Sea Watch, polemica chiusa: “La Francia prenderà 7 migranti”

Si chiude la polemica sui migranti sbarcati in Sicilia dalla nave della ong Sea Watch. La Francia – dopo il botta e risposta con il Viminale e Matteo Salvini di venerdì – ne accoglierà 7. “Manteniamo i nostri impegni”, ha affermato il ministero dell’Interno francese Christophe Castaner. In realtà per Parigi la quota prevista dall’accordo trovato tra i paesi europei coinvolti era di nove migranti, ma la decisione francese rende comunque felice Salvini.“ ”Ottimo! – ha commentato il capo della Lega – Col dialogo si risolvono tutti i problemi, sono pronto a lavorare col collega francese per combattere scafisti e terroristi”. Il titolare del Viminale si dice fiducioso di poter estendere la collaborazione con l’omologo francese: “Abbiamo il dossier sui terroristi italiani che soggiornano in Francia, il confine con Ventimiglia, abbiamo parecchi problemi da risolvere”. Secondo Salvini il cambio di decisione francese sui migranti dipende dal fatto “che quando l’Italia prende un impegno lo mantiene e, evidentemente, lo fanno anche loro. Se la Francia ne prenderà sette, sette volte grazie”.

Lo scontro con Bruxelles blocca 1,5 miliardi

C’è il piano pubblico, fatto di attacchi frontali. E poi c’è quello riservato: una complessa trattativa con Bruxelles per evitare una figuraccia al governo e il congelamento di 1,5 miliardi. S’intendono quelli sui rimborsi destinati ai cosiddetti “truffati” dalle banche, oltre 300 mila ex soci e piccoli investitori degli istituti finiti in dissesto, dalle 4 banchette mandate in “risoluzione” a novembre 2015 (Etruria, Marche, CariFe e CariChieti) alle due Popolari Venete.

Gli attacchi a Bruxelles di Luigi Di Maio e Matteo Salvini, ospiti ieri a Vicenza delle associazioni dei “truffati”, nascondono i timori dietro lo scontro. In manovra il governo ha previsto un fondo pubblico da 525 milioni l’anno fino al 2021 per indennizzare chi ha perso tutto nei crac bancari, travolto anche dalle nuove regole Ue sugli aiuti di Stato alle banche. Dopo le richieste delle associazioni, spaventate dalla trafila burocratica, la prima versione è stata però modificata, eliminando l’obbligo per chi chiede l’indennizzo di dimostrare di aver subito una vendita di titoli scorretta (misselling) con una sentenza del giudice o dell’arbitro finanziario Consob. In pratica l’indennizzo è divenuto generalizzato sulla base dell’assunto che c’è stata una “violazione massiva” delle norme a tutela dei risparmiatori. Il ristoro è stato poi allargato anche a Onlus e microimprese.

Il 28 gennaio Bruxelles ha spedito una lettera al direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera, facendo intendere che le modifiche violano le norme Ue sugli aiuti di Stato. Ironia della sorte, i tecnici di Rivera avevano espresso gli stessi dubbi in una nota inviata agli uffici legislativi del ministero. Consentire l’accesso anche a persone non fisiche – si leggeva – porterà “con ogni probabilità a una procedura di infrazione europea”. Idem per l’indennizzo generalizzato “incompatibile con i limiti imposti dalle norme Ue”. I tecnici avvisavano che sarebbe stato impossibile erogare i rimborsi senza l’ok di Bruxelles, visto che si rischierebbe l’accusa di “danno erariale”.

Da allora è partita la trattativa con l’Ue che ha fatto slittare i tempi. Entro ieri il Tesoro avrebbe dovuto pubblicare il decreto per definire i criteri con cui la commissione ministeriale dovrà valutare le domande di accesso ai rimborsi, giusto in tempo per permettere ai due vicepremier di presentarlo a Vicenza. L’accordo, però, non è stato trovato. Il Tesoro ha proposto a Bruxelles di eliminare l’accesso ai rimborsi alle microimprese e imporre alla commissione ministeriale di vagliare le domande caso per caso per appurare che ci sia stata una vendita fraudolenta. Per ora la direzione Concorrenza della Commissione non ha dato il via libera.

Quel che è certo, però è che almeno nel primo caso – eliminare le microimprese dall’accesso al beneficio – servirà cambiare la legge, visto che un decreto ministeriale non può modificare una norma di rango primario. Poi bisognerà assumere personale visto che la platea potenziale è fatta di centinaia di migliaia di persone. Nel secondo, invece, si rischia la protesta delle associazioni. M5S è contrario, mentre la Lega ha già aperto al ripristino dell’obbligo di passare prima dal giudice o dall’arbitrato Consob.

L’unica certezza è che in caso di modifiche i tempi slitteranno ancora. Senza intoppi, i primi rimborsi sarebbero partiti entro la prima metà dell’anno. Adesso è quasi certo si andrà all’autunno. Intanto 1,5 miliardi restano bloccati. E questo potrebbe tornare utile a maggio, quando il governo dovrà negoziare con Bruxelles lo sblocco dei 2 miliardi congelati a garanzia dei conti.

I dioscuri nella bolgia-truffati: “La Ue non fermerà i rimborsi”

Saranno anche divisi su Tav, immigrazione e riforma della giustizia. Ma quando i due vicepremier entrano sul parterre del palasport di Vicenza, gremito da 1.300 risparmiatori finiti sul lastrico, trasudanti rabbia e dolore, ogni differenza si ricompone. Luigi Di Maio, completo blu, cravatta e scarpe nere luccicanti, sembra l’opposto di Matteo Salvini, vestito in modo informale, giacca della Polizia e maglione. Eppure sono le due facce dello stesso governo, arrivato al potere anche promettendo a chi ha perso i risparmi di essere risarcito. Ed è venuto il giorno in cui devono dimostrare che le promesse saranno mantenute. In un clima da stadio, applausi urla, interruzioni ed emozioni, i ministri parlano lo stesso linguaggio. Bellicoso con l’Europa, se osasse mettere il bastone tra le ruote dei risarcimenti generalizzati. Rassicurante verso chi ha esaurito la pazienza. Tagliente verso Banca d’Italia e Consob (“Andrebbero azzerate”), per non aver visto il disastro finanziario.

Salvini e Di Maio non tradiscono le attese. Anche perché vengono coccolati da Luigi Ugone, presidente di “Noi che credevamo nella Popolare di Vicenza”: “Salvini è uomo di parola. Di Maio e i Cinquestelle hanno dimostrato di saper cambiare idee e formule, riscrivendo le norme”. Il riferimento è alla legge di bilancio, che ha stanziato 1,5 miliardi di per rimborsare i 300mila risparmiatori di Etruria e le altre. Al senato la norma è stata cambiate eliminando gli sbarramenti di controllo nel merito e senza dover provare il raggiro, perché implicito nella voragine finanziaria.

Ugone spiega: “Su 100 mila euro di capitale, in base alla vecchia formulazione, i risparmiatori avrebbero recuperato solo 3 mila euro adesso ne prendono 28 mila”. E attacca: “Nessuno vi dirà che Banca Intesa ha ricevuto o riceverà dallo Stato 14 miliardiper il ‘salvataggio’ di Pop Vicenza e Veneto Banca, che i risparmi mangiati arrivano a 10 miliardi e il bilancio di Intesa è cresciuto con super dividendi”.

Dalle parole ai fatti. Come superare le diffidenze che l’Ue ha avanzato sui rimborsi? Di Maio: “Le lettere dell’Europa? Noi rispondiamo prima ai cittadini. I tecnici vengono dopo. In Europa manderemo a discutere il presidente del consiglio (non il ministro Tria, ndr), perché è una questione politica. Prima daremo i soldi a chi è stato truffato, poi risponderemo alla Ue”. Salvini non si discosta: “Noi parliamo con i fatti, perché qui c’è sofferenza vera, chi ha perso i risparmi di una vita. Leggo dei dubbi Ue, ma noi non li abbiamo. Se all’Europa va bene, ok, altrimenti si va avanti lo stesso”.

Ma andare avanti significa predisporre i decreti attuativi. Di Maio assicura: “La settimana prossima verranno scritti. Questo governo ha ascoltato i risparmiatori e trovato i soldi, quando ci dicevano che non ce n’erano. Erano bugie. I decreti li scriveremo assieme a voi”. Viene proiettato su uno schermo anche un articolo del Fatto che rivelava i dubbi sulla norma dei tecnici del Tesoro. Impegno solenne di Di Maio. “Ogni volta che il mio ministero si occupa di argomenti spinosi, arriva una lettera dai tecnici Ue: si trincerano dietro regole che favoriscono i più forti. Ma ce ne freghiamo. Noi difendiamo i più deboli, non i banchieri”. Salvini si rivolge a chi teme la beffa Ue. “Io e Luigi saremo i cani da guardia e se serve daremo spallate ai portoni”.

All’esterno del palasport qualche contestazione. Di chi non è riuscito ad entrare. Di chi vorrebbe risarcimenti totali. Di quelli che non si fidano. E di quelli che vorrebbero i banchieri in galera. Letizia Giorgianni, delle “Vittime del salva banche”: “Ci aspettavamo le linee guida del decreto, non le hanno date. Siamo sicuri che la Ue non ci costringa a fare marcia indietro?”. “Avete tradito le premesse” ha urlato qualcuno a Di Maio. Che ha replicato. “Non ci fermeremo. Faremo la commissione d’inchiesta sulle banche. E Gianluigi Paragone ne sarà il presidente. Li convochiamo tutti e li facciamo cantare, perché i conflitti d’interesse delle banche hanno spolpato tutti”.

Vaticano, il revisore dei conti diventa “Anticorruzione”

Il Papa ha varato il nuovo Statuto dell’Ufficio del Revisore generale dei conti in Vaticano elevandolo ad Autorità anticorruzione: è questa la principale novità del nuovo documento, firmato dal Papa il 21 gennaio e in vigore dal 16 febbraio prossimo, con cui viene posto un altro tassello nella riforma delle finanze vaticane, con un ulteriore impulso ai principi di trasparenza e di contrasto alle zone d’ombra. È in particolare il paragrafo 3 dell’Articolo 1 del nuovo Statuto a fare la differenza con il primo – ora abrogato. Nell’articolo si legge che tale ufficio “è l’autorità anticorruzione” ai sensi della convenzione Merida (Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall’Assemblea generale il 31 ottobre 2003) in vigore per la Santa Sede dal 19 ottobre 2016. Altra novità è il potenziamento delle funzioni del Revisore, oggi carica ricoperta ad interim da Alessandro Cassinis Righini, dopo il caso delle ‘dimissioni forzate’ e delle relative polemiche riguardanti due anni fa il precedente Revisore, Libero Milone: ora va via la “piena autonomia e indipendenza” del Revisore che, invece, “si rapporta funzionalmente con il Consiglio per l’Economia”.

Diciotti, Giulia Grillo è per il no: “Pericoloso accusare un ministro”

Un chiaro invito a votare no alla richiesta di processo per Matteo Salvini. Giorni fa la ministra della Salute, la grillina Giulia Grillo, aveva bollato come “una posizione personale” le parole di Alessandro Di Battista sul caso Diciotti, che si era sbilanciato a Porta a Porta: “Penso che in Senato voteremo sì al processo per Salvini”. Ma ieri la ministra, a Cagliari per sostenere il candidato governatore del Movimento, ha detto in maniera evidente che lei è per dire no ai giudici: “Il voto sull’autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini è un precedente storico, non era mai successo che un ministro fosse messo sotto accusa per un’azione che è evidentemente politica”. Ergo, secondo la Grillo “è un precedente molto pericoloso perché metterebbe in dubbio la possibilità di chiunque, anche mia all’interno del governo, di poter agire nel mandato popolare di parlamentare e di governo, all’interno di un programma noto a tutti che è quello scritto nel contratto di governo”. Quindi, ha concluso la ministra, “si tratta di capire il confine tra la possibilità di processare qualcuno e la possibilità di fare ciò che devi fare se hai ricevuto un mandato politico per farlo”.

Gli otto difficili mesi del prof. Giovanni Tria, ministro del Quirinale nel governo Lega-M5S

Giovanni Tria è il ministro dell’eterogenesi dei fini. Arrivato a via XX settembre su indicazione di Paolo Savona, bloccato dal poco accorto niet di Sergio Mattarella, il preside della facoltà di Economia di Tor Vergata avrebbe dovuto incarnare se non la linea dell’attacco all’Eurozona, almeno quella del cambiamento delle politiche su cui così spesso aveva battuto da economista (più investimenti, meno austerità cieca).

Evidentemente al Quirinale hanno letto il personaggio meglio di quanto non abbiano fatto i gialloverdi e, in particolare, il ministro degli Affari Ue oggi destinato alla Consob: Tria infatti, insieme a Enzo Moavero Milanesi e (a intermittenza) Giuseppe Conte, rappresenta la linea del Quirinale nel governo di Lega e 5 Stelle, linea che potremmo riassumere nel nattiano “rinnovamento (poco) nella continuità (molta)”. Non che il professore, già consulente di Renato Brunetta nell’ultimo governo Berlusconi, da allora abbia lasciato dubbi sulla sua collocazione in questo bizzarro governo tripartito. La sua prima scelta da ministro fu, in questo senso, illuminante: confermare l’intera squadra di tecnici che era stata al Tesoro con Pier Carlo Padoan. Al ministero ottimamente rimasero il capo di gabinetto Roberto Garofoli (poi dimessosi su pressioni di Palazzo Chigi dopo che Il Fatto aveva raccontato di un suo conflitto di interessi con Croce Rossa e del lavoro in nero nella casa editrice di famiglia) al Ragioniere generale dello Stato Daniele Franco fino ad Alessandro Rivera, già capo della Direzione sistema bancario negli anni del bail-in e dei risparmiatori azzerati, promosso direttore generale al posto del candidato dei 5 Stelle, Antonio Guglielmi, analista di Mediobanca contro cui il CorSera arrivò a schierare in prima pagina il duo Giavazzi-Alesina.

Giovanni Tria è poi stato fedele al suo debutto: checché pensasse dei parametri di bilancio Ue da economista, da ministro ha proseguito nel solco di Padoan (trattare per qualche sconto sul deficit, ma senza mettere in discussione il consolidamento fiscale). Siamo alla fine dell’estate e, in attesa della Nota di aggiornamento al Def, per la grande stampa italiana il professore di Tor Vergata diventa una sorta di Madonna di Lourdes che converte i peccatori populisti grazie allo sguardo magnetico nascosto dietro agli occhialoni: Tria, a quel tempo, era accreditato di un accordo già chiuso con l’Ue per fissare il deficit pubblico del 2019 all’1,6% del Pil, generosamente più alto dello 0,8% promesso da Paolo Gentiloni e Padoan ad aprile, ma abbastanza basso da accontentare i brussellesi.

Si sa com’è andata a finire: col 2,4% scritto nel Def e i grillini a festeggiare sul balcone prima che la realtà, un paio di mesi dopo, chiamasse i giri e costringesse il governo a stringere un accordo con l’Europa attorno al 2% di disavanzo, più o meno la mediazione che Tria proponeva da settimane. Il ruolo del ministro, in questi mesi a via XX settembre, è stato duplice: da un lato il richiamo alla prudenza necessaria per chi governa un Paese esposto al ricatto dei mercati e a quello delle sue controparti a Bruxelles e Francoforte; dall’altro la scelta, anche antropologica, di adesione allo status quo garantito dal Colle (il coraggio, se uno non ce l’ha, non se lo può dare…).

Passata la manovra, sperava d’aver trovato pace, ma ora si ritrova con la grana della nomina del vicedirettore di Banca d’Italia Signorini che, se fosse per lui, avrebbe già firmato (“voi siete pazzi”, ha detto a Di Maio). Non aiuterà il suo rapporto coi 5 Stelle, già accidentato in questi mesi dalle benedette “coperture”, l’intervista rilasciata ieri alla Stampa: “Dobbiamo dimostrare di essere affidabili. Prendiamo il Tav: quando si parla di infrastrutture c’è bisogno di certezze”. Si dirà: ma tanto Tria è in quota Lega… “Proprio no…”, rispondono da via Bellerio.

Tutti gli errori di Visco e il giro delle nomine a ipocrisie incrociate

L’attacco alla Banca d’Italia del governo gialloverde – o più precisamente di Matteo Salvini e Luigi Di Maio – è senza precedenti. Il semaforo rosso acceso in Consiglio dei ministri sul rinnovo per altri sei anni di Luigi Federico Signorini, uno dei cinque membri del Direttorio guidato dal governatore Ignazio Visco, è il primo concreto limite mai posto all’indipendenza di Palazzo Koch – o al suo potere incontrollato, a seconda dei punti di vista. La vicenda, di prima grandezza, è dominata dalla schizofrenia di tutti i giocatori.

Di Maio e Salvini dichiarano di voler asfaltare Palazzo Koch, accusandolo di aver vigilato male sulla crisi bancaria; ma per la presidenza della Consob si fanno imporre il nome di Paolo Savona (un uomo foderato di conflitti d’interesse) dagli ambienti finanziari timorosi che Marcello Minenna portasse a una vigilanza più efficace. Il Quirinale stoppa Minenna, dirigente Consob, perché non gradisce la nomina interna, mentre per Bankitalia la nomina interna è reputata consustanziale al dogma dell’indipendenza. Giuseppe Conte rimbrotta da par suo – come un bidello impotente alle prese con una classe indisciplinata – i ministri M5S per il colpo all’indipendenza della Banca d’Italia. Ma è lo stesso premier che pochi giorni fa, nella veste di avvocato del popolo delle società quotate in Borsa, ha calpestato l’indipendenza della Consob imponendole come presidente un suo ministro, Savona.

È questione di regole. La Banca d’Italia propone il nome di Signorini al governo che lo porta al Quirinale per la nomina. Il presidente del Consiglio propone il presidente della Consob al governo che lo manda suo tramite al presidente della Repubblica per la firma. Il sistema dei semafori successivi sottrae le scelte all’arbitrio di un unico decisore. Logica vuole che ogni soggetto dotato di pulsante debba accendere il semaforo rosso quando veda un problema.

Invece ognuno piega le regole ai comodi suoi. Il presidente Sergio Mattarella aveva il diritto di dire no a Savona ministro dell’Economia: perché il governo non può dire no a Signorini? Perché prevale una logica massonica: se il nominando è “dei nostri”, lo stop è un’odiosa ingerenza; se non piace alla gente che piace il semaforo rosso dimostra che le istituzioni funzionano. L’idea sudamericana che chi conquista Palazzo Chigi sia legittimato a calpestare ogni regola è stata introdotta da Silvio Berlusconi, perfezionata da Matteo Renzi e portata all’apoteosi delle ultime settimane da Conte.

Venendo al merito del bubbone chiamato Bankitalia, dopo il primo cazzotto dato da Di Maio in Consiglio dei ministri, Salvini ha rincarato con l’attacco personale in tv: “Federico Signorini, chi da tanti anni doveva vigilare e non l’ha fatto dovrà trarre le conseguenze di questa mancata vigilanza”. Il tema è vecchio. Nei dieci anni della grande crisi la vigilanza di Palazzo Koch ha consentitodi tutto alle banche, con l’idea sbagliata che così si salvasse il sistema. Nessuno ha presentato il conto a Bankitalia che ha potuto invece presentare il conto dei suoi errori ai risparmiatori. La commissione banche del 2017 è stata un talk show scoppiettante, quella nuova che il M5S vorrebbe guidata da Gianluigi Paragone sarà un talk show noioso su cose già viste.

Dalla schizofrenia si passa qui all’ipocrisia. L’ex premier Paolo Gentiloni racconta nel suo libro La sfida impopulista che nell’estate 2017 lui e Mattarella stavano per mandare a casa Visco, in scadenza, con ottime ragioni come le “defaillance nell’azione di vigilanza della Banca d’Italia”. Poi Renzi fece la fesseria della mozione parlamentare contro Visco, costringendo Mattarella al rinnovo. Nessuno ha smentito Gentiloni. Tutti i conoscitori della materia, con l’eccezione dei cinque membri del Direttorio, sanno che la vigilanza sulle banche ha fatto schifo. Mps, Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Banca Marche, Etruria, Cassa Ferrara, Carichieti e Carige sono andate in malora per anni avendo stabilmente in casa plotoni di ispettori Bankitalia che non vedevano, fingevano di non vedere, o intervenivano provocando ulteriori danni. Tutti lo sanno e nessuno lo dice. Gentiloni ha lavorato per silurare Visco, ma lo ha detto dopo, per rivendicare la sua saggezza e la lungimiranza di due anni fa e per far fare a Renzi la figura del fesso. Nessuno commenta.

Adesso Di Maio e Salvini si accontentano, più modestamente, di mandare a casa Signorini, e subito i custodi delle istituzioni infiltrati dai poteri forti nel governo gialloverde spifferano ai giornali ogni parola detta in Consiglio dei ministri. Se ne deduce che la difesa di Consob e Bankitalia, e delle istituzioni, non appassiona nessuno. E neppure la loro indipendenza. L’unica cosa che piace a tutti – maggioranza e opposizione, ieri e oggi, nessuno escluso – è la certezza di poter contare, in Bankitalia come in Consob, su qualcuno a cui chiedere un favore.

“Azzerare Banca d’Italia”. Lo scontro è anche col Colle

La tregua decisa con la sessione di bilancio è finita. Il bersaglio è la Banca d’Italia, ma trascina con sé l’asse che lega Palazzo Koch col Colle di Sergio Mattarellla e i suoi addentellati nel governo gialloverde tra i ministri, per così dire, “tecnici”. Arriva con una scenografia suggestiva, l’assemblea a Vicenza dove Matteo Salvini e Luigi Di Maio incontrano le associazioni dei “truffati” delle banche finite in dissesto (da Etruria & C. alle due venete), ma ha il suo prologo nel Consiglio dei ministri dove giovedì notte sono volate parole di fuoco tra il leader grillino e il ministro dell’Economia Giovanni Tria.

All’ordine del giorno c’era la riconferma del vicedirettore generale di Bankitalia, Luigi Federico Signorini, uno dei 5 membri che insieme al governatore Ignazio Visco compone il direttorio di via Nazionale. Ieri i due dioscuri del governo hanno suonato lo stesso spartito: “Per Bankitalia serve discontinuità” (Di Maio). I vertici dell’istituto di Palazzo Koch, ma anche della Consob, “andrebbero azzerati, altro che cambiare una-due persone, azzerati”, (Matteo Salvini). La mossa ha aperto uno scontro senza precedenti col Quirinale che ha coinvolto il premier Giuseppe Conte.

Riavvolgiamo il nastro. Spetta al direttorio indicare il nome al premier, che in accordo con Tria – e sentito il Consiglio dei ministri – deve poi sottoporlo al Quirinale per la nomina. Nei fatti è sempre stata una questione interna a Bankitalia d’intesa col Colle. In Cdm, però, Di Maio ha fermato tutto con una mossa senza precedenti. Con Tria si è arrivati alle urla e, complice l’assenza alla riunione di Salvini, i giornali si sono riempiti di retroscena su una spaccatura interna al governo, coi grillini contro Tria, difeso invece dalla Lega per bocca di Giancarlo Giorgetti (“così non duriamo un mese”).

La realtà, però, pare più complessa. Incurante dei richiami del Quirinale, Lega e 5 Stelle hanno deciso di aprire le ostilità con la vigilanza bancaria: “Non c’è stato nessuno scontro in Cdm tra Lega e M5S, ma un’assoluta identità di vedute: non si possono riconfermare i vertici di un’istituzione che ha fallito nel suo compito”, spiegano autorevoli fonti del Carroccio. In questo senso Signorini è il bersaglio perfetto: carriera tutta interna a Bankitalia, dal 2008 è al vertice della Vigilanza, di cui è stato direttore centrale dal 2012 al 2013. È l’unico del direttorio ad aver guidato gli ispettori e ha avuto un ruolo rilevante nei negoziati sull’Unione bancaria e le regole Ue che vietano aiuti di Stato alle banche se prima non pagano anche gli investitori (mentre Banca d’Italia chiudeva un occhio sui titoli piazzati a man bassa ai piccoli risparmiatori). È poi un fedelissimo di Visco, i cui rapporti con Lega e M5S sono pessimi fin dalla scorsa legislatura, quando Palazzo Koch fu (giustamente) messo sulla graticola per i suoi errori nei disastri bancari. Negli ultimi mesi è stato poi la voce di Bankitalia nelle audizioni, assai critiche, sulla manovra.

Finora, però, le ostilità erano state tenute a freno. Lo scontro con la Commissione Ue sulla manovra aveva imposto ai gialloverdi una tregua armata: ora è saltata. Ieri Salvini ha superato i timori, veri o presunti, di Giorgetti quasi intestandosi la battaglia a Bankitalia: “Indipendenza non vuol dire irresponsabilità. Non riconfermare qualcuno e scommettere su qualcuno di nuovo mi sembra il minimo nei confronti degli italiani e di chi è stato fregato. Signorini doveva vigilare e non l’ha fatto, dovrà trarne le conseguenze. Nulla di personale”.

L’asse tra gli alleati si spingerà fino a ostacolare a oltranza la riconferma di Signorini, che scade lunedì. Il governo è compatto, nonostante la forte irritazione di Mattarella. Che ieri l’ha illustrata a Conte al Quirinale a margine della cerimonia in ricordo delle Foibe. I toni, raccontano fonti di governo, sono stati assai duri, al punto che il capo dello Stato non ha escluso uscite pubbliche a difesa dell’indipendenza di Bankitalia. Conte ha però ribadito che le “forti perplessità” del governo porteranno a non riconfermare il burocrate: “Si deve cambiare”. Anche se, secondo l’Ansa, il vero obiettivo è la poltrona di direttore generale di Bankitalia, occupata fino a maggio dal pensionando Salvatore Rossi.

Lo scontro è solo all’inizio. Poi toccherà alla nuova commissione d’inchiesta sulle banche che partirà proprio dalla Vigilanza bancaria: “Li chiameremo per primi”, assicura Di Maio. Quando ci provò Renzi, fu il Quirinale a blindare Visco. E sempre ascoltando i timori di Palazzo Koch Mattarella ha stoppato la nomina al Tesoro di Paolo Savona, il ministro più critico nei confronti della Banca d’Italia.

Il Festival di Sanmatteo

Lo so, cari lettori, vado contro i miei interessi di direttore e azionista del Fatto. Ma vi invito, per puro spirito altruistico, a dare ogni tanto una sbirciatina a La Stampa, giornale un tempo della Fiat e ora del Tav (anzi, “della” Tav: anche per la Busiarda quel treno è femmina). È uno spasso e non voglio tenermelo tutto per me. Dovete sapere che La Stampa è un quotidiano dichiaratamente anti-populista (ci scrive Johnny Riotta che, non avendo lettori, detesta qualunque accenno al popolo) e anti-sovranista (con la trascurabile eccezione della famiglia reale Agnelli-Elkann). Ma anche filo-Ue (se non fosse scritto in italiano, parrebbe un giornale straniero), filo-Usa (salvo quando gli americani osano disobbedire alla Stampa ed eleggere Trump) e dunque anti-Russia (qualunque cosa accada in Occidente che non piace alla Stampa, è colpa di Putin: comprese le fake news, escluse quelle che racconta La Stampa). Con queste robuste premesse, il Nemico Pubblico Unico è il governo 5Stelle-Lega. Poi però, purtroppo, accadono alcune cosucce. La Stampa è Sì Tav, e Salvini pure. La Stampa sta col partito degli affari nascosto dietro sette madamine, e Salvini pure. La Stampa adora il golpista massone venezuelano Guaidò, e Salvini pure. La Stampa, come i suoi padroni, vuole che non cambi nulla, e Salvini pure. La Stampa stravede per Macron, anzi se non avesse lettori a Cuneo uscirebbe direttamente in lingua francese, e Salvini vuole fare la pace con Macron mentre il M5S fa la guerra.

E così Salvini diventa il beniamino de La Stampa, costretta a derubricare a dettagli il suo antieuropeismo e il suo filoputinismo, e a mettere in naftalina tutti i giornalisti che la menavano un giorno sì e l’altro pure con le fake news, i troll e i rubli made in Russia. Non solo: ieri La Stampa dedicava un’intera pagina d’intervista a Salvini, e non in veste di vicepremier, o di ministro dell’Interno, o di leader della Lega, o di imputato per sequestro di persona aggravato, bensì in quella di critico musicale. L’altra sera, quando la collega Michela Tamburrino l’ha raggiunto a domicilio, Salvini s’è allarmato non poco: ora questa cattivona mi bersaglierà sui miei rapporti con Mosca, i miei attacchi all’Ue, ai migranti e alle Ong, i 49 milioni rubati dalla Lega. Infatti era pronto a estrarre dal guardaroba i consueti travestimenti: uniforme da cosacco, camicia bruna lepenista, giubbotto della Polizia, divisa della Protezione civile, calzamaglia verde con piede di porco ecc. Invece niente: l’intervistatrice voleva sapere di Sanremo, nel senso di festival della canzone.

L’incipit è straziante: “Salvini è tornato a casa dopo una giornata che definisce ‘delirante’. Mangia troppo, tardi, disordinato e dorme 5 ore a notte”. Che vita, povera stella. “Si cucina pasta con il ragù confezionato e tonno fresco che gli ha portato un amico dalla Puglia. Tutto insieme? Sì e poi il cedro affettato con il miele sopra”. Non fa in tempo a finire il boccone, che già parte, a tradimento, la prima domanda da ko: “Ma lei sa di aver vinto a suo modo il festival? Era il convitato di pietra, si parlava molto di lei”. Lui “ride”, e ne ha di che. Ma si becca un uppercut in pieno mento: “Pio e Amedeo parlavano di lei e lei si è fatto la foto con loro alla tv. Le sono piaciuti?”. Poi una raffica di ganci destri e sinistri: “Ma allora Baglioni le piace?”. “Sentendo ‘E tu’ l’altra sera con chi avrebbe voluto stare accoccolato ad ascoltare il mare?” (allusione terribile ai 177 migranti sulla Diciotti nel porto di Catania; ma lui, furbo, non raccoglie). “Ma la sua vita è più spericolata oggi o quando ha preso la Lega morente ed è partito in tour per l’Italia?”.“I suoi cantanti preferiti?”.“Questo festival la diverte?”. “C’è una canzone che ha segnato un momento importante della sua vita?”. “Aspetta qualche appuntamento musicale più di altri?”. “Va ai concerti con suo figlio?”. “Baglioni si è detto lusingato per avere una persona tanto illustre come spettatore. Bisio ha detto che lei è simpatico… Non starà diventando troppo popolare?”. Manca il classico “Lei come fa a essere così bravo?”, ma solo perchè Salvini, in coma diabetico, le indica la porta con la punta del mitra mentre affoga nella saliva.

Resta da gestire lo sconcerto dei lettori allevati a pane, Cia, Riotta e Troika (a Cuneo già si segnalano i primi tumulti per la svolta salviniana). E, per tenerli buoni, ecco un’intervista all’economista francese Jacques Attali, scopritore e consigliere di Macron. Il quale rassicura lo stampista medio con una tipica dichiarazione distensiva: “L’unica soluzione definitiva è un nuovo governo a Roma”. Un bel golpe, tipo Venezuela: si potrebbe invitare Maria Elisabetta Casellati Alberti Vien Dal Mare a fare la Guaidò de noantri, cioè ad autoproclamarsi premier, poi riconoscerla tutti e vedere di nascosto l’effetto che fa. Nell’attesa, si annaffiano e concimano le quinte colonne dell’Ancien Regime nel governo gialloverde. Di qui la terza intervista di giornata: a Giovanni Tria. Non una, ma due pagine. Anche perchè “il professore ha le dita che tamburellano sul tavolo, come a sottolineare la consapevolezza della difficoltà del momento” (quando le cose vanno bene, invece, le dita se le ficca nel naso). Indovinate un po’ che ricetta ha in mente per tutti i guai dell’Italia? “La Tav”. Ma va? “Non voglio entrare nella questione costi-benefici (è solo il ministro dell’Economia, mica dell’Agricoltura e Foreste, ndr), ma ho detto più volte che ritengo sia un’opera utile da realizzare”. E perchè 8 mesi fa entrò in un governo che ha nel programma l’impegno a “ridiscuterne integralmente il progetto nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia”? Ah saperlo. L’intervistatore preferisce evitare la domanda: Tria si era preparato su Sanremo.

“È il Festival della canzone, mica della satira”

Si sta candidando a condurre il prossimo Festival di Sanremo?

Onestamente, non ci penso proprio.

Su Canale 5 però ha condotto due programmi: 55 Passi Nel Sole a gennaio di quest’anno, e Madre mia l’anno scorso.

È bellissimo condurre, ma non Sanremo. ‘Conosci te stesso’, diceva Socrate, e io mi conosco: non sono abbastanza maturo per il Festival.

(A 76 anni, Al Bano preferisce godersi lo spettacolo dal divano. In passato gliel’hanno proposto, il palco dell’Ariston, lui ha sempre rifiutato. Questa edizione l’ha vista a spizzichi e bocconi. “Tutti mi chiedono di Achille Lauro e il suo brano ‘Rolls-Royce’. Sono sincero, non l’ho sentito anche se non vedo l’ora di farlo. Gli amici però mi dicono che la canzone è piena di allusioni alla droga, e il tema non mi piace, per niente”).

Non sarebbe la prima volta che a Sanremo arriva un brano sulla droga: nel 2001 i Bluvertigo hanno gareggiato col brano ‘L’assenzio (the power of nothing)’.

Certo, anche in passato ci sono stati brani sulla droga. Ma io sono decisamente contrario, gli stupefacenti sono sempre il motore di fatti tragici. Meglio parlare di cose belle, non vorrei andare contro nessuno.

Il cantante che le è piaciuto di più?

Cristicchi è decisamente il più interessante. Il Festival mi sembra vivo, coinvolge ancora gli italiani di ogni età e categoria sociale. In America hanno l’Oscar, noi Sanremo.

Claudio Baglioni, Virginia Raffaele e Claudio Bisio non sono conduttori: le sono piaciuti in questo ruolo?

È una rivoluzione, senza i Baudo o Bonolis. Da quando Gianni Morandi ha condotto Sanremo, le cose sono cambiate. Anche un cantante o un attore possono condurre, e bene. Baglioni e il resto della truppa sono stati un po’ troppo autoreferenziali: il protagonista è il Festival, il resto dovrebbe essere sfondo.

Secondo Michele Anzaldi, del Partito democratico, Claudio Bisio si è autocensurato nel suo monologo (scritto da Michele Serra), per non irritare Salvini.

Il monologo non l’ho visto purtroppo, ma se l’ha scritto Serra è stato lui ad autocensurarsi. Almeno a Sanremo, teniamo lontana la politica. Ho visto troppi riflettori sul caso Baglioni-Salvini. John kennedy disse: ‘O t’interessi alla politica, o la politica si interesserà di te’. Ma a Sanremo diamo una pausa.

La politica sta invadendo l’intrattenimento?

Necessariamente, c’è troppa politica in tv. Ma la politica si fa al Quirinale, a Sanremo fermiamoci.

Marcello Foa, presidente Rai, ha detto: ‘Sanremo non è una tribuna politica’. È d’accordo?

Mi ricordo Crozza quando fece un monologo su Berlusconi. Ma a Sanremo è intelligente autocensurarsi, in fondo è il Festival della canzone italiana, non della satira italiana.

Matteo Salvini è stato il convitato di pietra? Il monologo di Claudio Bisio, Pio e Amedeo. Lo stesso vicepresidente del Consiglio su Facebook ha scritto che all’Ariston si parla sempre di lui.

È il personaggio del momento. Lui è un grande amante della musica, al Viminale abbiamo cantato a cappella ‘Nel sole’ e ‘Felicità’. Ma è centomila volte meglio come politico, che come cantante. Del resto, ‘chi canta prega due volte’, disse Sant’Agostino.