capacità di governo, oltre che un impulso alla crescita e la lotta alle diseguaglianze. Gente normale a cui poco o nulla importa della piattaforma Rousseau, ma che deve fare i conti con le bollette e il mutuo della casa mentre i figli non riescono a trovare lavoro. Visto che non si è riusciti ad abolire, così su due piedi, la povertà, si è spiegato loro che la colpa era tutta di Macron e del franco coloniale. Poi ci siamo voltati e non c’erano più.

Il secondo numero da evidenziare è: 27,5%. È quanto la Lega ha ottenuto domenica, come primo partito e nucleo forte del centrodestra che ha eletto il nuovo presidente, Marco Marsilio, sfiorando la maggioranza assoluta. Questo dato è inferiore al 32% accreditato a livello nazionale dai sondaggi, ma di circa dieci punti superiore al risultato ottenuto il 4 marzo dal partito di Matteo Salvini. Ovvero, l’Abruzzo è il laboratorio regionale di un fenomeno che già alle Europee di fine maggio potrebbe interessare l’intera nazione. L’alleanza tra due forze che ne danneggia una e ne avvantaggia l’altra, a spese della prima. Un caso forse unico di autolesionismo e vampirismo consenziente, sottoscritto sulla base di un Contratto del Cambiamento più adatto a un torbido gioco tra il marchese de Sade e Leopold von Sacher-Masoch che a un’intesa di governo. E dove il supremo sacrificio dei Cinquestelle si realizzerà, come tutto lascia credere, con il voto del Senato per salvare Salvini dal processo per la vicenda della nave Diciotti. Del resto, Conte, Di Maio e Toninelli hanno già offerto il loro sangue all’alleato assumendosi la responsabilità collettiva dell’accaduto. Neanche Dracula presidente dell’Avis avrebbe sperato tanto. Salvini magnanimo non infierisce sulla sconfitta del socio. Che anzi, visti gli eccellenti risultati, incoraggia a proseguire nella comune attività di governo. Alle sue condizioni, ovvio: autonomie, legittima difesa, riforma fiscale (e forse, dai, un altro sforzo per rimettere sui binari il Tav Torino-Lione). Finché il Capitano giudicherà i tempi maturi per dare l’assalto, da solo, a Palazzo Chigi.

Il terzo numero abruzzese da non dimenticare è: 31,3%. È il risultato ottenuto dal candidato Pd, Giovanni Legnini, alla testa di un’ammucchiata di centrosinistra. Che non gli ha consentito di assicurarsi la poltrona di presidente ma di superare in tromba il M5S questo sì. Che per il Nazareno e dintorni oggi vale quasi come un successo. Se io fossi il capo politico dei Cinquestelle, perciò, da oggi in avanti userei un pizzico di prudenza nel considerare defunti i Democratici. Che restano messi maluccio, ma che di fronte al tonfo delle stelle si sentono un tantino meglio.

Tajani rivendica l’Istria e la Dalmazia. La Croazia protesta

L’enfasiche Antonio Tajani ha messo nel suo intervento durante il Giorno del Ricordo domenica 10 febbraio a Basovizza, dove si celebrava la ricorrenza delle vittime delle foibe, ha sollevato più di una critica da Slovenia e Croazia . Il suo “Viva l’Istria italiana! Viva la Dalmazia italiana” è stato condannato dal primo ministro croato Andrej Plenkovic che ha ravvisato nelle parole del presidente del Parlamento europeo “elementi di rivendicazione territoriale e revisionismo storico”. Gli eurodeputati sloveni e croati ieri alla Sessione plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo hanno chiesto chiarimenti a Tajani. “È una vergogna, ha perso la mia fiducia” ha twittato Ivan Jakovcic, deputato europeo di Dieta democratica istriana. Lapidaria la socialdemocratica croata Biljana Borzan: “La dichiarazione di Tajani non è degna della carica che ricopre”. Liquida la questione Dubravka Suica dell’Unione democratica croata: “Parlare dell’Istria e Dalmazia italiane è un relitto di tempi passati”. In aula poi il presidente si è spiegato: “Nessuna rivendicazione territoriale. Ho voluto sottolineare il percorso di pace e di riconciliazione tra i popoli italiani, croati e sloveni e il loro contributo al progetto europeo”.

La ricostruzione seppellita dalle inchieste

“La ricostruzione è la priorità assoluta, è rimasta ferma in questi ultimi tempi e questa è una vergogna che dobbiamo cancellare assolutamente”. A parlare dell’Aquila, il giorno dopo la vittoria, è il neo eletto presidente della regione Abruzzo Marco Marsilio di Fratelli d’Italia.

Quasi dieci anni sono passati dal sisma del 6 aprile 2009, e a segnare lo scorrere del tempo sono i ponteggi infiniti, i paesi rimasti vuoti, le continue battute di arresto sulla ricostruzione. Un tempo dilatato in cui solo una piccola parte degli sforzi è andata a buon fine, mentre la città è ancora il “cantiere più grande d’Europa”, come lo definiva l’allora premier Silvio Berlusconi a qualche mese dal terremoto, assicurando in quelle stesse ore che la ricostruzione sarebbe avvenuta a breve termine.

Da quella notte terrificante i riflettori sul capoluogo di regione non si sono mai spenti, come non si è placato l’anelito a fare “affari” vista la carrellata di inchieste della magistratura che vede al centro proprio la ricostruzione.

La maxi inchiesta sul restauro di Palazzo Centi (sede della giunta regionale fino al sisma) è arrivata a undici fascicoli e una quarantina di indagati su presunti favoritismi negli appalti della Regione. Partita nel 2015 dalla Procura dell’Aquila, ha visto scagionati tra gli altri il senatore Pd Luciano D’Alfonso che fino allo scorso agosto era presidente della Regione Abruzzo. “Mancano elementi per sostenere l’accusa in un processo”, ha scritto il giudice per le indagini preliminari Mario Cervellino archiviando l’inchiesta che girava intorno ad un appalto di circa 13 milioni di euro. Resta in piedi l’accusa di turbativa d’asta per i due tecnici, Alessandro Pompa e Gianluca Marcantonio, quest’ultimo fedelissimo di D’Alfonso.

Interessi forti anche sulle chiese martoriate dal sisma. Lo scorso novembre è stato chiesto il processo per 26 imputati nell’ambito dell’inchiesta su presunte mazzette negli appalti per la ricostruzione post-terremoto di beni culturali ed ecclesiastici. Il pm Simonetta Ciccarelli ha presentato istanze di rinvio a giudizio per imprenditori, professionisti e funzionari di beni culturali abruzzesi e Soprintendenza. I presunti imbrogli riguardano appalti per chiese nell’Aquilano e a Sulmona, oltre al teatro comunale del capoluogo. Le accuse vanno dal falso all’abuso d’ufficio, dalla turbativa d’asta fino alla corruzione.

Sotto inchiesta anche la trasformazione dei locali dell’ex caserma Campomizzi in alloggi dove ospitare prima gli sfollati e poi gli studenti. Questa volta a finire nei guai sono due imprenditori aquilani, Ettore Barattelli (ex presidente provinciale dell’Associazione costruttori) ed Enzo Romano Marinelli. Avrebbero fatturato lavori altrui in un’ “operazione truffaldina finalizzata a ottenere un profitto illecito”, come si legge nelle motivazioni della sentenza di primo grado. Ora si attende l’appello.

E poi ancora, l’inchiesta sullo scandalo dei balconi crollati nel Progetto Case. Si tratta di una vicenda che poggia su una presunta frode nelle pubbliche forniture per 18 milioni ai danni dello Stato. Ma il procedimento penale sembra avviarsi alla prescrizione.

I soldi da gestire per questa ricostruzione sono ancora tantissimi. Negli ultimi tre anni parliamo di circa 600 milioni di euro assegnati solo per i Comuni del cratere. Ora tocca a Marsilio.

L’ex Msi di Roma con la moglie assunta dalla giunta Alemanno

Da Colle Oppio ai monti dell’Abruzzo. L’elezione storica di un uomo di destra come Marco Marsilio a capo della Regione è di fatto un’affermazione della storica sezione romana del Msi, il Movimento Sociale Italiano poi divenuto An nella Seconda Repubblica. Grazie a quell’antico legame Marsilio avrà il suo posto al sole. Da numero due al quadrato a Roma, è ora un numero uno. In Abruzzo. Marsilio, classe 1968, è per tutti il numero due di Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera di Fratelli d’Italia, a sua volta numero due di Giorgia Meloni. La corrente di Rampelli e Marsilio è anch’essa stata sempre seconda nella destra sociale romana e non ha mai spiccato il volo, nonostante prendesse il nome (‘Gabbiani’) dall’immagine del manifesto usato negli anni 90. Marsilio nasce a Roma da padre abruzzese (74enne trasferito a Roma ma poi tornato a Tocco di Casuaria) dove frequenta il liceo Cavour. Nel 1985 al primo accenno di rinascita della partecipazione studentesca, il suo è uno dei tre istituti nei quali la destra riesce a dire la sua. Alto e magro non è il tipo da farsi largo con il fisico a differenza del più impulsivo Rampelli. Marsilio però è un grande organizzatore delle sue e altrui fortune.

Nel 1992 lo ritroviamo coordinatore nazionale dell’organizzazione giovanile Fare Fronte. Poi Marsilio e il suo capo Rampelli ingaggiano una lotta fratricida e perdente con i pesi massimi Giovanni Alemanno e Francesco Storace. La sponda in Maurizio Gasparri, un cedimento ‘borghese’ che ancora gli rinfacciano, è inutile. Alla fine riesce a diventare capogruppo in consiglio comunale di Roma ma Francesco Storace nel 2007 gli rinfaccia un’opposizione moscia al sindaco Veltroni. A ben vedere la scelta di Marsilio non trova le sue radici nelle origini ma nelle antiche faide interne alle sezioni ex missine. Il fatto è che Giorgia Meloni preferisce come capogruppo alla Camera il cognato Francesco Lollobrigida e poi allarga (temendo forse di non raggiungere la soglia alle europee) la compagine ai fuoriusciti verso il Pdl della destra romana in competizione storica con i Gabbiani. Per farsi perdonare così Giorgia sceglie Marsilio e lui cavalca con ordine l’onda salviniana che lo porta sulla poltrona abruzzese. La vecchia ricetta Dio, Patria e famiglia, rivista in salsa sovranista e arricchita dalla parola magica ‘ricostruzione’, funziona. Soprattutto sulla cura della famiglia Marsilio non è secondo a nessuno.

La compagna Stefania Fois è stata assunta a chiamata diretta dalla municipalizzata dei trasporti di Roma, Atac, il 15 febbraio del 2010 dall’amministratore delegato Adalberto Bertucci, nominato dalla giunta Alemanno un mese prima. Anche per quell’assunzione come “dirigente delle relazioni esterne” la Corte dei Conti ha condannato Bertucci nel 2015 in primo grado. I giudici scrivono che agli atti del fascicolo personale c’era “la sola scheda di autocertificazione dell’interessata. La mancanza di qualunque altro documento attestante quale livello e contenuto avesse la professionalità dell’interessata al momento della sua nomina a dirigente quali titoli di studio o professionali ed il vaglio degli stessi alla luce dei requisiti richiesti per l’accesso alle mansioni di livello dirigenziali è fatto che prova sufficientemente che tali requisiti – per i giudici di primo grado – non sussistevano per l’assegnazione de qua. (…) l’intera retribuzione costituisce danno (…) la retribuzione corriposta al dipendente dal 16 febbraio 2010 al 31 dicembre 2013 è stata di euro 317.400”. Solo i primi due anni pari a 165 mila e 600 sono però “cifra imputabile a Bertucci”. Non è dato sapere poi come sia finita la questione nei gradi successivi. Di certo c’è che la signora Stefania Fois era già allora una brava pittrice con 20 mostre all’attivo, come risultava dal suo sito internet nel 2010. In precedenza lavorava nelle relazioni esterne di un’altra municipalizzata, la Fnm di Milano controllata dalla giunta regionale lombarda di centrodestra. Marsilio però ha anche due fratelli. Laura, sua gemella, diventa assessora con Alemanno. Secondo le indiscrezioni raccolte allora dall’Ansa sarebbero state nominate entrambe le sorelle dei ‘Gabbiani’: Emanuela Rampelli e Laura Marsilio. Invece poi passò, con delega alla scuola, solo la Marsilio.

Il terzo fratello, Claudio Marsilio, invece fa l’architetto. Si distingue per il suo attivismo culturale. Ha scritto note su “Littoria, Una storia per immagini” e “Mussolinia di Sardegna”. Nel 2012 esordisce con un libro, Muri in camicia nera. Il territorio prescelto per la ricerca? L’Abruzzo. Anche Claudio però unisce alla passione per l’arte quella per il posto fisso: responsabile dell’ufficio interventi di Roma 3 dell’Ater, l’ente regionale delle case popolari. Secondo Linkedin ha conseguito la laurea magistrale nel 2002, quindi a 32 anni. Però su Youtube c’è una sua bella video-lezione itinerante sulla Garbatella, quartiere di case dell’Ater. Ovviamente di epoca fascista.

 

La presunta santità della pia Giorgia

Nel dì di festa per Giorgia Meloni tiene banco una speciosa polemica: ma la Nostra ha davvero bestemmiato in diretta televisiva? Circola in Rete, infatti, un video girato durante la celeberrima maratona televisiva di Enrico Mentana, con Meloni circondata da una selva di microfoni per le prime dichiarazioni dopo la vittoria del suo Marsilio. La madrina di Fratelli d’Italia è visibilmente stizzita per l’assedio poco garbato dei giornalisti. “Porca M…”, sembra sfuggirle dai denti a un certo punto. È solo un attimo e poi Giorgia torna in sé. Ma fatale. I commentatori sui social network si sono scatenati nel commentare l’imprecazione dell’ex ministra, non proprio elegantissima. Ma lei – pubblicamente devota alle tradizioni cattoliche, a partire dal presepe, nel quale Maria come noto interpreta una figura di primo piano – ha negato con sdegno, annunciando querele. E ha diffuso un altro video con la stessa intervista incriminata, dal quale – lavorando appropriatamente con i livelli dell’audio – sembrerebbe invece che l’espressione sia diversa, un po’ più garbata: “Santa Madonna!”. Non dubitiamo della fede di Meloni, né della buona fede, ma il dubbio resta. Che poi si sa, l’ipocrisia maschilista è micidiale: per passare da santa a porca basta un attimo.

Il Padrone Immobile che cannibalizza Luigi e Silvio

Raramente accade che un voto locale riproduca fedelmente le nuove tendenze di voto degli italiani. Seppur combinati con i soliti fattori territoriali, i risultati delle regionali abruzzesi confermano le due linee emerse dai sondaggi delle ultime settimane. La prima ovviamente è incarnata dall’uomo forte che ha trionfato nella terra di Benedetto Croce ma anche di Gianni Letta e Bruno Vespa: Matteo Salvini. Al netto di ogni giusta considerazione sul realismo di governo, tra cose fatte o solo annunciate, il Capitano leghista ha avuto un’altra performance da campione delle campagne elettorali. È questo il tratto che lo accomuna di più al suo predecessore alla guida del centrodestra, quel Silvio Berlusconi ormai ridotto a un centrino di scorta della grassa destra sovranista, Carroccio più Fratelli d’Italia. E ancora una volta, Salvini ha capito che da qui alle elezioni europee di fine maggio non gli converrà toccare nulla, né sul fronte di governo, né su quello dell’alleato forzista, relegato in ambito sempre più locale. L’onere della prova, o della rottura, spetta a chi arranca dietro di lui. Nel frattempo il ministro dell’Interno può godersi il suo stato di grazia e finanche sfottere i suoi due amici, Luigi Di Maio su un versante, B. sull’altro. Ma il discorso riguarda soprattutto il capo politico del M5S: la sconfitta in Abruzzo è anche nazionale per lui e il redivivo movimentista Alessandro Di Battista che sono andati lì come e quanto Salvini. Perdipiù, con questi numeri, per il voto di maggio si prepara un’altra botta alla tenuta del M5S.

La seconda linea di tendenza è quella del secondo posto del centrosinistra di Giovanni Legnini. Il Pd vale però un terzo della coalizione presentata in Abruzzo e questo potrebbe accelerare la necessità di nascondere il simbolo del partito, ridotto a bad company. Però ancora non è chiaro come un nuovo contenitore civico nazionale debba prendere forma. Anche perché una deriva centrista alla Calenda perpetuerebbe l’inganno renziano, già visto.

Il Pd tracolla all’11% ma festeggia lo stesso

Il Pd è all’11,1%, ma tra i dem è la prima volta da un anno a questa parte che si respira una sorta di tregua dalla depressione post-4 marzo. Un paradosso se si guarda al fatto che nel 2014 la lista del Pd aveva ottenuto il 25,6% e che la Regione era governata da Luciano D’Alfonso, oggi senatore dem. E che anche rispetto alle Politiche i Democratici prendono due punti in meno, il 13,8%. E però, il risultato di Giovanni Legnini, che con 7 civiche nelle quali c’è un po’ di tutto (dalla sinistra di Leu, a +Europa, passando per i cattolici e i moderati di destra) arriva al 31,3%, sembra a tutte le varie fazioni del Nazareno un segnale di speranza. Anche perché il 4 marzo il centrosinistra si fermò al 20%. Senza dimenticare quello che viene considerato un tracollo del M5S.

La soddisfazione principale si registra dalle parti di Nicola Zingaretti: è suo il progetto di aprire il Pd, di farlo diventare parte di un progetto più ampio, di andare alle Europee magari addirittura nascondendo il simbolo (come è successo in Abruzzo). E il governatore del Lazio accarezza anche un’altra possibilità: che, magari, gli elettori delusi dei Cinque Stelle votino per lui. “La strada è lunga, ma è quella giusta: ricostruire un nuovo centrosinistra inclusivo”, scrive Zingaretti sulla sua pagina Facebook, spingendo per “allargare e costruire un nuovo centrosinistra che con maggiore empatia rispetto al Paese si riproponga come un’alternativa”. Un Pd che faccia da perno a una serie di altre esperienze è l’idea sulla quale aveva cominciato a lavorare Paolo Gentiloni prima della nascita del governo gialloverde, quando sembrava che Lega e Cinque Stelle non si mettessero d’accordo, immaginandosi come federatore, verso sinistra e verso destra. Che infatti commenta: “Serve fare del Pd il pilastro di una coalizione, oppure, nel caso delle europee dove non si corre con le coalizioni, di una lista la più vasta possibile”. È anche il progetto di Carlo Calenda e del Fronte repubblicano alle Europee. Tanto è vero che oggi Matteo Orfini lo firmerà per conto del Pd, sostenendo il suo progetto a nome dei tre candidati al congresso. In qualche modo il partito è già oltre il congresso: la discussione si sposta sul programma e le liste per le Europee.

Anche il progetto di Renzi di costituire un polo di centro potrebbe scoprirsi superato dai tempi. Forse. In alternativa, invece, potrebbe diventare parte di un’offerta composita e variegata.

Ma in realtà il secondo posto viene festeggiato un po’ da tutti. Non solo: è proprio il secondo posto l’obiettivo che tutti si danno sia per le Europee, sia per le Politiche. Come dire: si vada pure verso un governo di centrodestra in prospettiva, l’importante è che si torni al bipolarismo tradizionale, con i Cinque Stelle fuori dai giochi.

Non a caso, la formula che viene più volte evocata è “Ulivo”. Quella di Romano Prodi, che venne superata dalla “vocazione maggioritaria” vagheggiata da Walter Veltroni e poi dalle ambizioni di “partito pigliatutto” di Renzi. “Un Pd che arrivi sopra il 20% è un’utopia” ammettono i dem. E dunque, è il caso di passare al piano B. Con tanto di superamento del partito annesso. D’altra parte, è già un contenitore di visioni diverse e gruppi dirigenti in perenne guerra tra loro. E se il simbolo è un optional, più dannoso che utile, il passo per la dissoluzione è breve.

Il nuovo centrino-destra a trazione fascioleghista

Verso le undici di mattina le agenzie di stampa battono una dichiarazione di Marine Le Pen che la dice assai lunga sullo stato dell’arte del centrodestra italiano. “Il risultato spettacolare del candidato della Lega in Abruzzo dimostra l’adesione degli italiani alla politica condotta dai nostri alleati. Bravo Matteo!”, scrive la leader del Front national. Non sappiamo se si tratti di un lapsus (Marco Marsilio, il vincitore delle regionali abruzzesi col 48%, è di Fratelli d’Italia) della Le Pen o di errore voluto, ma conta poco: la vittoria del centrodestra viene percepita come un trionfo della Lega, saldamente primo partito abruzzese con il 27,5%, quando solo alle Politiche di un anno fa portava a casa il 13,9. Mentre Forza Italia sprofonda sempre più, sotto la soglia di salvaguardia del 10%: il 9, per l’esattezza, contro il 14,5 delle Politiche e il 16,7 delle Regionali 2014. Con FdI che punta al sorpasso: 6,5% la performance del partito della Meloni che centra l’obbiettivo principale: eleggere il primo governatore della sua storia.

Un risultato importante che però non cambia lo scenario: il centrodestra vecchia maniera non esiste più, c’è una Lega egemone che continua a mangiarsi i voti azzurri sempre in caduta libera e, in questo caso, non determinanti. Senza FI, infatti, in Abruzzo il centrodestra a trazione leghista (con FdI e le liste civiche) avrebbe vinto con il 40,1%. Se poi andiamo a vedere le province, FI supera il 10 solo a Teramo (10,8%), nelle altre è sempre sotto, col risultato peggiore all’Aquila (8,3%), nonostante la recente passerella berlusconiana.

Ieri, però, la narrazione forzista era tutta improntata al vecchio mantra. “Solo il centrodestra unito vince e Fi è determinante”, hanno detto in coro Bernini, Santelli, Gelmini, Ronzulli e Gasparri. E poi nuovo appello a Salvini: “Il crollo dei 5 Stelle dimostra che anche gli abruzzesi bocciano questo governo. Occorre staccare la spina e ripresentare un centrodestra unito”. Peccato, però, che al ministro dell’Interno, ieri alle prese pure con Sanremo, non passi proprio per la testa. “Gli amici 5 Stelle non devono preoccuparsi. L’esecutivo non rischia e io, anche se avessi il 95%, ho preso un impegno sul contratto governo”, ha detto. Di più: “Se facessimo la somma tra Lega e M5S saremmo la maggioranza anche in Abruzzo, segno che i cittadini non ci hanno bocciato”. Per quanto riguarda il centrodestra, invece, “non ho nostalgia del passato e guardo al futuro…”.

Il bollettino abruzzese consente dunque a Salvini di veleggiare tranquillo verso le Europee: cresce nei consensi, è in perfetta sintonia col suo elettorato, prende voti al centro e ai 5 Stelle. E dimostra che stare al governo è un balsamo rigenerante per la Lega e una maledizione per i pentastellati. Ecco perché, prima di esultare per Marsilio, il ministro dell’Interno si preoccupa di rassicurare Luigi Di Maio. Resta però da vedere cosa accadrà al resto del centrodestra. L’avanzata di FdI e delle liste di centro in Abruzzo sembra incoraggiare il percorso verso il progetto “seconda gamba”. “Accanto alla Lega vi è ormai la necessità di un Pdl 3.0 che raggruppi forze civiche e cristiane. E la necessità deve farsi virtù…”, ragiona Gaetano Quagliariello. Allo stesso cantiere lavora Giovanni Toti, che però, al solito, è più tranchant. “FI ormai è in decrescita felice e sono pure contenti…”, dice il governatore. “Basta fare la femminuccia isterica. Alza i tacchi e pensa a dare una mano”, gli risponde Andrea Ruggieri. Paolo Romani, invece, batte sul dovere forzista di recuperare una propria identità in funzione anti-Salvini. “Non è stato un disastro, abbiamo tenuto. Ora dobbiamo mettere in campo un’opposizione durissima contro questo esecutivo. E i temi non mancano, a partire dal reddito di cittadinanza”, osserva l’ex ministro dello Sviluppo. “Io ci sono e anche il partito c’è”, fa sapere, invece, Silvio Berlusconi. Che oggi, come ai vecchi tempi, radunerà il vertice del partito.

Lannutti finisce indagato per il tweet sui Savi di Sion

Le scuse non sono bastate. Il senatore dei 5 Stelle Elio Lannutti si è dissociato dal suo stesso tweet sui Protocolli dei sette savi di Sion e sull’influenza della ricca dinastia Rothschild sul sistema bancario. Troppo tardi: è stato denunciato. La Comunità ebraica di Roma ha presentato un esposto – ricordando che il testo citato dal senatore grillino è un falso storico creato ad arte dagli antisemiti a inizio ‘900 – e la Procura di Roma ha aperto un’inchiesta per il reato di diffamazione aggravata dall’odio razziale. L’episodio risale al 21 gennaio, quando Lannutti ha condiviso un articolo di Saper-link-news, sito di pseudoinformazione, salvo poi cancellarlo e dichiarare: “Condividere un link non significa condividere i contenuti, da cui comunque prendo le distanze”. Il presidente della Camera Roberto Fico criticò il tweet del senatore: “L’utilizzo di falsi storici antisemiti ha già fatto molti danni al popolo ebraico”. Ora che Lannutti è iscritto nel registro degli indagati, il Partito democratico con Ettore Rosato ne chiede l’espulsione: “Che aspettano? È più facile cacciare chi critica i condoni e quelli che pensano che il governo non è sopra la legge”.

Il leader del Carroccio ritira la querela contro Buffagni

Pace fatta tra il ministro Matteo Salvini e il sottosegretario 5 Stelle Stefano Buffagni. I due colleghi di governo erano controparti al tribunale di Milano, dove ieri si decideva della querela per diffamazione che il leader della Lega aveva sporto contro il grillino, all’epoca consigliere regionale in Lombardia. Ieri, per mano del suo avvocato Claudia Eccher, Salvini ha ritirato la querela. I due hanno raggiunto “un accordo stragiudiziale che non è stato depositato agli atti del processo”. Nel 2016 Buffagni aveva scritto online che la Lombardia era “una regione intrappolata nella ragnatela leghista, una fitta rete di contatti e uomini di fiducia agli ordini di Salvini e Maroni. Una sorta di cupola che ricorda quella del Pd romano che usa risorse pubbliche per finanziare la propria rete di potere”. In particolare, al centro del processo c’era una presunta raccomandazione della Lega a favore di Luca Morisi, lo spin doctor di Salvini, per ottenere l’incarico da parte della Asl della Franciacorta di curare il restyling del loro sito in affidamento diretto in cambio di 35 mila euro.