Un’aggressione rapida, forse per rapina, è costata a due studenti 23enne di Gradara, in provincia di Pesaro-Urbino, il ricovero in ospedale per delle gravi ferite da arma da taglio. In tre, tra cui un minorenne, sono stati fermati per l’accusa di duplice tentato omicidio e rapina. E si cerca ancora un quarto del gruppo che sarebbe stato ripreso dalle videocamere come il primo a colpire in una rissa venerdì sera. I due ragazzi sono ricoverati all’ospedale di Rimini ma non sono in pericolo di vita. Uno è stato ferito a un fianco ed è in prognosi riservata nel reparto rianimazione, l’altro raggiunto all’addome è invece in chirurgia. Le vittime erano a cena nel ristorante brasiliano di Riccione “La Mulata”, sono uscite nel cortile del locale verso le 23 per fumare una sigaretta – sono stati ripresi dalle telecamere di sicurezza – quando gli si sono avvicinate quattro persone, forse ubriache. “Nelle immagini si vede bene un ragazzo togliere il cappellino ad un altro e poi far partire il colpo. Sono quattro ragazzi contro due, uno viene ferito subito e l’amico scappa verso l’uscita e viene inseguito dagli aggressori che lo prendono alle spalle” ha raccontato il titolare del ristorante Gustavo Da Silva. “Dammi cinquanta euro per comprare la droga” avrebbero chiesto gli aggressori e di fronte al no hanno reagito attaccandoli, dileguandosi dopo in macchina. “La targa dell’auto sulla quale sono scappati è stata presa da una delle ragazze del gruppo dei giovani di Gradara. Forse si tratta di una Mercedes grigia” ha riferito un operatore del 118 intervenuto sul posto. Basandosi su queste testimonianze e su quelle di altri avventori del locale, i carabinieri di Riccione avevano disposto diversi posti di blocco, riuscendo a fermare e identificare tre delle quattro persone ritenute coinvolte nella lite, tutti appartenenti alla stessa famiglia di etnia sinti che vive Coriano, sulle colline riminesi. Uno di loro è minorenne, mentre il presunto accoltellatore non è ancora stato rintracciato.
Il 170esimo anniversario dell’“immortale fantasma” della Repubblica romana
Il 9 febbraio del 1849, “a un’ora del mattino, si proclamavano il decadimento del potere temporale del Papa, e, conseguenza logica, la Repubblica. Da chi? Dall’Assemblea Costituente degli Stati romani. D’onde esciva la Costituente? Dal voto universale”. Così Giuseppe Mazzini, nel settembre del 1849, scriveva ai ministri di Francia, ricordando la nascita della Repubblica Romana che, agli inizi di luglio, era stata annientata dalle truppe mandate da Luigi Napoleone Bonaparte, futuro Napoleone III. Il 3 di luglio, dalla loggia del Campidoglio, era stata promulgata la Costituzione, la più avanzata d’Europa, che, come sarebbe stato scritto, dette “al popolo leggi giuste ispirate alla più pura democrazia”.
Durò poco l’avventura della Repubblica, con cui l’Italia, osservò Leone Ginzburg in pieno fascismo, “cominciò a scoprire la propria vocazione unitaria attraverso i giovani accorsi a Roma da ogni parte d’Italia a sacrificarsi con tranquilla consapevole serenità per la patria comune”. Dopo la fuga a Gaeta di Pio IX, spaventato dal programma liberale e nazionale propostogli, la giunta provvisoria di governo convocò l’assemblea costituente. Il 9 febbraio venne proclamata la repubblica e nominato un comitato esecutivo costituto da Carlo Armellini, Mattia Montecchi e Aurelio Saliceti, che a marzo cambiò con l’ingresso di Mazzini e di Aurelio Saffi. Alla fine d’aprile, a Civitavecchia, sbarcò il contingente francese inviato da Luigi Napoleone, presidente della Repubblica di Francia. L’assemblea della capitale decise di respingere i francesi e il corpo di spedizione borbonico, inseguito da Garibaldi. S’iniziò la gloriosa e drammatica difesa di Roma, che sarebbe crollata il 4 luglio. “La Repubblica romana è caduta”, scrisse Mazzini, “ma il suo diritto vive, immortale fantasma che sorgerà sovente a turbarvi i sogni. E sarà nostra cura evocarlo”.
Raccomandati dalla politica in Acea, i 5 Stelle contro i pm: “Inchiesta troppo lenta”
Si scrive Gori si legge Acea.Le due società per azioni, la prima operante in Campania in partnership con la multility romana dell’acqua e dell’energia, sono state il braccio e la mente di centinaia di assunzioni in Gori di raccomandati della politica locale per gestire il servizio idrico integrato in 76 comuni tra le province di Napoli e Salerno. Lo ha scoperto e messo nero su bianco un’inchiesta della Procura di Torre Annunziata (Napoli) che ha indagato su fatti antecedenti al 2010 ma si è conclusa soltanto ora con una richiesta di archiviazione per prescrizione accolta dal Gip. Ed è sui modi e sui tempi di questa inchiesta giudiziaria, e di come si sia arrivati alla prescrizione di un fascicolo con 26 indagati e di alcune gravi ipotesi di reato peraltro ben incartate dagli inquirenti – come i lavori di ristrutturazione della casa romana dell’ad di Gori dell’epoca, Stefano Tempesta, compiuti da un subappaltatore di Gori – che il deputato del M5s Luigi Gallo ha chiesto l’intervento di Bonafede. “E’ necessario che il ministro della Giustizia indaghi su come si è sviluppato il procedimento penale – dice Gallo – e perché non ci sono state conseguenze per nessuno degli amministratori delegati, tra i dirigenti organici al vecchio centrosinistra e al Pd di Renzi”. Gallo, senza citarlo, disegna l’identikit dell’attuale Ad Gori, Giovanni Paolo Marati, del quale si chiede perché non si è dimesso. E’ stato rinominato a gennaio dopo esserlo stato dal 2009 al 2014 e dopo una esperienza in Toscana da Ad di Publiacqua. Marati e Tempesta erano tra gli indagati noti e nell’archiviazione si fa riferimento all’ex presidente dell’Easv, l’ente che rappresentava i comuni in Gori, Alberto Irace, “vicino a Bassolino” e poi diventato ad di Publiacqua e Acea. L’annunciata interrogazione di Gallo si inserisce in quella già presentata nel marzo 2017 dalla parlamentare M5s Federica Daga. “Giustizia su Gori inspiegabilmente troppo lenta – denunciò Daga – forse sarebbe il caso di inviare gli ispettori alla Procura di Torre Annunziata per verificare che non ci siano responsabilità”.
Blocchi stradali e l’assalto a un caseificio. La guerra del latte invade l’intera isola
In Sardegna il colore della rabbia è il bianco. Bianco come il latte versato sulle strade dell’isola dai pastori che da giorni protestano per il prezzo del latte fissato dagli industriali a 60 centesimi e che nelle attuali condizioni di mercato non riesce più a garantire neanche i costi di produzione. La protesta dilaga da Nuoro a Oliena, da Ollollai a Macomer, fino alle porte del capoluogo, con blocchi stradali e momenti di tensione altissima davanti agli stabilimenti di trasformazione del latte. Al Caseificio Pinna di Thiesi, i pastori hanno scagliato il latte contro i muri dell’azienda e sfondato alcune vetrate con dei bidoni da 50 litri. Un gruppo di allevatori si è presentato davanti al cancello del centro sportivo di Assemini, dove si allena il Cagliari calcio.
Dopo una lunga trattativa coi pastori, che impedivano alla squadra di partire per giocare la partita col Milan, la situazione si è sbloccata ed i giocatori hanno infine mostrato la loro solidarietà alla protesta versando simbolicamente a terra alcuni litri di latte. Ma la “guerra del latte” , come l’hanno ribattezzata gli stessi pastori, non si ferma e non lo farà almeno fino a mercoledì, giorno fissato per l’incontro a Cagliari nel tavolo assessoriale che vede riunite le sigle delle associazioni dei produttori e gli industriali per trovare una mediazione sulla remunerazione del latte e sulla riorganizzazione dell’intera filiera di settore, a partire da una seria programmazione delle produzioni volta ad impedire il dumping di prezzo. “È una situazione esplosiva, questo è un movimento spontaneo, dal basso che non ha colori e che prescinde dal controllo dei gruppi organizzati” spiega Felice Floris, storico esponente del Movimento Pastori Sardi (Mps). Floris parla di una rabbia sociale profonda che vede alle corde un settore portante dell’economia sarda dove tra diretti e indiretti sono occupate oltre 100 mila persone, che conta 18 mila aziende, che controlla 25 mila kmq di territorio, che fa vivere 365 paesi rurali. “Se crolla la pastorizia, crolla la Sardegna intera. Non si può vendere un agnello a 2 euro al chilo quando un coniglio ne costa 7. Non si può vendere un litro di latte a 60 centesimi, meno di un litro d’acqua, quando un chilo di formaggio costa 20 o 30 euro e per farlo ne occorrono 5 litri. Sessanta centesimi, cioè 1200 lire, lo stesso prezzo di quarant’anni fa. Un quintale di mangime si paga 35 euro e un litro di latte meno di una bottiglia d’acqua”.
Il problema è che la Sardegna è il più grande produttore di latte ovino d’Europa. “Produciamo quanto la Spagna e la Grecia. Non basta il tradizionale sbocco del mercato americano, dove la nostra dop non viene riconosciuta per il suo valore e viene commercializzata per usi industriali. Chiediamo una regolamentazione che preveda il ritorno alle restituzioni, cioè gli aiuti UE per ogni chilo di formaggio prodotto, insieme all’applicazione delle normative comunitarie che vietano il dumping cioè la produzione sotto costo”.
Mail Box
Rivolgo un appello ai veronesi: attiviamoci per la nostra città
Vorrei raccontare la mia esperienza di cittadina che si sta aprendo alla vita politica della sua città, Verona. Al libero cittadino che partecipi come spettatore silente (di più non è consentito) a riunioni di commissione o a Consigli comunali, si presente questa scena: politici che chiaccherano anche quando uno di loro sta parlando di cose serie determinanti per il futuro di una città vivibile. Altrimenti commentano ironizzando quando non sono presi dal proprio cellulare tanto da non alzare mai lo sguardo. Ci sono poi politici che bocciano le proposte per partito preso abbandonano l’aula per disinteresse verso i loro cittadini. Non si accorgono dell’odore l’aria che respiriamo, di quante abitazioni invendute ci sono in città e di quali gravissimi danni stia provocando l’inquinamento! Ma loro, imperterriti, vorrebbero continuare a versare cemento. Vorrei inviare un messaggio ai miei concittadini e ai giovani: interessiamoci! Non lasciamo che decidano da soli del nostro futuro! Esigiamo da loro un comportamento responsabile, serio, corretto. Mi è bastato partecipare ad una sola riunione della commissione ambientale e ad un Consiglio comunale per sentirmi frustrata, avvilita e arrabbiata. Se ne salvano pochi, e quei pochi li ringrazio.
Alessandra Spagnolo
Pansa si ricordi che la guerra non la iniziarono i partigiani
Nell’articolo da voi pubblicato il 5 gennaio “La profezia di Curone: “Racconta anche i vinti e ti diranno fascista” ”Giampaolo Pansa ha avuto il “coraggio” di presentare personalmente il suo ultimo libro, dal titolo Quel fascista di Pansa, che va ad aggiungersi alla ormai ossessiva collana revisionista promossa che prese l’avvio con Il sangue dei vinti. Da anni, per evidenti fini commerciali, Pansa mortifica la Resistenza sostanzialmente equiparando chi ha combattuto e ha sacrificato la sua vita a coloro che, non contenti di essersi alleati con i nazisti mandando l’Italia allo sfacelo e di essere stati responsabili delle leggi razziali, hanno costruito uno stato fantoccio in nord Italia. Nel 2010, nella mia qualità presidente dell’Anpi della Sardegna ho pubblicato Nazifascismo e Resistenza che è stato distribuito gratuitamente nelle scuole. Tornando al libro di Pansa, che, sostanzialmente ripete il solito ritornello dei “buoni” (che sarebbero i poveri “vinti”) e dei “cattivi” (che sarebbero gli spietati “vincitori”), basato sulle confidenze di certo Mario Silla (detto Curone), ex partigiano e commissario politico di una Brigata Garibaldi, il quale, dopo aver confessato che, dopo la fine della guerra, loro partigiani ne avevano “fatte di cotte e di crude”, sottolineò che dopo la Liberazione il Partito comunista, , aveva “imbarcato di tutto, roba buona, roba cattiva, roba così così” suggerendo a Pansa di non preoccuparsi se qualcuno lo avesse definito voltagabbana o anche fascista. Quindi niente di nuovo, visto che, dopo una guerra civile o una rivoluzione, le vendette, le rappresaglie e gli atti criminosi, anche da parte dei vincitori, non mancano mai. Quel che conta ai fini di un giudizio morale è individuare chi ha posto le premesse perchè gli inevitabili scempi si verificassero e nella tragica vicenda italiana i resposabili non furono certo i partigiani.
Carlo Dore
“La recessione è colpa di…”: un’accusa senza senso
Piccola lezione di teoria delle funzioni complesse per tutti coloro che si stanno scambiando accuse reciproche per l’imminente recessione. Come spesso accade, le opposizioni danno la colpa al governo in carica, mentre il governo in carica sostiene che questo è il risultato di anni di governi precedenti. Sono affermazioni che scientificamente non stanno in piedi se non si ha in mano un modello matematico del sistema economico che si vuole analizzare. Non sappiamo minimamente quali siano i tempi di reazione del sistema. Non è ancora stato dimostrato se l’aumento dell’Iva porti a una contrazione dei consumi in una settimana, un mese o qualche anno. Al contrario i tempi di reazione di un automobilista in risposta ad uno stimolo esterno sono ben noti e sono altrettanto note le variazioni di questi in relazione alla quantità di alcol ingerita o ad assunzioni di altre sostanze, questi tempi ci servono per determinare le distanze di sicurezza. Abbiamo avuto tecnici al governo e nelle loro mani abbiamo messo le chiavi del mezzo. Voglio credere che questi sapessero cosa fosse una funzione di trasferimento e che della “funzione Italia” fossero ben noti i suoi poli e zeri.
Andrea Bucci
Calenda fa politiche di destra. Non osi nominare Berlinguer
Carlo Calenda ha di recente affermato che “Berlinguer sarebbe inorridito davanti a un sussidio superiore ad un reddito da lavoro”. Caro Calenda, Enrico avrebbe invece detto: “Ma come è possibile pagare salari da fame in questa maniera?”. Avrebbe quindi incitato alla mobilitazione le masse lavoratrici e non sarebbe andato sotto braccio con la Confindustria a cancellando i diritti acquisiti quali quelli previsti dallo Statuto dei diritti dei lavoratori. Berlinguer non avrebbe alimentato la precarietà, e mi fermo qui per non fare l’elenco delle cose che lei e il governo in cui era ministro avete fatto sperperando il denaro pubblico in favore dei soliti noti. Faccia la politica della destra a lei più consona e lasci in pace un uomo che lei non è degno di menzionare.
Roberto Ghisotti
BHL e il dispaccio di Ems (1870): una divagazione storica
La gente è nervosa, s’incazza per un nonnulla. E non solo nell’Italia in recessione: pure i francesi (che – vedi Paolo Conte – s’incazzano di default) sono irascibili assai. Prendete una rockstar intellettuale come Bernard-Henry Levy, onusto d’onori e gloria. Dacché c’è questo conflitto diplomatico in un bicchier d’acqua tra Roma e Parigi twitta pure in italiano tutta la sua ira: “Duemila anni di amicizia franco-italiana calpestati da due clown (Di Maio e Salvini, ndr)”; “Ci si domanda a cosa serve l’Europa? Ebbene, ecco. Prima, ai tempi del dispaccio di Ems, la Francia avrebbe dichiarato guerra a Luigi Di Maio. Oggi, grazie all’Europa, ci si limita a un richiamo dell’ambasciatore”. E certo c’è da ringraziare che BHL e l’Eliseo non decidano di bombardare come fecero nel 2011 con la Libia (paese non Ue e, dunque, aggredibile…), ma davvero deliziosa è la citazione del “dispaccio di Ems”, ovvero del fatterello che scatenò la guerra franco-prussiana del 1870 per banali faccende di imperialismo intra-continentale. Deliziosa, in particolare, perché, dichiarando quella guerra, la Francia finì per creare la moderna Germania e, con essa, il suo desiderio di egemonia sul continente che nella capitale francese hanno conosciuto così bene e per la prima volta, ma non l’ultima, proprio allora. Ora, dispaccio a parte, se questo è il livello dei nervi dei consiglieri del principe, è quasi una fortuna che l’Ue sia nata e resti, soprattutto a livello militare, solo un’articolazione del potere imperiale Usa (senza il quale, com’è noto, a Parigi oggi parlerebbero tedesco).
Cosa aspettano le istituzioni a chiedere scusa a Manuel?
“Roma è piena di gente di merda come questa. Siamo nelle mani di zingari e camorristi e finché gran parte delle persone continuerà a sfondarsi di cocaina ‘ste merde continueranno a fare la bella vita. Siamo diventati una città di papponi, zoccole e tossici. Gomorra e Romanzo Criminale hanno fatto più danni della peste”.
“8 ottobre”, dall’account Instagram Dagocafonal
Con il titolo “La giustizia del web”, il sito Dagospia ha meritoriamente raccolto, attraverso una sfilza di messaggi (abbiamo citato uno dei più moderati), quella che definisce “la pancia del Paese”. Qualcuno (“Una vita da tassista romano”) ha pubblicato, sotto all’immagine di Manuel Bortuzzo, un selfie di Lorenzo Marinelli e Daniel Bozzano, i due che gli hanno sparato alla schiena inchiodandolo a una serie a rotelle. Ora, molti hanno avuto da ridire sul combinato disposto che accompagna il montaggio fotografico, e cioè: “Quando hai una vita meravigliosa. E incontri due coglioni che te la rovinano”. Infatti, rispetto all’espressione “coglioni”, considerata troppo mite, si suggeriscono una serie di sanzioni adeguate al delitto commesso dalla coppia di balordi di Acilia. Li vogliono “sepolti vivi” o “sulla sedia elettrica”, ma c’è chi preferirebbe la legge del taglione: per entrambi “il taglio netto della spina dorsale nello stesso punto”. È un documento che abbiamo definito meritorio, poiché alle istituzioni responsabili dell’ordine pubblico sarà sufficiente un semplice clic per informarsi sugli umori che agitano la Capitale. E sulla nuvola bianca che la sovrasta. Al ministro degli Interni Matteo Salvini, sempre affettuosamente connesso con il popolo sovrano, ci permettiamo di evidenziare, tra i tanti problemi segnalati da “8 ottobre”, quello riassunto nell’incisiva figurazione: “Sfondarsi di cocaina”. Infatti, con il termine nuvola bianca non s’intende, come forse potrebbe credere, una formazione di cirri o di altro similare fenomeno della meteorologia. Essa (la nuvola) è bensì la metafora di un’intensa e diffusa attività, volgarmente conosciuta come: pippare. Che la bianca visitatrice sia ormai presente in ogni anfratto dell’Urbe, è cosa nota. Che lo spaccio rappresenti una delle attività più lucrose dell’economia cittadina, anche. Che (nell’intero Stivale) il consumo della magica polverina si manifesti come un fenomeno collettivo, trasversale e perfino unificante (democratico, oseremmo dire), pure. Perché meravigliarsi, allora, se il continuo “sfondarsi” comporti alcuni spiacevoli effetti collaterali come, per esempio, sparacchiare al buio, gridare frasi sconnesse e distruggere la vita di un giovane atleta? Al signor ministro e alle eccellenze che vegliano pensose sui problemi del Paese vorremmo perciò assai rispettosamente porre un paio di domande. Perché “Roma è piena di gente di merda come questa”? E cosa cazzo aspettate per chiedere scusa a Manuel, vittima della follia di due tossici, ma prima ancora di chi non ha fatto nulla per impedirlo?
Gesù invita a distaccarsi dal passato per diventare “pescatori di uomini”
In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca. Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: “Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca”. Simone rispose: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti”. Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: “Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore”. Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: “Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini”. E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono (Luca 5,1-11).
Oggi è dato di contemplare Dio che chiama i suoi messaggeri, prepara e invia i suoi profeti, mette in cammino i testimoni del Signore Risorto. La vocazione d’Isaia e il Vangelo odierno illustrano entrambi la dinamica e la novità di vita che crea la sua chiamata. È sempre un’esperienza del mistero di Dio, un incontro col suo Volto invisibile, compimento della sua Parola che libera da ogni paura. Colui che è chiamato protesta la sua radicale indegnità, anzi resiste come Isaia che si ritiene perduto perché si sente uomo dalle labbra impure. Perciò Dio lo purifica, lo rianima, lo converte per poterlo inviare al popolo d’Israele.
Anche questi quattro apostoli pescatori vengono trasformati dalla parola di Gesù per venir chiamati alla sua sequela. Luca focalizza l’attenzione su Gesù maestro che continua a insegnare e a parlare mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio. In questa scena movimentata emerge Simone, il proprietario di una barca, che è sollecitato a scostarsi un poco da terra perché Gesù vuole prolungare il suo insegnamento. È su questa stessa parola che Simone, dopo aver faticato tutta la notte senza prendere nulla, getterà le reti.
L’invito di Gesù a prendere il largo è rivolto quasi in modo imperativo, così essi metteranno a confronto l’esperienza fatta con le proprie forze, la pesca mancata e la sorpresa propizia vissuta con Lui dandogli fiducia. Il pescatore Simone, dopo una debole reticenza, accetta la sfida: sulla tua parola getterò le reti. Da una pesca andata a vuoto, Simone, sconvolto e meravigliato dall’abbondanza del pesce nelle reti, ottenuta sulla Parola di Gesù, prende coscienza della sua distanza dal Maestro.
La rivelazione dell’efficacia divina della parola di Gesù induce Simone a dichiarare la propria indegnità: Signore, allontanati da me, perché sono peccatore. È stupefacente udire come Simone passi dall’evidenza del segno miracoloso, presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano, a ciò che attiene alla condizione della sua coscienza: il riconoscimento di essere peccatore. Che relazione c’è tra il fatto portentoso dell’abbondanza del pescato e la vita personale di Simone? Gesù stesso supera questa consapevole distanza colmandola col suo invito al futuro. Simone si sente amato nella sua fragilità: non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini. Andare dietro al Signore Gesù si va verso l’uomo, del quale Egli riempie la vita e ne perfeziona la libertà.
Ecco l’incontro e la chiamata di Gesù Cristo! Ci si distacca dal passato: vi è un d’ora in poi, per una nuova identità missionaria: pescatori di uomini. Dentro l’angusto nostro presente Gesù crea l’imprevedibile ed eterno nostro futuro: tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.
*Arcivescovo emerito di Camerino – San Severino Marche
Tav, sulla macchina del tempo che corre ad alta velocità
Sembra che in Italia qualcuno abbia rotto gli orologi e il tempo si sia fermato. Il ministro Danilo Toninelli tuona: “Chi se ne frega di andare a Lione?”. Tripudio dei fans, pernacchie dei detrattori. Ma il punto è che ogni giorno, come Bill Murray in Ricomincio da capo (1993), ci svegliamo e rifacciamo la stessa discussione di 30 anni fa. Toninelli era al liceo e Andreotti a Palazzo Chigi, c’erano il Muro di Berlino, Reagan e Gorbaciov, la lira e il marco, il telefono bigrigio. Gli italiani già dibattevano sul tunnel per Lione: che cosa ci andiamo a fare? Con il permesso del lettore, vorrei contribuire allo stagionato dibattito con un ricordo personale. A Lione ci sono andato. Nel 1994. Il giornale per cui lavoravo mi mandò con la macchina del tempo a cercare con 25 anni di anticipo una risposta per Toninelli. Lione era già collegata a Parigi con l’alta velocità: 460 chilometri in due ore. La città ne era trasformata, erano arrivate la sede mondiale dell’Interpol e la rete televisiva Euronews. Clima euforico, città illuminata a giorno h24 (tanto c’era il nucleare), quattro linee di metropolitana senza macchinisti, un grande trenino elettrico governato da un computer . “Non serve a risparmiare sul personale”, spiegava un manager, “ma a modulare la frequenza dei treni senza chiedersi quanti macchinisti sono in turno”. Un sogno di progresso che si avverava, raccontato in un lungo articolo intitolato Meglio un giorno da Lione. Sergio Pininfarina, storico promotore del Tav, diceva allora: “Ritardi nella realizzazione della Torino-Lione ad alta velocità avrebbero l’effetto di portare al collasso la rete stradale della Valle di Susa, con gravi danni ambientali, oppure di deviare i grandi flussi dei trasporti su altre direttrici”. È la frase che i Sì-Tav ripetono oggi come se fosse nuova.
Allora era opinabile ma sensata. Oggi è pura letteratura fantastica. Ecco, la letteratura illumina il baratro in cui siamo finiti. Nel 1889 Mark Twain scrisse A Connecticut Yankee in King Arthur’s Court, storia fantastica di un americano che si trova misteriosamente trasportato nell’Inghilterra di re Artù. Hank Morgan sfodera le sue conoscenze tecnologiche ottocentesche, come il treno, e viene acclamato come mago. L’Italia vive lo stesso sogno in forma di incubo: strateghi fermi al 1989 sostengono di aver inventato il treno. Gente capace di intimare a Zuckerberg che il futuro è nei transistor, come se si fossero svegliati da un lungo sonno, tipo Goodbye Lenin, ignari di che cosa è accaduto nel frattempo: la caduta del Muro di Berlino, internet e gli smartphone, la globalizzazione, il primato economico cinese, il crollo dei costi dei trasporti marittimi, i motori Euro 6 che abbattono l’inquinamento del 90 per cento. Pininfarina era un imprenditore vero e un uomo onesto, non uno dei finti entusiasti che hanno messo a reddito la capacità di cacciare balle. Ma le sue previsioni non si sono verificate. Il collasso della rete stradale della Val di Susa non c’è stato. Il treno ad alta velocità da Kiev a Lisbona non è stato costruito.
E nel frattempo, dal 1995 al 2014, secondo la Banca Mondiale, il prodotto interno lordo della Francia è cresciuto del 20 per cento, quello dell’Italia del 2. Liberi di pensare che il fallimento dell’economia italiana sia dovuto alla mancata costruzione della Torino-Lione. Ma anche se fosse vero, la Storia si è compiuta così. Non abbiamo costruito quel Tav, il mondo è cambiato, servono idee nuove e le possono dare solo i più giovani, possibilmente un po’ meno analfabeti di certi campioni che vanno per la maggiore. Invece l’Italia è ridotta a un ospizio dove alcuni sessanta-settantenni ripetono ogni giorno, rancorosi e un po’ rincoglioniti, le fesserie che gli piacquero da giovani. Risospinti senza posa nel passato.
Il primo re fonda Roma e il Fascismo
Il primo re nasce in un gruppo di uomini nudi che si massacrano senza sosta. Istinto e forza animale guidano a scartare il peggio (la mazza chiodata sul cranio) per poter trapassare da parte a parte il nemico. Visto dalla lontananza dei secoli, non è chiaro chi sia il nemico, nel groviglio dei corpi. Poi si capisce la regola: perde il massacrato e vince il massacratore. C’è sangue e fuoco e fango (fango di guerra, forse premonizione della trincea di tanti secoli dopo) e questi uomini del primo re non hanno altro che i corpi (di idee non se ne parla) per offendere o per vincere, consacrando la vittoria con l’estrazione e il pasto di viscere del nemico.
Nemico è chiunque non sia, anche per caso, dalla tua parte, oppure mostri di ribellarsi. Sangue e carni squarciate, ce n’è per tutti. La differenza è vivere ben schizzati di sangue e segnati di gloriose ferite, col piede su un uomo morto. O essere l’uomo morto, ucciso nel più violento dei modi. Donne, nessuna. Nel senso che una donna, una sola, lugubre, e con l’aria di aspettarsi il peggio, ha il ruolo di sacerdotessa o di maga, osserva cauta e prende ordini dai maschi insanguinati, tenuto conto che uccidono. Altre donne sono intraviste come bambine o come popolo che aspetta il re, quello che ucciderà di più. È il re perché, persino trapassato da un’enorme lama, ecco che torna, e guida e decide subito che chi non è con lui è in soprannumero.
Scordatevi la gioia, benché il racconto (ovvero il film di Rovere, che si intitola Il primo re) si proponga di narrarci la riuscita carriera politica di Romolo. Dunque il sentimento è la ferocia, con il respiro e i tratti della ferocia, mostrata come il volto giusto del guerriero. E il guerriero è presentato come la sola possibile incarnazione dell’uomo. Che altro fare se non uccidere? Il futuro è sempre al di là di cataste di corpi sterminati. Nelle pause, il sentimento è progetto di morte: “E adesso a chi tocca sottomettersi o finire squarciato?”.
Prima dei titoli di coda, su fondo nero, compare la scritta “Roma. Tremate”. Poiché, quando compare quella scritta, tutti hanno già visto il film, sappiate che nessuno, in sala, ha voglia di scherzare, benché quella frase, in quel punto e contesto, sembri scritta da Propaganda Live. L’umore cupo del regista e del film ormai è calato su tutti. Perciò la scritta sullo schermo può essere letta con le parole di “Sole che sorge” o della strofa chiave di “Fuoco di Vesta”, inno quotidiano dei bambini delle scuole fasciste: “Verrà, quel dì verrà, che la gran madre degli eroi ci chiamerà. Una maschia gioventù, con romana volontà combatterà”. Lo spettatore, stordito da un ritorno così rapido e disinvolto del fascismo, senza trucchi e senza inganni (non il fascismo come insulto, ma il sistema politico che per un periodo ha dominato la storia italiana, così come lo trovate scientificamente descritto sulla Treccani), si domanderà perché nessuno glielo ha detto.
Per questo ho letto volentieri, sul Fatto Quotidiano, ciò che ne ha scritto Pietrangelo Buttafuoco. Ha visto il film per quello che è, un buon lavoro cinematografico di questo regime, come Luciano Serra Pilota e L’Assedio dell’Alcazar lo erano stati per il regime finito (temporaneamente, adesso sappiamo) nel 1945. La vigorosa scrittura di Buttafuoco fa onore al film esattamente per quello che è: la celebrazione dei “colli fatali di Roma”. Eppure non è tutto. Tenete conto che questo è il tempo di Kerigma, il libro in cui il sottosegretario Ceresani (che è stato con la Boschi a Palazzo Chigi e, in omaggio al “cambiamento”, sta adesso con Fontana-Salvini al ministero della Famiglia) ha annunciato l’Apocalisse e ha scritto: “La scomparsa della Verità, dietro il nuovo dogma imperante del relativismo etico, condusse a legittimare le pratiche più disumane come l’aborto e l’eutanasia.” Il primo re, condotto sui sacri colli dall’attento regista, lo sa e capisce che diventerà re (a Roma) solo se si schiera con Dio. Remo invece deve essere ucciso perché osa dirsi non credente. Ha così luogo il primo Concordato, nel senso che Roma non può nascere senza un accordo, anche un po’ costoso, con Dio.
Non so, invece, se attribuire a Romolo o a Rovere la fondazione contestuale del sovranismo. Romolo, a differenza di Remo, che è élite, non vuole confini aperti e fa mettere fuochi tutto intorno a ciò che sarà Roma. Chi finge di non vederli farà, da subito, la fine degli immigrati tanti secoli dopo, quando la guardia costiera italiana e quella libica non sentono le chiamate disperate di soccorso di chi sta affogando.
Ma secondo il primo re e l’ultimo governo, Roma è sempre stata così, salvo un breve intervallo di democrazia.