Bad Blood è una serie televisiva canadese del 2017, ideata da Simon Barry che ha scritto la sceneggiatura assieme a Michael Konyves. La regia è di Alain Des Rochers e Jeff Renfroe. La serie (due stagioni) è ispirata al libro del 2015 Business or Blood: Mafia Boss Vito Rizzuto’s Last War di Antonio Nicaso e Peter Edwards. Libro in cui vengono narrate le vicende della Famiglia Rizzuto, un’organizzazione criminale di stampo mafioso che ha la sua base proprio a Montréal. In Italia, la serie è stata trasmessa su Netflix. È ambientata a Montreal nei primi anni 2000: Vito Rizzuto, potente boss della mafia canadese, stringe un patto con altre gang del territorio (irlandesi, haitiani e canadesi) e, sfruttando i suoi contatti con il mondo politico e con poliziotti corrotti, accresce sempre più il suo potere. Quando viene arrestato su richiesta di estradizione degli Usa per un vecchio omicidio, i suoi affari criminali passano nelle mani del suo fedele braccio destro Declan. Ma il figlio di Vito, Nico Jr. non digerisce la cosa e provoca una serie di omicidi e di ritorsioni da parte delle varie bande rivali.
Sciascia, Rizzuto e Borsellino. Il Canada tra mafia e affari
Sempre strano il sentirsi siciliani. Eccoli: “Insulari del Sud, decisamente irrecuperabili”. Così scrive il gesuita François Hertel, tra i padri dell’identità cosmopolita del Canada. E i siciliani, per questo prete-poeta, amatissimo – già mentore di Pierre Elliot Trudeau il padre di Justin – arrivano da “una sovrappopolazione che però è cara ai merdosi; più il coito è puzzolente”, spiega, “più è fecondo”.
La prosa è datata 5 ottobre 1971, è tratta dalla rivista L’information médicale et paramédicalee , non senza un’intima pena mista a ribrezzo, l’ha riportata alla luce nel gennaio scorso Claudio Antonelli. Professore di letteratura, già responsabile bibliotecario della McGill University di Montréal, Antonelli è istriano, originario di Pisino – fratello di Laura, la compianta diva – e non si dà pace per quel che vi legge.
Nel Canada del multiculturalismo dove infinita è la stucchevole geremiadi del mea culpa del passato – il Primo ministro canadese, Justin Trudeau, che chiede il perdono della comunità Lgbt, quello della popolazione di colore e quello di qualsiasi minoranza, magari sorvolando sullo sterminio dei Nativi –nessuno chiede scusa di questo “ributtante scritto razzistico”, per come lo definisce Antonelli.
Ecco un passo: “Vi fu un tempo in cui gli emigrati italiani si reclutavano nel nord del Paese o nel centro e divenivano cittadini tranquilli del paese adottivo; tutto è cambiato da quando i siciliani si sono messi a emigrare; questa gente, che parla un dialetto talvolta completamente incomprensibile per un milanese o un romano, è profondamente incolta di padre in figlio, di origine molto dubbia, di onestà discutibile”. Ed ecco un altro assaggio di pura disumanizzazione dei siciliens: “Sudici, rumorosi, senza la minima educazione; essendo sfuggiti alla condizione di bisognosi, hanno fretta di diventare miliardari; senza dubbio non ignorano che la Mafia americana sono loro”. Strano, appunto.
Bad Blood, la serie tivù di Netflix, sono loro. E sono loro i picciotti che si fanno carico degli appalti sui marciapiedi di Montréal. Le continue bufere di neve e di pioggia ghiacciata spaccano l’asfalto, sembrano le strade di Roma tanto sono bucherellate – il sale provoca voragini –ma è un continuo lesto cantiere. Al passante che capita di stare per scivolare i manovali montrealesi francofoni oanglofoni che siano, come voce dal cuor sfuggita, dicono comunque “bedda Matri!”.
E sono loro. E sapessi, dunque, com’è strano. Sciascia e Borsellino in Canada, infatti, non sono come per noi – in Italia – Leonardo e Paolo. Non sono i due monumenti che sappiamo perché tutti, in Québec, pensano ad altro: a un Gerlando Sciascia – ufficiale di collegamento tra le cinque famiglie mafiose di New York e la sesta, quella di Montréal – o a un Giuseppe Borsellino. Detto Joe, in verità mai condannato, Borsellino è uno degli imprenditori più in vista nelle terre dei Grandi Laghi cui la Charbonneau – la Commissione d’inchiesta su mafia, politica e infiltrazioni negli appalti – nel marzo 2014 ne ha mascariato la rispettabilità con le intercettazioni registrate dall’investigatore Eric Vecchio: telefonate tra il magnate e Vito Rizzuto, il capo dei capi, e altre conversazioni con il figlio di questi, ossia Nick Rizzuto Jr, giusto quello di cui tutti – in Canada, in Italia e nel mondo intero – ricordano l’ultimo cappotto indossato: una bara d’oro.
Nick Jr è portato alla morte da sei colpi di pistola messi a segno in pieno giorno tra Lachine Road e Wilson Ave. È il 28 dicembre 2009. Poco prima delle molotov devastano il Pirandello Bar Sport nel quartiere di St. Michel e tutta quella Sicilia, di questo si tratta, torna al momento in cui il patriarca della famiglia Rizzuto, Nicolò, si prende la città delle belle donne: Montréal.
È il 1954, arriva dall’agrigentino e con un pizzino con sopra scritto solo un indirizzo Nicolò presto diventato Nick Senior, getta il seme, anzi, innesta quel germoglio che fa del proprio paese, Cattolica Eraclea, il nucleo fondante di una solida avventura di piombo, cemento, emancipazione, dignità e oro. E tutto questo non è solo Mafia, è capitalismo. Ed è il Giano bifronte il cui sudore, da un lato, guadagna i piani alti della legalità e dell’onestà, come con Lino Saputo, il magnate dei formaggi –eccellente anche nella produzione e nel commercio, tra i più munifici filantropi – mentre dall’altro, nella faccia torva, rimanda a quella lotta per la vita per cui quella stessa lupara che in Sicilia produce miseria, qui, a 30 gradi sotto zero, genera ricchezza.
Ed è oro, appunto. Perfino quello con cui si fabbricano le bare di casa Rizzuto coperte dalla neve candida nel cimitero di Mont Royal.
Nel Canada dove la perversione del voler essere cool arriva al punto di decidere col ministro dell’Istruzione, Maryam Mansef, una campagna inquisitrice e discriminatoria contro gli insegnanti che portano segni religiosi chissà cosa deve sembrare la processione della Madonna con la vera Cattolica Eraclea che non è quella in provincia di Agrigento, ma questa di Montréal perché qui il paese, dagli anni ‘50 del secolo scorso in poi, ha conosciuto lo sviluppo possibile. E tutti qui sono. Tutta la Cattolica Eraclea che esce dalla Sicilia, riesce nell’isola del fiume San Lorenzo. Un corso d’acqua così imponente da sembrare il mare con il quale la vita di tutti i siciliens, trova sorgente nel fatato ricordo del sapersi strani, mai estranei.
Ecco Francesca Lo Dico, docente di letteratura inglese, editor e scrittrice: “Mi svegliavo al mattino e parlavo siciliano con i miei, accendevamo la radio ed era in italiano, mi mettevo in macchina ed ascoltavo il notiziario francese quindi arrivavo a scuola e parlavo l’inglese”. Insulari del Sud, decisamente strani.
Dopo il fallito golpe restano i paria della società turca
“Quando vado a fare la spesa, mi fa stare male sentire il commerciante che mi dice: ‘Non voglio vedere traditori della patria nel mio negozio’. Ma sto ancora più male quando devo convincere i miei figli che non ho fatto nulla di male e li devo supplicare di credermi. Ma quando per la strada le persone urlano contro mio figlio: ‘Sappiamo tutto di tua madre, tutto il quartiere lo sa’, ripetere che non ho fatto nulla, non basta più”.
La donna che ha scritto queste poche righe ha preferito non dire il suo nome. Ritiene che le autorità turche l’abbiano lasciata sola, in balia della rabbia del popolo, e per il solo fatto che, tempo fa, aveva aderito a un sindacato. La sua è una delle migliaia di testimonianze raccolte dall’associazione Giustizia per le vittime, che di recente ha pubblicato un rapporto sui “Costi sociali dello stato di emergenza in Turchia”.
Traditori della patria
Il governo del presidente Recep Tayyip Erdogan ha dichiarato lo stato di emergenza il 20 luglio 2016, cinque giorni dopo il tentato colpo di stato attribuito al predicatore islamista Fethullah Gülen, un ex alleato del capo dello Stato diventato poi il suo peggior nemico. Tra l’entrata in vigore del regime speciale e la sua revoca effettiva, il 25 luglio 2018, circa 170 mila persone accusate di legami con l’organizzazione gülenista FETÖ sono state perseguite in giudizio e tra loro più di 50 mila sono finite in prigione.
Circa 130 mila dipendenti pubblici sono stati inoltre costretti a lasciare i loro posti di lavoro, nella maggior parte dei casi senza alcuna spiegazione. Una caccia alle streghe che ha permesso al governo di sbarazzarsi anche di numerosi sindacalisti e militanti di sinistra e pro-curdi.
In tutto 2.862 vittime dirette delle epurazioni del governo, 591 di loro familiari (coniuge, genitori, figli, fratelli… per il 43,8% dei quali la persona cara si trova ancora in custodia cautelare) e un campione “neutro” di altre 323 persone hanno risposto agli appelli sui social network e delle associazioni di vittime delle purghe, rispondendo su Internet alle 175 domande dell’inchiesta, tra il 2 agosto e il 23 settembre 2018.
Gli intervistati sono soprattutto uomini (72,2%), con un alto livello di istruzione (94,6%, con diploma superiore o più), nella maggior parte dei casi sposati (84,5%), con in media due figli e di orientamento politico per lo più conservatore (il 47,7% di loro si dichiara conservatore, il 16,9% nazionalista, il 7% islamista). Le vittime dirette sono soprattutto ex dipendenti pubblici (93,2%), per lo più mandati via di forza (94,5%). Il 55% circa di loro è stato in prigione dopo il tentativo di golpe.
Dalle loro testimonianze emergono innanzi tutto gravi difficoltà materiali.
Dopo aver perso il lavoro, le vittime dirette della repressione dichiarano di aver perso in media il 77% del loro reddito, passato da 3.500 lire turche (Tl, cioè circa 570 euro) a 800 Tl (130 euro). I familiari hanno subito a loro volta dei danni e perso il 50% dei loro redditi. Se prima dello stato di emergenza solo il 3,2% di queste persone percepiva un reddito inferiore ai 2.000 Tl (300 euro), si trova ora in questa condizione l’82,9% di loro, di cui il 41,7% dice di guadagnare meno di 250 Tl (40 euro) al mese. Il salario minimo al primo gennaio 2019 era di 2.020 Tl.
Un sentimento di ostilità
Al momento dell’inchiesta, la metà delle vittime delle purghe era ancora in cerca di occupazione. Il 14,9% ha detto di fare lavoretti precari per vivere e l’8,3% di aver smesso di lavorare (pensionati, casalinghe, ripresa degli studi…). Più di un quarto dei loro familiari era a sua volta disoccupato, più del tasso di disoccupazione ufficiale, che era dell’11,6% a novembre.
Alle difficoltà finanziarie si aggiungono i disagi legati al sentimento di ostilità che circonda le vittime delle epurazioni e i loro cari. I tre quarti degli intervistati confessano di aver perso la maggior parte degli amici. Per più della metà, la porta dei vicini è ormai chiusa. Più di un terzo dice di aver subito molestie. Numerose vittime dirette della repressione non sono più in buoni rapporti con i propri fratelli (38,4%), i genitori (27,6%), i figli (23,9%), o il coniuge (31,7%, nel 6,3% dei casi la relazione è sfociata nella separazione o nel divorzio).
“Dal giorno in cui sono stato sospeso, tutti i miei colleghi di lavoro hanno smesso di parlarmi e di rispondere alle mie chiamate. Mia moglie e i miei figli hanno il morale a pezzi. Non vedo più mio padre. I nostri amici non osano più venire a casa”, testimonia una delle vittime.
Per sfuggire alle pressioni, la metà delle vittime delle purghe dice di aver cambiato quartiere o città e l’83,9% pensa di lasciare la Turchia se si presenta l’opportunità. Il 9,9% sostiene anche di aver già tentato di lasciare il Paese, per via legali o no.
Ma partire non permette alle vittime di sfuggire al proprio inferno interiore. I principali disagi psicologici sono: il timore persistente che la propria situazione possa aggravarsi in modo improvviso (73,4%), la mancanza totale di fiducia nel futuro (71,8%), disturbi del sonno (68,4%), il sentimento di isolamento (66,9%), cambiamenti bruschi e frequenti di umore (63,4%), in alcuni casi anche pulsioni suicide (14,2%). Il 5% delle vittime delle purghe e dei loro cari sostiene di essersi confrontato ad almeno un tentativo di suicidio in famiglia e una percentuale analoga di persone ritiene che la morte per malattia di un membro della famiglia sia legata allo stress e al dolore causati dalla repressione. Un rapporto pubblicato nel luglio 2018 dal partito dell’opposizione social-democratica Chp aveva registrato 52 casi di suicidio legati alla repressione.
Uno choc violento
Secondo Bayram Erzurumluoglu, direttore del team di sociologi e psichiatri che ha portato avanti l’inchiesta, lo choc psicologico è stato ancora più violento per le persone che si rivendicano di tradizione conservatrice, la grande maggioranza, educate nel rispetto dello Stato.
“Queste persone erano abituate a pensare che lo Stato fosse per loro come una madre. Ma, da un giorno all’altro, quella madre si è trasformata in un mostro che fa di tutto per distruggerle – spiega l’esperto, che è stato a sua volta licenziato dal posto di professore associato che occupava al dipartimento di economia dell’università di Adiyaman – In un solo giorno, queste persone, che hanno tutte diplomi superiori, e che fino a quel momento erano rispettate dalla comunità, hanno scoperto che la loro presenza non era più gradita, sono diventate l’incarnazione stessa del male”.
A Mediapart Erzurumluoglu ha spiegato: “Prima c’è stato lo choc, poi l’isolamento e l’incapacità di farsi ascoltare, quindi si è raggiunto lo stato descritto dallo psicologo comportamentista americano Martin Seligman che parla di impotenza appresa, in cui la vittima è convinta che, pur con tutti gli sforzi, nulla potrà mai cambiare”.
Nove vittime delle purghe intervistate su dieci hanno detto di aver presentato ricorso alla commissione d’inchiesta sulla gestione dello stato di emergenza. Ma, al momento dell’inchiesta, i tre quarti di loro erano ancora in attesa di risposta, il 13,4% aveva ricevuto una risposta negativa e solo lo 0,5% – ovvero 14 persone – aveva potuto reintegrare il posto di lavoro.
(traduzione Luana De Micco)
Madrid, la destra contro Sanchez: “No al dialogo coi catalani”
Almeno 45mila persone sono scese in piazza a Madrid per la manifestazione convocata dalla destra e dall’estrema destra – PP (il leader è Pablo Casado, in foto), Ciudadanos e Vox) contro il premier Pedro Sanchez e la sua decisione di nominare un relatore che medi tra il suo governo e quello catalano. Gli indipendentisti reclamano da tempo una mediazione internazionale, che porrebbe la Catalogna sullo stesso piano della Spagna a livello formale. Ma con lo slogan “Per una Spagna unita, elezioni ora” i manifestanti hanno reclamato le dimissioni del governo di Sanchez e la convocazione di un voto legislativo anticipato. Alla manifestazione ha deciso di partecipare l’ex premier francese e candidato alla carica di sindaco di Barcellona, Manuel Valls. Tra i gruppi che hanno aderito alla protesta alcune formazioni nostalgiche del franchismo tra cui Espana 2000, Democracia nacional, Alternativa espanola. Ma il primo ministro socialista Sanchez ha spiegato che “il governo spagnolo lavora per l’unità della Spagna”. Quello che faccio – ha proseguito – è correggere una crisi di Stato che il PP ha contribuito ad aggravare quando è stato al potere per 7 anni”.
Calabresi-Repubblica, il giornalismo del cane che non mangia mai cane
Improvvisamente è accaduto come con l’invenzione del telaio: gli operai non sono serviti più e così – un’era fa, anche se sono passati pochi anni – è accaduto con l’informazione. I giornalisti, col web, sono superflui e anche quella loro signorile capacità professionale è stata ribaltata al grado zero: chi si guardò, si salvò. Salvato, per fare un esempio, è un Corrado Augias che nella sua squisita nicchia culturale prende molto-mila-assai e fischia euro l’anno dalla Rai. Lavora beato con un bel conquibus anche per Repubblica, non ci si salva mai per sorteggio – per noblesse – e sommersi, invece, sono tantissimi altri. A cominciare dai precari squillanti di firma. Ce ne sono perfino nei giornaloni, prosciugati nel reddito, tutti sommersi nel mare grande di un mestiere senza più parte e nessuna arte se ai più giovani infine – malgrado la prima pagina tuoni contro il mercato nero e lo sfruttamento – prendano 20 euro lordi, al più, ad articolo. E magari – il contrappasso è in agguato – sono pezzi scritti per difendere lo stipendio di Augias. Si salva chi già ben alloggia. Chi non ha padrinati, al contrario, è sommerso. È pur sempre il mestiere di Bel Amì, quello del giornalista, ci si salva in virtù dell’altra rete – quella delle relazioni – e se ne avrà una controprova quando Mario Calabresi, il direttore uscente del giornale fondato da Eugenio Scalfari, pur dopo il suo cocente inciampo, si ritroverà accolto, e non ce ne sarà da meravigliarsi, nella Rai dei populisti, a Mediaset o accasato in via Solferino, va da sé.
Chi si salvò, si salva per sempre. Ed è giornalismo. Durante un’intervista di Cesare Lanza a Urbano Cairo nel via vai di un caffè, a Milano, a un certo punto sbuca Giancarlo Aneri. Non era ancora finita la stagione di Calabresi a Repubblica e Aneri, il patron del più inarrivabile dei premi, “È giornalismo”, ha quasi un urto profetico. Aneruccio schiva la bastonata dell’inviato de La Verità (“manco per sbaglio il premio va a un giornalista non dico di destra, ma di…”) si avvinghia all’editore del Corriere della sera– assai silente – e gli intima “Dovresti assumere Calabresi al Corriere, sarebbe un magnifico editorialista!” e siccome due più due fa quattro, lo schema è già descritto: cane non mangia cane, prete non mangia prete…
Tutti salvati, madama la marchesa.
Ed è sempre troppo in alto l’uva per i sommersi la cui consolazione, nel fallimento, è che l’uva loro negata sia agra, maledettamente agra. La Vita Agra, per dirla con Luciano Bianciardi. E improvvisamente è venuto questo tema del giornalismo perché è stato più facile togliere di mezzo politicamente i Matteo Renzi e i Silvio Berlusconi che cambiare musica là dove il vapore impartisce alfabeto unico dei giornaloni, dei Fabio Fazio e dell’industria culturale unica del pensiero unico e sempre uno.
“Perché i giornali stanno soffrendo” ha scritto Domenico De Masi giovedì scorso per il nostro giornale. I consumi di cultura sono crollati e c’è – sottolineava giustamente De Masi, in punto di analisi – “un problema di testate che si somigliano tutte”. Parole sante. Cui va ad aggiungersi l’equivoco sulla fatica intellettuale, quel leggere e scrivere – e creare – spacciato per un passatempo il cui tempo consumato è di valore zero. Si assomigliano tutti i salvati, e così anche i sommersi. Uguali tutti alla volpe.
“Troppo protettive”: è sempre tutta colpa delle madri
Ma guarda, ecco qualcosa di cui si sentiva la mancanza: un’altra colpa da riversare sulle donne. Già accusate di castrare i maschi col MeToo, di non fare squadra con le altre donne sul lavoro, di rovinare la gioventù come insegnanti perché non abbiamo autorevolezza virile, e mettiamoci pure la corresponsabilità per il riscaldamento globale perché invece di lavare a mano usiamo gli elettrodomestici, ora siamo “indagate” anche perché proteggiamo troppo i figli. Assolte per insufficienza di prove le madri-frigorifero, sospettate di provocare l’autismo nel bambino con la loro freddezza, i soloni da rubrica se la prendono con le madri-elicottero, incolpate di paralizzare i rampolli con un eccesso di cure e attenzioni. Come se le paranoie riguardo ai figli se le fossero inventate le donne, e non fossero effetto di una pressione sociale e mediatica che inizia dalle due lineette del test di gravidanza: mangia questo, astieniti da quello, non correre, ascolta Mozart, guai se bevi, peggio se fumi, corri dal ginecologo ogni tre per due, fa’ tutti gli esami prenatali possibili, ecografie, monitoraggi, yoga e corsi preparto, scegli il passeggino giusto, la culla giusta, la clinica giusta, e soprattutto non agitarti, nuoce al bambino.
Ci rendono paranoiche quando il pupo è nel posto più sicuro del mondo, la nostra pancia, istillandoci l’idea che non solo la sua salute, ma anche i suoi talenti e il suo futuro, dipendono da noi e solo da noi, da quanto ci sbattiamo per lui. Salvo poi sgridarci quando il risultato di tutto questo controllo è una generazione di stressati – anzi due, i nostri figli e noi. Ma di noi chi se ne frega? L’importante è farci sentire di nuovo colpevoli, inadeguate, pronte a comprare l’ennesimo manuale di puericultura per correggere gli effetti dei dieci manuali precedenti. E allora sì che noi mamme diventiamo elicotteri. Perché ci girano vorticosamente le pale.
Noi, assunte a tempo indeterminato dai figli
Le vedi all’uscita di scuola avventarsi sul figlio per prendergli lo zaino, affinché non si sfianchi con i pesi. Ma anche subissarlo di domande su come sta o non sta, inseguirlo con il panino in mano aspettando che si degni di dargli un morso, infine trasportarlo nelle sue innumerevoli attività ludico-ricreative-musicali. Sono le nuove “ipermadri”, variante femminile dei cosiddetti “ipergenitori”. Perennemente esauste, si dedicano con fervore quasi religioso alla protezione del figlio (molto spesso unico), per cui hanno scelto la migliore scuola dell’intera nazione e dal quale si aspettano ovviamente risultati all’altezza di un investimento di risorse ed emotivo imponente.
Peccato che, come dice la giornalista ed esperta Eva Millet nel suo libro Hiperpaternidad(Felici e imperfetti, Longanesi), i figli di queste madri, cioè anche i nostri – perché oggi siamo tutte un po’ ipermadri – siano tra i bambini e i ragazzi più fragili della storia. Cronicamente dipendenti, per nulla autonomi, magari parlano cinese ma non sanno allacciarsi le scarpe e se rimangono chiusi in ascensore telefonano a casa invece di chiamare i soccorsi. Generazione “fiocco di neve”, che si scioglie alla prima difficoltà e frustrazione, col risultato che quella carriera brillante tanto programmata rischia di restare sulla carta. Ma i danni sono anche per le donne: perché per essere ipermadri molte donne finiscono per lasciare il lavoro, visto che, altro che casalinghe, sono dipendenti a tempo indeterminato, ma senza stipendio, dei propri figli. Invertire la tendenza si può, comunque. Anzitutto, smettere di considerare i figli come contenitori da riempire e pensarli invece come persone. Poi, fare un passo indietro e mollare un bel po’ la presa. Non tanto per dedicarsi a sé (ma anche sì, in parte) ma soprattutto per scoprire che, toh, esiste un mondo oltre i propri figli.
Preziosi e la Juve: virus delle cessioni
È l’enigma degli enigmi. E persino La Settimana Enigmistica avrebbe difficoltà a proporlo ai suoi solutori più preparati: nella penultima pagina, quella dedicata alla soluzione dei quesiti, non saprebbe infatti che cosa scrivere, getterebbe la spugna persino Alessandro Bartezzaghi. A quale mistero alludiamo? Per parlarvene, lo faremo come se si trattasse di un caso di “Pilade, agente in borghese”.
Enrico Preziosi, presidente del Genoa, ha appena fatto il colpo della vita. Dopo aver acquistato in estate Piatek dal KS Cracovia per 4,5 milioni, a gennaio lo ha rivenduto al Milan per 35 realizzando in 6 mesi una plusvalenza di 30,5 milioni. Preziosi viene complimentato da tutti ma pochi giorni dopo, a sorpresa, la Juventus comunica di aver ceduto al Genoa Sturaro per 18 milioni. La cosa pare strana: perchè una cifra così alta non è mai stata spesa per nessun giocatore nella storia del Genoa FC e soprattutto perchè Sturaro è un giocatore mediocre, reduce da un lungo infortunio e che nell’ultima stagione ha giocato 12 mezze partite nella Juventus e zero nello Sporting Lisbona. Ma c’è di più. Mentre Piatek costava a Preziosi di stipendio 740 mila euro lordi l’anno (400 netti), Sturaro costa 2,78 milioni l’anno (1,5 netti). Poiché Preziosi dovrà stipendiarlo fino al 2021, per due stagioni e mezzo spenderà dunque 6,95 milioni contro gli 1,85 che avrebbe speso per Piatek: 5,1 milioni in più che vanno ad aggiungersi ai 18 milioni dell’acquisto e che portano il totale-spesa per Sturaro a 23,1 milioni. In pratica, il guadagno fatto con la cessione di Piatek (30,5 milioni) viene ora quasi completamente cancellato: 30,5 (Piatek) meno 23,1 (Sturaro) fa 7,4 milioni, e cioè i soldi che Preziosi si è già impegnato a dare alla Juventus per acquistare un giovane giocatore (Favilli) avuto in prestito biennale ma con obbligo di riscatto fissato a 7 milioni.
In soldoni: considerando che i 30,5 milioni di guadagno fatti da Preziosi cedendo Piatek al Milan finiranno tutti nelle casse della Juventus (che riceve 18 milioni per Sturaro, ne risparmia quasi 7 per lo stipendio che si accolla Preziosi e ne riceve 7 per Favilli: totale 32) al termine di una pregevole triangolazione Milan-Genoa-Juventus, la domanda è: perchè Preziosi, che pur di guadagnare 1 milione venderebbe la madre a un club di serie B cileno, ha acquistato Sturaro? Pensa che Sturaro, 26 anni, sia il nuovo Beckenbauer? Aveva un debito di riconoscenza nel confronti del club di Agnelli oppure cerca di ingraziarselo, perchè nella vita non si sa mai? Oppure è stato colpito da un nuovo, terribile, sconosciuto virus che spinge i presidenti a riversare i propri soldi nelle casse della Juventus? E in questo caso: trattasi di virus contagioso? Pare infatti che Ferrero, presidente della Sampdoria, abbia acquistato dalla Juve (che in estate aveva comprato dal Genoa il portiere Perin, nazionale, per 12 milioni più 3 di bonus: totale 15) il portiere Audero per 20 milioni; pare infatti che Giulini, presidente del Cagliari, abbia acquistato dalla Juve l’attaccante Cerri, 8 presenze e zero gol quest’anno, per 9 milioni, accollandosi l’obbligo di riscatto; tutti emuli di Pozzo, boss dell’Udinese, che in estate aveva sbalordito il mondo acquistando dalla Juve Mandragora (Don Abbondio direbbe: chi era costui?) per 20 milioni.
Ai solutori dell’enigma, ricchi premi e cotillons.
Verso lo scisma? La destra clericale si conta sul “Manifesto della Fede”
Meno di due anni fa, nel novembre del 2017, in una clamorosa intervista al Corriere della Sera annunciò di tirarsi fuori dalla guerra in Vaticano contro papa Bergoglio: “C’è un fronte dei gruppi tradizionalisti, così come dei progressisti, che vorrebbe vedermi a capo di un movimento contro il Papa. Ma io non lo farò mai”.
Così parlò il cardinale teutonico Gerhard Ludwig Müller, prefetto dell’ex Sant’Uffizio, la Congregazione per la dottrina della fede, e indicato all’epoca come il più autorevole degli oppositori del pontefice argentino. Certo, in quella conversazione, il cardinale espresse preoccupazioni per le divisioni e la confusione dottrinaria della Chiesa, ma andando alla sostanza delle cose il suo passo indietro mise sulle spalle dei quattro cardinali dei Dubia sulla comunione ai risposati, tra cui l’americano Burke e l’italiano Caffarra, poi defunto, il peso della guida del fronte conservatore e fariseo anti-Bergoglio.
Evidentemente in questi 15 mesi le riflessioni tra i rigidi sostenitori della Dottrina, fieramente contrari alla misericordia di Francesco, sono cambiate e il cardinale tedesco ha varato un documento “drammatico”, per citare un aggettivo usato dai suoi stessi tifosi: “Il Manifesto della Fede”, vergato per il sesto anniversario della rinuncia al pontificato di Ratzinger (oggi 11 febbraio) e firmato significativamente da “prefetto della Congregazione per la dottrina della fede dal 2012-2017”. Il documento è stato rilanciato da Lifesitenews, il sito americano che capeggia il network internazionale contro Bergoglio e megafono della richiesta di dimissioni a Francesco di monsignor Carlo Maria Viganò.
Tanti i temi contestati da Müller sulla “confusione” di oggi nella Chiesa, al punto da paragonare la situazione al tempo dell’Anticristo, cavallo di battaglia della protesta tradizionalista. Dalla comunione ai risposati al dialogo interreligioso e all’esistenza dell’Inferno, dal celibato dei sacerdoti al ruolo delle donne. Il “Manifesto” è accompagnato da una petizione: l’occasione per contarsi e valutare l’ipotesi di uno scisma.
I vescovi tedeschi contro la chiesa immobile del Papa
La chiesa cattolica tedesca è in fibrillazione. A fine dicembre, il vescovo di Hildesheim, Heiner Wilmer, ha dichiarato al giornalista che lo intervistava (il testo italiano è stato pubblicato su Settimana News) che “l’abuso di potere è insisto nel Dna della Chiesa”, che lo scandalo dei crimini sessuali commessi dal clero ha rappresentato per l’immagine della Chiesa uno shock di entità paragonabile al sacco di Roma da parte dei Visigoti nel Quinto secolo e che è necessario ammettere che il problema non riguarda solo i singoli, ma che nella Chiesa vi sono “strutture di male”. E che c’è qualcosa che non funziona nel modo in cui il cattolicesimo è da secoli organizzato. La soluzione, per il vescovo Wilmer, è rappresentata dalla sistematica e completa demolizione dell’autoritarismo clericale e dall’avvio di un processo di “democratizzazione”, dall’attivazione “di un controllo del potere nella Chiesa, di una distinzione dei poteri, di un sistema di pesi e contrappesi”.
Ora è la volta di nove autorevoli intellettuali e dirigenti ecclesiastici sempre tedeschi. I nove hanno indirizzato una “lettera aperta” al Cardinal Marx in vista della imminente riunione in Vaticano dei presidenti delle conferenze episcopali di tutto il mondo. Nel testo della lettera (pubblicata in italiano dal www.finesettimana.org), si legge che gli abusi nella Chiesa hanno “cause sistemiche”, dal momento che la Chiesa attira, per come è oggi strutturata, molte persone appartenenti a “gruppi a rischio”. “I tabù sessuali – si legge – bloccano i necessari processi di chiarimento e di maturazione”. I nove proseguono affermando che il tempo delle indecisioni è terminato e che, se vuole evitare che i suoi fedeli la abbandonino del tutto, la Chiesa Cattolica deve evitare la tentazione di sentirsi vittima di un complotto ordito ai suoi danni da laici cattivi e sbarazzarsi del suo “ordinamento pre-moderno”. Per fare questo sono necessarie, a parere dei firmatari della lettera, alcune riforme (le stesse che ho indicato nel libro “La Chiesa immobile. Francesco e la rivoluzione mancata”) e cioè: una reale suddivisione dei poteri che eviti di concentrarli tutti nelle mani del papa e della curia romana, l’ordinazione sacerdotale delle donne, l’abolizione del celibato obbligatorio e il ripensamento della morale sessuale, “compresa una valutazione intelligente e onesta dell’omosessualità”.
I segnali di inquietudine che giungono dalla Germania indicano la persistente vitalità del progressismo cattolico tedesco, capace di non fare sconti ai papi, a tutti i papi, e perciò di chiedere oggi a Bergoglio quello che già chiese, senza ottenere nulla, a Wojtyla e a Ratzinger. Esibendo questo atteggiamento, la sinistra cattolica tedesca si dimostra, a differenza di quella italiana, viva e ragionante, capace perciò di non confondere la personalità del pontefice e le novità del suo linguaggio dalle azioni concrete che egli ha sinora intrapreso e quindi di concludere implicitamente che la chiesa di Bergoglio è, dal punto di vista pratico e politico, attestata sugli stessi orientamenti di fondo di quelle che l’hanno preceduta.
Ma è facile pronostico prevedere che l’effetto concreto di documenti come quello tedesco sarà pari a zero. C’è da chiedersi a questo punto quale sia l’utilità di simili petizioni e soprattutto perché esse vengano immancabilmente rivolte ai vescovi e al pontefice. In un’organizzazione autoritaria, gerarchica, non democratica e monarchica come la Chiesa Cattolica non solo prevale una tendenza conservatrice e autoreferenziale, ma i dirigenti non sono tenuti a rispondere alla base, essendo del tutto autorizzati a ignorare, in nome di una supposta loro maggior prossimità con il volere divino, le istanze che vengono dai fedeli. Non sarebbe preferibile seguire il metodo di Lutero e iniziare a minacciare, se persisterà l’assoluto immobilismo, l’abbandono della barca e l’approdo ad altri territori ecclesiali, più sensibili e interessati ad un rapporto meno ostile con la modernità e i suoi valori?
Invece che riporre tante speranze in una gerarchia da sempre sorda a ogni appello riformatore, sarebbe più proficuo, per i progressisti, tentare la via della mobilitazione diretta, provare ad avviare la sottoscrizione di un documento da far girare in tutte le parrocchie d’Europa o organizzare una o più manifestazioni pubbliche per denunciare la paralisi culturale, spirituale e organizzativa imposta a un miliardo di fedeli cattolici da un’elite di anziani maschi celibi. In questo modo, anche se non ottenessero alcun risultato pratico, i cattolici progressisti mostrerebbero di essere finalmente diventati adulti, di aver smesso di immaginare che ogni cambiamento per essere legittimo debba giungere come concessione dall’alto.
Tutto questo presenta un rischio gigantesco: quello che le piazze restino vuote, che la mobilitazione fallisca perché la gente non crede possibile cambiare la Chiesa Cattolica o perché ormai è disinteressata a che ciò avvenga. Sarebbe per molti un finale triste, ma almeno metterebbe tutti, cattolici e non, di fronte alla cruda realtà del nostro tempo.