Messico violento, il professore italiano che insegna la pace

Un misto di Dalla, Guccini e Pavarotti. Il cocktail non è casuale. Perché Paolo Pagliai, rettore de la Alta Escuela para la Justicia di Città del Messico, racchiude in sé una formidabile concentrazione di storia italiana degli anni ottanta e novanta. Nato a Firenze nel fatidico 1968, ha vissuto con avidità i decenni della adolescenza e della gioventù, tutto consumando e metabolizzando di quel periodo: musica, cinema, fumetto, calcio. Così che nelle passeggiate nel grande parco di Coyoacan, mentre parla dei grandi problemi messicani o italiani, riesce a sintetizzarli con fulminei, esattissimi riferimenti a parole di canzoni o a scene di film ormai sepolti nella mente del suo interlocutore.

Ma di quegli anni Pagliai ha vissuto anche l’impegno pubblico. Della sua Firenze ha frequentato, e la richiama spesso come biglietto da visita, la grande esperienza dei preti del dissenso all’Isolotto di don Enzo Mazzi, dove trovò in eredità pure l’insegnamento di don Milani e l’utopia di pace di La Pira. Nulla di strano quindi, se giunto 20 anni fa in Messico per amore, ha progressivamente offerto alle università locali una disciplina speciale, la costruzione della pace. Formatosi nel dottorato alla celebre Unam, l’Universidad nacional autònoma de México, la più grande e antica università latino-americana, è andato poi a portare la sua passione civile alla Universidad del Claustro de Sor Juana di cui è diventato preside nelle “Humanidades”. “Insegnare la pace in Messico….Sembra una battuta. Ti guardano come se fossi un dispensatore di chiacchiere in un paese che ha le cifre di morti e di desaparecidos che sappiamo. Insomma, uno che insegna il niente”. Sotto gli occhialini sottili passa un attimo di commozione. Un palo sulla pubblica piazza porta il viso di una donna di 58 anni, un piccolo manifestino ne annuncia la scomparsa. Le cronache del giorno raccontano di tre ragazze sparite. Gli si incrina la voce quando ricorda di avere visto le sue allieve un giorno in manifestazione che gridavano “porqué, porqué, porqué nos asesinan, si somos la esperanza de America Latina?”.Eppure questo italiano venuto a far del bene dall’altra parte dell’Atlantico non si dà per vinto. Mentre le cifre della violenza impazziscono verso l’alto, lui cerca di dare uno sbocco all’idea di mondo che si è fatto in Italia: l’Isolotto fiorentino ma anche l’ultima rivolta collettiva a cui ha partecipato nel suo paese, le stragi palermitane, i due giudici diventati simbolo per la sua generazione, tanto da chiamare Libero il primo figlio avuto da Teresa in onore di Libero Grassi. Una miscela culturale fortissima, che traspira da ogni parola, e che lo ha portato a cercare dentro la società messicana il modo di non tacere, di non assuefarsi. “Troppe volte l’accademia si ripiega su se stessa. Una volta che mi misi in ferie per andare a Guadalajara dov’erano Caselli e Ingroia, nella mia università si preoccuparono che mi esponessi troppo. Per il mio bene, naturalmente, ma la situazione messicana aveva bisogno di un cambio di passo”. Così Pagliai maturò la grande scelta. Fondare una università. Il Messico ne ha in quantità industriali, d’altronde. Con l’aiuto di un ricco avvocato sensibile ai diritti umani, Juan Antonio Araujo, è nata così l’Alta Escuela para la Justicia, diventata rapidamente un punto di riferimento, sostenuta dalle Nazioni Unite di Vienna, e i cui primi passi “vennero anche aiutati da don Ciotti e Libera”. Un istituto che sembrerebbe malinconicamente destinato a promuovere i suoi progetti di pace e di giustizia in partibus infidelium. Pagliai però non lo crede. “Non mi sogno di negare quel che accade in Messico. E nemmeno mi rifiuto di vedere la grande marea di corruzione che sembra sommergere ogni idea generosa, ogni battaglia di giustizia. Ma il Messico è un paese meraviglioso, è pieno di contraddizioni, ha gente bellissima, trovi sempre persone con cui allearti. Questa è la lezione che vorrei trasmettere a tutti: non si è mai soli, se appena si alza lo sguardo. E poi questo nuovo governo sembra volere fare sul serio. Obrador ha dichiarato guerra alla corruzione nei suoi programmi, e con Amlo, la sua nuova lista, ha stravinto in tutti gli stati meno uno”. Gli occhialini di Paolo si muovono su è giù, perfino la barba sembra vibrare all’idea che sia giunto il momento della svolta. Le autorità locali lo ascoltano, lo invitano, lo ricevono. Mentre io penso che molti dei famosi “italiani all’estero” potrebbero tranquillamente prendere in mano il paese da cui sono partiti.

Lavorare in Amazon. Controlli asfissianti, altro che le amanti di Bezos

 

Ciao Selvaggia. Lavoro in Amazon da un anno e mezzo, sono una donna con figli e ti voglio raccontare com’è lavorare lì.

Il reparto in cui sto è dedicato allo stoccaggio e prelevamento merci. Si lavora otto ore con una pausa di 30 minuti. Ogni giorno il turno comincia con il controllare cosa dovrò fare e dove dovrò andare oggi. Si chiama staffing e avviene in sala mensa, poi un televisore ci mostra dove dobbiamo andare dopo aver svolto un altro il briefing. Il briefing comincia puntuale a inizio turno con un simpatico stretching che di atletico non ha nulla ma è un segno di velata sottomissione. Al termine si deve camminare velocemente – ma non correre – fino alle postazioni, dove per 4 ore si dovrà prelevare o inserire oggetti negli scaffali in modo ripetitivo, il tutto supportato da scanner, schermo e contenitori per la merce. A questo punto c’è la pausa, con un altro briefing per analizzare quanto il lavoro sta rendendo, se siamo nel piano produzione della giornata. Infine urlo di gruppo e tutti di nuovo in postazione per altre 3 ore e 30, ripetendo le stesse procedure. C’è una rete di connessioni molto fitta che consente di svolgere tutto ciò, e questi “connettori” si chiamano “indiretti”: sono persone che per otto ore trascinano un carrello e riforniscono queste postazioni di ogni elemento, e stiamo parlando di km e km con scomode scarpe antinfortunistiche, per tutto il giorno, senza considerare i pesi sollevati.

Ti controllano in Amazon? Assolutamente sì. Si è costantemente controllati, sia con la tecnologia, sia a vista. Se sei lento nel tuo lavoro ti viene chiesto il motivo; almeno una volta a turno passa il manager a verificare il “come va” e il “quanto rendi”, nonché varie ed eventuali. Costantemente passano intermediari, chiamati “lead”, e verificano se si lavora, se si socializza e come si socializza, controllano le pause, quante sono e quanto durano. Nessun attacco diretto, solo velate allusioni. Nessuno mai ti dirà che sei andato in bagno troppo spesso ma useranno una frase tipo: “Ti senti bene? Ho notato che ti sei assentato spesso!”.

Il sistema è pensato per un solo scopo: nessuno si deve fermare e se accade, il motivo va vagliato. C’è un cronometro per tutto, e se si va oltre certi loro schemi l’algoritmo Amazon va in allarme, e quell’operatore deve essere ripreso.

Un operatore di magazzino guadagna 1200/1300 netti al mese. Come sono i turni? Massacranti. Si lavora a turni, mattina, notte e pomeriggio, i riposi sono spesso infrasettimanali, raramente nei weekend, a cui si aggiungono il periodo di cosiddetto “picco lavorativo” in cui i turni diventano ancora più serrati e spesso capita di staccare il venerdì sera alle 22,30 essere a lavoro il sabato alle 10,30 e finire alle 18,30 per poi ricominciare domenica alle 6 del mattino. E parlo di giorni consecutivi.

Perché nonostante ciò rimani in Amazon? Perché non trovo altro. Certo, poi in occasione delle festività la sala mensa viene addobbata. Pensate ora ci sono i cuoricini per San Valentino e l’elezione di Miss e Mister Amazon; ci trovi anche il biliardino che considerando la pausa di 30 minuti non sfrutti mai. C’è di tutto compresa la fatica di aver camminato magari per 45 km in otto ore con scarpe dure e pesanti, con la certezza che lo ripeterai domani e ancora e ancora.

E.

 

Cara E., quello che mi descrivi sembra un incrocio tra ‘Tempi moderni’ di Chaplin e un episodio di Black Mirror. Mi sembra che Jeff Bezos, il proprietario di Amazon nonchè l’uomo più ricco del mondo, farebbe meglio a preoccuparsi della soddisfazione dei propri lavoratori piuttosto che di due foto con l’amante.

 

Corna e coppie rovinate da fratelli e sorelle

Cara Selvaggia, ti scrivo perchè sono certa che anche tu, come tutte noi qui fuori, abbia nel tuo curriculum una serie più o meno lunga di ex che ti abbiano addobbata di corna più del salotto di un cacciatore di cervi. Non voglio insinuare nulla eh, ma è pura statistica, unita all’antropologica condizione di “cazzone seriale” in cui la maggior parte dei maschi versa. Sì, ho il dente avvelenato. Una delle relazioni più lunghe è intense della mia vita è finita perchè mia sorella ha avuto la brillante idea di farsela con il mio compagno. Mia sorella e il mio compagno, capito? Non so da quanto tempo andasse avanti la storia ma, quando ho scoperto la cosa prendendogli in mano il telefono dopo avergli estorto il pin con l’inganno (è un grande classico, lo so), il bastardo è stato immediatamente cacciato di casa avendo non solo rovinato due coppie, ma pure la mia famiglia, visto che come puoi immaginare con mia sorella non parlo più da allora. Si sente talmente in colpa che, per dire, non ha nemmeno provato a invitarmi a C’è posta per te. Ormai sono due anni che cerco il modo di fargliela pagare, magari in maniera teatrale, ma sono sempre stata a corto di idee. Finché qualche giorno fa un collega (lavoro a Londra in un’agenzia pubblicitaria) mi ha fatto vedere uno spot che da solo è riuscito a ripagarmi di tutto quanto ho sofferto. In pratica il testimonial di questa famosa agenzia di scommesse è il fratello di un famoso calciatore che, per un sacco di anni, se l’è fatta con sua moglie. Stessa mia situazione, ok? Durante tutto lo spot da un minuto, questo tizio non fa altro che prendersi per il culo da solo, con continui rimandi a quello che il fratello e la ex moglie gli hanno combinato, in maniera molto sottile ma estremamente particolareggiata. Il fatto è che qui in Inghilterra tutti sanno che lui è un cornuto e lui, invece di tirarsi indietro, cosa fa? Trasforma la sua storia in una monumentale opera d’arte di auto ironia e di pesanti frecciate alla moglie al fratello fedifrago. La mia vita non è cambiata di un centimetro ma ora, per lo meno, so che si sopravvive, e con che classe!

Sabrina

 

Cara Sabrina, sono andata a guardarmi lo spot in questione e ho scoperto che lo slogan è “La fedeltà è morta. Vivi per le ricompense”. Spero che tu nel frattempo abbia trovato una ricompensa alta almeno un metro e ottantacinque e con dei profondi occhi blu!

 

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Non è solo colpa della Germania: dietro la frenata dell’economia c’è la politica

La rapidità con cui la congiuntura italiana si sta deteriorando porta a interrogarsi sulle cause. Quelle esogene sono verosimilmente riconducibili alla frenata tedesca: da mesi gli economisti non sanno decidere se si tratta di fenomeno transitorio o persistente. Secondo alcuni osservatori, sulla manifattura tedesca avrebbero pesato tre elementi avversi: l’ormai notissimo crollo della produzione di veicoli, causato dal lento adeguamento ai nuovi standard di emissione; la siccità estiva, causa di problemi alla navigazione sul fiume Reno, che avrebbero impattato soprattutto sulla filiera chimica; ed una ad oggi inspiegata contrazione della produzione farmaceutica, imputabile ad un unico nome, e su cui indaga l’istituto di statistica tedesco. La somma di tre negatività idiosincratiche, senza considerare i costanti rischi protezionistici soprattutto sul settore auto e l’ormai acquisito rallentamento cinese, dovrebbe far pensare a qualcosa di non propriamente transitorio, e infatti la manifattura tedesca non riesce ad uscire dal segno meno da ormai molti mesi.

L’Italia, avendo imprese saldamente inserite nelle catene di fornitura della Germania, subisce in modo amplificato il colpo di freno tedesco; già questo dovrebbe consigliare maggiore cautela a chi ha costruito campagne elettorali su demenziali elogi dei dazi e sul tifo per Donald Trump, invitato a “dare una lezione ai tedeschi”. Ma la recessione italiana ha anche una radice del tutto endogena, riconducibile alla fortissima incertezza causata dall’azione dell’esecutivo. La persistenza dello spread su livelli corrosivi per la nostra economia, malgrado le professioni di straniante ottimismo di Giovanni Tria, allarga il differenziale sfavorevole tra costo medio del debito pubblico e crescita nominale del Pil, causando pressioni al rialzo del rapporto debito-Pil. Il cosiddetto “successo” nel collocamento dell’ultimo Btp trentennale, avvenuto a uno spread di oltre 300 punti base sul corrispondente Bund, è stato una paradossale finestra di opportunità che indica soprattutto una cosa: gli investitori esteri scommettono sulla solvibilità italiana a mezzo di maggiore tassazione, soprattutto patrimoniale, ove vi fosse necessità. Ma un acceleratore della crisi (e del travaso di debito dal settore privato a quello pubblico) rischia di provenire dalla condizione delle nostre banche: in recessione, molti crediti deteriorati migreranno verso sofferenze conclamate anziché tornare in bonis, mentre l’accesso ai mercati dei capitali è già oggi ostruito per molti nostri istituti. Su tutto, una manovra di bilancio che si dimostrerà priva di reale impatto espansivo ma che ha già ipotecato i margini di flessibilità del bilancio pubblico del prossimo anno, lasciando il paese privo di difese anticicliche in caso di ulteriore deterioramento della congiuntura globale. Esistono quindi inneschi multipli per una crisi finanziaria del paese.

Lombardia, guerra ai ricoveri inutili

Basta ricoveri inutili. La Regione Lombardia vara una stretta sulla sanità privata accreditata. Con le nuove “Regole di sistema 2019” (approvate lo scorso dicembre) le attività sanitarie dovranno essere programmate in base alle cure considerate più necessarie evitando il ricorso a prestazioni più remunerative, ma clinicamente meno rilevanti. Una sterzata voluta dalla giunta guidata dal leghista Attilio Fontana. Che però non implica nessuna riduzione di budget. Una quota di 35 milioni tra pubblico e privato, destinata ai ricoveri, sarà dirottata verso prestazioni più urgenti ed essenziali. Sul bilancio del privato, specifica la Regione, peserà per circa lo 0,8 per cento. Una misura oggi indispensabile per ridurre le liste di attesa e rispondere alle nuove esigenze epidemiologiche. Troppo spesso infatti i posti letto per acuti sono occupati da pazienti non gravi che hanno bisogno di riabilitazione. E chi deve fare un intervento per un cancro o per una cataratta deve aspettare. Le strutture convenzionate con il Ssn dovranno quindi trovare una soluzione. Indirizzando la presa in carico sul territorio o stipulando convenzioni con le case di cura per la lungodegenza.

Il telestalking è in ottima salute tra deroghe e leggi annacquate

Ennesima multa per un gestore telefonico che ha fatto dei dati personali dei clienti un uso scorretto. Questa volta è Wind Tre che dovrà pagare 600mila euro per attività correlate al telemarketing. È il Garante per la privacy ad aver rilevato “gravi violazioni della normativa sulla protezione dei dati personali nel corso di attività di marketing telefonico, anche tramite sms”. Wind Tre non avrebbe verificato i nominativi inclusi nella black list, ovvero la lista dei clienti che non desiderano essere contattati a scopi pubblicitari. La società ha, così, condiviso i dati dei clienti con i propri partner commerciali in modo sistematico e prolungato. Del resto sul mercato, i dati personali dei clienti si comprano a 5 centesimi a nominativo. Una multa comunque considerata “pesante” e che arriva in un momento delicato per i gestori telefonici alle prese con lo sbarco di Iliad, che ha innescato una guerra di prezzi al ribasso, facendo scendere i ricavi degli altri big. Ma questo non fermerà la pratica del telestalking con le chiamate a qualsiasi ora del giorno. Anzi, lo alimenterà a causa della battaglia per riconquistare i clienti.

Eppure, questo incubo sarebbe dovuto finire con l’approvazione della legge 5 del 2018 contro il telemarketing sul telefono fisso e mobile. Ma, nonostante sia passato oltre un anno dall’approvazione, manca ancora il Regolamento attuativo da parte del ministero dello Sviluppo economico. Si tratta di una legge che obbliga a rendere riconoscibili le chiamate che arrivano dai centralini e che, dopo un anno di discussioni, è stata approvata dal Senato, ma depotenziata rispetto al testo votato dalla Camera. Un compromesso per non penalizzare i gestori. Ma con due evidenti criticità: il doppio prefisso (lo 0843 e lo 0844 che identificheranno le comunicazioni finalizzate ad attività statistiche e quelle per le ricerche di mercato, pubblicità e vendita) e il numero richiamante. Se inizialmente era stato previsto un prefisso unico per le chiamate provenienti da call center (tipo l’199), ora si rischia di confondere il cliente. Dal momento che i numeri dei call center non compariranno più anonimi, potranno essere richiamati dagli utenti, ma a proprie spese. I più maligni dicono che così si rischia di cadere dalla padella alla brace e venire sottoposti a un’aggressiva politica di marketing. Po c’è la questione del Registro delle opposizioni. La più grande novità della legge è l’iscrizione di tutte le utenze, sia fisse che mobili: oltre 117 milioni di numeri, contro un milione e mezzo attuali, che non dovranno più ricevere chiamate indesiderate, visto che viene meno la revoca dei consensi precedentemente espressi. Ma i fornitori potranno continuare a contattare gli ex clienti nei successivi 30 giorni dalla disdetta o dalla scadenza del contratto. In attesa del decreto attuativo, il telefono di 30 milioni di italiani squilla senza sosta, perché i call center dei gestori di luce e gas propongono alle famiglie di uscire dal mercato tutelato e passare a quello libero senza che, però, la maggior parte dei clienti sia realmente consapevole di quello che fa.

Nel settore, è infatti in corso una vera guerra in vista della stop definitivo al regime di maggior tutela previsto da luglio 2020, salvo l’ennesima proroga se entro il prossimo anno e mezzo non si riuscirà a realizzare un sistema competitivo, con contratti luce e gas chiari, trasparenti e senza condizioni vessatorie. E a complicare un po’ la situazione ci si è messo anche il messaggio che da inizio hanno stanno ricevendo le famiglie nelle bollette dell’elettricità e del gas. L’Autorità per l’Energia (Arera) sta, infatti, inviando una comunicazione a circa 17,3 milioni di clienti elettrici e 12,7 milioni nel gas, che ancora si trovano nel mercato tutelato, per spiegare che è bene cominciare a prepararsi e ad informarsi verificando le offerte disponibili sul sito www.ilportaleofferte, dove si possono anche valutare proposte con condizioni contrattuali standard dell’Autorità a prezzo libero (le cosiddette offerte Placet). Ma apriti cielo. I gestori si sono ritrovati una prateria da arare nella confusione più totale dei clienti che, alle decine di telefonate che ricevono dai call center, si sentono obbligati a cambiare contratto, pensando di incorrere in qualche sanzione se restano nel mercato tutelato. Inoltre, è ancora poco chiara la situazione dei gestori che offrono sia il mercato tutelato che quello libero.

Basti pensare alla multa da 93 milioni di euro inflitta a inizio 2019 dall’Antitrust nei confronti di Enel per abuso di posizione. Ad essa si affianca una stangata di 16 milioni per lo stesso motivo ad Acea.

Enel ha utilizzato dati personali raccolti nel settore di servizio pubblico di maggior tutela per acquisire clienti nel ramo mercato libero. Per legge, invece, i due rami sono stati separati come società indipendenti e non possono comportarsi nel passaggio delle informazioni strategiche, come i dati personali dei clienti.

Daimler, utili in calo e il caso Geely da gestire

Il gruppo Daimler chiude il 2018 con un record commerciale: 3,352 milioni di veicoli venduti a marchio Mercedes, Smart, Daimler Truck e Mercedes benz vans, ma la crescita del fatturato fino a 167,4 miliardi si abbina a una battuta di arresto dell’utile netto, pari a 7,6 miliardi, in calo di ben il 29% rispetto al 2017. Il meccanismo virtuoso degli alti margini, che ha fatto dell’industria del lusso automobilistico tedesco un caso di scuola, si attenua per ragioni che vanno ben oltre le spese di ricerca e sviluppo, ammortizzate in quinquenni, o per il costo degli aggiornamenti tecnologici richiesti dalle nuove normative anti emissioni. Per Daimler ora la necessità è un nuovo raggio competitivo sul mercato. Ovvero, alleanze da gestire. Tocca a Dieter Zetsche, presidente e ceo del Gruppo, uscire allo scoperto a margine della conferenza di presentazione del bilancio: “Siamo in trattative con Geely su altri ambiti che hanno una dimensione più grande”. Ma non si tratta del progetto di car sharing e, comunque, non di un partner qualunque. Dodici mesi fa il presidente di Geely, Li Shufu, ha acquisito il 9,69% del capitale di Daimler, diventando azionista di maggioranza, con un investimento di circa 7,5 miliardi di dollari. Una scalata ostile che ora potrebbe dargli la forza per imporre sinergie tra Mercedes e i marchi che controlla, Lotus e soprattutto la svedese Volvo. Formalmente tutto tace, ma non a Berlino, dove il governo sta studiando misure protezionistiche per garantirsi la possibilità di acquisire partecipazioni in aziende nazionali, tra cui quelle del settore automobilistico. Per contrastare acquisizioni straniere.

Bilanci 2018: l’annosa questione dei margini

Quella appena trascorsa è stata la settimana dei numeri. Note positive dagli Usa, dove Gm chiuso il 2018 con utili per 8,1 miliardi di dollari. La cura Mary Barra funziona e con essa il processo di trasformazione che la più grande delle Big Three ha da tempo messo in moto: razionalizzazione della produzione, focus su nuove tecnologie (nel 2019 investirà un miliardo sulla guida autonoma) e servizi di mobilità.

Non è andata troppo bene a Daimler: utili in calo del 29% a 7,58 miliardi di euro, a fronte di previsioni che la accreditavano poco sotto gli 8. A pesare, la Guerra Santa (e illogica) contro il diesel e l’introduzione del nuovo ciclo di omologazione Wltp. E dietro l’angolo c’è l’ingombrante azionista Geely, con cui il gran capo uscente Zetsche ha dichiarato di voler allargare la collaborazione. Chissà cosa ne pensa il governo tedesco, che vuole comprare azioni delle industrie nazionali (comprese quelle dell’automotive) per evitare imbarazzanti takeover stranieri. A proposito di imbarazzi, Toyota ha ridimensionato le previsioni per il suo anno fiscale, complice il calo dei profitti del 29% nei primi 9 mesi: i mercati di Usa e Cina che non tirano più come prima, e le incertezze sulla Brexit non aiutano. Da ultima, Fca. Nel 2018 ha centrato gli obiettivi che si era prefissata, con profitti per oltre 5 miliardi. Ottenuti però anche grazie alla dismissione di gioielli di famiglia come Magneti Marelli. L’outlook per il 2019 non è così roseo, è necessario investire su ricerca, sviluppo e prodotto. Nuovo.

Diesel a picco in Europa. Il ritorno delle auto a benzina

Inesorabile e irreversibile: è l’andamento commerciale dei motori turbodiesel in Europa. Secondo gli ultimi dati dell’Acea (l’Associazione europea delle case automobilistiche), le immatricolazioni dei veicoli a gasolio relative all’ultimo trimestre del 2018 sono scese del 23,6%, perfettamente in linea con i -18,3% e -15,7% dei trimestri precedenti. Cifre che vanno a definire un’annata in cui la fetta di mercato delle vetture diesel è passata dal 44% al 36%: viceversa, quella delle auto a benzina è lievitata dal 50,3% al 56,7%, con registrazioni in aumento del 12,4%. Sembra, quindi, che la campagna anti-diesel portata avanti dalle istituzioni europee stia dando i suoi frutti, allontanando la clientela da una soluzione motoristica che è ancora difficile da battere per quanto riguarda l’efficienza di esercizio. Non solo: i diesel omologati Euro 6d-Temp (standard che diventerà obbligatorio dal prossimo settembre) riescono pure a contenere al minimo gli inquinanti. In tema di Co2, poi, sono più puliti degli omologhi a benzina.

Senza contare che il calo del gasolio non è compensato da un concreto aumento delle immatricolazioni di vetture dotate di alimentazione alternative: ibride (+31%, incluse le plug-in), elettriche (fanno segnare +33%, ma rappresentano appena il 2% dell’immatricolato) ed auto a gpl e metano (queste ultime scendono del 13,8%) tutte insieme costituiscono poco più del 7% della quota di mercato totale. In particolare, per i modelli elettrificati si sconta ancora il peso di un elevato prezzo di acquisto, di autonomie limitate e di un’inadeguata infrastruttura di ricarica: problematiche che non sembrano superabili nel breve termine.

Tuttavia, bisogna sottolineare che la bontà delle nuove norme di omologazione è tutta da dimostrare, come indicato dalla Corte dei conti europea (Cce), che ha pubblicato un documento di riflessione sullo scandalo Dieselgate del 2015. L’istituzione rimane scettica sulle modalità con cui si svolgono i test sulle emissioni nocive dei veicoli di nuova immatricolazione: destano perplessità le lacune normative che potrebbero essere sfruttate dai costruttori per aggirare la legge e gli alti costi dei controlli indipendenti.

Secondo la Cce, i regolamenti Ue sono divenuti più rigorosi ma occorrerà tempo affinché si manifestino i miglioramenti introdotti dalle modifiche alla legislazione. Inoltre, l’efficacia delle nuove norme dipende soprattutto dagli Stati membri e dalla stretta vigilanza delle istituzioni preposte affinché i produttori non aggirino le norme con fraudolenti escamotage, come già successo in passato. Problematiche che potrebbero cementare ulteriormente l’avversione al diesel degli Stati membri.

Gli spazi, i cittadini, le case: l’architettura dell’“eretico” Zevi

Dopo la bellissima mostra al Maxxi, che molti ricorderanno, dal titolo: “Gli architetti di Zevi”, giunge ora, raccolto in un volume, il materiale di un convegno dedicato a Zevi, nel centenario della nascita (Catania, maggio 2018). È un grande lavoro (grande per i materiali raccolti, le persone ascoltate, la storia, i contributi editi e inediti, la documentazione visiva ) a cura di Antonietta Iolanda Lima, che, da architetto, ha lavorato sui tre piani della storia, della filologia e della raccolta di documenti e testimoni. Tutto ciò è il libro “Bruno Zevi e la sua eresia necessaria” edito da Flaccovio. Zevi è un maestro più facile da ascoltare che da commentare, e infatti nessuno, che sia stato presente o partecipe della sua grande avventura può dire di non patire tuttora nostalgia profonda della sua voce e del modo in cui tesseva, nel parlare, i fili della complessità che diventava semplice e popolare pur non scendendo di un millimetro dagli spazi e dai livelli che si era assegnato. La Lima vede la irresistibile difficoltà del problema (come si racconta Zevi?) e lo racconta e lo fa raccontare con coraggiosa competenza: è anche un glossario del linguaggio zeviano e un dizionario di alcuni fondamentali interventi di Zevi nell’architettura italiana e del mondo. Bruno Zevi ha visto un passaggio che non era stato notato prima di lui. Ha rovesciato la persuasione secondo cui in ogni tempo la cultura fa l’architettura e ha invece impostato tutto il suo impegno critico dando all’architettura il compito di segnare un tempo e di orientare le arti.

Ha condiviso con pochi (Olivetti) l’idea di città come rappresentazione della società, della cultura, della storia. E ha orientato l’architettura, gli architetti su cui per fortuna la sua attività critica ha avuto una forte presa, a diventare consapevoli del peso sociale, culturale, politico del disegnare e costruire una casa. Anche la modificabilità e l’ambiguità degli spazi è stata la sua grande lezione, il teatro in cui la platea diventa scena e la scena luogo per vedere il teatro. La flessibilità era il punto, come lo era liberare le città dalla finta rappresentanza istituzionale per farle diventare adatte al respiro, allo spazio, al protagonismo dei cittadini, attraverso il cambio di prospettive, volumi, spazi pieni e vuoti, natura e costruzione. Il volume è un prezioso catalogo di voci che hanno accompagnato o seguito Bruno Zevi nella sua straordinaria predicazione di un mondo nuovo dell’architettura, un elenco di affinità e somiglianze, un archivio di temi e di eventi. Un grande convegno ha dato luogo a un libro-catalogo che sarà prezioso per gli studiosi di un grande maestro.

Un hotel nella villa Medicea. Con lo zampino di Lotti

Da Cosimo III de’ Medici granduca di Toscana a Luca Lotti, petalo d’eccellenza di un giglio magico renziano velocemente appassito. È nell’improbabile tragitto che congiunge questi due potenti toscani vissuti a tre secoli e mezzo di distanza che si gioca il futuro della Villa dell’Ambrogiana, spettacolare monumento che sorge in riva all’Arno, a Montelupo Fiorentino.
Il 5 aprile del 1681 il segretario di Cosimo III non riusciva a trovare parole per descrivere l’“avidità” con cui il suo padrone, nel salone dell’Ambrogiana, assisteva all’apertura di due casse venute da Roma: ne uscirono un superbo quadro di Bassano, e uno rarissimo di Bernini, appena scomparso.

Anche oggi la villa potrebbe trasformarsi in un teatro dell’“avidità”: quella di una speculazione immobiliare e di una ‘valorizzazione’ turistica desertificante che sono ormai tra le pochissime industrie della Toscana.

L’Ambrogiana è sempre stata una città proibita per gli abitanti di Montelupo: prima perché era il paradiso di giardini, collezioni, serragli esotici e conventi misticheggianti in cui si ritiravano i granduchi, da Ferdinando I a Cosimo III. Poi perché nel 1886 vi fu installato il secondo manicomio criminale dell’Italia unita, divenuto negli anni Settanta del Novecento un Ospedale Psichiatrico Giudiziario (Opg). Una storia terribile, quest’ultima, culminata nei primi anni Duemila nell’inarrestabile decadenza della villa stessa e delle condizioni di chi ci viveva, fino alla serie di tre suicidi di pazienti-detenuti, tra 2000 e 2003.

Nel 2011 arriva finalmente a Montelupo una direttrice esemplare, Antonella Tuoni, che lotta con i pochissimi fondi disponibili per recuperare la struttura storica e la qualità della vita di pazienti e lavoratori. Quando i risultati si cominciano a vedere, arriva la chiusura degli Opg: esattamente due anni fa, nel febbraio 2017, l’ultimo paziente lascia l’Ambrogiana. Ma gli appetiti erano iniziati assai prima. Il 15 dicembre del 2014 si svolge a Montelupo una tavola rotonda in cui l’allora presidente della Cassa Depositi e Prestiti Franco Bassanini, il governatore Enrico Rossi, il sindaco Paolo Masetti (Pd) e ovviamente l’allora potentissimo montelupino Luca Lotti tratteggiano il futuro dell’Ambrogiana.

Il più informato tra i vari resoconti giornalistici, quello della testata toscana online Gonews, è assai esplicito: “È necessario spiegare alcuni passaggi di Bassanini. Se per esempio nella Villa Medicea si volesse realizzare un albergo di lusso, strategico tra Firenze e Pisa, vicino a Siena e Lucca, si potrebbe separare la proprietà dell’immobile dalla gestione dello stesso, affidandola a catene internazionali, favorendone l’ottimizzazione, la promozione e i ricavi”.

Tre anni dopo, nel settembre 2017, 1.400 cittadini – tra i quali Lotti – abbracciano la Villa: una bellissima iniziativa che dovrebbe rappresentare simbolicamente l’apertura di un processo partecipato in cui decidere insieme il futuro dell’Ambrogiana.

Invece, è solo fumisteria: sulla base di un laboratorio di partecipazione promosso dal progetto culturale “Cities-Cafés”, l’opposizione “Città e Lavoro” aveva presentato quasi un anno prima in consiglio comunale una mozione con cui si chiedeva la garanzia della proprietà pubblica e della gestione dell’immobile e dell’intera area, e la partecipazione della cittadinanza alle scelte sul futuro della villa. Ma la mozione era stata respinta con il voto compatto della maggioranza Pd. “È un po’ da sognatore – aveva risposto il sindaco Masetti – dire che (l’Ambrogiana, ndr) è dei cittadini”. Il boccino, sosteneva il sindaco, è a Roma: una Roma allora renzianissima.

Puntualmente l’Agenzia del Demanio, cui il ministero della Giustizia ha “restituito” l’Ambrogiana, mette dunque a gara lo studio di “fattibilità” sulla “valorizzazione” della Villa, che viene affidato a Coop Culture e allo studio di architettura Palterer & Medardi. Tra gli scenari delineati dallo studio, l’Agenzia del Demanio sceglie quello che trasformerebbe la villa in una “Cittadella del sapere”. Uso pubblico e virtuoso al cento per cento, dunque? Non esattamente. Lo studio spiega anche come sottrarre all’uso pubblico una parte importante del complesso “attraverso la vendita/locazione/concessione della relativa area ad un privato”. Non un dettaglio, ma una falla capace di affondare la nave dell’uso pubblico, come ammette lo stesso studio di fattibilità: “L’alienazione/concessione/locazione ‘indebolisce’ i Modelli di Gestione delle altre aree, soprattutto quelle a maggior vocazione culturale (giardini piùmuseo) e potrebbe minare la logica complessiva del ‘polo della conoscenza’”. Un’ammissione che forse spiega perché il consigliere di opposizione Francesco Polverini ha impiegato mesi per avere accesso allo studio: alla faccia della partecipazione e della trasparenza.

Nel 1988 Giovanni Michelucci aveva proposto un primo, visionario progetto di recupero pubblico dell’Ambrogiana. Nel 2014 Antonella Tuoni ha prospettato un’idea diversa, e affascinante: e cioè che una parte della Villa continuasse ad ospitare un carcere, rendendo così chiaro che la storia non si rimuove e i detenuti non si nascondono come polvere sotto il tappeto. E anche che le prigioni non sono luoghi dove si ‘marcisce’, ma istituzioni che possono riscattare anche grazie alla bellezza.

Oggi la domanda è una sola: i cittadini di Montelupo (anche quelli che non si chiamano Lotti) saranno chiamati a decidere davvero del futuro del loro bene più prezioso?