Poteva accadere di tutto nella giustizia italiana dei primi Anni 70 del secolo scorso. Quella dei capi degli uffici giudiziari che badavano soprattutto ai potenti e non sopportavano, invece, chi mostrava indipendenza e coraggio.
Poteva persino capitare che, la mattina dell’8 agosto 1971, un “alto papavero” del Palazzo di Giustizia di Torino (magari un galantuomo, per altri versi, ma un burocrate e un posapiano) chiamasse al telefono un giovane pretore penale e lo apostrofasse così: “L’hai fatta davvero grossa questa volta. E non dimenticare che ciascuno di noi, magistrato, si porta dietro un sacchetto con le pietre bianche e un altro con le pietre nere. Quando sarà ora di un incarico o di uno scatto di carriera, si conteranno le pietre. E se prevarranno quelle nere…”.
Il reprobo, il magistrato che aveva già collezionato, a sentire quel collega e superiore, la più pesante “pietra nera” della sua carriera, si chiamava e si chiama Raffaele Guariniello. Tre giorni prima, il 5 agosto, a mezzogiorno in punto aveva cominciato a guidare la perquisizione degli uffici semi deserti dei Servizi Generali della Fiat, in quel palazzo di Corso Marconi che, per decenni, sarebbe stato il simbolo della grande fabbrica subalpina, usato addirittura nei titoli e negli articoli di giornale per non ripetere troppe volte la sigla dell’azienda automobilistica. Nessuna stanza fu risparmiata: neppure quella di Gianni Agnelli, l’Avvocato, quasi il “sancta sanctorum” del capitalismo italiano.
Ma che cosa era mai accaduto nella città della Mole, due anni dopo l’Autunno Caldo (di un 1969 conclusosi, proprio il 12 dicembre di 52 anni fa, con la Strage di Piazza Fontana) e a poco più di 12 mesi dall’approvazione dello Statuto dei Lavoratori? Una vicenda che è forse la peggiore nell’ultracentenaria storia della Fiat e del suo connubio con la famiglia Agnelli. L’estremo spingersi, oltre le colonne d’Ercole della lealtà e del lecito, in quel welfare paternalistico e avvolgente che Giorgio Bocca per primo aveva battezzato “Mamma Fiat”: la mutua interna, quando il Servizio sanitario nazionale non esisteva ancora, le colonie e i pacchi di Natale per i figli dei dipendenti, i fiori alle mogli per la nascita dei figli, le auto in dotazione e da vendere dopo sei mesi, il circolo interno dei donatori di sangue, la squadra di calcio per il tifo degli immigrati meridionali, il giornale quasi monopolista a Torino (“È come una grande caserma e in caserma chi può stangare il sottoposto si consola delle stangate dei superiori – scriveva Bocca – e si convince, come sotto la naia, che una somma di violenze e sofferenze magari cretine, ma sopportate perché fanno parte dell’impresa comune, del capitale accumulato, delle tradizioni consolidate, tutto sommato sono una cosa buona”).
Fu chiamato prima lo scandalo e poi il processo delle “Schedature Fiat”. Perché quel giorno, Guariniello trovò 357.077 dossier messi assieme da “Mamma Fiat” per catturare le esistenze private, le idee e i diritti inviolabili dei suoi dipendenti. Tutto era cominciato con una causa di lavoro, avviata qualche mese prima da un certo Caterino Ceresa appena licenziato da Corso Marconi. Al secolo semplice “fattorino”, in realtà “spia” in un sistema che le sue prime rivelazioni delinearono sin dall’inizio: “Sono stato assunto nel 1953 per informare sulle qualità morali, i trascorsi penali e la rispettabilità delle persone con le quali la società stessa era o doveva entrare in relazione”.
Pochi giorni dopo la perquisizione, toccherà all’Unità e poi alla Gazzetta del Popolo, l’altro giornale di Torino, raccontare quella storia rompendo il silenzio dell’informazione. Sul giornale del Pci, Diego Novelli, giornalista e futuro “sindaco rosso” della città, pubblicò la notizia che alcuni dirigenti della Fiat erano indiziati di reato, accusati di aver corrotto soprattutto i vertici torinesi della Polizia e dei Carabinieri per costruire un archivio sulla vita privata e sull’appartenenza politica di centinaia di migliaia di dipendenti e cittadini: schedature realizzate tra il 1949 ed il 1971, grazie a un ufficio speciale nascosto nei meandri amministrativi dell’azienda e con un organico di 31 “accertatori” a tempo pieno. Una trama in buona parte oscura, che nei suoi contorni più inquietanti incrocerà persino personaggi coinvolti nella Loggia P2 di Licio Gelli. Anche la vita sessuale, soprattutto delle donne, era oggetto di rapporti riservati e di vere e proprie diffamazioni morbose: “Trattasi di donna giovane e avvenente – per esempio – ma di moralità alquanto discussa. Le sue relazioni con uomini sono notorie, ed hanno suscitato sfavorevoli commenti”.
I rinviati a giudizio furono 50, per la maggior parte (36) condannati in primo grado dal Tribunale di Napoli e poi salvati dalla prescrizione. Il processo era finito in Campania perché il procuratore generale di Torino, Giovanni Colli, aveva sollevato la legittima suspicione: tra le altre motivazioni, ci fu anche quella che non era possibile processare i massimi dirigenti della Fiat, e cioè di un complesso industriale che dava lavoro e benessere a tutta la nazione, nella loro città con il rischio di manifestazioni di massa e violenze.
Bianca Guidetti Serra, una degli avvocati di parte civile per i sindacati, non riuscì a ottenere che il dibattimento si potesse svolgere nella stessa Torino nella quale le schedature erano state raccolte per 22 anni. Su quelle vicende scrisse un libro, pubblicato da Einaudi, Le schedature Fiat: brani di quelle pagine saranno lette domani nel convegno che, dalle 14,30 al Polo del ‘900 di Torino, rievocheranno quel 5 agosto 1971. Il titolo scelto dagli organizzatori (tra gli altri Franco Aloia, ex segretario della Fim-Cisl di Torino), “La città deve sapere”, ricalca quello di una grande assemblea di operai, sindacalisti, politici e cittadini che si tenne nel novembre 1971 al Teatro Alfieri.
Un tentativo per affermare che oggi “la città deve ricordare” e una riflessione che coinvolge anche il mondo dell’informazione. Troppo spesso dimentica, nel rievocare la Fiat che fu o gli anniversari dell’Avvocato, le storie di “Mamma Fiat” che invadeva “le vite degli altri”. E che non aveva fatto i conti, però, con un giovane pretore cui non importava delle “pietre bianche” e anche di quelle “nere”.