Guai a dare per finite le star: se sono star sul serio, prima o poi ti fregano. Per dire: Ornella Vanoni. Fino a pochi giorni fa, di lei si commentava quasi solo il memorabile abbiocco che (comprensibilmente) l’aveva colta durante una delle tante esibizioni in quel cimitero degli elefanti cinico – e sadico – per brevità chiamato Ora o mai più su RaiUno. Amadeus, che di quel circo mesto è o sarebbe il conduttore, la guardava sgomento come si osserva la nonna che si appisola di fronte al semolino. E pure Toto Cutugno, che ce l’aveva accanto, non aveva gli occhi di uno che sulla Vanoni avrebbe puntato poi granché. Sbagliando, perché pochi giorni prima quella stessa signora aveva demolito in due parole (coadiuvata dalla sempre sobria Rettore) il povero Minghi Amedeo. È un ben strano “Baglioni II”: né bello né brutto, quasi condannato a star sempre in mezzo al guado, con meno guizzi del peggior Torino di Mazzarri e sporadici scatti in avanti di cui fatichi ad accorgerti. Superospiti veri (Mannoia) e assai presunti (Amoroso). Monologhi carucci ma disinnescati (Bisio). Comici guasconi che, ben oltre le loro reali intenzioni, assurgono a satirici spietati (Pio e Amedeo, comunque tra le vette di questi giorni). E il solito Antonello Venditti, che un po’ canta, un po’ bela e più che altro imita Corrado Guzzanti quando imita lui. Ed è qui, tra Gianni Rodari e Sergio Endrigo ingiustamente vilipesi, che è arrivata (tornata, deflagrata) Ornella Vanoni. Ha fatto l’unica cosa che andrebbe fatta quando vieni imitata: stare allo scherzo e partecipare allo sketch, estremizzando l’effetto caricaturale e passando (vero o falso che sia poco importa) per diva autoironica. Duettando con Virginia Raffaele, che quando può andare a briglia sciolta è brava come poche e si avvicina persino alla Divina Marchesini, la Vanoni non ha sbagliato nulla. E quando lo ha fatto, era voluto. Un momento televisivamente riuscitissimo. Per merito di entrambe. E alla faccia di chi la immaginava finita.
“Il Baglioni ter? Non lo escludo. Tre brani non mi sono piaciuti”
Fabrizio Salini, ad Rai, celebra il suo battesimo sanremese nell’edizione più faticosa degli ultimi anni. Non tanto per gli ascolti, che vanno bene anche se non benissimo, ma per il clima. Prima di rispondere alle nostre domande, ha rispedito al mittente le accuse, sfociate in un esposto all’Agcom da parte del Pd, a proposito degli spot su quota 100 e reddito di cittadinanza: si trattava di spazi aggiuntivi, al di fuori della programmazione pubblicitaria tradizionale. “Dunque la Rai non ha subito alcun danno economico”.
I giornali hanno scritto che ci sarebbe una trattativa in corso per un programma sulla Rai condotto da Baglioni. Vero?
Sul palinsesto primaverile certamente no, su quello autunnale non lo so.
C’è un pre-accordo per il Baglioni ter all’Ariston?
Il contratto che Baglioni ha con la Rai è di natura biennale, non c’è un pre-accordo. Inizieremo a pensare all’edizione numero 70 di Sanremo quando questa sarà conclusa. Da domenica mattina, cominceremo a occuparci del prossimo festival insieme alla direttrice di RaiUno De Santis e, se troveremo in Baglioni un interlocutore voglioso di intraprendere un cammino insieme, io non lo escludo.
La politica è il babau di questo Festival. Una considerazione innocua del direttore artistico sui migranti ha scatenato uno tsunami: è la ragione delle tensioni tra Baglioni e i vertici di Rete?
Sanremo è sempre accompagnato dalle polemiche, spesso esagerate. La squadra di Raiuno, il sottoscritto e il cast hanno lavorato in maniera decisamente compatta. Le tensioni percepite sono naturalmente legate alla gestione di un evento di questo tipo. E comunque le polemiche a cui lei si riferisce non si sono mai riverberate sul Festival.
Non c’è stata quasi satira. Troppa prudenza?
Non vedo grandi differenze rispetto alle precedenti edizioni. Da uomo di prodotto e contenuto dico che questi spazi ci devono essere, ma è pur sempre un festival di musica. Le canzoni, che sono il centro di questo evento, affrontano tanti temi di attualità e hanno testi molto plurali. Per quanto riguarda la satira non mi è sembrato che sia mai andata al di là del lecito. Il festival è specchio del Paese, inevitabilmente un po’ di attualità fa capolino. Ma credo che sia la satira che le risposte che sono arrivate dalla politica siano state sempre scanzonate.
Un festival autarchico?
È stata fatta una scelta, cioè aprire quasi esclusivamente a una platea di cantanti, artisti, entertainer italiani. Però da qui a definirlo un festival sovranista, ce ne passa parecchio! Posso garantire: non c’è nessuna etichetta politica.
La direttrice De Santis ha parlato del conflitto d’interessi della Fep, la società che rappresenta Baglioni e anche molti artisti in gara, spiegando che il mondo della musica è piccolo e certe “contiguità amicali” sono ineludibili. Dichiarazioni troppo disinvolte per la Rai del cambiamento?
Credo che la direttrice di RaiUno si riferisse al fatto che il mondo della musica in Italia è molto concentrato. Quando c’è una fortissima concentrazione incrociare chi ha una vasta rappresentanza di artisti è inevitabile. Poi può piacere o no, ma questo è un altro argomento.
Forse è una questione di misura, di quanto è tollerabile?
Probabilmente la misura è importante. Ma è un effetto che si riverbera sul Festival, non è il Festival che lo causa.
E sulla Rai del cambiamento?
Penso che la Rai debba assolutamente intraprendere un percorso all’interno di un piano industriale che vedrà l’ottimizzazione dei contenuti e dei prodotti e quindi un utilizzo ancora più virtuoso della nostra offerta.
Un percorso che passa anche attraverso una riflessione sui cachet? Si è parlato dei compensi di Fazio e Vespa.
Una Rai più plurale e più aperta deve intraprendere questa strada. È già in corso il cambiamento.
La cosa che le è piaciuta di più e quella che le è piaciuta di meno di queste serate?
L’atmosfera sul palco è ciò che mi è piaciuto di più: non era scontato che tre artisti importanti come Baglioni, Bisio e Raffaele trovassero un’alchimia. Due o tre canzoni invece non mi sono piaciute, ma non le dirò quali.
Sorpresa: Sanremo piace anche ai giovani
Lo share del Festival è come il risultato delle elezioni: anche se ovviamente è impossibile, nessuno perde mai. Al massimo non vince. La terza serata di Sanremo è stata vista da 9 milioni e mezzo di spettatori, pari al 46.7% di share: un calo di quasi cinque punti rispetto alla terza serata dell’anno scorso, che aveva messo però a segno una media record di 10 milioni 825 mila telespettatori con il 51.6%, cioè lo share più alto dal 1999. Insomma, cala l’ascolto ma contemporaneamente è il risultato migliore rispetto alla media degli ultimi 14 anni. Come si vede, la matematica è ampiamente un’opinione. Tornando seri, c’è un dato molto interessante ed è quello dell’ascolto dei giovani e dei giovanissimi: nella fascia d’età tra gli 8 e i 14 anni Sanremo ha centrato il dato più alto degli ultimi 21 anni, il 48.4% (raddoppiando in un lustro), con un picco del 60% sulle ragazze di 15-34 anni. L’attenzione dei ragazzi è fortissima finché c’è la gara, fa notare la direttrice di RaiUno Teresa De Santis. E Claudio Baglioni sottolinea, con giustificata soddisfazione, che “l’età media dei concorrenti è di 37 anni: una sorta di miracolo per Sanremo che generalmente si mantiene su età più alte”. Vuol dire che l’operazione di riunire il concorso, abolendo la gara riservata ai giovani, è stata una buona intuizione: i tanti ragazzi che abbiamo visto avvicendarsi sul palco sono riusciti a catturare l’attenzione dei loro coetanei.
E questo nonostante (o forse proprio per) le polemiche, ad esempio quelle sulla canzone di Achille Lauro, Rolls Royce, accusata di essere un inno all’uso di droghe visto che la scritta Rolls Royce è stampata sulle pasticche di ecstasy. Lui ha detto di non essere assolutamente a conoscenza di questa circostanza (ci crediamo?) e che il suo brano racconta le icone pop e i simboli del lusso. L’immaginario a cui fa riferimento anche il testo del rapper ventenne Anastasio, ospite certamente gradito ai ragazzi ieri sera all’Ariston, in un numero con Bisio sul mestiere di padre: “Tuo figlio idolatra un idiota che parla di droga e di vita di strada/Scalata sociale di gente normale che pare alla nostra portata”. E si domanda: “Vecchi come state? Vi state godendo la festa. Io non so mica, mi manca il respiro, mi gira la testa. Io sono sicuro soltanto del fatto che sono insicuro”. Giovedì sera sul palco era arrivato Fabio Rovazzi con i suoi tre successi, interrotto dall’irruzione di Fausto Leali in versione Cavallo Pazzo.
Insomma, i ragazzi si candidano a comandare, senza chiedere il permesso ma senza violente rottamazioni. Da notare che il dialogo tra generazioni è anche il tema della canzone di Daniele Silvestri (una delle due papabili per il premio della critica, insieme a quella di Simone Cristicchi), brano molto apprezzato sia dalla giuria demoscopica che dalla sala stampa. Così come quello di Enrico Nigiotti, un dolcissimo dialogo con il nonno scomparso.
Se Baglioni ha in parte “dirottato” il Festival verso un orizzonte futuro con un’operazione intelligente, non ha rotto con la tradizione: il picco di ascolto, durante la prima serata (15 milioni e mezzo di spettatori) non a caso è stato con il super classico Andrea Bocelli, mentre il picco di share, il 54% è stato durante il duetto tra Claudio Baglioni e Giorgia. Mercoledì invece 14 milioni di persone hanno visto il duetto del direttore artistico con Fiorella Mannoia, Quello che le donne non dicono. Applauditissimo anche Antonello Venditti con due evergreen, Nata sotto il segno dei pesci e Notte prima degli esami. “Il patto è stringerci di più”: probabilmente oggi scopriremo che l’acclamata esibizione di Ligabue – oltre a Urlando contro il cielo, con Baglioni ha omaggiato Francesco Guccini, cantando Dio è morto versione rock – avrà totalizzato un altro record.
In questo crossover generazionale, la circostanza più divertente. Tim data room (il cui spot è cantato da Mina) ha diffuso i dati di Twitter: il picco di post giovedì sera si è verificato durante lo storico incontro tra Ornella Vanoni e Patty Pravo sul palco. Nella gag con Virginia Raffaele la Vanoni ha trovato il modo di dire alla Rai che a questo giro è venuta gratis, “ma non diventi un’abitudine”, strappando diversi applausi. Ci voleva un’ottuagenaria per ravvivare il clima rarefatto di questo Sanremo che sorride pochissimo.
Caso Benalla, via capo scorta del premier
Il Benallagate che imbarazza il presidente Macron da mesi ora coinvolge anche il suo primo ministro. Due nuove figure sono entrate in scena nelle ultime ore. La prima è è Chorkri Wakin, 34 anni, sergente maggiore dell’esercito francese e amico di Alexandre Benalla, l’ex consigliere per la sicurezza di Macron, licenziato l’estate scorsa per violenze al corteo del primo maggio. La seconda è Marie-Elodie Poitout, capo del servizio di sicurezza del premier, Édouard Philippe, e compagna di Wakin.
Dopo essere stata convocata dal capo di gabinetto di Philippe per rendere conto dei suoi legami con Benalla, la Poitout, che ha ammesso di conoscerlo dal 2017, si è dimessa. Wakin è stato a sua volta convocato dai superiori e sospeso a tempo indeterminato. Un’inchiesta per corruzione è stata aperta dal tribunale finanziario. Ma che hanno a che vedere i due con Benalla?
Chorkri Wakin avrebbe giocato un ruolo in quella che ormai viene chiamata la “vicenda del contratto russo”: secondo il giornale online Mediapart, Benalla, quando era ancora in servizio all’Eliseo, avrebbe negoziato un ricco contratto per la fornitura di servizi di sicurezza a un oligarca russo, Iskander Makhmoudov, vicino a Putin e sospettato di legami con la mafia.
A fine luglio, quando cioè era già indagato e fuori dall’Eliseo, Benalla è stato a casa della coppia, a Parigi, vicino al Trocadero. Marie-Elodie Poitout ha confermato l’incontro. Ma nella vicenda del contratto russo un altro personaggio è implicato. A dicembre un bonifico di 294.000 euro era stato versato a Vincent Crase, ex gendarme riservista impiegato del partito La République en Marche. Il suo nome è già noto: Benalla e Crase erano stati ripresi nello stesso video mentre, il primo maggio, con insegne della polizia, picchiavano giovani in place de la Contrescarpe, a Parigi. Sia Benalla che Crase erano stati licenziati al momento dello scandalo e indagati per violenze il 22 luglio. Il 26 luglio, per decisione della giustizia, non avrebbero dovuto parlarsi e invece nella conversazione telefonica, la cui registrazione è stata resa nota da Mediapart, i due parlano senza problemi di Macron: “Il capo ieri sera mi ha inviato un messaggio. Mi ha detto: ‘Te li mangerai. Sei più forte di loro, è per questo che ti avevo al mio fianco’”, dice Benalla. “Dunque il patron ci sostiene?”, chiede Crase. “Di più, è come un matto”. L’Eliseo ha poi smentito ogni contatto tra il presidente e Benalla. Crase e la sua società Mars sarebbero serviti come copertura per Benalla. Dopo lo scandalo però, sostiene Libération, i due avrebbero creato una nuova società, con il nome di France Close Protection e stessa sede sociale della precedente. Nello stesso periodo, anche Wakin avrebbe fondato una società con Benalla: “Un veicolo finanziario per remunerare Wakin in relazione al contratto russo?”, si chiede il giornale. Coinvolto nello scandalo, l’ufficio del primo ministro ha assicurato: “Da noi totale trasparenza”.
Khashoggi, una pallottola con dedica da parte di Mbs
L’affaire Khashoggi, iniziato il 2 ottobre scorso con la scomparsa del giornalista dissidente Jamal Khashoggi dal consolato saudita di Istanbul e proseguito con la clamorosa ammissione del suo raccapricciante omicidio da parte di una squadra di membri della sicurezza di Ryad vicini al principe ereditario Mohammed bin Salman, non è ancora ufficialmente risolto nonostante l’evidenza. Ieri, il New York Times ha rivelato le conversazioni del principe ereditario dell’Arabia Saudita con un suo assistente nel 2017 in cui sosteneva che avrebbe usato “un proiettile” se il giornalista Jamal Khashoggi non fosse tornato nel Regno e non avesse posto fine alle critiche nei confronti del governo di Riad.
Le intercettazioni dell’intelligence statunitense, rappresenterebbero – secondo il giornale – “la prova più dettagliata mai uscita fino ad oggi che il principe ereditario aveva considerato di uccidere Khashoggi molto prima che una squadra di agenti sauditi lo strangolasse nel Consolato saudita di Istanbul e ne smembrasse il corpo con una sega”. Episodio dapprima negato dai sauditi, che avevano tentato maldestramente e cinicamente di nascondere l’assassinio e lo smembramento del corpo del giornalista residente negli Stati Uniti e poi reso noto con tanto del nome del killer.
Quella decisione tuttavia non aveva soddisfatto nessuno perché il mandante è rimasto a piede libero. Secondo tutti gli organismi internazionali e la più nota intelligence del mondo, la Cia, il responsabile sarebbe proprio il giovane principe ereditario saudita che però rimane protetto grazie alla sua posizione al vertice della famiglia reale che guida il paese islamico. “La Turchia ha evitato l’insabbiamento dell’omicidio di Jamal Khashoggi, che secondo i piani dei suoi organizzatori doveva essere imputato ad altri. La Turchia ha capovolto queste intenzioni”, ha detto il ministro della Giustizia di Ankara, Abdulhamit Gul, incontrando l’associazione degli avvocati locali all’indomani delle accuse rivolte a Riad dagli esperti dell’Onu che indagano sul caso. La relatrice speciale della Nazioni Unite, Agnes Callamard, che ha recentemente visitato la Turchia con un gruppo di esperti per un’inchiesta internazionale sull’omicidio, ha accolto con favore gli sforzi della Turchia e ha denunciato che “l’omicidio di Khashoggi nel consolato del regno a Istanbul è stata pianificata e perpetrata da funzionari sauditi. Le prove raccolte durante la mia missione in Turchia mostrano che Khashoggi è stato vittima di un brutale e premeditato omicidio, pianificato e perpetrato da funzionari dello Stato dell’Arabia Saudita”.
Il fatto che l’Arabia Saudita si sia opposta alla cooperazione con la Turchia ha impedito di illuminare tutti gli aspetti del crimine, per primo il luogo dove sono stati sepolti i resti del giornalista critico da tempo proprio nei confronti di Mohammed bin Salman.
L’omicidio ha violato “sia la legge internazionale che le regole fondamentali delle relazioni internazionali, inclusi i requisiti per l’uso lecito delle missioni diplomatiche”, ha sottolineato ancora l’inviata dell’Onu, aggiungendo che le garanzie di immunità non sono mai state intese a facilitare la commissione di un crimine ed esonerare i suoi autori dalla loro responsabilità penale. Le circostanze dell’uccisione e della risposta da parte dei rappresentanti di stato possono essere descritte come “immunità per l’impunità”.
Ieri è tornata a parlare anche Hatice Cengiz, promessa sposa del giornalista. Intervenendo a Istanbul alla presentazione di un libro sul caso, la donna ha detto di sperare ancora che i responsabili vengano puniti, spiegando di confidare nel fatto che il re saudita Salman “ha una coscienza”. Cengiz ha anche lanciato un nuovo appello ai politici americani ed europei a proseguire gli sforzi per fare piena luce sul delitto.
L’ultimo Bezos: firmato Pecker
Negli Stati Uniti, “roba da National Enquirer” era, fino a poco tempo fa, sinonimo di informazione poco attendibile: il National Enquirer era il “settimanale da supermercato” per antonomasia, quello che si compra alla cassa attirati dai titoli cubitali e dalla promessa di interviste esclusive a persone rapite dagli alieni e quindi restituite al nostro mondo per potere raccontare la loro avventura. Poi, un amico dell’editore David Pecker, un uomo d’affari newyorchese di 67 anni, è approdato alla Casa Bianca, anche grazie ai favori del National Enquirer; e qualcosa è cambiato: il settimanale è diventato un giornale cui prestare attenzione perché attacca, al limite della diffamazione e magari oltre, i nemici di Donald Trump oppure compra in esclusiva le dichiarazioni di personaggi scomodi per l’inquilino della Casa Bianca, per non farle uscire e impedirne la pubblicazione altrove.
Così, l’accusa rivolta al National Enquirer dal numero uno di Amazon, e del Washington Post, nemico dichiarato del magnate presidente, Jeff Bezos, appare credibile: Bezos denuncia un tentativo di “ricatto ed estorsione” ai suoi danni. La proprietà del settimanale – racconta – lo ha minacciato via email di pubblicare foto di lui nudo inviate alla sua amante, ora fidanzata ufficiale. Bezos ha da mesi una storia con Lauren Sanchez, giornalista televisiva, moglie del suo amico Patrick Whitesell, uno degli agenti più potenti di Hollywood: la relazione tra Jeff e Lauren è all’origine del divorzio, recentemente annunciato, del finanziere dalla moglie MacKanzie, un’intellettuale e autrice schiva e riservata. A rivelare la storia è stato proprio il National Enquirer, pubblicando foto dei due insieme (ma vestiti). Ora, Bezos scrive, in un post, che un legale della American Media Inc, il gruppo guidato da Pecker, ha inviato a un suo collaboratore alcune mail in cui si minaccia di mettere online sue foto osé: “ricatto ed estorsione” a parte, c’è forse dietro anche un tentativo di condizionare l’atteggiamento del Washington Post nei confronti del presidente Trump. Il giornale del Watergate è fra gli acerrimi nemici mediatici del magnate, accanto al New York Times e alla Cnn. E, così, ci si ricorda che c’è Pecker dietro molte operazioni recenti di ‘killeraggio mediatico’ Usa, sempre ‘pro Trump’.
Nato nel Bronx in una famiglia ebrea, contabile della Cbs a inizio carriera, Pecker è arrivato a essere un magnate dell’editoria dozzinale: American Media Inc, la sua società, pubblica una dozzina di testate, tipo Muscle and Fitness. Secondo l’Associated Press, nella sede del tabloid ‘ammiraglia’ della flotta Pecker c’era una cassaforte dove rimaneva chiuso materiale potenzialmente dannoso per Trump e destinato a restare inedito.
Proprio il National Enquirer, ad esempio, comprò le dichiarazioni di una ex coniglietta di Playboy, Karen McDougal, che sostiene di avere avuto una relazione con Trump. Indagato con l’avvocato personale del magnate Michael Cohen, Pecker si è visto concedere l’immunità: segno, secondo molti media, che l’editore ha in qualche modo accettato di collaborare con la giustizia. Come Cohen, condannato anche per avere comprato il silenzio della pornostar Stormy Daniels, altra partner occasionale di Trump, Pecker ha ammesso di avere tentato di influenzare le elezioni 2016, difendendo il magnate da notizie imbarazzanti. L’Ap fa riferimento a “pagamenti sottobanco” documentati riguardanti non solo Trump, ma anche altri vip, che accettavano di sborsare somme in nero perché le storie che li riguardavano restassero inedite. Nel mirino di Pecker e dell’American Media Inc. è finito anche Ronan Farrow, l’autore dello scoop del New Yorker che aprì la diga alla serie di denunce di molestie sessuali a Hollywood, divenute l’onda #MeToo.
Bezos scrive che nelle email inviategli si dice che le immagini verranno pubblicate se lui e il suo legale non diranno il falso alla stampa, affermando pubblicamente di non aver alcun elemento per dire che la copertura della storia con la Sanchez è stata politicamente motivata o influenzata. Il proprietario di Amazon, che paga in borsa lo scandalo, perdendo quasi il 3%, ed editore del Washington Post chiama in causa il presidente: “È inevitabile che persone potenti pensino che io sono loro nemico. Il presidente Trump è una di queste persone, come emerge con chiarezza da suoi tanti tweet”.
Pecker agisce per assecondare il presidente senza neanche attenderne richieste o ordini. Capita anche al giornalismo americano, addestrato a essere cane da guardia del potere, di divenirne cucciolo da salotto.
Studio Italia-Usa: se si è a rischio obesità lo si potrà stabilire a 10 anni
Le persone a rischio obesità si possono individuare già a 10 anni: sono i bambini che per predisposizione genetica hanno un metabolismo “risparmiatore”, indica lo studio Italia-Usa pubblicato sulla rivista Metabolism Clinical and Experimental, che ha correlato la misura del metabolismo basale e l’aumento di peso durante l’adolescenza: “Alcuni bambini hanno un ridotto metabolismo, il che è probabilmente dovuto a una predisposizione genetica”, ha spiegato l’ingegnere biomedico Paolo Piaggi dell’Università di Pisa. La ricerca è stata condotta su 181 bambini nativi americani “perché in quest’etnia l’obesità è particolarmente diffusa”.
Melanzane di Stato: la ricetta di Erdogan contro l’inflazione
Melanzane di Statoe peperoni pubblici. È questa la ricetta preparata dal presidentissimo Recep Tayyip Erdogan per contrastare l’inflazione galoppante in Turchia, che minaccia di metterlo in difficoltà davanti agli elettori nel voto amministrativo tra 50 giorni. Per frenare il malcontento popolare sui prezzi schizzati alle stelle di molti beni di consumo, il ministro delle Finanze (e suo genero), Berat Albayrak, ha dichiarato che alcuni Comuni creeranno punti vendita pubblici di frutta e verdura per contrastare le “speculazioni” dei commercianti privati: “Non permetteremo a qualcuno di mettere le mani nelle tasche del nostro popolo”.
Atto omofobo contro studente gay: tutta la scuola al suo fianco
Hanno imbrattato muri e scale esterne di una scuola superiore di Brindisi con insulti omofobi rivolti a un ragazzo minorenne, di cui hanno scritto anche il nome e cognome. Ma i suoi compagni di scuola lo hanno difeso con un flash mob, tappezzando la facciata dell’istituto con striscioni sui quali c’era l’hashtag “#siamotuttifroci”. Al flash mob, all’esterno dell’istituto alberghiero, hanno partecipato studenti, docenti e anche i ragazzi delle altre scuole superiori della città. La notizia è riportata sul sito di Repubblica , edizione Bari. Le scritte omofobe sono state realizzate ieri e fatte rimuovere immediatamente dal dirigente scolastico, Vincenzo Antonio Micia. E questa mattina alla manifestazione è intervenuto anche il ragazzo vittima degli insulti. Parlando ai suoi coetanei pubblicamente ha detto: “Io sono fortunato, ho accanto la mia famiglia e i miei amici, oggi la vostra vicinanza mi fa sentire più forte in questo mio percorso di vita”.
Dopo le sue parole, secondo quanto riferito dal quotidiano, anche altri ragazzi hanno fatto coming out.
I pm: “Alemanno va condannato a 5 anni, era l’uomo politico di riferimento di Mafia Capitale”
“Condannare Gianni Alemanno, a cinque anni di carcere”. É la richiesta dei magistrati capitolini nel processo in cui è imputato l’ex sindaco di Roma per corruzione e finanziamento illecito. Si tratta di uno dei filoni nati dall’inchiesta denominata Mafia Capitale. Inizialmente l’ex sindaco era accusato anche di associazione mafiosa, ma è stato definitivamente scagionato: la sua posizione è stata archiviata. Sta invece affrontando un processo perché, secondo l’accusa, tra il 2012 e il 2014 avrebbe ricevuto oltre 220 mila euro per compiere atti contrari ai doveri d’ufficio. I soldi, in base all’impianto accusatorio, sarebbero giunti da Salvatore Buzzi in accordo con Massimo Carminati (entrambi sono stati condannati in Appello per associazione mafiosa) e sarebbero stati versati alla fondazione Nuova Italia, presieduta proprio da Alemanno. Nel corso della requisitoria, durata circa 6 ore, il pm Luca Tescaroli ha affermato che l’ex primo cittadino è stato “l’uomo politico di riferimento dell’organizzazione Mafia Capitale all’interno dell’amministrazione comunale, soprattutto, in ragione del suo ruolo apicale di sindaco. Inserito al vertice del meccanismo corruttivo – ha detto Tescaroli – ha esercitato i propri poteri e funzioni illecitamente e curato la raccolta delle correlate indebite utilità, prevalentemente tramite terzi propri fiduciari per schermare la propria persona. Gli uomini di fiducia, indagati e alcuni anche condannati in Mafia Capitale, sono stati proiezione della persona di Alemanno, che ha impiegato per la gestione del proprio potere”.
Secondo l’accusa, quindi, Alemanno ha sostanzialmente “venduto” la sua funzione anche con l’ausilio “del fidato Franco Panzironi, parimenti corrotto”, al “sodalizio criminale Mafia Capitale” che “è riuscito a ottenere il controllo del territorio istituzionale di Ama spa, società presieduta dal Comune di Roma”. Il pm ha, nel dettaglio, chiesto 4 anni e mezzo per corruzione e 6 mesi per finanziamento illecito, più l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, oltre che la confisca di 223.500 euro, l’equivalente del prezzo della corruzione.