Cachet da 48mila euro a cantante. Agli autori oltre un milione di euro

Secondo la Rai è uno dei Festival più “virtuosi” degli ultimi anni. La manifestazione musicale più importante d’Italia, e forse d’Europa, porta però una valanga di soldi nelle tasche dei suoi protagonisti. A partire dai conduttori. Claudio Baglioni, per esempio, percepirà un assegno da 585 mila euro. “Stessa cifra dello scorso anno”, tengono a precisare da Viale Mazzini. Cosa che ha un po’ insospettito: difficile credere che, dato il boom di ascolti dell’edizione 2018 (52,3% di media), il conduttore/direttore artistico non abbia preteso un aumento. Invece pare sia proprio così. Anche se in realtà mamma Rai ha messo nel piatto anche uno speciale con Baglioni in prima serata nella seconda parte dell’anno, che dovrebbe andare a completare l’offerta. Poi ci sono Claudio Bisio e Virginia Raffaele, con un cachet rispettivamente di 400 e 350 mila euro.

Ma vediamo il quadro macro. Il Festival di Sanremo 2019 ha un costo totale di 17 milioni di euro, di cui 5 vanno al Comune della località ligure: la convenzione è d’obbligo perché il brand della manifestazione canora non appartiene alla Rai ma alla città di Sanremo. In teoria, a scadenza di contratto, qualcun altro potrebbe presentarsi con un’offerta superiore e strappare il Festival alla tv pubblica. Restano dunque 12 milioni. Il tutto dovrebbe essere ripagato dalla pubblicità: la Rai ha annunciato di aver venduto spot per 31 milioni (le cifre sono via via lievitate: all’inizio si era detto 26, poi 28, infine 31), con un utile per Viale Mazzini di 14 milioni, cifra da cui però vanno espunte diverse voci. Diciamo che però, all’incirca, l’utile netto potrebbe arrivare a una decina di milioni. Il calo di share rispetto all’anno precedente, a quanto afferma l’azienda, è rimasto entro i confini oltre i quali Viale Mazzini è costretta a risarcire gli inserzionisti.

Poi ci sono le altre voci. Quella più grossa riguarda la scenografia (affidata a Francesca Montinaro) che, tra allestimento e parte tecnica, porta via oltre un milione di euro. Ai 24 cantanti in gara, invece, viene dato una sorta di rimborso spese di 48 mila euro a testa. Totale: 1 milione e 152 mila euro. Un certo risparmio, è dovuto all’assenza di grandi ospiti stranieri. Per gli artisti intervenuti, sia come ospiti che in duetto con i cantanti nella serata di venerdì, è stato programmato un budget da 20 mila a 50 mila euro a seconda dell’importanza. Big come Andrea Bocelli, Ligabue, Antonello Venditti, Elisa ed Eros Ramazzotti stanno sui 50 mila. Altri, come Rovazzi o Alessandra Amoroso, sono su cifre inferiori. Ornella Vanoni è andata gratis (“non vi ci abituate…”, ha detto), ma è un caso piuttosto unico. Facendo una media di 40 mila euro a ospite, il totale si aggira sui 650 mila. Non poco, ma neanche troppo se pensiamo che una star internazionale può chiederne anche 200 mila per un’ospitata sul palco dell’Ariston. Insomma, la scelta autarchica paga a livello economico, ma forse non aiuta gli ascolti.

La critica maggiore fatta dagli osservatori nei confronti dell’edizione 2019 riguarda però la povertà dei testi e la banalità di monologhi, sketch e siparietti. A partire proprio dal monologo iniziale di Claudio Bisio, improntato (come ammesso dal protagonista) al “non voler pestare merde”. L’autore di Bisio è Michele Serra, il cui compenso si aggirerebbe intorno agli 80 mila euro. Ma nel mirino è finita tutta la squadra autoriale del Festival: a partire da due pezzi da novanta come il capo autore Massimo Martelli e Pietro Galeotti (in passato con Fabio Fazio), i cui compensi è intorno ai 100 mila. Poi ci sono gli altri: Martino Clerichetti, Ermanno Labianca, Luca Monarca, Giovanni Todescan, Guido Tognetti, Paola Vedani, Ludovico Gullifa. Il regista Duccio Forzano e il direttore musicale Geoff Westley viaggiano sui 150 mila euro a testa.

Il calo di ascolti, dicevamo, finora non preoccupa il vertice Rai, anche se quello di venerdì sera non è stato irrilevante: 9.552.000 telespettatori, ovvero il 46,1% di share, contro i 10.108.000 (51,1% di share) della stessa serata del 2018. Una discesa di oltre mezzo milione di telespettatori.

Sanremo copia e incolla: plagiato pure Mr. Bean

Il Festival di Sanremo 2019 è l’indizio definitivo e schiacciante di quello che si mormora da tempo: Daniele Luttazzi sta per tornare in Rai. Sarà per questo – per farlo sentire più a suo agio – che quasi tutto quello che s’è visto sul palco è clamorosamente scopiazzato, tagliuzzato, fotocopiato. Naturalmente senza dichiararlo. Del resto, quando nel 2010 fu accusato di attingere a mani basse dal repertorio di altri, Luttazzi dichiarò: “Dissemino qua e là indizi e citazioni di comici famosi e i fan devono scoprirli!”. Ecco, gli autori del Festival mica fregano il repertorio altrui, no, ci stanno solo sfidando a giocare con loro: solo che, diversamente da Luttazzi, si sono semplicemente dimenticati di lanciare la sfida. Io comunque raccolgo il guanto.

So che vi deluderò perché pensavate che fosse il frutto tutto italiano di una mente geniale quanto quella di Leonardo da Vinci o Dante Alighieri, ma la gag con Bisio e Baglioni che fa le pernacchie è copiata da uno sketch con Dean Martin e Victor Borge chiamata Phonetic Punctuation, comodamente disponibile su Youtube. Per giunta, se proprio volevano copiare le pernacchie, in certi film con Lino Banfi ce n’erano di migliori. E gli autori rischiavano pure di esser promossi all’Unesco.

Lo sketch Con Bisio e la Raffaele in cui la Raffaele estrae oggetti dalla chitarra, è scopiazzato dalla gag del 1983 The gustar lesson di John Williams e Eric Sykes (sempre su Youtube). Quello con Bisio e la Raffaele che canta Ci vuole un albero sbagliando ripetutamente la parola Fiore è copiato da una scenetta del Late Show in cui lei (Kristen Wiig) canta Alleluia sbagliando sempre la parola Alleluia. La gag originale era così brutta che copiarla è masochismo puro, tipo copiare un outfit della Santanchè o un tweet di Vittorio Zucconi.

Ma andiamo avanti. La gag con la Raffaele che canta la Carmen in francese e inventa il testo inserendo parole a caso come “Depardieu” è copiata da uno sketch con Rowan Atkinson (Mr Bean). Quello con Ligabue che chiede a Bisio di ripetere il suo ingresso quattro volte è identico a un siparietto tra Jimmy Fallon e Will Smith che chiede a Fallon di ripetere il suo ingresso quattro volte. Cioè, non si potevano scrivere a Bisio sei domande per un’intervista a Ligabue in cui che so, chiedergli “Ti stanno più sui coglioni Vasco Rossi o i capelli bianchi?”, no, bisognava copiare una roba dagli americani. Infine, la gag con la Raffaele in abito rosso che canta Mamma mentre il grammofono salta, è identica a quella della Witz Orchestra ideata negli anni 80.

Non ho appurato se Virginia Raffaele sia Virginia Raffaele o una che fa finta di essere Virginia Raffaele, ma il direttore di Rai1 Teresa De Santis ha già chiesto di verificare tramite esame del Dna. A questo c’è da aggiungere la gag La vecchia fattoria, omaggio dichiarato al Quartetto Cetra e Bisio che recita parte del suo monologo teatrale scritto dal suo autore a Sanremo Michele Serra. Quest’ultimo, intelligentemente, anziché copiare gli altri ha copiato direttamente se stesso così non ha dovuto neppure sprecare 8 minuti per tradurlo. Come sia possibile che la bellezza di 11 autori, con a disposizione un anno di lavoro tra un Festival e l’altro, non siano riusciti a partorire contenuti originali o almeno a copiare qualcosa di decente, con l’intelligenza di citare le fonti, è mistero fitto.

Voglio dire, Luttazzi almeno copiava all’epoca del vhs, copiare nell’era di Youtube equivale ad ammazzare qualcuno lasciando un selfie sulla scena del delitto. Tanto più che fare l’autore a Sanremo è un mestiere leggermente più retribuito di quello del battutista dei Trettré, almeno un contenuto originale toccherebbe produrlo. Se è vero che lo scrittore medio non arriva a prendere 10.000 euro di anticipo per scrivere un intero libro, è probabile che un paio di autori tra cui Michele Serra a Sanremo guadagnino quella cifra a serata.

L’autore più incriminato riguardo i plagi citati sarebbe Martino Clericetti, uno che in effetti in curriculum ha parecchi indizi di colpevolezza. Per esempio collaborazioni con Elisabetta Canalis e Fabio Volo. E proprio ieri, su Dagospia, si faceva notare come Clericetti e i suoi colleghi a Sanremo Serra, Martelli, Vedani e Galeotti facciano parte tutti della stessa agenzia, la Spa di Arianna Tronco, già ribattezzata in questo Festival “la Salzano degli autori”. Una che ieri, su Twitter, per difendere Serra e la scelta di far recitare a Bisio il monologo scritto da lui, specificava stizzita che a Sanremo la Siae non paga i diritti delle opere teatrali (in compenso paga gli autori per il lavoro di altri autori che però sono forse morti, forse in America, chi vuoi che glielo vada a dire a questi, Bobo Vieri quando va a Miami?). Insomma, è il primo Festival di Sanremo in cui le canzoni sono originali e a essere copiato è direttamente Sanremo stesso.

P.s.. Due delle battute di questo pezzo vengono da Twitter, ma non volevo copiare. Volevo sfidare i lettori del Fatto a trovarle.

Il Festival è (comunque) della Rolls di Lauro

È un Festival in fase calante. Gli ascolti della serata di venerdì sono stati deludenti: 46% di share, cinque punti in meno dell’anno scorso. Claudio Baglioni, con una sincerità non scontata, ammette che con il senno di poi un Sanremo con 24 canzoni non lo farebbe, si fermerebbe a 20. Ha ragione: tre serate su cinque sono state appesantite da un’estenuate maratona che ha abusato della pazienza del pubblico. Anche ieri, fatta eccezione per le esibizioni di Eros Ramazzotti e di Elisa, la lunghissima scaletta della finale era un fitto elenco di canzoni con due o tre numeri dei conduttori (Camminando sotto la pioggia, un medley di Virginia Raffaele, la solita Famiglia Addams). Ieri sera il direttore artistico, in un discorso emozionato che è parso quasi un addio al Festival, ha detto: “Non si può mai dire se c’è stato troppo concorso o troppo spettacolo. Però una cosa la voglio dire: ha vinto la musica”.

Il Fatto va in edicola prima della proclamazione del vincitore, ma possiamo già dire che il Festival ha incoronato Achille Lauro: il re è lui, e per uno che si è scelto come nome d’arte quello di un leader monarchico non è poco. Ogni giorno, per una ragione o per l’altra, si è parlato di lui. Stasera Fabio Fazio lo ha invitato a Che tempo che fa: e anche questa è una piccola consacrazione.

Il suo brano Rolls Royce è stato interpretato come un inno alla droga (per via della scritta Rolls Royce sulle pasticche di ecstasy) e si è scatenato un casino che manco i Velvet Underground con I’m waiting for the man. La campagna antidroga cavalcata da Striscia (la trasmissione più filologicamente coerente con il tema) ha fruttato al trapper romano un tapiro. Don Mazzi è andato su tutte le furie “Il servizio pubblico sceglie di mettere in gara una canzone che non solo inneggia alla droga ma contiene una frase sconvolgente perché va al di là della droga, parla anche della fine (‘Voglio una vita così, voglio una fine così’). Il fatto che questa cultura di morte passi anche attraverso la musica mi rompe molto”. Lui ha risposto che la droga è una piaga sociale, non è uno scherzo e va combattuta. Che bisogna tenersi lontani. E poi ha spiegato che la Rolls è uno status, e il pezzo parla di icone mondiali, e l’icona principale di eleganza è la Rolls Royce.

Questo festival del resto ha sdoganato la volgarità dell’argent: si parla di denaro in diverse canzoni (anche in Mahmood, Soldi; Boomdabash, Per un milione) quasi quanto di rapporto genitori/figli rivendicato da Bisio in conferenza stampa come “tema politico”. “Il duetto con Anastasio è un monologo politico. I giovani sono il futuro, se i vecchi vinceranno, l’umanità scomparirà. Il pezzo di Anastasio racconta la vittoria di un 20enne, questa è politica. Ci sono ministri in passato che hanno parlato di ragazzi come choosy…”.Il riferimento critico è a Elsa Fornero: Bisio è stato folgorato sulla via di Matteo.

A proposito di Salvini, ieri l’incontinente vicepremier ha trovato il modo di occuparsi di Sanremo (di cui è stato il convitato di pietra). E siccome si posiziona sempre al centro del dibattito, ha parlato di Rolls Royce: una canzone “penosa e pietosa come musica, testo, immagine, tutto. Ci sarà qualcuno a cui può piacere, io preferisco Ultimo, Il Volo, preferisco Sanremo associato a Tenco. Preferisco Ligabue, Cocciante e Loredana Bertè. Quella roba lì secondo me non è musica”, ha detto intervistato da Sky. Poteva mancare l’accusa di plagio? Ovviamente no. Il brano è stato accostato prima a uno degli Smashing Pumpkins, poi a Delicata-mente degli Enter che hanno deciso di ricorrere al Tribunale di Imperia per chiedere l’esclusione dell’artista. Cosa che non è evidentemente successa: la Sony, casa discografica di Lauro, “dopo le opportune verifiche ha escluso ogni possibilità di plagio”.

Detto tutto questo: se la giuria d’onore presieduta da Mauro Pagani (che però è l’unico con competenze musicali) non avesse influenzato il voto in favore di Motta e Nada, probabilmente venerdì il duetto di Achille Lauro con Morgan avrebbe vinto. In sala stampa è stato applauditissimo, come la potente esibizione di Manuel Agnelli con Daniele Silvestri e Rancore. A proposito: Daniele Silvestri ha messo d’accordo tutti, conquistando sia il premio della sala stampa Roof Ariston sia quello della sala stampa Lucio Dalla radio tv. È forse la prima volta, comunque una coincidenza rarissima. Il premio per la miglior interpretazione invece è andato a un apprezzatissimo Simone Cristicchi.

“Mai fatto compromessi, il fisico mi ha aiutato. E che figura con Indiana Jones”

Tolto il colore dei capelli (il principe azzurro è sempre biondo), Luca Argentero è un portatore sano di tutti gli stereotipi fiabeschi e di tutte le potenziali aspettative di una madre rispetto a un figlio maschio: è alto, spalle quadrate da nuotatore consumato, conosce il congiuntivo e sa leggere i bilanci societari, non è per niente timido ma neanche sfrontato, sicuro di sé senza voler mettere soggezione. Insomma, sa quello che vuole e lo persegue con metodo e disciplina quasi militari. Però fuma, molto, e non è per atteggiamento o ruolo, è vizio, e il “neo” lo rende quasi umano. “In questi giorni giro molto per promuovere Copperman: a questo film tengo veramente, ed è la prima volta che mi riguardo e penso ‘va bene così’. Non cambierei nulla della mia interpretazione”. Nel film diretto da Eros Puglielli interpreta Anselmo: bambino speciale prima, adulto speciale poi, dove il “cerchio” è l’unica forma di rassicurazione (per lui l’oblò della lavatrice è il massimo), l’ingenuità non è una deminutio ma una differente chiave per leggere e affrontare la realtà; aiutare il prossimo una necessaria risposta. E Argentero non è soltanto credibile, è proprio bravo.

Già nel 2010 la Mancuso l’ha inserita tra i migliori attori, nonostante non abbia frequentato l’accademia.

Davvero? Non lo sapevo, sono lusingato. Comunque un giorno un professore mi disse: “Ci sono ottimi studenti ma pessimi professionisti”. Non è scontato il passaggio dalla teoria alla pratica, e la maggior parte delle professioni, per me, si apprende strada facendo.

Ha studiato Economia.

E subito dopo, fondamentalmente, non sai fare nulla.

Si ricorda qualcosa di allora?

Sono fortunato: ho amato e amo studiare, non mi cimentavo solo per appiccicare delle nozioni e poi dimenticarle.

Applica ancora qualcosa?

Nella misura in cui sono l’imprenditore di me stesso, poi una laurea ti serve tutti i giorni per saper parlare, capire qual è il metodo giusto per approfondire; se poi uno ha affrontato un manuale di diritto privato da 1.000 pagine non si spaventa davanti a 40 fogli da portare in scena.

All’inizio si sentiva in difficoltà per non aver frequentato l’accademia?

Per i primi ruoli non sono stato scelto grazie alla mia preparazione, ma per altre qualità; quando ho parlato con il produttore di Carabinieri (fiction), gli dissi: “Siete sicuri di volermi? Non sono un attore”.

Risposta?

“Non ti preoccupare, il personaggio non è un personaggio: sei tu con la divisa da carabiniere, quindi non ti chiediamo di entrare nei panni di qualcun altro”.

E ciò la rassicurava?

No, per niente: avevo comunque un timore reverenziale davanti alla macchina da presa, però non imbarazzo, la vedevo come amica, e per fortuna mi sono divertito.

Da subito.

Dal primo giorno ho pensato: “Questa è la mia vita”.

Il giudizio degli altri, lo sentiva?

Allora, sempre. Oggi forse no, e parte del pubblico non si ricorda neanche più la mia partecipazione al Grande Fratello (terza edizione), magari mi associano a un film e solo successivamente scoprono il mio punto di partenza.

Mentre all’inizio?

Passavo la prima mezz’ora di una conversazione a convincere l’interlocutore che non ero un coglione; superata la mezz’ora si costruiva qualcosa.

Sempre così?

Sempre!

Si era allenato.

Preparato, mai arreso. Poi a prescindere da Carabinieri la fortuna è stata quella di venir scelto da grandi autori come Comencini, Özpetek e Placido: un certificato di garanzia assoluto per tutti gli addetti ai lavori,

Sul set bisogna saper rubare dagli altri?

E non solo a colleghi-attori o registi, ma anche all’operatore di macchina. Il mio è un mestiere molto complesso che prevede una serie di competenze tecniche, per questo ho sempre rotto le palle a tutti, in particolare all’inizio, e anni dopo mi sono cimentato con la produzione.

Ha subito recitato con i grandi.

Ed è come giocare a tennis: se sul campo ti confronti con quelli forti, allora capisci i loro colpi, le astuzie, come si affronta un match di livello; sul set della Comencini stavo accanto a Golino, Zingaretti, Battiston.

Con Özpetek…

Lì c’erano Accorsi, Ferrari, Buy, Fantastichini, Timi, Angiolini e Favino: ti siedi al tavolo con loro per le letture, ed è già una master class assurda; se sei un po’ spugna questo lavoro lo assimili.

Porta mai a casa il ruolo?

In Copperman è successo: la mia compagna è stata molto paziente, durante le riprese non era piacevole neanche andare a cena con me. O forse sì, non lo so…

Perché?

Troppo immerso in quella realtà: per entrare in Anselmo è stato necessario cambiare il punto di vista.

Esempio…

Per Anselmo il tondo è una figura fondamentale, catalizzatrice di attenzione, è il bello, il suo rifugio: così, è capitato che a cena iniziavo a girare il caffè con il cucchiaino e non la smettevo.

Con i Cinepanettoni si evita questo pericolo.

Non ce n’è bisogno, anzi è utile arrivare sul set con una leggerezza totale, fresco e riposato per poterti divertire. Però il cinepanettone è un genere a sé, è la farsa, e veder lavorare Christian De Sica è un insegnamento.

Quanto è durato l’effetto Anselmo?

In realtà non è ancora terminato e ha confermato alcuni aspetti che avevo dentro, come quello di voler coccolare il mio bambino interiore: devi arrivare sul set e giocare con te stesso, e il mio lato da fanciullo è il migliore.

È necessario.

Il mio è un lavoro dove continui a giocare con te stesso, con la tua voglia di sperimentare, di stare in mezzo agli altri. Non è un lavoro d’ufficio.

I suoi ideali da ragazzo.

Allora non sapevo cosa volevo fare, però ero consapevole di cosa non volevo.

Già qualcosa.

Non avrei voluto passare la mia vita in giacca e cravatta, non volevo un lavoro ordinario, costante e sempre uguale a se stesso; continuavo a ripetermi “sarò felice se cambierò almeno dieci volte professione”.

Vita avventurosa.

Fuori dallo schema che mi stavano proponendo, per questo ho evitato di studiare Medicina e Giurisprudenza, mentre Economia mi dava un amplissimo spettro.

Diplomato con…

56 sessantesimi, mentre alla laurea ho ottenuto 96 su 110 perché non ho mai rifiutato un voto.

Rappresentante d’istituto?

Mai avuto un ruolo.

Scritte sui muri a lei dedicate?

Neanche una. Fino alla fine del liceo sono stato un ottimo compagno di scuola, ma non un leader o un punto di riferimento. Ero uno dei tanti, capace di stringere amicizia con chiunque, quindi benvoluto, però non un capetto.

Fino a quando…

La svolta è arrivata con l’università: in quel periodo ho iniziato a lavorare come barman, e lì ammetto che quel ruolo portò alle stelle la mia evaluation sociale, nonché il mio successo con le donne.

Non è leggenda, quindi.

È realtà, ed è un punto puramente statistico: il barman lo vedono tutte.

Scuola di vita.

Uno dei periodi più divertenti e formativi: penso di essere un quarantenne equilibrato proprio perché ho dato tutto quello che avevo da ragazzo, ho sfogato ogni istinto e di ogni genere.

Per quanti anni?

Cinque, quindi tutto il tempo dell’università: lavoravo cinque sere a settimana e terminavo alle sei del mattino, dormivo fino a mezzogiorno, poi mi allenavo in palestra, alle quattro ero in facoltà e studiavo. Dalle dieci di sera ero in pista per la nottata.

Fabio Testi sostiene di essere cresciuto senza complessi grazie ad altezza e fisico atletico.

Non sono mai stato particolarmente consapevole del mio aspetto, e poi sono stati gli altri a dirmi “bello”. Capisco solo che funziona, e in questo lavoro mi è servito tantissimo.

Quanto?

All’80 per cento, e soprattutto all’inizio; ma la commedia romantica un po’ lo impone: è difficile mettere in scena uno alto un metro e quaranta la cui bella del film si deve innamorare.

Prima si diceva convinto del suo Anselmo. Mentre di solito…

Sono sempre infastidito, iper critico, questa volta no, e la soddisfazione è enorme, è come aver messo un punto verso un percorso di ricerca durato quindici anni.

I critici l’hanno colpita molto?

Spesso, e il 95 per cento delle volte sono stato d’accordo con loro, riconoscevo l’errore o la superficialità, e non sempre è dipeso da me, c’è anche un regista alle spalle, c’è una corresponsabilità sul set.

Lele Mora racconta di lei: “È un integerrimo, non ha mai accettato compromessi”.

Uscito dal Grande Fratello ho chiesto consiglio a mia cugina, Alessia Ventura, e sono finito nella sua stessa agenzia; entrato nell’ufficio di Lele Mora, ho esordito con i miei paletti: “Non ho dubbi su due cose: la mia tifoseria calcistica (è juventino) e l’eterosessualità”.

Ben chiaro.

Meglio non cadere in equivoci fin dall’inizio, ma ovviamente l’ho detto scherzando. E poi i ruoli da omosessuale sono quelli che mi hanno portato più fortuna.

E qualche illazione…

Quelle ci sono sempre rispetto agli uomini di bell’aspetto: l’ho sentito dire di Raoul Bova, di Alessandro Gassmann…

Invece grazie ad “Amici” ha incontrato una serie di miti del cinema.

Una sfilza di star di Hollywood, solo che uno come Al Pacino è inavvicinabile, tutto il tempo per i cacchi suoi, mentre il vero mito è stato Harrison Ford: con lui sono riuscito a chiacchierare. (Ci pensa un attimo) In realtà gli ho rivolto una domanda non molto opportuna.

Quale?

“Perché uno come te è qua?”.

D’istinto.

Per me avevo davanti Indiana Jones, non Harrison Ford, e non capivo.

La replica?

Senza scomporsi mi ha regalato una risposta molto intelligente, una lezione: “Quanti anni hai?” 37. “Bene, tu sei cresciuto con i miei film, e questa trasmissione ha un pubblico molto giovane che non mi conosce: siccome continuo a fare l’attore, voglio che questi ragazzi sappiano chi sono”. Tutto questo ragionamento da uno di 70 anni.

E lei come si è sentito

Vecchio e ammirato per la sua imprenditorialità.

“Neanche io sono quello che sembro”, dice Anselmo nel film.

È necessario mantenere un nucleo ristretto di persone che ti conoscono realmente, una piccola riserva dentro una realtà professionale dove sei quasi costretto a condividere tutto, o quasi.

Indossa una maschera?

È anche una forma di rispetto verso le persone: se ho una giornata storta, e ovviamente può capitare, non la posso riversare su chi incontro e che magari mi chiede una foto; per questo cerco di sorridere lo stesso.

Si occupa di beneficenza.

Con un compagno d’università abbiamo realizzato uno studio di settore, e ci sono circa 14 mila piccole associazioni o Onlus che hanno due problemi: il fundraising e comunicare le proprie iniziative; abbiamo creato un portale per aiutarle e utilizziamo la mia immagine: siamo al settimo anno e abbiamo aiutato più di 400 gruppi (www.1caffe.org).

(Chiudo il taccuino, in copertina c’è l’immagine del Cervino, Argentero s’illumina)

Come mai?

Il mio sogno è scalarlo con mio padre. Io e lui. Prima o poi lo realizzo.

(Sicuro, lo farà)

Kim e Trump, nemici-amici in Vietnam

Va a finire che Donald Trump diventa una fonte attendibile: dopo avere fatto alcune affermazioni certificate esatte, specie in economia, nel discorso sullo stato dell’Unione di martedì, il magnate si rivela affidabile anche sul secondo vertice con il leader nordcoreano Kim Jong-Un, che si farà il 27 e 28 febbraio, in Vietnam, ad Hanoi – la città è il dato nuovo -. Trump l’annuncia, inevitabilmente, con un tweet: “Non vedo l’ora d’incontrare il presidente Kim e di far avanzare, con lui, la causa della pace”.

In realtà, dopo il primo Vertice fra i due leader, il 12 giugno 2018, a Singapore, non è successo nulla che avalli l’entusiasmo sciorinato quel giorno o incoraggi le attese per fine febbraio. Ma Trump, (involontariamente?) autoironico, afferma che “la Corea del Nord, sotto la guida di Kim, diventerà una grande potenza economica”. Insomma, Kim, che fino a un anno fa, nel linguaggio di Trump, era rocket man, l’uomo razzo, ora s’appresta a trasformare il suo Paese in un “razzo economico”.

Trump parla dopo che il suo rappresentante speciale per la Nord Corea, Stephen Biegun, ha da poco lasciato Pyongyang dov’era giunto da Seul. Lì, aveva avuto incontri ad alto livello per concordare con gli alleati sud-coreani i termini del secondo vertice Trump-Kim. Il presidente sud-coreano Moon Jae-in, che di questo processo è stato ispiratore e motore, auspica progressi “sostanziali e concreti” dal secondo incontro, dopo che il primo era servito a stemperare un dopoguerra di tensioni e a mettere sul tavolo il tema della denuclearizzazione della penisola coreana.

Seul trae motivi di ottimismo anche dalla scelta di Hanoi come sede del Vertice: “Il Vietnam era nemico degli Usa, ma ora sono amici – osserva Kim Eui-kyeom, portavoce del presidente Moon – speriamo che il Vietnam sia il luogo dove Usa e Nord avviino una nuova storia”.

Dal canto suo, in meno di un anno, Kim ha compiuto quattro missioni a Pechino, prima del Vertice inter-coreano di aprile, prima e dopo il Vertice con Trump ad aprile e, l’ultima, all’inizio dell’anno. Il legame, diplomatico, ma non solo, tra Pyongyang e Pechino indica che, malgrado Trump s’atteggi ad ‘amicone’ di Kim, la Cina resta l’interlocutore privilegiato della Corea del Nord, un po’ mentore e un po’ garante, oltre che fornitore e benefattore. Un rapporto alla Commissione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu per le sanzioni alla Corea del Nord afferma che Pyongyang sta cercando di proteggere le sue armi nucleari e le sue capacità balistiche da eventuali attacchi militari”, fra l’altro “disperdendo i luoghi di assemblaggio, stoccaggio e sperimentazione”.

Il rapporto, inoltre, afferma che le sanzioni contro il regime dei Kim si stanno rivelando inefficaci: “Il Paese continua a sfidare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza con un massiccio aumento dei trasferimenti illegali via nave di prodotti petroliferi e carbone”. Il trasferimento illegale di oltre 57.500 barili di prodotti petroliferi, per un valore superiore ai 5,7 milioni di dollari, sarebbe provato.

Sette ergastoli per i jihadisti dell’attentato al Bardo e Sousse

Sono stati condannati all’ergastolo i sette jihadisti colpevoli degli attacchi terroristici del 2015 al museo del Bardo e sulla spiaggia di Sousse, in cui morirono 60 persone fra cui molti turisti, anche quattro italiani. Gli imputati erano 51, e oltre alle sette condanne a vita sono stati condannati anche altri tunisini a pene comprese fra sei mesi e 16 anni, mentre 27 sono stati assolti. La Procura ha fatto ricorso in appello. Le deposizioni degli accusati nelle udienze hanno messo in evidenza importanti legami fra i due attentati, entrambi rivendicati dall’Isis (quello del Bardo fu il primo rivendicato dallo Stato islamico in Tunisia). Per entrambi, gli accusati hanno indicato una stessa mente: Chamseddine Sandi, ucciso nel 2016 in un raid Usa in Libia, secondo i suoi avvocati. Le deposizioni non hanno chiarito molto, tanto che gli avvocati di una delle vittime francesi sostiene che “il processo si è tenuto in condizioni improbabili che non hanno permesso di comprendere la solidità dell’accusa, il movente delle persone e chi ha fatto cosa”. Per l’attacco di Sousse, invece, è in corso una procedura davanti alla Corte reale di giustizia di Londra.

Altro che elezioni: guerra del petrolio fra Tripoli e Tobruk

Della conferenza nazionale che doveva tenersi agli inizi dell’anno, annunciata dall’inviato speciale dell’Onu Ghassan Salamé lo scorso novembre, non si parla ancora, tanto meno di elezioni in primavera. Non potrebbe essere altrimenti, perchè i due principali antagonisti – al-Sarraj che a Tripoli guida il governo riconosciuto dai Paesi occidentali e il generale Haftar, rappresentante del parlamento di Tobruk e capo dell’Esercito nazionale (Lna) – si stanno contendendo i giacimenti di petrolio di al-Sharara, uno dei più importanti della regione del Fezzan. L’impianto è a circa 500 chilometri a sud di Tripoli ed è in grado di produrre 315.000 barili di greggio al giorno, un terzo della produzione totale della Libia in questa fase di guerra intestina. Per difenderlo, due giorni fa al-Sarraj ha nominato il leader Tuareg Ali Kanna, ex capo delle forze armate del Sud-Ovest della Libia sotto il governo di Gheddafi e oggi alla guida dell’Esercito del Fezzan, responsabile dell’area.

La Libyan National Oil Corporation (Noc) dallo scorso 8 dicembre ha difficoltà nella gestione, tanto che alcune tribù avevano occupato l’impianto.

La compagnia petrolifera nazionale riferendosi alle forze in campo “esorta tutte le parti ad evitare un’escalation delle ostilità e azioni che potrebbero mettere in pericolo dipendenti o infrastrutture del più grande e importante giacimento”, si legge in un comunicato pubblicato sul sito della compagnia. Il generale Haftar già mercoledì aveva annunciato di aver conquistato l’impianto; in realtà secondo Libya Observer, i suoi militari hanno preso solo la stazione di pompaggio numero 186. Le schermaglie sono proseguite anche ieri: i caccia di Tobruk hanno effettuato “raid di avvertimento” per allontanare un aereo che sorvolava il giacimento petrolifero di El Feel, nel sudovest dopo aver imposto il divieto di volo (no fly zone). La situazione rimane ingarbugliata: chi controlla la produzione petrolifera avrà un grosso vantaggio anche nelle future elezioni e il generale ha già l’opzione dei pozzi del nord della Libia. Resta poi il nodo Noc: solo dopo intense trattative Haftar ha accettato che le entrate derivanti dalla vendita di greggio fossero gestite dal Noc di Tripoli e non da una compagnia petrolifera rivale più piccola, con sede nell’est.

Questi conflitti più o meno armati sono costati circa 800.000 barili al giorno ed entrate sostanziose. La compagnia spera di portare la produzione a un milione di barili al giorno, fino a 2,1 milioni entro il 2021: ora però la battaglia su al-Sharara mette tutto in dubbio. Il capo della National Oil Company, Mustafa Sanalla, spera che i due contendenti trovino una soluzione pacifica e continua a intessere collaborazioni: ieri a Tripoli ha incontrato il general manager della spagnola Repsol, Paolo Navas, ma è stato impossibile ignorare le sparatorie di al-Sharara: è stata l’occasione per espimere “preoccupazione per la sicurezza del personale sul campo e per la sicurezza del sito” e la “la cessazione delle ostilità nell’area, condizione essenziale per riprendere la produzione”. La Libia meridionale resta area senza legge, in particolare per i dissapori fra la comunità Tubu e le tribù arabe per il controllo delle rotte transfrontaliere di contrabbando. I Tubu accusano l’esercito di Haftar di distruggere i loro villaggi. Per ribaltare questa lettura, il generale sottolinea che il suo compito nel sud è quello di eliminare i jihadisti del Ciad che sconfinano: operazioni collegate a quelle francesi dentro il Ciad: proprio una settimana fa i Mirage di Parigi hanno ridotto in pezzi un convoglio di 40 pick up dell’Unione delle forze della resistenza che facevano rientro dalla Libia.

Juan Guaidó: “Ho un piano per fare entrare gli aiuti Usa”

Sarà lui stesso a rendere possibile il passaggio degli aiuti umanitari nel Paese. Così Juan Guaidó, autoproclamatosi presidente ad interim del Venezuela cerca di sbloccare lo stallo degli aiuti internazionali. Guaidó sostiene infatti di star mettendo a punto un piano per la distribuzione che sarebbe pronto già per la settimana prossima e che sfiderebbe la resistenza del governo Maduro. Nel frattempo il presidente ad interim ha spronato al Comunità internazionale a preparare l’invio. Nei giorni scorsi infatti, la possibilità di far entrare nel Paese attraverso il confine con la Colombia i convogli con cibo e medicine si era arenata per via di autocisterne e container posti a bloccare il Simon Bolivar International Bridge, il ponte che collega il Venezuela al suo vicino a ovest. A presidiarli Nicolas Maduro aveva schierato militari dell’esercito a lui ancora fedele.

Il leader chavista, infatti, continua a rifiutarsi di lasciar passare gli aiuti e dice di vedere come “uno show” la concessioni di sostegno al suo paese da parte degli Stati Uniti e della Colombia, oltre a ribadire il suo no a possibili elezioni presidenziali. Funzionari del governo fanno anche sapere di reputare la solidarietà internazionale “un cavallo di Troia” e di avere “il diritto e il dovere secondo la Costituzione di difendere pacificamente i propri confini”. Nelle stesse ore, Maduro non ha scartato, invece, l’ipotesi di una mediazione dell’Unione europea nella crisi politica del Venezuela, anche attraverso la figura dell’Alta rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la sicurezza Federica Mogherini.

Nel frattempo cibo e medicine raccolti attraverso l’agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo internazionale del governo federale statunitense sono arrivati e sono stati conservati in un deposito sul confine, dal lato colombiano, in attesa di poter essere consegnati.

Dietro al Muro di Trump anche la star di Cuarón

Non ci sono soltanto le migliaia di centroamericani della carovana dei migranti a spingere alla frontiera del Messico con gli Stati Uniti. Pericolosi perché “trafficanti di droga”, secondo l’ultima campagna del Presidente Donald Trump. A chiedere di scavalcare il muro, quello che già c’è a Tijuana e quello che The Donald vorrebbe costruire, c’è anche Jorge Antonio Guerrero, Fermin, uno dei protagonisti del film Roma di Alfonso Cuarón, candidato agli Oscar 2019 con 10 nomination. L’attore messicano, classe ‘93, infatti, pare non sia persona gradita negli States, essendosi visto rifiutare per tre volte il visto di ingresso. Motivo per il quale Cuarón dovrà accontentarsi di portare – come già per i Golden Globes – al Dolby Theatre di Los Angeles il 24 febbraio un cast ridotto rispetto alle statuette che potrebbero essergli assegnate. Paradosso nel paradosso, visto che il lavoro racconta proprio il Messico col quartiere Roma di Città del Messico, con la sua miseria, le sue violenze e la sua disperazione.

Ma Guerrero non è certo l’unico “discriminato” della pellicola già vincitrice del Leone d’Oro alla 75esima Mostra del Cinema di Venezia. Ad essere diventata quasi più famosa di Trump – per le sue doti attoriali e per la sua storia – è la candidata agli Oscar come miglior attrice protagonista di Roma,Yalitza Aparicio, prima donna messicana dopo 17 anni, cioè dopo la nomination di Salma Hayek nei panni di Frida (Khalo), a contendersi la statuetta d’oro con volti del calibro di Lady Gaga o Melissa McCarthy. Ah, povero Donald: aivoglia a ripetere “America First”.

Di origine mixteca, Yalitza è passata dalle aule di campagna di Oaxaca, regione messicana attraverso cui proprio in questi giorni transita la seconda carovana di migranti e dove lei insegnava ai bambini della materna alla copertina di Vogue Messico. Come nelle migliori tradizioni dei provini, infatti, sua sorella maggiore, nel vederla afflitta dalle lotte sindacali per ottenere una cattedra fissa, le suggerisce di presentarsi a un casting segreto. Così, lei che per Cuaron è “una donna impressionante. Senza aver mai calcato un set cinematografico, il secondo giorno di riprese aveva già interiorizzato tutto il processo ed era entrata nel personaggio di Cleo”, ha raccontato il regista, ora è in odore di Oscar. Pensare che solo tre anni fa, Aparicio era una delle centinaia di abitanti a rischio povertà del municipio di Tlaxiaco: 40 mila residenti, 4 su 10 senza rendita fissa e un sindaco assassinato pochi minuti dopo aver giurato. Yalitza d’altronde conosce bene la violenza. Sua madre, Margarita, è un’indigena triqui originaria di San Juan Copala, una comunità stravolta dalle faide politiche. Lei e i suoi tre fratelli vivono in una colonia di Tlaxiaco, una ex pista d’atterraggio clandestina. Per tirare avanti nel tempo libero dopo le lezioni aiuta la famiglia a costruire pignatte. Ma un altro destino l’attende e non è quello della tratta di donne, come lei teme al sentir parlare di provino segreto. Yalitza supera le selezioni in città e parte per Città del Messico accompagnata dalla sua traduttrice Nancy Garcia, che nel film di Cuaron sarà Adela.

È tutto così assurdo che neanche lei ci crede: quando le dicono il nome del regista con cui avrebbe girato lo cerca su Google, non ha idea di chi sia, ma le foto che trova sono vecchie e allora torna a temere che l’uomo che ha davanti la stia ingannando: che si tratti di reclutamento di cammelli per il traffico di droga. Prova a scappare dal set, ma Cuaron la bracca: somiglia troppo alla donna che diventò la sua tata nella casa del quartiere Roma Sur, anche detto “La Roña”, dove il regista è tornato in questi giorni, per lasciarsela scappare. Perché è proprio qui che è iniziato tutto: nel sogno residenziale della borghesia messicana dei primi del 900, convertitosi – 18 anni dopo – nel quartiere bohemien della Rivoluzione, fino a diventare – dopo i crolli e l’abbandono post-sisma dell’‘85 la periferia degradata per antonomasia. Quella che Trump vuole cancellare dalla coscienza collettiva o far passare come fonte di ogni male, aizzandone l’ombra sul muro divisorio. Ma Jorge e Yalitza sono l’incarnazione della risposta alla domanda: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? ”.

I magistrati: “I due volevano proteggere la malavita locale”

Omertà, zone ad “alta densità malavitosa” e possibili intimidazioni. È la fotografia di una Roma criminale, quella che emerge dagli atti con cui i pm hanno chiesto (e ottenuto) l’arresto nei confronti di Lorenzo Marinelli e Daniel Bazzanno, i due ragazzi che una settimana fa hanno organizzato l’agguato in cui la giovane promessa del nuoto, Manuel Bortuzzo, è rimasta vittima di uno scambio di persona. La Procura di Roma al gip non ricorda solo la capacità di intimidazione degli indagati e i loro “contatti con ambienti criminosi”, ma anche il contesto sociale. Secondo gli inquirenti i due mancati killer non si sono costituiti perchè “quel ragazzo deve avere giustizia”, come hanno dichiarato. “La presentazione spontanea (degli indagati, ndr) – si legge negli atti – appare almeno in parte dovuta all’intenzione di alleggerire la pressione” in una zona “ad alta densità malavitosa”, ovvero ad Acilia. Il sospetto degli inquirenti è che qualcuno potrebbe averli spinti a costituirsi perché quella “massiccia presenza delle forze dell’ordine” poteva danneggiare affari più importanti.