Di Maio tace, Salvini crudele: “Ma il Pd è andato peggio…”

Di buon mattino il contraente che ha stravinto rassicura quelli che hanno straperso tramite sms. “Tranquilli, non voglio un rimpasto prima delle Europee, il voto in Abruzzo non cambia nulla”, scrive Matteo Salvini a Luigi Di Maio e al presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

Ed è il Salvini ufficialmente gentile ma di fatto crudele, che per tutto il giorno consola il M5S, ricordando che “il Pd è andato peggio” e giurando che “non è un dramma” e che il voto “non avrà ripercussioni nazionali”. Ed è lo specchio del doloroso lunedì del Movimento. Con Di Maio che, sussurrano, “soffre il risultato” e si trincera in colloqui e incontri con i suoi. E con gli ufficiali a 5Stelle che riparlano di regole interne da cambiare, aprendo ad accordi “almeno con le liste civiche, perché altrimenti nelle Regionali non toccheremo mai palla”. E torna in ballo perfino la regola dei due mandati. Una norma aurea ma anche una pietra al collo, perché tanti iscritti vogliono schivare le candidature nei piccoli Comuni, così da giocarsela per il Parlamento nazionale o europeo. “Il vincolo andrebbe abbattuto almeno per le elezioni locali, così potremmo far crescere una classe dirigente di eletti sperimentati” argomenta un big. Ma questo può essere il domani del Movimento, o il dopodomani. Perché Davide Casaleggio, dicono, “è ancora rigido” sul punto, mentre Di Maio è più “aperto”, ma sarà difficile convincerlo a breve. Così nel M5S tiene banco la domanda sul perché sia andata “così male”. Nessuno sperava di vincere, ma l’obiettivo era galleggiare tra il 28 e il 30 per cento, per non venire travolti dalla Lega. Invece si è sprofondati sotto il 20, lontanissimi dai presunti alleati. E i vertici rimangono senza parole, tramortiti.

Lo conferma il silenzio sul blog delle Stelle, dove in tutte le passate Regionali nella mattina post-voto avevano sempre rivendicato un buon risultato contro tutto e tutti (formula più o meno di rito), e invece ieri sul portale si è scritto di altro. Il capogruppo in Senato Stefano Patuanelli invece ci mette la faccia con ilfattoquotidiano.it: “Salvini sa perfettamente che scaricarci avrebbe ripercussioni molto forti anche sul suo elettorato”. Ed è quello che sperano, nel M5S. Però poi c’è la discussione sulla disfatta, “perché è il momento di una seria analisi”, assicura il presidente della commissione Affari europei della Camera, Sergio Battelli.

E il nodo che affiora ovunque si chiama comunicazione. “Non abbiamo raccontato bene quello che abbiamo fatto finora, Salvini invece parla solo di porti e migranti e continua a crescere” geme una fonte di governo. “Manca una regia, dobbiamo mettere in fila i nostri risultati e ricordare che siamo un’altra cosa dalla Lega” riflette un altro maggiorente. Quindi, “dobbiamo tornare a parlare di nostri temi, per esempio di ambiente e giustizia, e non inseguire il Carroccio sull’immigrazione”. Invece in chiaro si manifestano voci critiche, come il deputato pescarese Andrea Colletti: “Dobbiamo essere meno verticistici, non possiamo essere dei pigia bottoni di scelte prese altrove. Bisogna tornare essere meritocratici, senza figli e figliastri”.

E la stilettata è per il capo, Di Maio, a cui il corpaccione parlamentare rimprovera la distanza e la scelta di diversi sottosegretari. Ma sul banco degli accusati finisce anche quello che doveva trascinare alla riscossa, Alessandro Di Battista. “Se ne è fatto un uso pessimo, solo per recuperare consensi” scandisce la senatrice Paola Nugnes. E arrivano i dardi contro “le star di cui non abbiamo bisogno”. Con Di Battista, raccontano, che non si stupisce. Ma in tanti si chiedono se sia stato mandato allo sbaraglio. Usato troppo, e troppo presto. Poi c’è anche lui, Conte, che a Politico.eu promette: “Il voto è stato chiaro, ma abbiamo 4 anni di governo davanti a noi”. Ma dall’esecutivo sono più pratici: “Così perderemo anche le prossime Regionali, a partire dalla Sardegna. E alle Europee come ci arriviamo?”.

Domani invece la giunta in Senato tornerà a riunirsi sul caso Diciotti. “Il voto non influirà sulla decisione sul processo a Salvini”, si sgolano dal Movimento. Ma il gruppo è lacerato. E un 5Stelle la mette così: “Io voterei sì, ma se lo mandiamo a giudizio Salvini farà il martire e a maggio ce lo ritroveremo al 50 per cento”. Imprendibile, per il M5S che finge di consolare.

Cantiere Abruzzo: la presa del bottino di Giorgia e Matteo

L’Abruzzo è divenuto il giardino di casa di Giorgia Meloni, la piccina del centrodestra che ha svuotato i suoi uffici di persone e cose per piazzare i nomi giusti e vincenti. Da Roma è giunto Marco Marsilio, il tesoriere di Fratelli d’Italia. Farà il governatore. Lo stesso metodo del trasferimento coatto Giorgia lo decise per dare all’Aquila, il capoluogo devastato dal terremoto di dieci anni fa, un sindaco. Chiese a Pierluigi Biondi, già Casa Pound, primo cittadino uscente di Villa Sant’Angelo, un bellissimo borgo di 427 abitanti, di guidare la città delle novantanove Cannelle e darle una sistemata. Anche Matteo Salvini ha dovuto fare una serrata campagna acquisti per compilare le liste della Lega che in Regione neanche c’era la volta scorsa. A Chieti, Pescara e Teramo ha scelto il meglio della forza lavoro disponibile. Una coppia di centristi in disarmo, due ex forzisti annoiati da Berlusconi e infine due militanti di Alleanza nazionale in bancarotta, compongono due terzi della pattuglia leghista, fatta appunto di rincalzi, che da sola pesa per altri due terzi nella maggioranza. Dieci consiglieri su diciassette hanno infatti oggi il vessillo di Alberto da Giussano.

Il centrodestra, sempre per merito di Salvini, ha sfondato il tetto della vittoria, rendendo pienamente politico un voto da sempre amministrativo, e consegnando come un dato nazionale questa consultazione locale alla quale ha partecipato la cifra più bassa in assoluto di elettori (53 per cento), otto punti in meno rispetto al turno precedente. Salvini ha raggiunto il suo Gran Sasso senza bisogno di acchiappavoti di gran pregio. Ci ha pensato il ministro dell’Interno a trascinare tutti alla vittoria parlando sulle montagne dei barconi in mare. Ha anche dimenticato sistematicamente di ricordare al popolo il nome del suo candidato governatore: “Votate Lega” ha detto. E basta. Marsilio il romano, così gli avversari lo hanno chiamato per contestargli il deficit di abbruzzesità (costringendolo a ricordare sempre gli avi e i suoi trascorsi di bimbo in villeggiatura) si trova ora a governare, lui che è senatore di Roma, l’Abruzzo. Cosicché il metodo del trasferimento da una poltrona a un’altra secondo i bene informati proseguirà con la cooptazione come direttore generale di una burocrate, Carla Mannetti, zarina in pectore, attualmente dirottata, sempre per vie della forza lavoro mancante, nella giunta dell’Aquila.

L’Abruzzo, dopotutto, ha ancora da spendere quindici miliardi di euro per completare la ricostruzione aquilana e dei comuni limitrofi. È questo infatti, benché tutti lo dimentichino, il più grande cantiere d’Italia che da solo vale sei Tav. E il cantiere purtroppo invece di andare avanti, arretra. Col nuovo governo i soldi impegnati nella ricostruzione infatti si sono ridotti di quasi la metà (dai 469 milioni di euro del 2017 ai 250 milioni del 2018). Lo spoil system invece di dare energia ha reso rachitico l’ufficio speciale della ricostruzione, e tolto lavoro a chi lo cerca, cioè agli abruzzesi. Anche L’Aquila ha fatto la sua parte. Col nuovo sindaco, incaricato dalla Meloni di aiutare la città a rinascere, i cantieri si sono fermati del tutto e il primo cittadino sta ancora riflettendo su come spendere gli ottanta milioni di euro per realizzare le scuole, oggi ancora sistemate in moduli provvisori. Gli abruzzesi sono pochi, un milione e 400mila abitanti e la borsa del terremoto sarebbe la più grande centrale acquisti italiana.

E invece zero carbonella. Gli elettori se la son presa principalmente con i Cinquestelle, togliendo loro 189 mila voti in meno di due anni. Un record. Nonostante il colpo di un voto che è tutto politico, la candidata sconfitta Sara Marcozzi (quattro anni di praticantato nello studio legale del candidato del centrosinistra Giovanni Legnini) ha dapprima ritenuto soddisfacente il risultato: “Abbiamo mantenuto i consensi delle scorse regionali”, e poi dalla pagina dei suoi sostenitori arriva la legnata agli elettori: “Tutto il bene fatto non è servito a niente. La politica del clientelismo e del servilismo, unito a una buona dose di ignoranza, hanno avuto la meglio”.

Nel post, pubblicato su Facebook e poi rimosso, ha fatto perfino capolino uno strafalcione (“hanno avuto la migliore”) che ha tenuto banco e fatto rumore più della batosta agli elettori. C’è da dire che Sara, con qualche previdenza, aveva aggiunto alla candidatura a presidente di regione quella di consigliere in modo che l’eventualità che giungesse terza sul podio, come poi è successo, non la obbligasse a fare ritorno alla professione legale. Fece così anche cinque anni fa e si è trovata benone.

Lo schiaffo dei numeri: M5S perde 6 voti su 10

Nella lunga serie di numeri che descrivono l’impatto politico delle elezioni abruzzesi, ce n’è uno più efficace degli altri: 0. Zero. Come i voti della Lega Nord in Abruzzo nelle Regionali del 2014: a quell’appuntamento il Carroccio non si era nemmeno presentato. Cinque anni più tardi, si è capovolto il mondo: il partito di Matteo Salvini arriva nettamente primo con 165.008 preferenze, pari al 27,53%. La Lega è anche l’unica lista che ha aumentato i voti non solo in percentuale, ma anche in termini assoluti rispetto alle Politiche del 4 marzo 2018 (quando l’affluenza fu nettamente superiore: il 75,25% contro il 53,1%). Poco meno di un anno fa in Abruzzo i salviniani portarono a casa 105.449 preferenze. Oggi, come detto, sono diventate 165 mila. Un mezzo miracolo: hanno votato 143 mila abruzzesi in meno rispetto alle Politiche, ma la Lega ha preso 64 mila voti in più (e in termini percentuali passa dal 13,87% al 27,53).

Anche la sconfitta del Movimento 5 Stelle è descritta dai numeri in termini impietosi. Rispetto alle Politiche di marzo è un’ecatombe: il Movimento si era issato fino al 39,86%, primo partito con 303.006 voti. Domenica è retrocesso clamorosamente in termini percentuali (19,73%) e assoluti (118.287 preferenze). In 11 mesi ha quindi perso per strada 184.719 voti, il 60,9% del totale. Dove sono andati a finire? I sondaggisti di Swg hanno realizzato una prima analisi dei flussi elettorali abruzzesi: il 46,3% degli elettori grillini del 4 marzo questa volta non è andato a votare, mentre il 21,1% ha scelto un altro partito. E in particolare il 10,2% e passato dal Movimento alla Lega, mentre il 9,7% ha scelto il centrosinistra (il Pd o una delle civiche in supporto a Giovanni Legnini) e l’1,2% altre liste ancora. Sono ormai note le difficoltà strutturali del Movimento 5 Stelle nel voto locale, e soprattutto regionale. Ma i risultati di ieri sono negativi anche se confrontati con quelli di 5 anni fa. La candidata alla presidenza era sempre Sara Marcozzi: nel 2014 prese il 21,38% e 147.716 voti, domenica invece il 20,2% e 126.165 voti. Un’ultima, piccola beffa: la lista del Movimento ha preso molti meno voti della sua candidata. Accade tipicamente con questo sistema elettorale, ma lo scarto è significativo: ci sono 7.878 elettori abruzzesi che hanno messo la croce sul nome di Marcozzi ma non sul simbolo dei Cinque Stelle.

Per Pd e Forza Italia è corretto parlare di voto di sopravvivenza: hanno evitato il tracollo definitivo, ma non l’ennesima sconfitta. Il partito di Berlusconi passa dal 14,5% del 4 marzo all’attuale 9,1%, ma in termini assoluti lo scarto è ancora più evidente: nelle Politiche ottennero 110.427 voti, domenica ne hanno confermati meno della metà, 54.223. Secondo Swg il 41,9% di quei consensi è stato perso nell’astensione, mentre il 15,3% degli elettori azzurri è passato alla Lega.

Il disastro dei berlusconiani si maschera solo, in parte, grazie alla vittoria e alla consistente crescita della coalizione di centrodestra, che passa dai 270 mila voti delle Politiche ai 294 mila delle Regionali. Oltre al boom della Lega c’è la crescita di Fratelli d’Italia – trainata dal candidato Marco Marsilio – che guadagna 1.200 voti e un punto e mezzo (dal 4,9 al 6,5%). Giorgia Meloni incassa, soprattutto, il primo governatore dalla nascita del partito.

Il Pd cede 3 punti abbondanti (dal 14,3 all’11,1%) e oltre 40 mila voti (da 108.549 a 66.769). Se non altro, il centrosinistra trainato da Giovanni Legnini (e da un esercito di li 7 liste civiche, compresa una di LeU) riesce a fare meglio rispetto al voto dell’anno scorso: 133.849 voti per la coalizione a marzo, 183.630 domenica.

Perdere l’onore

Fra le tante spiegazioni possibili del voto in Abruzzo, col trionfo del centrodestra e il crollo dei 5Stelle e del Pd, la più semplice ed evidente è questa: cinque anni fa Salvini non c’era, il suo partito si chiamava ancora Lega Nord e da quelle parti non si faceva proprio vedere. L’uomo forte, l’uomo del momento, era l’altro Matteo, che portava il Pd al 40,8% alle Europee e trascinava D’Alfonso al 46% strappando la Regione alla destra. Ora l’uomo forte, l’uomo del momento, è Salvini, che porta la Lega da zero al 27% e quasi raddoppia i consensi in un anno (il 4 marzo scorso era al 14), in linea con i sondaggi nazionali. Il Pd ha poco da esultare: nel 2014 era primo partito al 25,5, nel 2018 era terzo col 14,3 dietro M5S e quasi alla pari di FI, ora – dopo cinque anni di governo – resta terzo ma all’11,3, lontanissimo dalla Lega e perfino dal M5S. Che col suo 19,5 appare come l’unico sconfitto solo perché Legnini è riuscito a mascherare l’ennesima débâcle dem con ben sette liste civiche o civetta. Ma ormai l’allergia dei vertici pidini all’autocritica non fa più notizia: si attendono ancora le analisi delle disfatte del 2016, del 2017 e del 2018, a parte quella renziana secondo cui non è il Pd che sbaglia, ma gli elettori. I quali, infatti, continuano a sbagliare. Dalle prime reazioni alla batosta, anche i 5Stelle paiono contagiati dal virus dei facili alibi: “Voto locale”, “trascurabile”, “il governo non c’entra”, “nulla da rimproverarci”, “colpa della legge elettorale”, “il Pd ha perso di più”, “mantenuti i voti di cinque anni fa” e altre cazzate.

È vero, il voto regionale con le preferenze e le liste civetta penalizza il voto di opinione rispetto a quello controllato, clientelare, compravenduto: ma qui un bel po’ di voti di opinione sono andati alla Lega. È vero, la regola dei due mandati scoraggia i candidati migliori dal giocarsi un bonus in un’elezione locale: ma era vero già in passato e nessuno ha toccato quel tabù. È vero, l’assenza di una struttura solida e radicata penalizza il M5S alle Amministrative e premia i partiti organizzati: ma anche questo è un problema antico e non si vede cosa impedisca ai 5Stelle di organizzarsi meglio, anche con scuole di politica, per darsi uno straccio di classe dirigente un po’ meno casuale e improvvisata. Poi c’è il giudizio della gente sugli otto mesi di governo con la Lega, che in Abruzzo ha influito in parte, ma condizionerà le Europee. Su questo Di Maio&C. dovrebbero farsi un esame di coscienza. Prendersela con la stampa che gonfia Salvini come la rana di Fedro per screditare il M5S ha poco senso: chi fa politica contro tutto e tutti non può stupirsi di avere contro tutto e tutti.

Era così anche un anno fa, eppure i 5Stelle balzarono quasi al 33%. Nell’ultimo mese prima aggiunsero un buon 5% al 27-28 fisso dei sondaggi. E fu merito della svolta governista, plasticamente raffigurata dalla presentazione all’americana della squadra di governo: tutte personalità competenti e titolate, da cui poi Di Maio pescò il premier Conte, la ministra Trenta e vari sottosegretari. Il fatto che ora Conte sia il politico più stimato dagli italiani, appaiato o addirittura davanti a Salvini, la dice lunga su ciò che deve fare il M5S per recuperare terreno: impresa non impossibile con un elettorato così liquido. Ma a patto di imboccare la strada giusta. Buttar giù il governo così popolare alla vigilia di appuntamenti cruciali come Europee, no al Tav e spin off del reddito di cittadinanza, sarebbe un autogol. Ma inseguire Salvini sul suo terreno, le gare di rutti, rincorrendo ogni sua sparata per farne una più grossa, è inutile: quella partita la vincerà sempre lui. L’unica strada è lavorare sodo e parlare poco restando fedeli ai valori originari: sul breve periodo può non pagare, ma potrebbe dare frutti sul lungo, quando svanirà l’infatuazione per l’uomo forte che parla tanto e fa poco (come già B. e Renzi).

Esempio. La critica a Bankitalia è sacrosanta, viste le scandalose culpae in vigilando di Visco&C.; ma, prima di opporsi al vicedirettore Signorini e prossimamente al dg Rossi, servono alternative credibili. Nel 2005 due coraggiosi ispettori di Palazzo Koch, Giovanni Castaldi e Claudio Clemente, bocciarono l’assalto del banchiere di Lodi Gianpiero Fiorani ad Antonveneta, benedetta dal governatore Fazio e dal fronte trasversale FI-Lega-Ds che sponsorizzava le scalate parallele di Unipol a Bnl e dei furbetti Ricucci&C. al Corriere. Partì l’inchiesta, Fazio si dimise, ma Clemente e Castaldo, anziché premiati, furono degradati. Che aspetta il “governo del cambiamento” a fare i loro nomi per una scelta interna di forte discontinuità e trasparenza? Altro esempio. L’analisi costi-benefici dei tecnici del governo (non del M5S) sul Tav è devastante e incompatibile con qualsiasi compromesso: va fatta conoscere all’opinione pubblica e Salvini va richiamato agli impegni presi nel Contratto di governo. Che, in caso contrario, non ha più ragione di esistere. Ultimo esempio: il voto sull’autorizzazione a procedere per Salvini. In passato, di un ministro indagato per sequestro di persona, i 5Stelle avrebbero chiesto le dimissioni. Ora non possono perché hanno condiviso la sua scelta sulla nave Diciotti e la rivendicano: ma negare ai giudici il diritto-dovere di stabilire se fu lecita o illecita, specie dopo la relazione-autodenuncia di Conte, Di Maio e Toninelli, sarebbe assurdo. Trasparenza, lotta agli sprechi e legge uguale per tutti sono i valori fondativi del Movimento e le ragioni del suo successo: derogare a uno solo di quei tre principi sarebbe imperdonabile. Perdere voti per restare se stessi, accontentando alcuni e scontentando altri con il reddito di cittadinanza o con altre scelte tanto doverose quanto divisive, è un onore. Il vero disonore è perdere voti per aver perso se stessi.

 

La terza via tra Cuccarini e Copparola

Anni, ore e minuti di sbarra e sudori, a modellare me stessa, a disegnare forme in uno spazio immaginario, a dare corpo alla musica, per questo momento. Bolchoj? Scala? Teatro dell’Opera? No, domani debutto a Copparola di sotto, sorridente paesullo tra valli e vigneti. Che emozione! Ho già i biglietti del pullman, dalla Stazione Tiburtina a Grottaminosa, poi qualcuno verrà a prendermi. Partecipo a una kermesse internazionale di danza, alla faccia di mio padre che vorrebbe impiegarmi in un calzaturificio. Mamma mi aiuta con la valigia, la mia prima valigia d’artista, enorme, devo stare due giorni, ma per previdenza mi mette dodici di tutto. Arrivo su piazza. L’albergo è un convento di suore carmelitane dalle regole inflessibili, ma è vicino al luogo dell’evento. Più che una kermesse si tratta di una festa locale, una sagra, organizzata dal patron dell’unico supermercato di zona. Ci sono io, due danzatori dervisci, un ballerino di tip tap detto il Fred Astaire della Magnagrecia, e una contorsionista. Fari, piantane e mixer addobbano il marciapiede davanti alla Coop. Niente palco, stasera saremo artisti di strada! Accanto al marciapiede allestiscono lo stand del gioco coi porcellini d’india e quello con le palle di vetro e i pesci rossi. La sera c’è la folla da tutto il paese e zone limitrofe. Entro in scena e mi sento come Jennifer Beals in Flashdance nell’indifferenza generale. Solo un bambino mi lancia il suo lecca lecca in piena fronte. Cominciamo bene! Al rientro in albergo, sfinita mi sdraio sul letto, accendo la televisione e vedo Lorella Cuccarini con il Telegatto in mano, ha vinto il premio come personaggio televisivo dell’anno. Allora io mi chiedo, ma tra il Telegatto e un’ esibizione davanti alla Coop a Copparola di sotto, ci sarà una via di mezzo no? Chessò a metà strada, magari in un teatrino a Foggia.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Caligola, il taglio dei parlamentari nell’antica Roma

Da anni si afferma l’opportunità di ridurre il numero dei parlamentari; diversi sono stati i tentativi e le proposte, tuttavia senza approdare mai a nulla (a cominciare dal disastroso esito referendario sulla riforma Renzi). Ecco perché, nonostante sia convinto che i problemi veri del nostro parlamentarismo siano ben altri che qualche centinaio di parlamentari da tagliare e quel poco di risparmio all’anno che ne deriverà, credo che l’avvio della riforma costituzionale in Senato, almeno nella proposta di riduzione dei componenti delle Camere, non sembra costituire uno scandalo.

Nel I secolo a.C., il senato romano aveva subito un serio degrado diventando un organismo pletorico, molto ambito, ma elefantiaco e dunque assai lento. Con Silla i componenti erano giunti a 600, mentre negli ultimi decenni, Cesare era riuscito ad ingrossarne ancora le fila. Svetonio racconta quale fosse il sentimento di disprezzo dell’opinione pubblica: “Il numero dei senatori era costituito da una folla infame e rozza; erano infatti più di mille e alcuni completamente indegni, entrati grazie a favori e alla corruzione; […] il popolo lo definiva il regno dei morti” (vita di Augusto 35). Augusto ne riportò il numero a 600, ma ne divenne il princeps per 40 anni. Né le cose migliorarono su altri versanti se un altro imperatore, dalla fama oscura, Caligola ad un certo punto ebbe l’idea sommamente provocatoria di nominare senatore il proprio cavallo. Non si vuole certo tessere l’elogio del terzo imperatore, ma se oggi Caligola potesse entrare nell’odierno senato repubblicano si accorgerebbe della presenza sugli scranni di cavalli e persino di qualche somaro.

Facce di casta

 

Bocciati

MOGLIE, MARITO. E IL PARTITO

Di quali terribili peccati si sia macchiata Cecile Kyenge all’interno della sua vita coniugale, quanti tradimenti abbia commesso, a quante giornate con una suocera degna dei peggiori steoreotipi abbia costretto la sua dolce metà, non c’e’ dato sapere; eppure dobbiamo credere che le sue colpe siano davvero rilevanti, se l’uomo che l’ha presa in moglie ha deciso addirittura di candidarsi con la Lega. Domenico Grispino, medico e marito dell’ex ministra per l’Integrazione del partito democratico, si candiderà alle prossime elezioni comunali di Castelfranco Emilia, in provincia di Modena, proprio nelle liste del partito che tra “oranghi” e “tradizioni tribali” non ha perso un’occasione per offendere ed istigare all’odio razziale verso la sua stessa consorte. “Non mi ricordo neanche chi definì mia moglie un orango, Calderoli o Borghezio… Gli stupidi sono ovunque, mia moglie fa fatica a dimenticarlo perché da anni ha la scorta, ma io cosa devo fare? Non posso buttargli un guanto di sfida o prenderli a botte in una palestra”: magari sarebbe stato sufficiente non candidarsi con il loro partito, per dirne una.
Ma il marito dell’anno prosegue, spiegando perchè le vicende della moglie non l’abbiano affatto messo in crisi sull’opportunità di sposare il Carroccio in seconde nozze: “Io penso per me, ognuno pensa per sé”. In pieno spirito leghista, questo bisogna riconoscerglielo.

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QUALCUNO BADI AL PD

Patrizia Prestipino, deputata del partito democratico, ha replicato a Romano Prodi: “Con tutto il rispetto, vorrei replicare a Romano Prodi, che ho letto attentamente oggi su @repubblica, che il @pdnetwork più che di un padre avrebbe bisogno di una madre. Le madri, si sa, sono più tetragone, mentre i padri, come Crono, fanno tutti una brutta fine”. Ma visto come stanno messe le cose, andrebbe bene anche uno zio, una nonna, un tutore legale…

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Promossi

KOMPAGNO KROSETTO

Che la sinistra o sedicente tale abbia ormai perso da tempo la trebisonda, lo dimostra il fatto che alle contestazioni mosse al reddito di cittadinanza, che avrebbe la colpa di essere più alto del 45% dei salari al Sud, ha replicato in maniera tranciante non il Fausto Bertinotti delle 35 ore, ma Guido Crosetto di Fratelli d’Italia: “Sono stato uno dei primi a criticare l’impostazione del Rdc ma dire che non va bene perché entra in concorrenza con salari più bassi, non si può sentire. Fare impresa basandosi su salari troppo bassi rispetto al costo della vita è come costruire sulla sabbia e non ha futuro!”. Che a molti esponenti della sinistra non sia venuto in mente che il problema da evidenziare fossero i salari troppo bassi, che generano infatti il fenomeno sociale dei cosiddetti “working poors”, ma abbiano scelto, invece, il paragone economico tra salario e reddito di cittadinanza per denigrare il secondo, è emblematico di come la sinistra non riesca ad uscire da un cul de sac identitario che le è già costato, e rischia di continuare a costarle, carissimo. Che se ti trovi Crosetto che è più a sinistra di te, più che la terza via rischia di diventare il quarto palo.

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I venti anni a Roma dell’asilo che studia bimbi e genitori

Speranza e felicità. Ansia e tensione. Emozioni intense, positive o negative. Quando nasce un figlio, il romanzo familiare si rivoluziona. Sostiene Patrizia Pasquini: “Quando il bambino inizia a piangere, e non smette, la madre solitamente dopo qualche secondo gli porge il il biberon o l’attacca al seno senza capire che lui sta richiedendo solo la sua attenzione e non il suo nutrimento. Queste esperienze ripetute di fraintendimento provocano stati di ansia o di allerta nel bambino che se persistono creano una disorganizzazione psicologica”.

Giusto vent’anni fa, il 2 febbraio del 1999, Patrizia Pasquini ha inventato “Tempo Lineare” a Testaccio, quartiere popolare che rappresenta il cuore di Roma. Un vero asilo per famiglie dove Pasquini, psicoterapeuta infantile, osserva le emozioni di bambini, madri e padri, che “interagiscono” tra di loro. La base di partenza è il modello Tavistock dell’osservazione psicoanalistica della relazione madre-bambino. Ma la responsabile di “Tempo Lineare” l’ha integrato e reso originale con la sua esperienza. La casistica della scuola è completa e comprende anche famiglie con figli adottivi e disabili. Uno dei casi più cari a Pasquini, quando “Tempo Lineare” nacque, riguarda una ragazza madre con una grave depressione post partum e un bambino autistico. Dopo vent’anni, i due hanno vita serena e sono rimasti sempre in contatto con lei. Quest’ultimo è uno degli altri successi conseguiti dalla struttura pubblica di Testaccio.

Continua Pasquini: “Tempo Lineare è un modello che include e una scuola che aggrega, il legame che s’instaura resta quasi sempre nel tempo”. Il fulcro di questo legame è l’Associazione genitori e amici del Tempo Lineare: dal 1999 a oggi sono passati per la scuola oltre 400 famiglie. E tantissimi hanno affollato il ventesimo compleanno festeggiato con una mostra fotografico. Tra loro anche Enrico Letta, con i tre figli. Guardando le immagini, l’ex premier ha detto a Pasquini: “Ma quanta fatica hai fatto?”. Quella di Testaccio è un’esperienza unica in Italia. Nel quartiere sono due le sedi per i bimbi dai 0 ai 6 anni. Una in via Vespucci, laddove c’era l’antica Casa dei bambini della Montessori. L’altra in via Marmorata. Attenzione, ascolto e comprensione quotidiane. E poi riunioni mensili coi genitori.

Spiega Pasquini: “Quando la scuola è uno spazio adeguato per il bambino, l’integrazione che si produce tra il bambino ‘normale’ e quello considerato ‘patologico’ non è un’integrazione cercata, ma un’integrazione naturale perché pensata in funzione del bambino”. A “Tempo Lineare” il bimbo più forte aiuta quello più fragile a crescere senza la classica maestra di sostegno. Il modello Pasquini, chiamiamolo pure così, è stato recentemente studiato anche a Sidney, in Australia. E il libro sul metodo è stato tradotto in Inghilterra e in Spagna. Ma in Italia questa rivoluzione “continua a essere ignorata, eppure potrebbe aiutare tantissime famiglie”, conclude Pasquini con un filo di amarezza.

La Settimana Incom

 

Bocciati

In Ultimo

A Roma si dice “rosicare” quando non tutto fila come uno avrebbe desiderato e voluto. Capita. Ma quanto detto e fatto da Ultimo alla fine di Sanremo, per non aver vinto il Festival (una lite in sala stampa) lascia perplessi. Keep calm.

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Ma che Renga dici?

La teoria della superiorità maschile nel cantare rispetto alle donne (Francesco Renga dixit) è un acuto di stupidaggine. Diamo il beneficio dello stress da Festival, l’ora tarda, magari un drink. Spesso il silenzio è più intelligente.

4,5

 

“Harditi” senza gloria

In Rete circola un video hard girato da Cyril Théréau, attaccante del Cagliari: il calciatore francese ha ripreso con il telefonino una scena di sesso tra un uomo e una donna. Lui guarda e ride. Guarda e ghigna al potenziale pubblico. Una tristezza infinita. (ps. a quanto pare il giorno dopo la squadra isolana ha pure perso)

3

 

Sylicon valley

Il palco del Festival ha sfoggiato fiori, bei vestiti (non tutti, ovvio), le polemiche e soprattutto una serie di volti toccati dal silicone: per alcuni diamo l’agio dell’età, in altri ci domandiamo: perché lo fate?

4

 

N.c.

Addio a Finney

Cinque volte candidato all’Oscar, neanche una vittoria. Eccome se lo avrebbe meritato, Albert Finney, e magari quest’anno alla cerimonia gli regaleranno un lungo e partecipato applauso. Troppo tardi. Voto: 3 all’Academy Award.

 

Promossi

Non (am)mara mai

Ospedale, cortisone e terapie fino a sabato sera, il dubbio fino a poche ore prima, e poi eccola lì Mara Venier, in studio, come ogni domenica (In) a condurre la trasmissione con la sua fisicità, il suo ruolo da “zia” e la voce bassa.

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A lezione dai Bortuzzo

Padre e figlio; figlio e padre in un palleggio straordinario di responsabilità, equilibrio, lucidità rispetto a quale messaggio trasmettere. non hanno mai gridato. non hanno mai urlato ai forconi nonostante una pallottola a paralizzare non solo le gambe. Una rarità.

10

 

Senza maglietta (fina)

Paola Massari, ex moglie di Claudio Baglioni, che dopo la gag di Pio e Amedeo sul palco dell’Ariston (“Sono passati 47 anni… la ragazza con la maglietta fina ora tiene la panciera”) si spoglia su Instagram e mostra che il periodo della “panciera” è molto lontano.

7,5

 

Sempre con Woody

Woody Allen fa causa ad Amazon e gli chiede 68 milioni di dollari. Il colosso dell’e-commerce avrebbe violato il contratto per 4 film con il regista siglato. Tutto a causa delle accuse di 30 anni fa di molestie sulla figliastra Mia rilanciate nell’era del #MeeToo. Le spiegazioni offerte non sono una base valida, si legge nei documenti presentati da Allen in tribunale. E neanche per noi.

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“Uomini allergici ai vibratori”: troppo “Osè” per gli Awards

Creato dalla startup statunitense Lora Dicarlo, con la collaborazione dell’Oregon State University, aveva tutte le caratteristiche per brillare all’International Consumer Electronics Show, la fiera statunitense dell’elettronica internazionale: si tratta di un vibratore grigioperla perfettamente simile a un pene, ma in grado di riprodurre, grazie al suo “mimetismo biometrico”, “tutta la gamma di sensazioni che possono essere trasmesse al corpo da bocca, lingua e dita umane”. E invece “Osé”, questo il nome del vibratore, prima è salito sul podio, vincendo l’Innovation Awards 2018, poi è stato rovinosamente scaraventato via dalla Consumer Technology Association, l’associazione che organizza la fiera, perché “immorale, osceno, indecente, profano e non in linea con l’immagine”. La fondatrice dell’azienda di “Osé”, Lora Haddock ha reagito prontamente, definendo la decisione “offensiva e ridicola”, visto che il premio era in linea con la categoria “Robotica e Drone”. Ricordando poi come edizioni precedenti avessero ospitato tecnologiche bambole gonfiabili, la Haddock ha lanciato su Twitter l’hashtag #CESGenderBias, accusando l’intera industria della tecnologia di “sessismo, misoginia, doppio standard”. I tweet, ovviamente, sono stati quasi tutti simpatetici con l’azienda (che, tra l’altro, almeno si è fatta buona pubblicità). Ma l’appoggio è venuto quasi esclusivamente da parte femminile, mentre sui social network hanno latitato commenti maschili. D’altronde, gli esperti confermano: gli uomini ai vibratori restano allergici. “Il vibratore è di fatto un sostituto dell’organo maschile, qualunque uomo fa fatica ad accettarlo”, ricorda lo psicoanalista Maurizio Montanari. “Impensabile poi per un uomo che il vibratore entri come gioco erotico nella coppia, perché di fatto significa la messa fuori dell’uomo”.

D’altronde, neanche le donne – che poi non è che vadano in giro tutte col set di vibratori nella borsa, come da immaginario cinematografico – amerebbero una bambola gonfiabile nel letto. Ma il punto è un altro: forse i seriosi membri della Consumer Technology Associationnon sapevano che questo strumento nacque per aiutare i medici che masturbavano le donne “isteriche” e nevrotiche a fini terapeutici, visto che a furia di visite erano pieni di crampi alle mani. Insomma, il vibratore può dare una mano anche all’uomo alle prese con donne affaticate e stressate (moltissime), le quali tra l’altro smetterebbero di sentirsi in colpa, come ancora fanno, per l’eccessivo lavoro di lui in visto del proprio non scontato orgasmo. Ma poi “Osé” è il primo vibratore che lascia del tutto libere le mani, altro vantaggio che forse aveva spinto i più lungimiranti giurati alla celebrazione immediata. E dunque: 1) nell’epoca in cui i robot fanno persino lo storytelling, col fantasma della sostituzione meccanica ci dobbiamo convivere in ogni settore; 2) se bocciate i prodotti tecnologici per donne, allora smettete di invitarci a fare le “bambine ribelli”, e iscriverci a matematica, ingegneria, robotica. Ce ne torniamo a studiare letteratura.