Lo hanno firmato ieri in un albergo di Roma: un patto tra i sindaci di alcune delle principali città del Mediterraneo per riportare al centro della discussione sull’immigrazione “i valori democratici e il rispetto dei diritti umani in Europa”. A siglarlo sono stati la sindaca di Barcellona Ada Colau, il sindaco di Siracusa Francesco Italia, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, il sindaco di Napoli Luigi de Magistris, il sindaco di Bologna Virginio Merola, il sindaco di Latina Damiano Coletta, l’assessore alle Politiche sociali del Comune di Milano Pierfrancesco Majorino, la sindaca di Madrid Manuela Carmena e quello di Saragozza, Pedro Santisteve. Alla firma del manifesto erano presenti anche Luigi Manconi, presidente dell’associzione A Buon Diritto, e Oscar Camps, il fondatore della Ong Open Arms. I sindaci italiani, come noto, sono quelli che hanno annunciato forme di disobbedienza civile, ovvero la volontà di disapplicare le nuove norme su sicurezza e immigrazione volute dal ministro Matteo Salvini. L’incontro arriva a poche ore dall’incontro, nella serata di venerdì, tra le sindache di Madrid e Barcellona con Papa Francesco, a cui ha partecipato anche Oscar Camps.
Oggi Abruzzo, domani Europa. Inizia la sfida Salvini-Di Maio
“Tanto in Abruzzo vince pure ’n manico de scopa del centrodestra”. Il colorito pronostico è stato attribuito a Marco Marsilio, candidato governatore del trio Salvini-Meloni-Berlusconi. Una profezia pronunciata a dicembre, secondo la ricostruzione maliziosa di Benigno D’Orazio, ex consigliere abruzzese di Fratelli d’Italia passato armi e bagagli al centrosinistra di Giovanni Legnini. Che la frase sia stata davvero pronunciata o meno, resta comunque il termometro dell’ottimismo nelle truppe salvinian-meloniane: nelle elezioni di oggi il centrodestra parte da grande favorito.
Malgrado questo, i sondaggi che hanno premiato Marsilio per tutta la campagna elettorale ora non lasciano margini tranquillizzanti: la candidata del Movimento Cinque Stelle Sara Marcozzi e Legnini, l’avvocato – ex vicepresidente del Csm – scelto dal Pd, non sarebbero poi così distanti.
La partita, insomma, è aperta. Ed è decisiva: in Abruzzo inizia lo scivolo elettorale che passa per la Sardegna (dove si vota il 24 febbraio) e arriva dritto alle Europee di fine maggio: una serie di appuntamenti che può spostare gli equilibri politici nazionali.
Non a caso l’Abruzzo nelle ultime settimane è stato meta di frequenti pellegrinaggi politici. I tre leader del centrodestra hanno girato la Regione separatamente ma si sono fatti anche fotografare e intervistare insieme. I risultati che arriveranno stasera potrebbero confermare che la coalizione nel voto locale è quasi inarrestabile. E siccome il perimetro del centrodestra tende a coincidere sempre più con quello della Lega – nonostante Marsilio sia un uomo di Fratelli d’Italia – le elezioni abruzzesi potrebbero diventare un nuovo tassello nella costruzione dell’egemonia di Salvini.
Il “Capitano” da una parte ha caricato l’importanza del voto facendo pesare la sua presenza fisica in Regione per tutta la campagna elettorale (è stato in Abruzzo nell’ultimo mese e mezzo addirittura 7 volte), dall’altra nelle sue dichiarazioni pubbliche prova a tenere bassa la temperatura: “Andiamo insieme agli altri partiti del centrodestra per dare un governo all’Abruzzo ma non è un preludio ad una nuova coalizione politica – ha ripetuto anche ieri – Se do la mia parola, la mia parola vale anche oltre i sondaggi”.
Al di là della sua parola, c’è la politica: una vittoria leghista avrebbe chiare conseguenze sulla percezione dei rapporti di forza con i Cinque Stelle. È il motivo per cui anche il Movimento ha investito molto sull’appuntamento abruzzese, schierando il tandem Di Maio-Di Battista. La candidata grillina è la stessa di cinque anni fa: nel 2014 Sara Marcozzi si fermò al 21,4%. Stavolta spera di sfruttare il traino delle ultime Politiche, quando i grillini sfiorarono il 40%.
Poi c’è Legnini. Il Pd – che ha governato la Regione fino alle dimissioni di Luciano D’Alfonso – si è nascosto per tutta la campagna elettorale: non si è visto praticamente nessuno dei leader nazionali. L’ex magistrato ha fatto da solo. Tutto sommato, visto l’attuale appeal del partito, potrebbe essergli andata meglio così.
Marco Marsilio
Ex missino vicino ad Alemanno, di abruzzese ha solo i genitori
Marco Marsilio, candidato di un centrodestra che negli enti locali torna allo schieramento classico con Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega, è forse il più pacato nei toni e nella retorica dell’eloquio tra i suoi coetanei della destra sociale romana. Sì, perché di abruzzese Marsilio ha le origini familiari ma, a differenza degli altri due sfidanti più accreditati, è nato a Roma dove ha speso buona parte della sua attività politica. Marsilio muove i suoi primi passi in politica negli anni Ottanta nelle formazioni giovanili missine, poi dal 1993 al 1997 è consigliere circoscrizionale nel Municipio del centro storico mentre dal 1997 al 2008 viene eletto in Consiglio Comunale tra i banchi di Alleanza Nazionale. Sono gli anni di un’opposizione priva di grande visibilità alla seconda giunta capitolina di Francesco Rutelli e alle due di Walter Veltroni. Nel 2008 arriva il salto in Parlamento, alla Camera con il Popolo delle Libertà, mentre alle ultime elezioni è approdato in Senato, con Fratelli d’Italia.
Durante anni di Gianni Alemanno in Campidoglio il nome del candidato governatore è stato accostato alla parentopoli Atac su cui ha indagato la Procura di Roma (in primo grado sono stati condannati 4 ex manager dell’azienda) dato che tra i nomi degli assunti era presente anche quello della moglie.
Oggi Marsilio si candida per “riportare serenità nelle famiglie abruzzesi” per un Abruzzo “che cresca, come le Regioni governate dal centrodestra”.
Marco Managò
Sara Marcozzi
Volto emergente del Movimento ma già sconfitta cinque anni fa
I capelli biondi, l’aspetto gradevole e il rossetto sempre sulle labbra le hanno guadagnato il soprannome ironico – ovviamente copyright della stampa che si proclama “antipopulista” – di “Chiara Ferragni del teatino”. Sara Marcozzi invece nel Movimento 5 Stelle non è una figurina. Compagna di Giorgio Sorial (ex deputato, recuperato da Luigi Di Maio come vice capo di gabinetto al ministero dello Sviluppo economico) è in ottimi rapporti con il leader grillino, che di lei si fida molto: ne sono una prova le sempre più frequenti apparizioni televisive. Marcozzi ha tutto l’aspetto di una figura che i Cinque Stelle potrebbero spendere anche sul palcoscenico nazionale, se non fosse per la regola dei due mandati (finché dura): la candidata governatrice infatti è già al secondo giro. Nel 2014 vinse le primarie online con la miseria di 346 voti, poi nella sfida per la presidenza arrivò terza, fermandosi al 21,4%. Dopo cinque anni di opposizione consiliare ci riprova: le nuove “regionarie” su Rousseau sono state un mezzo flop (ad agosto furono sospese e rinviate per un mai spiegato problema tecnico), ma la sua candidatura non è mai stata davvero in discussione (e stavolta ha portato a casa 1.032 preferenze). Formazione da avvocato, per uno strano incrocio del destino si trova a sfidare Giovanni Legnini, titolare dello studio presso cui ha svolto la pratica forense. Anche se il vero avversario si chiama Marco Marsilio. E ancora più di lui, Matteo Salvini.
Tommaso Rodano
Giovanni Legnini
Renzi lo fece eleggere al Csm ora “nasconde” il simbolo del Pd
Giovanni Legnini, candidato del centrosinistra in Abruzzo, in questi giorni vede la rimonta. Che vorrebbe dire anche un secondo posto, sufficiente per mettere in difficoltà l’alleanza di governo gialloverde. Classe 1959, abruzzese fino al midollo, ha messo su una coalizione di 8 liste, di cui 7 sono civiche e una è del Pd (ma il simbolo è nascosto). Con una continuità non esibita, ma sotterranea (e dovuta) con il suo predecessore, Luciano D’Alfonso. La sua carriera politica iniziata in un Pci mai rinnegato, prosegue nei Ds e nel Pd, sempre con un legame privilegiato con la “Ditta”, nel filone che va da Anna Finocchiaro a Giorgio Napolitano, passando per Luciano Violante. Prima senatore, si distingue per essere il “risolutore” di problemi: l’uomo che – da capogruppo in Commissione Bilancio – è in stretto contatto con il ministero dell’Economia. Durante il governo Letta diventa Sottosegretario a Palazzo Chigi, con deleghe all’Editoria e all’attuazione del Programma. Poi, con Matteo Renzi, è Sottosegretario all’Economia. Noto per parlare con tutti, i suoi rapporti con i renziani sono sufficientemente buoni da portarlo a diventare vice Presidente del Csm, eletto con i voti di Dem e FI. Renzi ha bisogno di una garanzia e lui evidentemente lo è. Tra i suoi compiti, quello di nominare decine e decine di capi delle Procure. E di tenere sotto scacco magistrati come Nino Di Matteo, Alfredo Robledo e Henry John Woodcock.
Wanda Marra
Lo Stato assente, non per Castano
Nei giorni scorsi è accaduta nel Paese una di quelle disgrazie che solo i gialloverdi sanno combinare: non è stato rinnovato il contratto ad un consulente del Mise, che da un paio di lustri seguiva i tavoli di crisi con le aziende. La mancata riconferma di Giampietro Castano ha gettato nello sconforto i commentatori più vari, compreso l’ex ministro Carlo Calenda e il sindacalista Cisl Marco Bentivogli. Castano, va detto, ha polemizzato solo sulle buone maniere: “Non è obbligatorio dare preavviso prima che scada un contratto – ha spiegato – è solo questione di cortesia…”. Altrove, invece, l’hanno presa decisamente peggio. Bentivogli, per dire, è arrivato a scomodare “l’assenza del senso dello Stato” perché “il governo del cambiamento si è trasformato in casta”. A onor di cronaca, ripercorriamo la carriera di Castano. Laurea in Economia, primi passi in Enel, poi arriva al sindacato. Dopo 23 anni di qua dal tavolo – era il responsabile Fiom, prima in Lombardia, poi nazionale – diventa direttore del personale della Olivetti, con cui aveva chiuso una trattativa, provocando lo scompiglio tra i colleghi di Ivrea. Nel 2007 arriva al Mise: l’ultimo rinnovo di contratto biennale con Invitalia, di cui Castano era consulente, porta la cifra di 131 mila euro lordi. Non male per un pensionato, che tra pochi giorni compie 75 anni. Bentivogli: anche meno.
Grillo non apprezza: “Sono madamine Sì-Tav travestite”
“Non sono sindacati dei lavoratori, sono madamine Si-Tav travestite!” scrive Beppe Grillo, postando su Facebook un’immagine del neosegretario della Cgil Maurizio Landini circondato dalle bandiere del sindacato, ieri sul palco di piazza San Giovanni a Roma. E nonostante il paragone ardito, gli utenti sembrano apprezzare il post del fondatore del Movimento 5 stelle: in un’ora e mezza i “Mi piace” superano quota 3000, le condivisioni sono più di mille e i commenti oltre 700. Sono molte le critiche ai sindacati per non aver difeso i diritti dei lavoratori e dei pensionati quando venivano varati Jobs Act e riforma Fornero. Si legge: “Erano sei anni che non scendevano in piazza uniti, miracolo italiano. E c’era pure Confindustria. Come se Mandela manifestasse coi supporter dell’Apartheid”, “Dove eravate quando furono aboliti l’articolo 18 e la legge Fornero? Vergogna”, “Siete peggio di quelli del Pd”. Stesso trattamento riservato a Landini, definito “falso” e “servo”. Ma qualcuno ricorda quando, nel 2014, l’ex segretario Fiom venne manganellato durante una carica della polizia contro un corteo di operai dell’Ast, mentre in un altro post si legge: “Orgogliosa di Landini e Cgil”.
Autonomia che vai, reddito che trovi: Trentino e Alto Adige divisi sulla “card”
L’Alto Adige si ribella al reddito di cittadinanza e pensa al ricorso alla Corta Costituzionale. Il Trentino invece lo accoglie a braccia aperte, sperando di risparmiare così qualche milione di euro. Le due province autonome si trovano all’improvviso agli antipodi nella discussione su uno dei provvedimenti bandiera del governo gialloverde.
Da un lato l’altoatesino Arno Kompatscher grida alla rivolta: “È molto meglio quello che già facciamo da noi”. Dall’altra, il consiglio provinciale trentino, da qualche mese a trazione leghista, approva una variazione di bilancio per preparare il terreno all’iniziativa nazionale.
Kompatscher è il leader della Svp, la Suedtiroler Volkspartei, e l’intento di guidare la rivolta viene presentato come una difesa dell’autonomia: “Nella nostra Provincia il reddito di cittadinanza nazionale non conviene. I nostri strumenti sono già migliori rispetto alla normativa statale, sia per quantità sia per qualità – spiega il presidente della Provincia di Bolzano –. Sono più accessibili e più semplici anche nelle procedure amministrative”.
Kompatscher sta pensando di ricorrere alla Corte costituzionale per difendere quella che secondo lo Statuto d’autonomia è una competenza primaria della provincia. Chiudendo così le porte a ogni tentativo di manovra calata da Roma. L’annuncio imbarazza la Lega che a Bolzano governa da qualche mese proprio con la Svp. Mentre dall’opposizione il Movimento Cinque Stelle altoatesino attacca Kompatscher e i suoi, definendo il welfare locale come troppo assistenzialista.
In Alto Adige c’è il cosiddetto “reddito minimo di inserimento”. È pensato per soddisfare i bisogni fondamentali di ogni individuo: alimentazione, abbigliamento, igiene e salute. Si rivolge a tutti i cittadini bisognosi, italiani o stranieri, basta che vivano in provincia di Bolzano da almeno 12 mesi. Il contributo può arrivare fino ai 600 euro e non c’è nessun obbligo di cercare un lavoro. Non solo: la Provincia dà anche un contributo per l’affitto per coloro che non sono proprietari di immobili. L’importo varia in base al reddito e al comune di residenza. Ed ancora: un altro bonus viene concesso per le eventuali spese condominiali. Tutto questo viene finanziato con fondi del bilancio della Provincia. Accedere a quelli statali porterebbe a un risparmio, ma costringerebbe gli altoatesini ad adattarsi a un sistema nuovo, meno vantaggioso.
A Trento, invece, il ragionamento è stato di segno opposto. Con una variazione di bilancio – contestata da Pd e autonomisti all’opposizione – la Lega sostituirà da aprile il reddito di garanzia trentino con il reddito di cittadinanza nazionale. La giunta provinciale spera così di risparmiare alcuni milioni di euro di fondi provinciali: i primi calcoli parlano di un massimo di 13 milioni di euro, che potrebbero essere reinvestiti poi, magari in altre misure di welfare.
Ma la novità cambia le regole, a danno soprattutto – e non è un caso – degli immigrati. Infatti per accedere al reddito di cittadinanza servono 10 anni di residenza in Italia. Prima bastavano tre anni di residenza in Trentino. Secondo le stime, quasi il 40 per cento delle persone che accedevano all’assegno trentino non avranno i requisiti per il reddito di cittadinanza.
La prima “sconfitta” di Twitter: stavolta si protesta davvero
Quanti tweet ci vogliono per riempire questa piazza? L’Italia che non si vede più, che nessuno riconosce per strada, sbuca dall’Esquilino ed è un tronco di un albero che sembrava perduto, sparito dalla foresta, dalla nuova civiltà di internet. “Alzarsi alle quattro del mattino è dura, io non ho tempo per stare al computer. Ho quarantadue stanze da rassettare, ogni giorno. E vedo che non ce la faccio a fine mese, malgrado mi spezzi la schiena, ed è un gran problema”, dice Cristina da Mogliano Veneto. Con le sue compagne aggiunge colore a una nuvola di giubbe rosse, i fratini con i quali i sindacati misurano il peso specifico. Quelli della Cgil sono di più, naturalmente. Ma il nuovo, in questa Italia antica, dimenticata dalla politica, senza più opinione e senza più credito, perchè la reputazione i sindacati se la sono un po’ giocata nei disastri post berlusconiani, e Twitter non ha bisogno della forza lavoro, è che l’albero sembra invece vivo, le foglie verdi, i rami intatti.
Roma è invasa, e non si vedeva dagli anni di Sergio Cofferati, quando il sindacato trascinava e orientava, dava vita o la negava ai governi. Lui, Cofferati, pure oggi ha fatto capolino nel corteo (visti anche D’Alema ed Epifani, Martina e la reggenza variegata della sinistra disunita), in questa che però non sembra una gita sociale di reduci e pensionati. E il tronco lungo tre chilometri non è lo spazio del circolo ricreativo della terza età, il pellegrinaggio di chi ha avuto, ma un lungo e pensieroso bivacco di lavoratori che chiedono, di padri preoccupati, di mamme che non ce la fanno più e perfino di qualche imprenditore angosciato.
Il problema di Cristina, l’addetta alle pulizie di Mogliano Veneto è lo stesso di Francesco, 37 anni e un figlio, livornese. “Il lavoro oggi rende poveri. Io sono addetto alla manutenzione dei carrelli per le ferrovie. La mia ditta ha vinto un appalto con Fs, ma mi danno quattro soldi”. Si resta poveri anche lavorando, questa è la novità. E chi non è povero teme di divenirlo. Come Ermanno Bellettini, dirigente della Rossetti, settore trivellazione: “Dicono no alle trivelle, e della mia azienda che ne sarà?”
La novità è che la piazza pur essendo piena, non urla, non scalpita, non inveisce. Non accoglie tra le sue fila gli odiatori da social network. Si dichiara antifascista e antirazzista (“restiamo umani”). Non ha neppure vergogna di cantare Bella ciao. E anche questa è una novità, visti i tempi. “Noi siamo il popolo, questi ora al governo dicono che sono i rappresentanti del popolo. Quindi dovrebbero essere con noi”, chiede Marisa, insegnante ragusana. “Vogliono farmi stare altri sette anni al lavoro. Ma lavorare all’asilo è impossibile. Non regge il fisico”. Lei ha votato cinquestelle. “Non so se lo rifarò”.
La piazza è piena ma promette che le urne, almeno viste da qui, a maggio per le europee resteranno vuote. “Fanno casino, gridano contro, non mi piacciono molto. Mi sembra che non abbiano le idee chiare”, Antonio, metallurgico torinese, astenuto ieri, astenuto domani. “Io ho votato Lega”, dice Luigi da Ivrea. “Io Lega”, cosi Vittorio da Novi Ligure. “Adesso fottetevi”, ribatte Umberto, la maglietta di Potere al Popolo, new entry a sinistra.
Oggi la piazza non è colma, è stracolma. “Veniteci a contare”, dice Maurizio Landini, neosegretario, e solleva ottimismo tra gli iscritti. “Con Landini finalmente si torna a combattere” (Cesare, da Molfetta), “Landini è quello che ci voleva” (Antonio, Cantieri riuniti di Stabia), “con lui Salvini non farà il buffone” (Angelo, assistente scolastico di Paternò).
Malgrado gli acciacchi del sindacato questa piazza oggi nessuno sarebbe in grado di riempirla così. Non più il Pd, che oramai nella hit parade del gradimento è fuori competizione. Ma nemmeno i Cinquestelle e pure Salvini non ce la farebbe. Piazza del Popolo a dicembre, quando la Lega decise la prova di forza, era la metà della metà di questo lungo tronco di uomini e donne, padri e anche nonni. “Si va bene, si dice che è una piazza contro di noi. Sono venuta qui apposta per verificare. Ed è falso. Come sospettavo, nessuno ha avuto nei nostri confronti espressioni di malcontento”, certifica via Twitter Vittoria Baldino, deputata cinquestelle, nella veste di testimone oculare sul luogo del presunto delitto. Lei sola. Di Maio, che pure sarebbe ministro del Lavoro e qualche attenzione dovrebbe prestarla a manifestazioni come queste, ha risolto il conflitto, ora silente ma non più inconsapevole, salendo in groppa al cavallo di battaglia del Movimento: “Confidiamo che Landini si unisca a noi per abbattere le pensioni d’oro degli ex sindacalisti”.
Ecco, tutto qua. La distanza tra la piazza e il Palazzo, ora che i ruoli sono invertiti, è divenuta tale e quale a prima. Quando c’erano quegli altri.
I sindacati tornano in piazza: “Ora veniteci a contare voi”
Che la manifestazione di Cgil, Cisl e Uil sia stato un successo lo si capisce dal fatto che né Luigi Di Maio né Matteo Salvini abbiano scelto la replica dello sfottò o dell’attacco frontale. Impegnati nell’ultimo miglio della campagna elettorale per l’Abruzzo, i due vicepremier hanno parlato d’altro. Ma non hanno potuto non vedere il fatto nuovo.
Di numeri non ce ne sono – “contateci voi” ha detto Maurizio Landini dal palco del comizio – ma si tratta comunque del corteo delle grandi occasioni (circa 200 mila partecipanti) e alcuni fatti molto chiari.
Il primo è che ora il governo ha un interlocutore alternativo, non ancora un avversario diretto – non siamo ancora allo sciopero generale – ma un controcanto. Secondo, il sindacato c’è, ha una forza e, soprattutto, un leader di peso, riconosciuto e che vuole farsi sentire. Terzo, Cgil, Cisl e Uil vogliono tornare a essere una controparte, contare per strappare dei risultati. “Invece di incontrare i Gilet gialli in Francia – ha detto Landini dal palco – il governo incontri il sindacato”.
La manifestazione è stata anche occasione di una rinnovata unità delle tre sigle sindacali che si erano divise nei confronti dei governi di centrosinistra. Contro il Jobs Act solo Cgil e Uil manifestarono e scioperarono. E dietro questa unità hanno sfilato anche le varie sinistre con i due candidati alla segreteria del Pd, Nicola Zingaretti e Maurizio Martina – il terzo, Roberto Giachetti era a Danzica a incontrare Solidarnosc… Hanno sfilato leader minori come Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana e Roberto Speranza, di Mdp. Ma allargando il quadro si sono visti anche altri personaggi: la foto di gruppo di Massimo D’Alema con Sergio Cofferati e Guglielmo Epifani o quella di Carlo Calenda avvolto nella bandiera Cisl (mentre il figlio sventolava una vecchia bandiera Pci). Immagini che raccontano anche i rischi che corre il sindacato a essere schiacciato sulla corsa della politica al selfie di turno. Soprattutto se questo diventa un richiamo al “frontismo” magari in nome di Emmanuel Macron.
Landini ha avvertito il rischio e ha ribadito che il sindacato vuole rappresentare “valori importanti della Costituzione”, ma per conto suo, in piena autonomia.
Alla fine della giornata, comunque, resta in campo una forza sociale e popolare che si contrappone al governo: “Contro quelli che seminano odio – spiega ancora Landini – ci sono quelli come noi che seminano solidarietà”. Il tema dei migranti, dell’antirazzismo dei valori da difendere ha percorso anche i discorsi di Forlan della Cisl e di Barbagallo della Uil. Su questo Cgil, Cisl e Uil vogliono tenere una distanza molto chiara con la narrazione di governo: “Sono più i giovani italiani che lasciano il Paese dei migranti che arrivano” ha detto Landini il quale ha ribattuto più volte su punto avvertendo del rischio che la chiusura nazionalista comporta per i diritti dei lavoratori: “Guardate Orban in Ungheria: chiude il suo paese e ai lavoratori chiede di fare fino a 400 ore di straordinario”.
L’alternatività al governo si recepisce anche sul tema sociale più importante che ha caratterizzato la manifestazione: il lavoro. “Vogliamo gli investimenti perché solo questi creano lavoro” è stato il ritornello insistito. E in questa impostazione si legge la cultura sindacale che, al fondo, contrappone il “lavoro” al “reddito” e che sull’importanza degli investimenti, e delle grandi opere, costruisce un rapporto privilegiato con le imprese. Non a caso hanno sfilato ieri, per la prima volta, anche alcune rappresentanze degli industriali.
Alternativi al governo, dunque, ma per farsi ascoltare. Anche per questo i tre segretari hanno insistito sulla propria piattaforma e sulle rivendicazioni: più investimenti, rinnovo dei contratti per il pubblico, più fondi al Mezzogiorno, no all’autonomia differenziata – tema che diventerà centrale – insufficienza delle modifiche alla legge Fornero e dubbi, tanti dubbi, sul Reddito di cittadinanza. La tesi è: “Va bene una misura contro la povertà, ma si poteva incrementare il Rei”. Soprattutto, dicono, si dovrebbero ripristinare i classici ammortizzatori sociali per il lavoro – cassa integrazione, Naspi – e creare lavoro con gli investimenti pubblici. Landini, poi, non perde l’occasione di ironizzare sui “navigator” i nuovi addetti ai centri per l’impiego che dovrebbero indirizzare i percettori del reddito di cittadinanza verso posti di lavoro: “Ma saranno assunti con contratti precari, non mi sembra una grande idea”.
Il Pd e la bandiera dei cugini
La bandiera francese come foto del profilo Twitter, insieme a quella europea e italiana: è l’ultima trovata del Pd per distinguersi dal governo gialloverde. Modo singolare per fare opposizione, quello di legarsi a un popolo che tradizionalmente non è mai stato al top delle simpatie nostrane. “Si tratta di un segno grafico che raramente abbiamo aggiunto – fanno sapere gli amministratori dell’account Twitter del Partito democratico, evidentemente fieri della trovata – e vuole sottolineare l’amicizia tra Italia e Francia nell’ambito dell’Unione europea”. Movimento 5 stelle e centrodestra non perdonano. “I servi delle banche e della casta si commentano da soli. Ma che messaggio vogliono mandare e a chi?”, scrive su Twitter Mattia Fantinati, sottosegretario per la Pubblica amministrazione del M5S. Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia sfotte platealmente: “E niente, su Twitter il Partito democratico ci tiene a mostrare il proprio servilismo nei confronti di Francia e Ue. Contenti loro”. Ignazio Corrao, eurodeputato del M5S, rincara la dose: “Signore e signori, questo non è un fotomontaggio. È l’account ufficiale del Pd che mostra fieramente la bandiera francese. Così, per ricordare chiaramente che quando c’erano loro o il centrodestra al governo l’Italia era al servizio dei cugini”. A proposito di autogol.
Gilet gialli: un ferito grave e 21 fermi durante il “13° atto” contro Macron
Un’automobile delle forze di sicurezza incendiata sotto la Tour Eiffel con conseguente chiusura del monumento a causa del fumo che arrivava al primo piano; una Porsche parcheggiata e diversi scooter dati alle fiamme; la perdita di una mano da parte di un manifestante davanti all’Assemblea Nazionale mentre tentava di raccogliere una granata con gas lacrimogeno caduta a terra; un poliziotto ferito; una ventina di fermi tra i Gilet gialli.
È questo il bilancio della 13esima giornata di proteste dei francesi, che, secondo il ministero dell’interno ha visto una partecipazione ridotta rispetto ai sabato precedenti. In tutto il Paese, sono stati 51.400 i gilet gialli scesi in piazza, 4.000 a Parigi: la metà di sabato scorso (8.000), sempre secondo gli Interni che con il titolare Christophe Castaner, ha espresso la sua “indignazione” e il suo “disgusto” per gli atti violenti. “I militari della missione Sentinelle – ha detto riferendosi ai soldati che pattugliano Parigi dai tempi degli attentati del 2015 – proteggono ogni giorno i nostri cittadini dal rischio terroristico. Questi attacchi sono intollerabili. Tutto sarà fatto perché gli autori di questa azione siano catturati e processati”. Nel pomeriggio un gruppo di Gilet gialli, fra cui Maxime Nicolle detto “Fly Rider”, è stato bloccato dalle forze dell’ordine a Mentone mentre provava ad avvicinarsi alla frontiera con l’Italia, secondo l’emittente Bfmtv, che ha spiegato che Nicolle voleva raggiungere Ventimiglia per fare causa comune con i Gilet gialli italiani.
La giornata era cominciata con le proteste unanimi dei partiti per l’incendio doloso nella casa di Richard Ferrand, presidente dell’Assemblée Nationale. Sono una cinquantina i parlamentari che, in queste settimane hanno dovuto subire danni, intimidazioni e aggressioni.
Roma e Parigi in lite pure sul viaggio del presidente Xi
D’accordo, in palio adesso ci sono innanzitutto i voti per le Europee, e per farsi la guerra (mediatica) basta e avanza. Ma dietro all’assalto dei Cinque Stelle a Macron e alla controffensiva del presidente francese, quello che salutò il governo gialloverde appena formato parlando di “lebbra populista”, c’è anche una partita che vale miliardi e influenza politica, ed è quella per costruire un canale commerciale privilegiato con la Cina.
L’altro gigante assieme a Usa e Russia, con cui l’esecutivo italiano e in particolare il M5S vogliono rafforzare sempre di più i rapporti, come provano i viaggi di Luigi Di Maio e di mezzo governo a Pechino e in altre città cinesi. E proprio dalla Cina arriverà a breve un segnale a cui i gialloverdi tengono moltissimo. Perché nella seconda metà di marzo il presidente Xi Jinping arriverà in visita ufficiale in Europa. E sarà anche a Roma, probabilmente il 24 marzo. Ma soprattutto, incontrerà prima il governo italiano e solo dopo ripartirà con destinazione Parigi. E passare prima dalla capitale italiana avrà un suo peso, secondo i codici della diplomazia, specialmente in una fase così delicata per l’Europa che va verso il voto.
Lo scorso 1° febbraio il Fatto aveva raccontato come il ministro dello Sviluppo economico Di Maio, ispirato dal suo sottosegretario Michele Geraci (economista e docente a Shangai, fautore dell’accordo di governo tra M5S e Carroccio), sia un convinto sostenitore della nuova “via della seta”, un sistema di infrastrutture e investimenti che Pechino spinge per allargare la sua piattaforma commerciale. E la sostanza alla fine è semplice: la Cina promette soldi, tanti, per migliorare gli scali europei (e italiani) in cambio di condizioni privilegiate per le sue merci. Ed è un’offerta che ingolosisce i gialloverdi.
Tanto che in primavera Di Maio è atteso in Cina per firmare un memorandum con le autorità locali. Anche se gli Stati Uniti, ovvi avversari di Pechino, non gradiranno affatto. Ma Roma, spiegano, punta sull’asse con la Cina. E anche per questo i gialloverdi fremono per incassare la visita di Jinping prima di Parigi e quindi di Macron, l’eterno avversario sul piano internazionale (basti pensare alla Libia).
Un appuntamento preparato lo scorso fine gennaio dalla visita a Roma del ministro degli Esteri di Pechino, Wang Yi. “Avere qui da noi prima della Francia il presidente cinese sarà un successo d’immagine e commerciale” assicura una fonte di governo, che rivendica “il lavoro di continuità” per consolidare i rapporti con Pechino. Fatto di visite ufficiali in Cina con vari ministri (dal titolare dell’Economia Tria a quello dell’Agricoltura, Centinaio) e sottosegretari. Anche perché non è solo questione di affari. Ma anche di sponda a livello geopolitico, “perché i cinesi hanno investito molto in Africa, e noi dobbiamo lavorare in quel continente per gestire il fenomeno migratorio”. Ed è l’ennesimo tema su cui gli interessi italiani incrociano quelli francesi. E d’altronde le posizioni di Roma e Parigi di questi tempi sono opposte più o meno su tutto. Quindi anche sul Venezuela. Perché Macron è stato rapidissimo nel riconoscere come nuovo presidente l’autoproclamatosi Guaidò. Mentre il governo italiano, l’unico tra gli esecutivi dei paesi europei di peso, non lo ha fatto su spinta dei Cinque Stelle. Con Alessandro Di Battista a fare da traino. Anche se Matteo Salvini rema in direzione contraria, tanto che domani incontrerà una delegazione di parlamentari inviatagli proprio da Guaidò.
Ma il governo, e soprattutto il premier Giuseppe Conte, per ora tengono la linea della neutralità tra il 35enne aspirante leader e l’ancora in carica Maduro, a cui negli anni i Cinque Stelle hanno dato sostegno anche con mozioni parlamentari. “Siamo rimasti fermi sulla nostra posizione per mostrare che siamo equidistanti dai blocchi, dagli Stati Uniti come dalla Cina, e rivendicare l’autonomia di questo governo” sostengono dal M5S. Dove raccontano di “pressioni fortissime” da parte di Washington e dell’Unione europea in favore di Guaidò. Per poi ricordare che mercoledì l’ambasciatore di Caracas, nominato ovviamente da Maduro, riferirà in Senato alla commissione Esteri, presieduta dal 5Stelle Vito Petrocelli. E lo stesso Petrocelli al Fatto assicura: “Nessuna attenzione particolare per Maduro, vogliamo solo favorire il dialogo restando sempre neutrali”. A differenza di Macron, naturalmente.