L’eterno conflitto con la Francia

A chi si stupisce delle iniziative scomposte, da un versante all’altro delle Alpi (ce ne sono state parecchie anche da parte francese), mi viene da rispondere: “È l’Europa, bellezza!”. Sì, proprio quell’Europa, più unita e più politica, l’Europa di Ventotene per intenderci, che siamo in molti a bramare, prevede un agone politico unico in occasione dell’elezione del Parlamento europeo, con la relativa ricerca di alleati continentali.

Ne consegue che il perenne conflitto tra ruoli di governo e comportamenti politici si allarga, come non sia il caso di riesumare la pugnalata nella schiena a una Francia già sconfitta da Hitler. Quella sì una vera macchia nella nostra storia nazionale! I goffi tentativi di dialogo con la parte più retriva dei gilets jaunes non sono altro che cattiva politica su scala europea, non soltanto nel merito, opinabile, ma per una ragione più profonda. Facciamo un passo indietro nel tempo, senza intenti nostalgici, ma per meglio operare nel presente. Nel lontano 1995 il Senato condannò in maniera netta la ripresa degli esperimenti nucleari francesi per volontà dell’allora presidente Chirac. Dopo qualche esitazione, dovuta alle rimostranze della Francia, il governo Dini – votando a favore della mozione di condanna dell’assemblea generale dell’Onu – per ragioni istituzionali (come noto ai nostri alleati, siamo una Repubblica parlamentare) si adeguò al voto del Senato, usandolo per attenuare l’impatto negativo nei rapporti tra i due governi. Anche se Parigi fece saltare l’imminente vertice di Napoli, passata la tempesta i rapporti tra i due Paesi ripresero il loro corso.

E ora? Il contenzioso tra i due Paesi è ben più nutrito e anche, diciamolo con chiarezza, più sbilanciato a favore dell’Italia. Purtroppo, invece, lo stile vigente, soprattutto ma non soltanto in casa nostra, è tale da indebolire, se non compromettere le nostre buone ragioni. Nessuno s’inganni. In politica la forma non è soltanto forma. È sostanza. Lo è ancor più se coinvolge rapporti tra Stati (la diplomazia) perché, più duraturi di altri soggetti politici (partiti, per non parlare di singole donne o uomini politici) e, quindi, destinati a ritrovarsi, a ricercare nuove convergenze, tali da richiedere il superamento di conflitti precedenti. Questa è buona politica, buona diplomazia, perché si fonda sul merito dei problemi, che variano nel tempo, e non su giochi di schieramento; quello che, in gergo, chiamiamo politicismo e che ormai 9 cittadini su 10 non tollerano. Conclusione: la buona politica esige buone maniere. Ovvero: forma e sostanza sono due facce di una stessa medaglia. Con un corollario: la scelta dei tempi è essenziale, nei rapporti con le persone, coi partiti e, ancor più, con gli Stati. Un grande statista del XVII° secolo, Axel von Oxenstierna, cancelliere di Gustavo II Adolfo di Svezia, protagonista della pace di Westfalia, sosteneva che “l’occasio è elemento supremo della politica”. Ciò che, in una data fase risulta irrimediabilmente controverso può successivamente diventare accettabile. Nel contesto delle dispute italo-francesi, il premier Conte ha formulato una proposta che governi e parlamenti che l’hanno preceduto avrebbero dovuto sostenere da decenni: quella di istituire un seggio permanente dell’Europa nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, sostituendo i seggi nazionali obsoleti (della Francia e del Regno Unito, in quanto vincitori della Seconda guerra mondiale) ed escludendone di nuovi (la Germania ha rinnovato quella richiesta, accolta da Macron, in occasione del recente vertice). Una proposta sacrosanta, ma bruciata, perché espressa con tempi sbagliati (la riforma del Consiglio di sicurezza è su un binario morto) e in un contesto che la trasforma in una provocazione nei confronti della Francia.

Quali sono, ora, queste nostre buone ragioni, che rischiano di essere compromesse, non soltanto dalle cattive maniere? Non in Libia, dove un vero e proprio atto di ostilità della Francia si è tradotto in un pactum scelleris tra l’Italia e la Francia a spese degli ultimi della terra: ovvero coloro che, per condizioni (non importa se politiche o economiche) a tal punto insopportabili nei loro Paesi di provenienza, si vedono costretti a una migrazione che comporta un altissimo tasso di probabilità di morire per annegamento nel Mediterraneo oppure di finire in campi di concentramento ove ogni diritto umano viene violato. La guerra libica fu fortissimamente voluta dalla Francia per scalzare gli interessi petroliferi italiani, prevalenti in quella nostra ex colonia, ma anche per consolidare la presa sulle loro ex colonie confinanti. I britannici non perdono mai occasione per partecipare a una guerra e sollecitare gli Stati Uniti a dirigerla. Hillary Clinton, segretaria di Stato, in parziale disaccordo con il suo presidente (Obama), non vedeva l’ora di surrogare l’egemonia declinante del proprio Paese per fare la guerra alla Libia e rivitalizzare la Nato. Così il governo italiano dell’epoca, in perenne stato di angoscia da isolamento, si è trovato in guerra con se stessa. Nella Libia divisa e non governata, prima Marco Minniti, poi il suo più esplicito successore, Matteo Salvini, hanno costruito una trappola letale. Salvo per quei pochi che riescono a imboccare il canale umanitario offerto dall’Unhcr e altre organizzazioni umanitarie o ad essere salvati in mare da qualche imbarcazione delle Ong – malgrado la guerra loro dichiarata prima da Minniti e poi da Salvini – dopo una lunga ricerca di un porto disposto a farli attraccare. In perfetta sintonia con la Francia che, con il nostro sostegno, cerca di fermarli nel Niger o in altro avamposto del suo ex impero coloniale.

La vera questione che, invece, ci divide non soltanto dalla Francia, ma dall’Unione Europea nel suo insieme, è la mancanza di una politica comune su un problema epocale quale quello dell’immigrazione dai Paesi più poveri e più tormentati verso il nostro continente. Ne consegue che gli oneri che ne derivano per ragioni geografiche gravano soprattutto sulle spalle dell’Italia, della Grecia e della piccola Malta (e, a pagamento, della Turchia). Le pur fondate polemiche di Di Battista contro la valuta post-coloniale somministrata a questo e altri Paesi francofoni e subsahariani, fuori da ogni contesto prioritario, offrono soltanto a Parigi la possibilità di eludere le proprie responsabilità in sede europea di fronte ad un problema epocale; quello delle migrazioni, che richiederebbe una politica e una comune disponibilità di distribuire il peso dell’accoglienza e dell’integrazione di migranti in fuga di cui l’Europa, per ragioni demografiche, ha in gran parte bisogno. Se, da parte francese, ciò avvenisse senza esibizioni di crudeltà e violazioni territoriali, a Ventimiglia come a Monginevro, e senza pétarades del vice premier Di Maio, in compagnia del suo amico-rivale Dibba, tanto di guadagnato per tutti, a cominciare dei più deboli e indifesi, usati come pedine.

Così, dopo il sisma, mamma occupò una casa nell’inferno

Erano le 19,34 quando cambiò il destino della mia città e quindi anche il mio. Avevo due anni ed ero tra le braccia di mia madre in una casa decrepita in via Stadera a Poggioreale. Urla, pianti, nubi di polvere, sirene della polizia e ambulanze impazzite, si camminava tra morti e cumuli di macerie. Quel giorno, il 23 novembre del 1980, nessuno l’avrebbe più dimenticato. In quell’inferno mia madre con altre mamme occupò un pullman, il 107. La notte la passammo lì. Il giorno dopo le famiglie si riunirono in assemblea e decisero di partire la sera stessa, per la 167 di Scampia.

Alla testa delle sei auto, l’autobus stracolmo di scatoloni, valigie, vestiti, coperte, cuscini, materassi e tutto quel che restava della loro vita. Il 107 che partiva da Poggioreale e arrivava a piazza Carlo III, quella sera cambiò linea. Alle spalle si lasciarono i ricordi e i resti di un’esistenza di miseria. Era passata la mezza quando arrivarono a Scampia, quartiere il cui nome deriva da scampagnata, perché in origine lì c’era solo campagna, come cantavano i Napoli Centrale nel 1975, e la gente ci andava per stare freschi. Le case erano belle e grandi anche se mancavano le porte e le finestre, mentre i cessi e i bidet bisognava solo fissarli. L’ascensore ovviamente non c’era ancora e per palazzi di 13 piani non era un dettaglio. Diversi appartamenti già occupati erano illuminati dalla luce delle candele. C’era un grande via vai e si trovava gente di ogni tipo. C’era chi non aveva più nulla e gli sciacalli che occupavano per vendersi le case. Ben presto arrivò gente disperata da ogni parte della Campania. Per bere e lavarci andavamo alla fontanella giù al palazzo. Nel quartiere mancava tutto: negozi, piazze, cinema, biblioteche, ristoranti, parchi. Oggi poco è cambiato. Un po’ alla volta il comune iniziò a fare gli allacci dell’acqua, le fogne, gli impianti elettrici, le aiuole e le strade, larghe e lunge. Un invito a correre. E anche arrivarci non era facile, c’erano pochi autobus che arrivavano in periferia e passavano una volta ogni morte di Papa. Per viverci bisognava avere per forza l’auto. La metropolitana è arrivata solo nel 1996 suscitando l’indignazione degli abitanti del Vomero, che raccolsero firme per non fare arrivare nella propria “isola felice” i ragazzi di Scampia. Chi aveva la fortuna di avere un’auto, quando andava al mercato, prendeva sempre un po’ di frutta in più per amici e parenti. Nacquero così i primi esercizi commerciali, che erano sì abusivi, ma offrivano un servizio all’intera comunità. In breve tempo spuntarono ambulanti ovunque, negozi in garage occupati e molte persone si misero a vendere di tutto, direttamente in casa. Scampia era il Far West napoletano, una terra di conquista e di speranza per chi nella vita non aveva avuto fortuna. Una pagina bianca che aspettava la sua storia.

Ora vivevamo in una nuova casa, in un quartiere che sarebbe diventato il simbolo della ricostruzione e del riscatto. Bisognava solo guardare avanti e rimboccarsi le maniche. Ci aspettava un Natale lungo, freddo e triste.

*Cantante del gruppo A67

La guerra di Luigi per ammainare le Vele

All’uscita della metro se alzi gli occhi vedi il volto con le guance scavate di Pasolini occupare la facciata di un intero palazzo. E basta girare lo sguardo per incontrare il viso di Angela Davis. Welcome to Scampia, dove il poeta visionario che aveva previsto l’inferno metropolitano di questi nostri decenni feroci, e l’attivista americana che lottava per i diritti dei neri americani, si guardano. Ti guardano. Hanno i visi segnati dall’human tribe, la firma dello street artist Jorit. Angela e Pier Paolo, i neri del Bronx e i ragazzi di vita, i guaglioni di Gomorra e la voglia degli “altri” di strappare alla vita anni migliori. Fuori dall’inferno delle Vele. Da quelle case dove l’umidità spezza le ossa e l’amianto avvelena i polmoni. Dove il destino di chi nasce è scritto sul libro nero della “mala vita”. Boss, se tien ‘e pall, “palo” se sei strunz, “spacciatore” al minuto, se sai dominare la strada. Via per sempre da quei palazzi grigi di aria malata dove anche un raggio di sole è un privilegio. Figli di una utopia urbanistica mai realizzata. Sconfitta dalle emergenze infinite di Napoli e del suo sconfinato hinterland. Piegata da una politica strafottente del destino degli ultimi e incapace di progettare qualsiasi futuro. Vinta dallo strapotere della camorra.

 

I colori del getto dipinti nel grigio

Le Vele, quarantennale e tragica icona di Napoli, stanno per sparire per sempre dal panorama vesuviano e dal pigro immaginario collettivo nazionale. Le ultime tre saranno abbattute. Prima la Vela “Verde”, poi la “Rossa”, infine la “Gialla”. Ne resterà in piedi una sola, “La Celeste”. Sarà riqualificata e diventerà sede degli uffici della “Città metropolitana”, luogo di socialità. Il simbolo di quell’ultima vela che non ha mai visto il mare, resterà. Forse come un monito. Tutto è pronto per l’abbattimento della “Vela Verde”, ma nessuno si sbilancia a indicare una data precisa. Motivi scaramantici. “Entro i primi di febbraio – ha messo nero su bianco il sindaco Luigi de Magistris all’inizio dell’anno – tutti i nuclei assegnatari si trasferiranno materialmente nei nuovi alloggi, il giorno dopo si cantierizza e da quello ci vorranno una trentina di giorni per l’abbattimento”. È il primo, importante passo di un progetto più ampio. “C’è già l’impresa che dovrà fare i lavori di abbattimento”, ci dice l’assessore ai Beni comuni e all’Urbanistica, Carmine Piscopo, architetto e professore associato alla Facoltà di architettura della Federico II. “Qui stiamo parlando di un processo complesso, di un piano più vasto di riqualificazione e ridisegno urbano. In quei palazzoni c’è gente che ci vive, la soluzione è stata costruita con loro, in decine di assemblee spesso tese e in un clima non facile, dove la rabbia poteva prendere il sopravvento. Ma dietro la rabbia, vi è sempre una sofferenza e l’architettura tutta, se vuole, sa bene che anche di ciò è fatta quella che Aldo Rossi definiva la ‘sua sottoveste umile e sacrale’”.

“Re-start Scampia” è il nome del progetto già finanziato con 9 milioni di euro nell’ambito del Pon Metro, cui si aggiungono altre risorse economiche del Patto con la Città (30 milioni di euro) sottoscritto con la Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 2016, più l’ulteriore finanziamento già previsto dal governo per la Città Metropolitana (30 milioni di euro) e un impegno di risorse proprie programmate di altri 20. I soldi ci sono. Le idee anche. “Le Vele – ci dice l’assessore Piscopo – vanno inquadrate nel nuovo disegno della città metropolitana. Una realtà che è altro dall’appendice periferica di Napoli, una città che si estende da Napoli a Caserta. Dobbiamo superare le barriere anche rimodulando l’edificio della Stazione della Metropolitana, che ha drammaticamente separato il quartiere di Scampia dal resto”. Insomma, a conti fatti, entro marzo la Vela Verde cadrà. Molte famiglie hanno già avuto l’assegnazione dei nuovi alloggi. Dove arriva il sole. “E le pareti sono asciutte”, dice la signora Filomena, trent’anni nell’inferno, toccandole. Vincenzo Liparulo, altro assegnatario: “Dopo una ventina di anni passati a farmi nove piani a piedi, ora sono al secondo e c’è pure l’ascensore. Dobbiamo dire grazie a chi ha lottato in questi anni, soprattutto ad un grande personaggio come Vittorio Passeggio”.

 

Altro che like, volantini e “mazzate”

Vittorio a Scampia lo conoscono tutti. Ha lottato per quarant’anni, spesso da solo, per portare all’attenzione della politica il dramma delle Vele. È invecchiato e si è ammalato perché la gente potesse vivere dignitosamente. Non c’erano post e like, ma volantini, assemblee, manifestazioni e “mazzate”. Minacce. La sua storia è raccontata in un bel film di Michelangelo Severgnini, “L’uomo col megafono”. “Vittorio, il Comitato Vele, la gente del quartiere, sono loro, insieme alle istituzioni e al Comune di Napoli, i protagonisti della rinascita”. Monica Buonanno, assessore al Lavoro e al diritto all’abitare, punta sull’aspetto sociale. “Le Vele, Scampia, sono il frutto di scelte urbanistiche fatte sulla testa della gente. Noi abbiamo scelto una strada diversa. In un contesto sociale difficilissimo abbiamo concordato con le persone in carne ed ossa i metodi dell’assegnazione degli alloggi, insieme abbiamo stabilito le priorità e fatto scelte. La gente per accedere ai nuovi alloggi ha dovuto regolarizzare tutte le pendenze arretrate, pagamento utenze, affitti. Si sono messi in regola, molti indebitandosi e tanti non avevano l’accesso al credito regolare. Basta questo per smontare tanti luoghi comuni sui napoletani, e soprattutto su quelli che vivono in questa realtà”.

Scampia è un quartiere con una altissima percentuale di giovani e un altrettanto alto tasso di evasione scolastica. “Lavoro, lavoro e scuole, questo il nostro futuro. Per le case abbiamo combattuto per anni e alla fine abbiamo vinto”. Omero Benfenati ha raccolto l’eredità di Vittorio Passeggio alla guida del Comitato Vele. “Siamo stati carne da macello rinchiusa in carceri speciali. Dove il diritto all’infanzia era negato, il diritto alla salute era una utopia, dove i topi si mangiavano i fili dell’elettricità e saltava tutto, luce e riscaldamento. Eravamo gli abusivi della vita, quelli di Gomorra, abbiamo dimostrato che la lotta e la dignità possono vincere”.

Le Vele cadranno e con loro l’utopia. “L’illusione di quello che a lungo abbiamo chiamato moderno”, è l’amaro commento dell’assessore urbanista Piscopo. Anni Sessanta del secolo passato, grandi progetti di edilizia economica e popolare, all’architetto Franz Di Salvo viene affidato il progetto delle Vele. Sette edifici disegnati sul modello delle Unites d’habitation di Le Corbusier. Palazzi alti, il vicolo e le sue relazioni sociali riprodotto ma in altezza. Ogni Vela legata all’altra da “pianerottoli di collegamento” lunghi 10,8 metri. Dovevano servire alla socialità e permettere al sole e all’aria di entrare. Ma il progetto fu subito stravolto in fase di realizzazione, la distanza dei pianerottoli ridotta a poco più di 8 metri. Roba da togliere il fiato. Al punto che lo stesso progettista non si riconobbe più nell’opera. A completare la tragedia, il terremoto del 1980 e il bradisismo di Pozzuoli. Dai quartieri devastati della città (Sanità, Cavalleggeri, Poggioreale, le baraccopoli di San Giovanni a Teduccio), si riversarono migliaia di senzatetto. Le Vele, non ancora completate furono occupate, le cantine trasformate in appartamenti con allacci abusivi e pericolosi. Intorno un quartiere enorme (Scampia è la quarta “città” della Campania) per anni senza alcun tipo di servizio. Un humus sociale che ha ingrassato una camorra feroce e arricchita dal traffico della droga, protagonista di una guerra arrivata fino agli albori degli anni Duemila con centinaia di morti.

Ma Scampia e le Vele sono state e sono anche il luogo raccontato da libri, cinema e tv. Non solo Gomorra, film e serie. “Credo – ha scritto tempo fa l’attore e poeta Peppe Lanzetta – che il nuovo cinema napoletano sia cominciato con la passeggiata spavalda di Marina Suma tra le Vele”. È la scena più bella de “Le occasioni di Rosa”, un film del 1981 di Salvatore Piscicelli. E poi la pittura e la grafica di Felice Pignataro, fondatore del Gridas. La musica. Enzo Avitabile, James Senese. I nuovi gruppi che parlano della Scampia degli “altri”, come i Fussera, che con Raiz cantano Surdat ra strad, un inno alla gente normale. Gli A67 e Daniele Sanzone. …Nunn’è nu film. È a storia mia. So nato dinto a 167…sul comme a nu can. E senza na bucchin e lira. È napoletano stretto ma si capisce: Scampia non vuole essere più un film.

Sani o bluff? Cosa c’è dietro il boom degli snack bio

Senza glutine, vegano, probiotico, no Omg e, soprattutto, non fritto. Termini che campeggiano su scatole e confezioni dei prodotti alimentari che affollano gli scaffali dei supermercati. Le immagini sono invitanti, i colori lasciano il segno e stimolano all’acquisto grazie ai claim accattivanti e all’insegna della salute e del benessere. Tendenze alimentari che hanno cambiato lo stile di vita degli italiani a tal punto da essersene accorto anche l’Istat che la scorsa settimana ha fatto entrare nel suo paniere lo zenzero, la radice dalle mille virtù e proprietà che sta appassionando il popolo dei salutisti. E che rappresenta anche uno degli ingredienti della nuova moda del momento in tema di snack e merendine. Messi al bando i dolcetti confezionati super calorici e zeppi del nemico numero uno, il carboidrato, ora gli italiani si stanno appassionando alle patatine vegetali.

Le chiamano chips e sono mix di radici e tuberi come piselli, ceci, cavolo riccio, carote, barbabietole, tobinambur, melanzane, zucche, ravanelli. Rappresentano la nicchia delle patatine tradizionali e sono diventate compagne di aperitivi, spezzafame e finger food alternativi e con velleità gourmet. Il nome più che un programma è piuttosto una trovata di marketing che fa tris d’assi con bio-organic e gluten free degli altri prodotti salutari che vanno per la maggiore. E tutti sembrano contenti. Per i marchi più innovativi che le producono è un’opportunità ghiotta di mercato: le patatine “sane” catturano il consumatore che vuole mangiare meglio e che non ha problemi a spendere di più per acquistarle rispetto alle quelle tradizionali unte, grasse e piene di sale (il sacchetto medio va da 440 a 380 calorie). Ma anche chi le mangia ne trae vantaggio: sono la panacea di tutti i mali. Così, pensando di mangiare “solo” delle verdurine, se ne arrivano a trangugiare in quantità senza sensi di colpa. Ma a botte di attacchi di fame, per evitare che uno finisca di divorare tutto quello che trova a disposizione, gli italiani stanno spingendo in alto i consumi delle chips vegetali. “Il comparto – spiega Matteo Della Casa, buyer di EcorNaturaSì – è in forte crescita nel mercato dello specializzato da oltre 2-3 anni. Cresce del 10% rispetto agli anni precedenti e il trend è più che positivo. Se da un lato c’è questa escalation di chips di legumi o mais – prosegue Della Casa – a rimetterci è la classica patatina che va verso un trend al ribasso”.

Il motivo è chiaro: tutta colpa della demonizzazione dell’olio di palma. Le gustose e croccanti patatine di verdure non lo contengono e, quando si legge sull’etichetta che è presente solo olio di girasole, si è più invogliati ad acquistarle. Ma di stime ufficiali su fatturato e vendite ancora non ce ne sono, perché quello delle chips vegetali è un prodotto piuttosto recente che continua a essere considerato una sorta di sotto categoria delle patatine in sacchetto, il cui mercato italiano vale 3 miliardi di euro (fonte dati Nielsen). Noti i prezzi: se per una bustona da 150 grammi di patatine classiche artigianali si spendono circa 1,5 euro, le porzioni di chips di ortaggi da 100 grammi oscillano da 2,5 a 5 euro.

“Si sta parlando di alternativa salutare a merende e snack tradizionali, anche perché le chips vegetali rispettano il requisito dellaconvenience: il formato classico è quello della busta da portare in borsa, senza richiedere né la conservazione in frigo né la cottura o riscaldamento”, sottolinea Dario Dongo, esperto in diritto alimentare europeo e fondatore di www.greatitalianfoodtrade.it. Del resto cosa c’è di meglio che sgranocchiare anche davanti al pc o sul divano questi pseudo ortaggi cotti al forno? “Sicuramente sarebbe meglio la frutta e la verdura fresca”, risponde Renata Alleva, specialista in Scienze dell’alimentazione dell’università di Bologna. Che però non censura le chips vegetali: “Rispetto agli alimenti trasformati (quelli che contengono sali aggiunti, grassi e zuccheri, nda), come crackers e tarallini, le patatine di verdure non possono essere criminalizzate, perché sono uno snack più equilibrato di crackers e non sono affatto junk food. Ma bisogna sempre leggere la lista degli ingredienti presente sulle etichette per avere la conferma di quello che stiamo mangiando”. E in questo caso più è corta, meglio è. Al primo posto dovrebbero sempre comparire i nomi di verdure e legumi che siano disidratati, essiccati al sole o polverizzati, mentre gli oli di girasole o d’oliva (che non presentano le problematiche dell’olio di palma) dovrebbero trovarsi a metà lista. “Poi – prosegue la Alleva – a dimostrazione che le chips sono più salutari c’è la mancanza di acrilammide, la sostanza tossica e cangerogena che si forma durante la cottura dei prodotti che contengono amido come patate, pane, biscotti e fette biscottate. Così come è apprezzabile la quantità di fibre vegetali e la quantità ridotta di zuccheri”. Ingrediente che abbonda, invece, nelle barrette a base di cioccolato e frutta secca, l’altro snack che va per la maggiore in questo momento come merendina salutistica.

Identità, home banking: smartphone sotto attacco

É stata una settimana pesante, in Italia, per il trattamento dei dati personali e della privacy: il garante ha chiuso l’istruttoria nei confronti di Facebook per Cambridge Analytica e, soprattutto, ha messo nel mirino una funzione che il social network aveva attivato per i suoi utenti durante le elezioni del 4 marzo 2018. Si intitolava “Candidati” e permetteva di consultare sulla base del proprio indirizzo i candidati nei dintorni e il loro programma elettorale. Inoltre, mostrava un messaggio che ricordava agli utenti che era giorno di elezione, li esortava a condividere con gli altri di aver votato e di spiegare perché fosse importante farlo in un’ottica di “incoraggiamento della partecipazione civica”. Una iniziativa realizzata in collaborazione con il ministero degli Interni e con la presidenza del Consiglio che, però, secondo il garante, ha “collezionato” dati potenzialmente “idonei a rivelare le opinioni politiche” degli utenti italiani e quindi considerati sensibili. “Tali – scrive il garante – possono ritenersi, in particolare, le condivisioni degli utenti relative all’essersi recati o meno alle urne e le ulteriori, eventuali dichiarazioni a favore del voto (entrambe rimaste visibili sulla piattaforma, ancorché non monitorate da Facebook”. Il garante considera “rilevanti” anche i dati sulla consultazione dei profili dei candidati, in prossimità delle elezioni “benché idonei a fornire indicazioni meno univoche in ordine alle opinioni politiche”. Facebook, infatti, ha dichiarato di aver conservato traccia degli accessi ai profili dei candidati per 90 giorni ma solo per “generare metriche aggregate”, per capire cioè come sia stato usato lo strumento e se fosse stato efficiente, senza però – sempre secondo il garante – aver debitamente informato gli utenti. “Alla luce di tali considerazioni, il trattamento di dati personali (anche sensibili, in quanto astrattamente idonei a rivelare le opinioni politiche dell’interessato) risulta illegittimo”.

I dati. É solo l’ultimo esempio delle informazioni sensibili che lasciamo online, soprattutto con lo smartphone e le applicazioni. Secondo una indagine Eurostat, diffusa durante il Data Privacy Day, l’anno scorso il 75% dei cittadini dell’Unione europea tra i 16 e i 74 anni ha utilizzato uno smartphone ma il 28% non ha mai limitato o negato l’accesso ai propri dati. Nella classifica dei paesi i cui cittadini si sono protetti di più, la Francia è al primo posto, seguita da Germania, Paesi Bassi e Lussemburgo. L’Italia si è posizionata a metà classifica, con il 30% dei consumatori che non ha mai rifiutato l’accesso alle proprie informazioni personali. Stando alle statistiche, il 7% di chi possiede uno smartphone non è a conoscenza della possibilità di farlo. Inoltre, meno della metà (circa il 43%) dei proprietari di un telefono ha riferito di avere un programma per la sicurezza installato automaticamente o fornito dal sistema operativo, mentre un ulteriore 15% ha sottoscritto un sistema di protezione dati o ne ha usato uno installato da qualcun altro. Uno sbaglio. G Data ha pubblicato l’Android Malware Report relativo al terzo trimestre 2018, che monitora le debolezze delle applicazioni Android: dall’inizio del 2018 gli analisti di G Data hanno rilevato ben 3,2 milioni di app dannose per Android, con un incremento del 40 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Un’ultima analisi di Trend Micro ha rivelato la vendita, su Play Store, di due applicazioni in grado di sottrarre i dati dell’home banking degli utenti: con un codice malevolo potevano conoscere credenziali e password, ma anche effettuare screenshot dello schermo e registrare audio ambientali, monitorare la posizione e sapere quando lo smartphone era in uso o meno.

Le esposizioni.Per capire a quanti livelli sono esposti oggi gli utenti, contattiamo Francesco Cipollone, che è consulente su cybersecurity e digital data protection e il direttore degli eventi per la cloud security alliance in Gran Bretagna, nonché membro di ISC2. “Quando si naviga online, ogni utente lascia delle impronte digitali che possono essere categorizzate come ‘attive’ o ‘passive’”. In pratica sono passive quelle inconsapevoli: “Quelle dei siti web che raccolgono informazioni su quante volte lo hai visitato in passato. – spiega Cipollone -. Non si sceglie di consegnarle, semplicemente vengono raccolte quando il dispositivo è connesso ai siti web”.

Ci sono poi le impronte “attive”, che si lasciano quando si effettuano determinate scelte. “I post che si pubblicano sui social media ne sono una forma” spiega Cipollone. E se per accedere alle prime in modo fraudolento ci sarebbe bisogno che le aziende digitali le cedessero a terzi o subissero attacchi alla sicurezza, le impronte attive sono sempre più esposte invece alla cosiddetta ‘ingegneria sociale’. “Postare la foto delle proprie vacanza – ad esempio – non solo permette di far sapere dove si è ma anche che la propria casa è vuota”. Inoltre, fornire informazioni su se stessi può servire ai cybercriminali per profilare nel dettaglio l’utente e poi colpire: “Partendo da un estratto conto, anche solo arrivato per posta al vecchio indirizzo di casa, si può riuscire a ottenere una carta o una linea di credito. O far sapere di sé e della propria famiglia può costituire il punto di partenza per ricostruire una identità al 100 per cento per rubarla o magari spacciarsi per un amico di vecchia data ed avere altre informazioni”. E chi sono i target preferiti?

Chiunque possa fornire e detenere informazioni importanti oppure chiunque possa diventare tramite, anche inconsapevole, dell’accesso a esse. Secondo alcuni recenti report negli ultimi anni sono aumentati gli attacchi verso persone che lavorano in aziende. La prassi è di inviare loro email personalizzate e cucite su misura per far sì che vengano aperte, consultate e che si interagisca con esse in modo da fare breccia e riuscire così a entrare nella rete aziendale.

Torino, il questore: “L’Asilo sgomberato era covo di sovversivi”

“Non era un centro sociale normale, ma la base logistica di una cellula che propugna la sovversione dell’ordine democratico partendo dalla protesta di piazza”. Questa la dichiarazione del questore di Torino, Francesco Messina, all’indomani del corteo dell’area antagonista nato per protestare contro lo sgombero del centro sociale torinese, l’Asilo di via Alessandria, e sfociato in scontri, paura tra i cittadini e devastazioni, con un bilancio di 11 manifestanti arrestati e 215 identificati. “Sabato nelle vie del centro cittadino, in quella che non si può definire protesta sociale, c’erano soggetti che nulla hanno a che vedere con l’ideologia anarco-insurrezionalista. Una solidarietà che non mi spiego”, ha detto ancora il questore Messina. Che ha aggiunto: “Sono state usate tattiche militari , c’era gente addestrata, giunta da Francia, Spagna, Croazia e Serbia”. Ieri l’area antagonista è tornata a protestare, nel quartiere periferico delle Vallette, con un centinaio di persone che davanti al carcere Lorusso e Cutugno hanno acceso fuochi d’artificio e fumogeni. Non si sono registrate nuove tensioni, anche se a poche centinaia di metri si erano radunati i militanti di CasaPound per una cerimonia per le vittime delle Foibe.

Il ragazzo abbandonato, un tempo cameriere

E d’improvviso il Gratosoglio non è più un alveare umano, le torri ligrestiane ai margini sud della metropoli. Non è solo il formicaio di giovani immusoniti che vagano nel centro commerciale Fiordaliso. Il sindaco Sala aspetta Mahmood a Palazzo Marino di Milano dopo aver twittato l’orgoglio per una vittoria che non è solo quella di un quartiere che giusto un tram collega davvero alla città: no, “è il trionfo di Milano e dell’Italia tutta”. In qualche modo è vero, anche se i sovranisti avranno qualcosa da eccepire, ed è difficile negare che il sostegno social di Salvini a Ultimo sia stato un bacio della morte per il cantautore romano e un pizzico di benzina in più per lo sprint al voto finale del rapper italo-egiziano. Che rappresenterà il nostro Paese a Tel Aviv per il prossimo Eurovision Song Contest, e chissà come lo percepiranno laggiù, con quella citazione in arabo nel testo della canzone sanremese. È il destino di questo ragazzo, dover sempre dare spiegazioni sulle proprie radici. Lui, Alessandro Mahmoud, se n’è fatto una ragione e ne ha tratto arte. Prendendo subito le distanze dalle mozioni del sangue: con la “u” del cognome originario trasformata in “o” quasi a rinnegare il padre, l’uomo che ha abbandonato il figlio da piccolo e la madre, sarda di Orosei. È lui, il fantasma del genitore, il vero protagonista di Soldi: l’egiziano che “beve champagne sotto Ramadan”, che predica bene e razzola male, e sparisce per rifarsi una vita lontano da Alessandro e dalla moglie. Uno strappo familiare che diventa il filo rosso in tutto quel che raccontava Mahmood, anche prima dei fasti dell’Ariston. C’era un altro suo brano, tempo addietro, Mai figlio unico, che recitava così: “Ho una sorella e un fratello/Dall’altra parte del mondo/Forse di me, forse di te manco lo sanno/Ho tanti amici, lo ammetto/È una ricerca d’affetto/Forse di me, forse di te si scorderanno”, e alla fine “Mia madre ha solo me/Non sarò mai figlio unico”. Il ragazzo del Gratosoglio che cerca antidoti alla rabbia che sente dentro, e che si muove in una Milano Sud che nei suoi testi “sembra Africa”, e che lui percorre con una “faccia da schiaffi”: “Sono i miei tratti orientali, che posso farci?”. Il Mahmood qualunque, che nessuno conosceva fino a una settimana fa, ma non è un parvenu: ci aveva provato nel 2012 a XFactor, qualche puntata, poi l’eliminazione nella squadra di Simona Ventura, e solo dopo lo studio della musica, il solfeggio, il pianoforte. Lavori part-time da cameriere, i capelli rasati al Gratosoglio dall’amico Mustafa, senza pretese di diventare un trend-setter. E la lenta, inesorabile conquista del successo: tre anni fa nel laboratorio di Area Sanremo, la promozione tra le Nuove Proposte. Nel dicembre scorso l’affermazione nel torneo dei Giovani con Gioventù Bruciata: fino al colpaccio dell’altra sera nella manifestazione maggiore, la velenosa autobiografia di Soldi. “Sono italiano al 100 per cento”, sottolinea Mahmood. Ha ragione lui. Bizzarro che per definire il suono vincente di questi anni – la parte della scena trap meno tamarra e più interessante – si debba sempre frugare nei passaporti. È già accaduto con Ghali, italiano di seconda generazione di origine tunisina, quartiere Baggio, stavolta Milano ovest.

Bravo Baglioni, ma servono idee e autori nuovi

Quando, con questi chiari di luna, un programma tiene incollati al teleschermo per cinque sere un telespettatore su due, è un grande successo. Se poi quel pubblico ringiovanisce, com’è accaduto quest’anno, coinvolgendo centinaia di migliaia di ragazzi ad ascoltare buona musica, e tutta italiana, è un doppio successo. E il merito è soprattutto di Claudio Baglioni, che di musica se ne intende da qualche anno. Tutto il resto fa parte del gioco: le polemiche sul regolamento, la giuria di qualità e la sala stampa che ribaltano il televoto, gli sconfitti che fanno gli offesi, i conflitti d’interessi (giusto denunciarli, ma chi vuole gli ospiti “big” deve per forza passare dalle grandi agenzie, sempre più oligopolistiche). Non, invece, le intromissioni di un vicepremier incontinente che si crede il padrone della Rai e mette becco su tutto, anche su chi deve vincere, come la deve pensare il direttore artistico e quali battute si possono fare. Un’interferenza continua, che ha avvelenato il clima.

Baglioni ha gestito la faccenda con eleganza, da gran signore, tenendo al centro la musica – sono sempre e solo canzonette, no? – e lavorando in levare anzichè in battere, con una conduzione “per sottrazione” che ha regalato il palco agli artisti, selezionati su un livello qualitativo che non si vedeva da anni. Fossimo nei vertici Rai (e per fortuna non lo siamo), lo confermeremmo per il terzo anno. Ma affiancandogli un vero presentatore: sprecare un genio come Virginia Raffaele a spiegare i regolamenti e ad annunciare i cantanti significa svalutarne il talento. Anche lei andrebbe riconfermata, ma sapendo che dà il meglio quando fa Virginia, con le parodie e le imitazioni, e dunque utilizzandola come un tempo si faceva con Grillo: per inventare incursioni a sorpresa, terremotare e spettinare la liturgia festivaliera. Giustamente Baglioni vanta l’età media di 25 anni dei 5 finalisti (Mahmood, il vincitore, Ultimo e il trio del Volo). Ma è ora di svecchiare anche il battaglione degli autori: pagare 1 milione e mezzo 11 cervelloni capaci quasi solo di copiare vecchi sketch da youtube, senza mai un’idea originale, come abbiamo documentato ieri, è il vero scandalo di troppi festival. Non è difficile trovare giovani e brillanti umoristi e satiristi, specie se si prova a uscire dal vecchio recinto del mainstream e del politicamente corretto.

E adesso pure a Sanremo c’è il popolo contro l’élite

Dopo cinque giorni di anestesia totale, completamente rintronati da oltre venti ore di musica ci siamo svegliati di soprassalto sabato notte verso l’una. La classifica del Festival porta sul podio Mahmood, Ultimo, il Volo. Un fatto di per sé rivoluzionario visto che l’età media è bassissima, 25 anni. Sarebbe una bella notizia, vince una “nuova proposta”, Sanremo si libera dei suoi cliché sole-cuore-amore, all’improvviso come un gatto che si scuote il pelo… Invece tutto precipita già nella conferenza stampa notturna con una ridicola sceneggiata di Ultimo, insoddisfatto per il secondo posto (davvero) che si sfoga con la stampa, chiamando Alessandro Mahmood “il ragazzo”. Se la prende con i giornalisti, rei di “avergliela tirata” scrivendo che poteva vincere (logica, dove sei?). “Avete questa settimana per sentirvi importanti e rompete il cazzo. Qualunque cosa dirò avrete qualcosa da ridire”.

Differenze di stile: arriva Daniele Silvestri a ritirare i premi della critica e dice “Ho solo una parola per voi, grazie”. Mahmood è riconoscente, frastornato, incredulo soprattutto. Gli domandano se crede che la sua vittoria sia da leggere in relazione alle polemiche seguite alle dichiarazioni di Baglioni sui migranti. E Alessandro: “Ma no, nel brano ho messo una frase in arabo perché è un ricordo della mia infanzia, io però sono italiano al cento per cento”. Naturalmente non basta, le cazzate sono sempre più forti della realtà e comincia un circo barnum di dichiarazioni e disgustosi post a base di sostituzione etnica. Nella notte twitta Salvini: “Io tifavo per Ultimo” (ma fino a che era in campagna elettorale in Abruzzo, tifava per il Volo). Twitta anche la ex fidanzata Elisa Isoardi (“l’incontro di culture diverse genera bellezza”). Poi ci si mettono politici e commentatori: trionfa l’Italia dell’accoglienza, contro i pregiudizi e l’odio. Il festival sovranista lo vince un italo-egiziano (osserva Baglioni: “il trattino mi sembra fuori luogo”). Al peggio non c’è mai fine, twitta anche Maria Giovanna Maglie: “Un vincitore molto annunciato. Si chiama Maometto, la frasetta in arabo c’è, c’è anche il Ramadan e il narghilè, e il meticciato è assicurato. La canzone importa poco. Avete guardato le facce della giuria d’onore?”. Ed è subito popolo versus élite.

Già, perché il televoto (che vale il 50%) ha premiato Ultimo con il 46,5%, seguito da Il Volo (39,4%) e Mahmood (14,1%); invece la giuria della sala stampa (vale il 30%) e quella d’onore (il 20%) porta al primo posto Mahmood. Per la sala stampa seguono Ultimo e Il Volo, mentre per quella d’onore arrivano pari.

Al momento del congedo con i giornalisti Claudio Baglioni commenta la polemica sulle giurie: “Alzerei il peso del televoto. Vi dico francamente che c’è un certo timore a diminuire il peso o a togliere il voto della sala stampa, qualcuno teme che si possa creare un clima ostile. Anche se non voglio credere che succederebbe”.

Ha vinto la musica, ha detto il direttore artistico nella commossa introduzione all’ultima serata. Vero, e ha vinto anche lui: quest’anno era a più a suo agio, più misurato, più maturo. Un Baglioni ter però non è immaginabile, e non a causa degli ascolti in lieve calo. Il direttore artistico ha firmato un Festival coraggioso e lungimirante, rovinato sul palco dall’assenza di momenti di spettacolo. E fuori da un clima pesantissimo per via delle malcelate tensioni con quello che Bisio ha chiamato “mondo Rai”. Un nuovo mondo che assomiglia molto al vecchio.