Fine vita, proposte di emendamento o referendum

L’attuale testo sul fine vita “presenta discriminazioni e lungaggini, in particolare su condizione del malato, tempistiche, cure palliative, obiezione di coscienza”. Lo sostiene l’associazione Coscioni, che ha presentato online una proposta di emendamenti “ritenuti indispensabili perché la legge in questione sia utile e rappresenti, al contrario del testo attuale, un passo avanti rispetto allo scenario attuale”.

“Per la prima volta il tema del suicidio assistito arriva in plenaria dove avrà inizio la discussione sul testo – dichiarano Marco Cappato e Filomena Gallo – In particolare si rende indispensabile eliminare la discriminazione nei confronti dei malati che non sono tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale (l’esempio più diffuso è quello dei malati terminali di cancro)” che con la formulazione attuale non potrebbero accedere al suicidio assistito, “e fissare tempi certi per la risposta ai malati, affinché anche con la legge, persone come Mario non debbano attendere oltre 16 mesi per avere il via libera”. L’associazione chiede anche di rivedere le norme sulle cure palliative, che “diventerebbero un trattamento sanitario obbligatorio” perché chi prima non le rifiuta non può accedere e viceversa. Va poi semplificata la procedura che prevede ora “dieci passaggi senza alcuna garanzia di risposta in tempi determinati” ed eliminati gli “elenchi” fissi dei medici obiettori.

Se queste proposte “non dovessero rientrare in un’ipotetica legge, saranno gli italiani con il referendum della prossima primavera a consentire il superamento di tutta questa serie di limitazioni previste dall’attuale testo al ribasso, come anche l’eutanasia attiva”.

1971, le schedature di “Mamma Fiat”

Poteva accadere di tutto nella giustizia italiana dei primi Anni 70 del secolo scorso. Quella dei capi degli uffici giudiziari che badavano soprattutto ai potenti e non sopportavano, invece, chi mostrava indipendenza e coraggio.

Poteva persino capitare che, la mattina dell’8 agosto 1971, un “alto papavero” del Palazzo di Giustizia di Torino (magari un galantuomo, per altri versi, ma un burocrate e un posapiano) chiamasse al telefono un giovane pretore penale e lo apostrofasse così: “L’hai fatta davvero grossa questa volta. E non dimenticare che ciascuno di noi, magistrato, si porta dietro un sacchetto con le pietre bianche e un altro con le pietre nere. Quando sarà ora di un incarico o di uno scatto di carriera, si conteranno le pietre. E se prevarranno quelle nere…”.

Il reprobo, il magistrato che aveva già collezionato, a sentire quel collega e superiore, la più pesante “pietra nera” della sua carriera, si chiamava e si chiama Raffaele Guariniello. Tre giorni prima, il 5 agosto, a mezzogiorno in punto aveva cominciato a guidare la perquisizione degli uffici semi deserti dei Servizi Generali della Fiat, in quel palazzo di Corso Marconi che, per decenni, sarebbe stato il simbolo della grande fabbrica subalpina, usato addirittura nei titoli e negli articoli di giornale per non ripetere troppe volte la sigla dell’azienda automobilistica. Nessuna stanza fu risparmiata: neppure quella di Gianni Agnelli, l’Avvocato, quasi il “sancta sanctorum” del capitalismo italiano.

Ma che cosa era mai accaduto nella città della Mole, due anni dopo l’Autunno Caldo (di un 1969 conclusosi, proprio il 12 dicembre di 52 anni fa, con la Strage di Piazza Fontana) e a poco più di 12 mesi dall’approvazione dello Statuto dei Lavoratori? Una vicenda che è forse la peggiore nell’ultracentenaria storia della Fiat e del suo connubio con la famiglia Agnelli. L’estremo spingersi, oltre le colonne d’Ercole della lealtà e del lecito, in quel welfare paternalistico e avvolgente che Giorgio Bocca per primo aveva battezzato “Mamma Fiat”: la mutua interna, quando il Servizio sanitario nazionale non esisteva ancora, le colonie e i pacchi di Natale per i figli dei dipendenti, i fiori alle mogli per la nascita dei figli, le auto in dotazione e da vendere dopo sei mesi, il circolo interno dei donatori di sangue, la squadra di calcio per il tifo degli immigrati meridionali, il giornale quasi monopolista a Torino (“È come una grande caserma e in caserma chi può stangare il sottoposto si consola delle stangate dei superiori – scriveva Bocca – e si convince, come sotto la naia, che una somma di violenze e sofferenze magari cretine, ma sopportate perché fanno parte dell’impresa comune, del capitale accumulato, delle tradizioni consolidate, tutto sommato sono una cosa buona”).

Fu chiamato prima lo scandalo e poi il processo delle “Schedature Fiat”. Perché quel giorno, Guariniello trovò 357.077 dossier messi assieme da “Mamma Fiat” per catturare le esistenze private, le idee e i diritti inviolabili dei suoi dipendenti. Tutto era cominciato con una causa di lavoro, avviata qualche mese prima da un certo Caterino Ceresa appena licenziato da Corso Marconi. Al secolo semplice “fattorino”, in realtà “spia” in un sistema che le sue prime rivelazioni delinearono sin dall’inizio: “Sono stato assunto nel 1953 per informare sulle qualità morali, i trascorsi penali e la rispettabilità delle persone con le quali la società stessa era o doveva entrare in relazione”.

Pochi giorni dopo la perquisizione, toccherà all’Unità e poi alla Gazzetta del Popolo, l’altro giornale di Torino, raccontare quella storia rompendo il silenzio dell’informazione. Sul giornale del Pci, Diego Novelli, giornalista e futuro “sindaco rosso” della città, pubblicò la notizia che alcuni dirigenti della Fiat erano indiziati di reato, accusati di aver corrotto soprattutto i vertici torinesi della Polizia e dei Carabinieri per costruire un archivio sulla vita privata e sull’appartenenza politica di centinaia di migliaia di dipendenti e cittadini: schedature realizzate tra il 1949 ed il 1971, grazie a un ufficio speciale nascosto nei meandri amministrativi dell’azienda e con un organico di 31 “accertatori” a tempo pieno. Una trama in buona parte oscura, che nei suoi contorni più inquietanti incrocerà persino personaggi coinvolti nella Loggia P2 di Licio Gelli. Anche la vita sessuale, soprattutto delle donne, era oggetto di rapporti riservati e di vere e proprie diffamazioni morbose: “Trattasi di donna giovane e avvenente – per esempio – ma di moralità alquanto discussa. Le sue relazioni con uomini sono notorie, ed hanno suscitato sfavorevoli commenti”.

I rinviati a giudizio furono 50, per la maggior parte (36) condannati in primo grado dal Tribunale di Napoli e poi salvati dalla prescrizione. Il processo era finito in Campania perché il procuratore generale di Torino, Giovanni Colli, aveva sollevato la legittima suspicione: tra le altre motivazioni, ci fu anche quella che non era possibile processare i massimi dirigenti della Fiat, e cioè di un complesso industriale che dava lavoro e benessere a tutta la nazione, nella loro città con il rischio di manifestazioni di massa e violenze.

Bianca Guidetti Serra, una degli avvocati di parte civile per i sindacati, non riuscì a ottenere che il dibattimento si potesse svolgere nella stessa Torino nella quale le schedature erano state raccolte per 22 anni. Su quelle vicende scrisse un libro, pubblicato da Einaudi, Le schedature Fiat: brani di quelle pagine saranno lette domani nel convegno che, dalle 14,30 al Polo del ‘900 di Torino, rievocheranno quel 5 agosto 1971. Il titolo scelto dagli organizzatori (tra gli altri Franco Aloia, ex segretario della Fim-Cisl di Torino), “La città deve sapere”, ricalca quello di una grande assemblea di operai, sindacalisti, politici e cittadini che si tenne nel novembre 1971 al Teatro Alfieri.

Un tentativo per affermare che oggi “la città deve ricordare” e una riflessione che coinvolge anche il mondo dell’informazione. Troppo spesso dimentica, nel rievocare la Fiat che fu o gli anniversari dell’Avvocato, le storie di “Mamma Fiat” che invadeva “le vite degli altri”. E che non aveva fatto i conti, però, con un giovane pretore cui non importava delle “pietre bianche” e anche di quelle “nere”.

 

“Fw”, come Joyce si fece musicista e poi pure pittore

 

ELEMENTI DI STILISTICA COMICA

Da qualche settimana stiamo curiosando fra gli stilemi divertenti di Finnegans Wake. Joyce coniò un termine che descrive alla perfezione questo romanzo lisergico: Meandertale, racconto-meandro primitivo. Meandertale è al contempo una sciarada (meander + tale) e un pun di quasi-omofonia (Meandertale/Neanderthal). FW è primitivo come l’inconscio, di cui mima il linguaggio. Nella puntata di oggi, un sentiero analogico ci porterà dagli esperimenti letterari di Joyce a quelli musicali di Schönberg e a quelli icono-plastici di Duchamp. Niente paura, seguitemi.

FW, dicevamo, è il prodotto di riscritture successive. La prima versione del dialogo fra san Patrizio e l’arcidruido Berkeley cominciava così: “The archdruid then explained the illusion of the colorful world.” Dopo tre stesure diventò questa: “He drink up words all too much illusiones of hueful panepiphanal world of Lord Joss”. La versione pubblicata è questa: “He drink up words, scilicet, tomorrow till recover will not, all too many much illusiones through photoprismic velamina of hueful panepiphanal world spectacurum of Lord Joss”. La funzione referenziale del linguaggio viene violentata, e l’effetto finale è quello descritto da Beckett (1929): un testo che non “riguarda” qualcosa, ma “è” quel qualcosa. FW andrebbe letto a voce alta, come si leggevano i testi nell’antichità (potete ascoltarlo qui: bit.ly/3bSs6Zq; oppure, direttamente dalla voce del padrone, qui: bit.ly/300xaIx). Il suono delle parole-valigia e dei pun sprigiona sensi altri rispetto alla parola scritta: la lettura di FW è l’esecuzione di uno spartito. Di quale musica?

Nel sistema tonale, la musica tende a tornare all’accordo di tonica (punto di riposo, Cooke 1959: per esempio, Do nella tonalità di Do maggiore). Melodia e armonia danno la sensazione di un discorso creando una tensione dinamica (allotopia musicale, che non è semica, ma armonica: è il contrasto rispetto alla tonica) e poi sciogliendola, per esempio col ritorno all’accordo di tonica tramite la cadenza autentica (V I, ovvero Sol7 Do, nella tonalità di Do maggiore). La musica tonale è analoga al “dramma ben fatto” ipotizzato da Eugène Scribe nell’800, che tramite il completo ritorno all’ordine non lascia nulla di irrisolto nell’intreccio; e ai romanzi della stessa epoca, dotati di unità psicologica e armonia compositiva. Verdi diceva: “Torniamo all’antico, sarà un progresso”. Il ribelle Joyce, attingendo da Sterne, Swift, Rabelais, Dante (Denti Alligator), e da miti, leggende, filastrocche infantili e ballate popolari, compone allora FW, un grande scherzo letterario dove tutto è dissonanza, come nella dodecafonia, la novità musicale del periodo (bit.ly/3wP9h2X, bit.ly/3F0qrxr).

Con l’emancipazione della dissonanza, l’allotopia si fa sistema (bit.ly/3EODCS5): spariscono cadenze e progressioni, cioè le sequenze di accordi che strutturano la musica tonale e rendono possibile il gioco musicale di attese, sorprese e ninnenanne (per esempio centinaia di canzoni sono rese orecchiabili dalla progressione armonica del Canone in re maggiore di Pachelbel: bit.ly/ 3HTawTQ, bit.ly/3F6KEBQ, bit.ly/3c8MINf, bit.ly/3qBz4uh, bit.ly/3Hew8d0, bit.ly/3omVDQO, bit.ly/3ndLzKs, bit.ly/3kBlPWC, spoti.fi/3qFSjmy). La musica è esercizio del pensiero logico e percezione estetica (Lévi-Strauss, 1964): l’accordo celeberrimo del Tristano e Isotta (bit.ly/3C9kCff) è un’evoluzione della sintassi tonale, mentre l’allotopia sistematica fa sparire ogni logica, sicché la musica cosiddetta atonale è musica statica, come la superficie di un lago che balugina di riflessi. Non a caso Schönberg arriverà a ipotizzare una melodia di timbri, intendendo con “timbro” l’aspetto acustico globale dell’aggregato sonoro; e Varèse definirà la musica “suono organizzato” (bit.ly/3kATeRz).

Nella musica tonale, il senso di un intervallo melodico, per esempio sol mib, dipende dal contesto armonico. Senza sistema tonale gli intervalli smarriscono il senso, sparisce il discorso, e nella forma prende rilievo la texture sonora: il significante giganteggia sul significato. In altri termini, l’opera si ferma alla flagranza, alla costituzione d’oggetto (Brandi, 1957). Limitarsi alla flagranza è la grande invenzione del modernismo: il suo obiettivo era anti-metafisico, anti-idealistico. Allo stesso modo, certe forme pittoriche (collage, astrattismo, décollage, action painting) tendono alla scultura: non dicono, sono. È quello che succede a FW, ed è quello che intendeva Beckett. FW balugina, statico, di significati, di ritmi e di timbri; come la musica atonale, non può che ripetere le sue parti (compresa la frase classica di Quinet, variandola così: “Since the bouts of Hebear and Hairyman the cornflowers have been staying at Ballymun, the duskrose has choosed out Goatstown’s hedges, twolips have pressed togatherthem by sweet Rush, townland of twinedlights…”), e se stesso (a long the riverrun). Un testo metamorfico sulla morte ciclica dell’umanità e dei suoi eroi assume il punto di vista della natura indifferente: la ripetizione senza fine di FW è una parodia della catarsi tragica, come lo sono la scivolata sulla buccia di banana, la caduta di Humpty Dumpty e di Tim Finnegan, e i lapsus. “Una ripetizione costantemente efficace, cioè una non ripetizione”, per dirla con Boulez (1951).

Limitandosi alla flagranza, Duchamp creò l’arte concettuale, l’arte del discorso sull’arte: scandalizzò con l’esibizione di oggettistica industriale, fra cui un orinatoio di ceramica rovesciato, intitolato “Fontana” e firmato “R.Mutt 1917” (bit.ly/ ELDh2s); arte della latrina che verrà giudicata l’opera moderna più influente di tutti i tempi (bbc.in/ 3wkm39r). Nel 1962 Duchamp scrive a Hans Richter: “Gli ho gettato in faccia il portabottiglie e l’orinatoio come una provocazione, ed ecco che loro ne ammirano la bellezza estetica.”

La settimana prossima ci imbucheremo a parecchi vernissage. Venite già mangiati. Hasta luego.

(85. Continua)

 

Grande successo per il nuovo progetto di aiuto ai migranti

In meno di 24 ore, il nuovo progetto della Fondazione Fatto Quotidiano, raccontato ieri sul nostro giornale, ha raggiunto con un’adesione entusiastica gli obiettivi desiderati. La raccolta fondi, in collaborazione con la Croce Rossa Italia comitato Val di Susa, che da anni assiste i migranti (oltre mille solo a novembre) che sfidano il freddo e il gelo per valicare il confine sperando in un futuro migliore, era finalizzata ad acquistare 500 kit di assistenza termica e 1.000 pasti e bevande autoriscaldanti. Grazie ai tanti che hanno donato, in un giorno abbiamo doppiato il primo obiettivo e raggiunto il secondo! Grazie!

Rai, sciopero dei giornalisti il 29 dicembre

Non solo Cgil e Uil scioperano contro il governo Draghi, anche i giornalisti Rai contro l’ad Carlo Fuortes. L’Usigrai, il sindacato dei giornalisti Rai, ha indetto 24 ore di sciopero il 29 dicembre: tutti i tg e i giornali radio andranno in onda senza servizi audio/video e, forse, in forma ridotta. Lo sciopero arriva dopo la decisione del vertice di tagliare (dal 9 gennaio) l’ultima edizione dei tg regionali, quella notturna di 4 minuti in onda su Rai3 all’interno di Linea Notte, senza aprire prima una trattativa col sindacato. Il taglio riguarda anche un’edizione di Rai Sport. “Siamo stati convocati solo a cose fatte, con un modus operandi che va contro le norme aziendali e mina il ruolo del sindacato”, fa sapere l’Usigrai, che ha pure denunciato l’ad per comportamento anti-sindacale. Fuortes ha provato a intavolare una trattativa poiché “nulla è ancora stato deciso”, ma l’Usigrai gli ha rinfacciato di averlo comunicato prima in Cda e poi in Vigilanza. Il 16 ci sarà un Cda sulle direzioni di genere, forse il 21 sulle vicedirezioni del Tg1.

Messina, manifesti contro no vax: “No in casa a Natale”

Tra le tante applicazioni del Super Green Pass, a Messina ci si è spinti oltre i limiti dell’immaginazione. Non pago degli obblighi vigenti, la struttura anti-Covid ha ideato una “curiosa” estensione del certificato: a Natale si entra solo in casa di vaccinati. Per ora è il motto di una campagna di affissioni sui muri della città, ma il rischio è che qualcuno prenda la cosa seriamente.

Fatto sta che da qualche giorno in città sono comparsi alcuni cartelloni che dovrebbero sensibilizzare la popolazione a vaccinarsi. Si vedono due persone anziane, una adulta e due bambini con dei regali in mano. In basso, una scritta: “A Natale non entriamo in casa di non vaccinati”. Solo una delle due bimbe, immortalata con un’espressione che sembra inorridita, ben raffigura il sentimento provocato dallo slogan.

Una frase, quella sui non vaccinati, apparsa fin da subito parecchio discriminatoria tanto che diverse decine di persone sui social hanno protestato con il Commissario per l’emergenza Covid di Messina, Alberto Firenze.

È il suo Ufficio ad aver diffuso i manifesti, massacrati anche dall’ex consigliere comunale Santi Daniele Zuccarello: “Credo che non ci sia più nulla da aggiungere! Se tutto questo non fa sdegno a tutta la popolazione pro o contro, siamo messi male!”.

Marò, un’inchiesta monca. Prove indiane inutilizzabili

“Dieci anni di fango”. Così Il Giornale due giorni fa titolava la notizia della richiesta di archiviazione della Procura di Roma per i due fucilieri di Marina, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, in merito alla morte, il 15 febbraio 2012, dei due pescatori indiani Valentine Jalstine e Ajesh Binki, al largo del Kerala. I militari erano in missione antipirateria a bordo della nave mercantile italiana “Enrica Lexie”. In realtà, l’insufficienza di prove riguarda un’inchiesta che nei fatti non si è potuta fare. Le prove, per le autorità indiane, esistono e sono state fornite all’Italia attraverso rogatoria, ma i pm italiani non hanno potuto prenderle in considerazione nella loro indagine, perché in parte “inutilizzabili” e in parte “irripetibili”, come spiegato nella richiesta dei pm.
Fra i documenti ci sono i referti di autopsia e le perizie balistiche, ma nuovi esami sono impossibili perché i corpi delle vittime sono stati cremati. Irripetibile anche l’analisi sulla carcassa del peschereccio St. Anthony, ormai distrutto. A convincere le autorità indiane a trattenere in detenzione preventiva i due marò nel 2012, fu una perizia svolta sulle pallottole che, secondo il laboratorio scientifico della polizia indiana, coincidevano con quelle in dotazione ai fucilieri. Risultato sovvertito tre anni dopo quando, accertato che la Enrica Lexie si trovava in acque internazionali, il Tribunale del Mare di Amburgo prese atto di un nuovo referto di autopsia, secondo cui invece i proiettili erano diversi da quelli in dotazione ai militari. Così, il pm romano Erminio Amelio ha potuto lavorare quasi esclusivamente sull’inchiesta sommaria svolta dal ministero della Difesa e sulle nuove testimonianze. L’indagine interna avrebbe accertato il rispetto delle regole d’ingaggio da parte della scorta militare all’avvistamento del St. Anthony. I testimoni ascoltati dalla Procura hanno così confermato che le vedette quel giorno avvistarono a circa 2 miglia di distanza un’imbarcazione “non identificata” (senza nome e bandiera esposta), producendo segnalazione luminosa come avvertimento. Sotto le 1000 yard, avrebbero quindi visto uomini a bordo del peschereccio che imbracciavano armi e i parabordi calati ai lati della nave, segnali che potevano “ragionevolmente” lasciare pensare a un pericolo di abbordaggio. I militari avrebbero quindi sparato tre raffiche di proiettili in acqua: una a 500 yard, una seconda a 300 yard e una terza a 100 yard. Il temuto attacco pirata però poi non c’è stato.
Sulla base di un’indagine per forza di cose parziale (e non per responsabilità dei pm), nella richiesta di archiviazione i magistrati hanno ritenuto che non vi fossero prove sufficienti per affermare che i marò abbiano sparato contro il St. Anthony, uccidendo i due pescatori. Pur volendo contestare questa lettura, secondo i magistrati i militari avrebbero comunque rispettato tutte le regole d’ingaggio, in una zona ad alto rischio pirateria, motivo per cui ci sarebbero tutti gli estremi della legittima difesa. Al massimo, per gli inquirenti si tratterebbe di omicidio colposo, reato non procedibile perché ormai prescritto. Escluso dai pm l’omicidio volontario, come invece sostenuto dalle autorità indiane. Restano i due morti, stavolta indiani.

Usa Trump e il piano dell’ex ufficiale per bloccare l’elezione di Joe Biden

Come spesso accade nelle vicende che ruotano attorno all’ex presidente Donald Trump anche quella del “piano” per bloccare la convalida dell’elezione del rivale democratico Joe Biden resta a metà tra la farsa e il dramma. Si trattava di proclamare lo stato di emergenza nazionale. Su questo l’ex capo dello staff della Casa Bianca, Mark Meadows, fornisce notizie a tratti tragicomiche. Meadows è tra i funzionari che la commissione d’inchiesta sull’assalto a Capitol Hill, il 6 gennaio, da parte degli ultras di Trump, vorrebbe ascoltare. Lui un giorno dice che vuole collaborare, il giorno seguente cambia idea. Ora c’è la storia del piano, che Meadows tramite i suoi avvocati fa sapere di aver ricevuto via email: un lavoro elaborato con PowerPoint. Il documento si intitola “Frode elettorale, Interferenze straniere e Opzioni per il 6 gennaio”. Meadows afferma di non averlo mai preso in considerazione, scagionando il suo ex presidente. A elaborare il dossier è stato un ex ufficiale, Phil Wardon che è anche uno dei personaggi più solerti della campagna “Stop the steal”, fermare il furto della presidenza. Questa campagna Trump la prese sul serio eccome, arringando e tempestando di messaggi i social sul fatto che i democratici gli avevano rubato la vittoria. Ma su questo The Donald non ha mai portato una prova.

Il Cile di Zia Pikachu: “Scrivo la Costituzione che difenda gli ultimi”

Se suo figlio Diego, 7 anni, una sera del 2019, non avesse acquistato 700 dollari di gadget tutti gialli e tutti ispirati al manga giapponese Pikachu, oggi Giovanna Grandon non starebbe per riscrivere la Costituzione del suo Paese: il Cile. L’ex autista di autobus dice che quel giorno “stava mangiando, distratta, con degli amici: non sapevo nemmeno che mio figlio fosse capace di comprare cose online. L’ho scoperto quando sono cominciati ad arrivare molti pacchi dalla Cina, pochi giorni prima della più grande marcia di protesta della storia del mio Paese”.

Giovanna, è stato un caso che quel 25 ottobre del 2019, quando un milione di cileni sono scesi in strada contro l’aumento dei prezzi della metro di Santiago, lei abbia indossato il costume di Pikachu.

Quel giorno non trovavo nient’altro per “fare casino”, e decisi di usare proprio quel costume giallo comprato da Diego: poi è accaduto quel che è accaduto.

Molti video virali dopo, lei è divenuta celebre in tutto il Cile come “Zia Pikachu” e ora i suoi compatrioti hanno scelto lei per riscrivere la Costituzione. Eletta nell’Assemblea costituente nel maggio 2021, ha detto: “Ringrazio chi è sceso in piazza, è stato torturato, ha perso la vista”.

Tutte le rivoluzioni hanno un costo. Contro di me e molti altri la polizia ha usato idranti, spray urticante e proiettili di gomma. Molti compañeros de lucha , compagni di lotta, sono morti per mano delle forze di sicurezza, altri sono stati colpiti agli occhi: alcuni hanno perso parzialmente la vista, altri l’hanno persa del tutto. Per questo, quando ho vinto, ho chiesto di tenerli sempre a mente: è grazie a loro che oggi possiamo riscrivere la legge.

Lei adesso è impegnata, assieme agli oltre duecento delegati eletti, a riscrivere il testo stilato negli anni ‘80 dai tecnocrati del dittatore Augusto Pinochet.

Il Cile si è svegliato e ha detto no màs: basta! Ho una grande responsabilità nei confronti degli elettori che mi hanno scelto per adempiere a questo compito: formare una nuova Costituzione capace di riflettere le esigenze sociali di tutti, non di una fascia ristretta della popolazione. Il nostro testo costituzionale attualmente in vigore è stato elaborato voltando le spalle ai cittadini ordinari, facendo prevalere, per esempio, i diritti delle aziende su quelli dei lavoratori. Siamo a stati a lungo resi indifesi e incapaci di proteggere le nostre risorse naturali, svendute alle aziende ai danni dell’ambiente. Oggi ci sono città in Cile dove le case non hanno acqua perché viene tutta destinata alle fabbriche.

Lei non voleva nemmeno candidarsi: poi l’hanno convinta a farlo.

Da giovane non ho potuto proseguire gli studi, non mi sentivo capace, ma moltissime persone mi hanno avvicinato dicendomi che la mia “esperienza di vita” era necessaria: c’erano già tanti professionisti colti nella delegazione, qualcuno doveva rappresentare il “chileno comùn y corriente”, il cileno ordinario.

Ancora prima di diventare maggiorenne, vendeva per strada scarpe e cd. Poi è diventata autista dello scuolabus locale. Ha raccontato all’Economist che l’ha intervistata che ci sono stati mesi in cui è stato difficile anche pagare la bolletta della luce.

La mia vita si può riassumere con la parola “sacrificio”. Quando mi sono sposata in segreto, da giovanissima, con mio marito Jeorge, non avevamo nulla, se non una grande sfida davanti a noi. A volte abbiamo lasciato i nostri figli da soli anche per Natale: dovevamo lavorare durante le feste per ripagare i debiti. Un nuovo testo costituzionale deve garantire diritti fondamentali a tutti per vivere degnamente nel nostro Paese, non solo sopravvivere come siamo costretti a fare con le attuali leggi.

Lei è una donna di Penalolen. In lingua mapuche vuol dire “amichevole luogo d’incontro”, è anche uno dei quartieri più poveri di Santiago.

Ho vissuto qui tutta la vita, qui sono cresciuti i miei 4 figli e 2 dei miei nipoti: loro se ne andranno, ma io non aspiro al cambiamento, amo questo posto, trascorrerò la mia vita qui.

Il prossimo 19 dicembre il Cile sceglierà il suo nuovo presidente: lo scontro è tra Kast, erede di Pinochet, e il barbudo Boric, radicale di sinistra. Ci vuole un altro manga per salvare Santiago?

Ci vuole uguaglianza. Al secondo turno delle prossime urne presidenziali non si può rimanere neutrali e io sostengo Boric. Non bisogna dare spazio al fascismo del candidato di destra, che ha per modello Pinochet e usa la stessa paura che lui instillava per guadagnare consenso. Il futuro del Cile è di tutti, non di una fetta d’élite. Questo Paese ha sofferto troppo durante gli anni della dittatura, sulla pelle dei cileni sono rimaste cicatrici, ma è ora di lasciarci alle spalle il passato, una volta per tutte.

Banksy, una t-shirt dedicata ai “4 di Bristol” processati per i danni alla statua di Colston

“La prossima settimana le quattro persone incriminate per aver rovesciato la statua di Colston a Bristol andranno a processo. Ho creato una maglietta-ricordo per celebrare l’occasione. […] I guadagni andranno interamente agli imputati, cosi possono farsi una birra”. Sono 30 anni che Banksy, artista inglese attivo dagli anni Novanta e mai identificato, rende le sue opere espressione di attivismo politico, e le mette al sostegno di cause minoritarie o campagne di protesta. Stavolta il supporto va ai quattro ventenni che il 7 giugno 2020, durante una manifestazione per Black Lives Matter a Bristol seguita all’omicidio negli Stati Uniti di George Floyd da parte di un agente di polizia, hanno divelto dal basamento e gettato nel porto di Bristol la statua di Edward Colston, benefattore della città, sì, ma grazie al commercio di schiavi africani che lo rese ricchissimo nella seconda metà del Seicento. Bristol è tuttora piena di omaggi, testimonianze, monumenti ed edifici legati a quell’epoca, e l’azione degli attivisti di Black Lives Matter aveva posto il problema della preservazione di una memoria divisiva: vanno ricordate tutte le figure storiche, o il loro contributo va rivisto alla luce della violenza e sopraffazione grazie a cui sono diventati ricchi e famosi? È il momento di una revisione radicale del loro ruolo storico o bisogna ricordare a prescindere, perché la memoria non va cancellata ma riesaminata criticamente? Banksy su questo non si esprime direttamente, ma la maglietta grigia che ieri ha messo in vendita a 25 sterline – è andata esaurita in poche ore – raffigura il basamento vuoto, a terra un cartello di protesta. Sopra, la scritta Bristol. Una istantanea del dopo, senza Colston. Di fatto, è ancora così, perché il sindaco di Bristol, dopo il fatto, ha aperto una pubblica consultazione sul destino del monumento, ora in mostra al Museo cittadino, chiedendo alla cittadinanza come sostituirlo. E scontrandosi con la ministra degli Interni Priti Patel, che aveva condannato la rimozione come ‘assolutamente inaccettabile’ e definito i manifestanti mob, massa di violenti. Non a caso Patel ha introdotto nell’ampia riforma legislativa dei poteri di polizia e magistratura di cui è relatrice, in dirittura d’arrivo in Parlamento, un emendamento che aumenta la detenzione per la vandalizzazione di monumenti dai 3 mesi a un massimo di 10 anni.