“Ho cambiato io l’annotazione sulla salute di Cucchi: me l’ha dettata il maresciallo Mandolini”

Il depistaggioper coprire i carabinieri che, secondo la Procura, dopo l’arresto di Stefano Cucchi lo picchiarono, viene confermato anche nell’udienza di ieri al processo per la morte del giovane, avvenuta il 22 ottobre 2009, a Roma. Il maresciallo Davide Antonio Speranza ha confermato di aver firmato una nota del 27 ottobre 2009, suggerita dal maresciallo Mandolini, imputato per falso e calunnia: “Ho cambiato l’annotazione di servizio sulle condizioni di salute di Cucchi, dopo l’arresto, riscrivendola sotto dettatura del maresciallo Mandolini”. Quella nota fu firmata anche dal collega Nicolardi, imputato come Mandolini. La prima nota, scritta veramente da Speranza e firmata solo da lui, faceva capire che il ragazzo non stava bene: “Alle 5.25 la Centrale operativa ci ordinava di andare in ausilio al militare di servizio alla Stazione di Tor Sapienza in quanto Cucchi era in stato di escandescenza”; nella seconda invece si legge che “durante l’accompagnamento non lamentava nessun malore”. Mandolini, secondo Speranza, gli disse di cestinare la prima nota, ma non lo fece e così oggi diventa una prova importante per l’accusa.

Manuel dall’ospedale: “Tornerò più forte di prima”. Il giudice: “I 2 hanno sparato per uccidere”

“Tornerò più forte di prima”. Manuel Bortuzzo parla per la prima volta. E lo fa con un messaggio audio dalla stanza in cui è ricoverato, all’ospedale San Camilo di Roma. Intanto nel carcere di Regina Coeli il gip Costantino De Robbio ha convalidato l’arresto dei due mancati killer, basandosi su una convinzione: Lorenzo Marinelli e Daniel Bazzano, la notte tra sabato e domenica scorsa, hanno sparato per uccidere. I due ragazzi che hanno organizzato l’agguato in cui la giovane promessa del nuoto è rimasta vittima di uno scambio di persona resteranno quindi in carcere. Troppo “lacunosa la ricostruzione del movente” rivelata durante l’interrogatorio in Questura. “Irreali”, secondo i pm, le motivazioni che hanno portato i due indagati, di 24 e 25 anni, a costituirsi.

Hanno detto “quel ragazzo deve avere giustizia”, ma in realtà “appare evidente che i due, una volta appreso dagli organi di stampa del ritrovamento dell’arma con verosimilmente le impronte del Marinelli – scrive il giudice – abbiano deciso di costituirsi provando a circoscrivere la responsabilità al solo sparatore (Marinelli, ndr), senza riuscire a fornire però una ricostruzione dei fatti minimamente convincente”. Gli atti sottolineano anche “l’evidente intento di uccidere” e “l’assoluta pericolosità dei due indagati che, dopo aver programmato un omicidio (…) hanno poi ideato un piano tendente” a ridimensionare le loro responsabilità. E poi ci sono le dinamiche che ruotano intorno all’arma: “Non hanno esitato a recuperare una pistola che evidentemente avevano in precedenza acquistato e tenevano pronta per usarla”, afferma il gip non credendo alla ricostruzione, fornita dagli arrestati, secondo cui la pistola sarebbe stata ritrovata in una buca. Le indagini quindi proseguono per capire se qualcuno possa aver procurato la Smith&Wesson ai due indagati.

Ama e rifiuti a Roma, si dimette l’assessora Montanari

Roma è di nuovo senza assessore all’Ambiente. In piena crisi rifiuti e con la società che ne gestisce la raccolta “in una situazione di precarietà che prelude a procedure fallimentari”. Virginia Raggi e la sua giunta, infatti, hanno bocciato il bilancio 2017 della municipalizzata, nonostante i vertici nel dicembre scorso lo abbiano riscritto cedendo in parte ai desiderata del Campidoglio. Per la rabbia dell’assessora Pinuccia Montanari che poco dopo si è dimessa “in modo irrevocabile” spiegando che “non è più possibile per me condividere le azioni politiche e amministrative di questa Giunta”.

Pare – per ora – non intenzionato a dimettersi, il presidente di Ama, Lorenzo Bagnacani, che starebbe valutando gli estremi di legge per portare i libri contabili in tribunale. Il 28 febbraio scadono le linee di credito accordate dalle banche, su cui pesano oltre 1 miliardo di debiti. Presentarsi a quella data senza i bilanci approvati di ben due esercizi potrebbe scatenare, secondo i vertici aziendali, un pericoloso vulnus fra declassamento del rating e aumento degli interessi. Perciò Bagnacani da settimane minaccia di ricorrere ai giudici fallimentari per essere, solo poi, sostituito da un commissario. Tutto ciò avviene proprio mentre il Campidoglio sta affrontando la crisi della raccolta accentuata dall’incendio che l’11 dicembre ha distrutto il Tmb Salario e per scongiurare una possibile nuova discarica all’interno del Comune di Roma, indicata dal nuovo piano rifiuti della Regione Lazio. Senza il bilancio approvato, resta bloccato anche il piano industriale che avrebbe dovuto dare il via libera ai progetti delle fabbriche di materiali e degli altri impianti di smaltimento “alternativi”.

La bocciatura del bilancio è figlia di un contenzioso da 60 milioni fra Ama e Campidoglio. La società capitolina, sin dal 2012, sostiene di dover ottenere dal Comune la restituzione di quei fondi a titolo di rimborso nell’ambito della realizzazione di loculi e servizi cimiteriali vari. Il credito, mai contestato prima, è stato iscritto anche nel bilancio approvato dal cda Ama il 31 marzo 2018. Ma l’assessore al Bilancio, Gianni Lemmetti – supportato dal dg del Comune, Franco Giampaoletti – dopo aver disertato per 8 mesi l’assemblea dei soci, a novembre ha fatto opposizione (per la cifra di 18 milioni) nonostante i pareri esterni raccolti dai vertici aziendali. Al termine di una lunga mediazione portata avanti dalla Raggi, il 5 dicembre Bagnacani e Lemmetti raggiungono un accordo e Ama riscrive il bilancio creando un fondo di rischio ad hoc. Tutto risolto? Affatto: i revisori Ernst & Young danno il via libera, il collegio sindacale – in scadenza – no. Il Comune ricomincia a disertare le sedute dell’assemblea dei soci, banche e fornitori si rifanno sotto. “La bocciatura del collegio sindacale è un elemento ostativo”, dicono fonti dell’assessorato al Bilancio; non la pensano così i 6 professionisti contabili, romani e milanesi, interpellati da Bagnacani.

E ora? È da novembre che la sindaca cerca una sostituta di Montanari. Ma per la regola delle quote rosa serve una donna, specie dopo la promozione del delegato Antonio De Santis. Ma va detto che per Ama il quadro è assai diverso da quello di Atac: nonostante il debito ultramiliardario, la società può contare su bilancio sempre in pari, un ricco contratto di servizio e gli introiti dalla Tari più alta d’Italia.

Sulle piste da sci tutti dovranno indossare il casco

Per sciare tutti dovranno indossare il casco. Dopo le ultime tragedie sulla neve il governo ha intenzione di rendere più sicure le piste da sci con nuove regole: a partire dall’estensione dell’obbligatorietà del casco, oggi prevista solo per i minori di 14 anni. La novità è contenuta nella legge delega approvata in Consiglio dei ministri sulla riforma dello sport: nel pacchetto rientra pure la dotazione di un defibrillatore in ogni comprensorio (come già per palestre e impianti sportivi), multe e controlli severi. Quest’ultimo è il punto più delicato della delega: nel testo si parla di “rafforzamento della vigilanza”, di competenza di carabinieri e polizia di Stato, che però già fanno fatica a presidiare le piste da sci e hanno altre priorità. Questo e altri nodi andranno sciolti nei decreti attuativi che porteranno all’entrata in vigore delle nuove norme, forse già a partire dalla prossima stagione invernale. Prima, però, la delega dovrà essere confermata dal parlamento, dove potrebbe incontrare diverse resistenze: sull’obbligo di casco, ad esempio, i gestori spingono per un intervento soft (soltanto fino a 18 anni) a Palazzo Chigi sembrano orientati all’estensione per tutti.

Acqua, è il momento di mobilitarsi

In questi mesi ci giochiamo tutto sull’acqua. Serve una mobilitazione forte perché il Parlamento finalmente approvi una legge sull’acqua che rispetti il Referendum del 2011. In quell’occasione 26 milioni di cittadini hanno votato per togliere l’acqua al mercato, perché su un bene così scarso e prezioso non si può fare profitto. Dopo otto anni e ben cinque governi, ancora aspettiamo una legge. Anzi, tutti e cinque hanno favorito la privatizzazione dell’oro blu.

Ma i comitati per la gestione pubblica dell’acqua, insieme al Forum, non hanno mai smesso di ricordare alla politica il dovere di obbedire al Referendum, perché l’acqua è uno bene comune fondamentale, oggi messo in pericolo dal surriscaldamento del pianeta: avremo sempre meno acqua potabile disponibile. Ecco perché le multinazionali cercano di mettere le mani sull’oro blu, per venderlo come il petrolio.

Sarebbe una tragedia per l’umanità, soprattutto per i più poveri. Per fortuna papa Francesco nell’enciclica “Laudato Si” ha ricordato a tutti che “l’accesso all’acqua potabile e sicura è un diritto umano, essenziale, fondamentale e universale perché determina la sopravvivenza delle persone. È un diritto alla vita”. Un termine, vita, in campo cattolico usato per l’aborto e l’eutanasia. “Un’affermazione di radicale importanza – afferma la teologa americana Christiana Peppard –, un contributo essenziale al dibattito pubblico nell’era della globalizzazione economica”.

Mossi da questa convinzione non abbiamo mai smesso di premere perché i governi obbediscano al Referendum. Solo con i governi Renzi e Gentiloni la commissione Ambiente della Camera aveva preso in considerazione la legge di Iniziativa Popolare, proposta dal Forum e dai Comitati, ma l’aveva poi stravolta. E noi l’avevamo ripudiata. Ora con il governo gialloverde la Commissione Ambiente della Camera ha di nuovo ripreso in mano il testo originale della legge e il 30 gennaio scorso l’ha approvato. E nella prima settimana di marzo questo disegno di legge verrà discusso alla Camera.

È un momento cruciale. Il Disegno di Legge prevede la ripubblicizzazione dell’acqua con il meccanismo dell’Azienda Speciale (come abbiamo a Napoli) e avrà una forte opposizione in Parlamento. Dobbiamo mobilitarci. Per questo il Forum dei movimenti per l’acqua invita i rappresentanti dei Comitati all’Assemblea Nazionale di Roma il 23 febbraio al Millepiani Coworking. È un momento storico, per cui lanciamo un pressante appello a:

– Comitati dell’acqua, perché facciano pressione sui parlamentari della propria regione sia per telefono o web con mailbombing;

– CGIL, UIL, CISL, perché si schierino per la gestione pubblica dell’acqua e premano sul Parlamento;

– ACLI, AGESCI, Azione Cattolica, ecc.. perché, come si sono spesi per il Referendum, si impegnino ora per la nuova legge;

– Conferenza Episcopale Italiana (CEI), perché sulla scia di papa Francesco, prenda posizione sulla ripubblicizzazione;

– Parroci e sacerdoti, perché aiutino i fedeli a capire, con le parole di papa Francesco, quanto sia importante la ripubblicizzazione dell’acqua;

– Giornalisti, perché aiutino a rompere il silenzio mediatico su questo tema;

– Cittadini, perché facciano sentire la loro voce utilizzando tutti i mezzi a loro disposizione.

Credenti e laici, insieme, possiamo ottenere una prima grande vittoria per il più importante dei beni comuni. L’Italia sarebbe la prima nazione Ue a farlo, un esempio che potrebbe trascinare il resto dell’Europa. Diamoci da fare per questa legge che ripubblicizza l’acqua, che è la Madre della vita. È mai possibile privatizzare la madre? Diamoci da fare perché vinca la vita.

Napoli, la grande abbuffata dei posti nella (vecchia) Acea

La società mista campana Gori spa, controllata di fatto da Acea, la multiservizi di Roma, e assegnataria della gestione del servizio idrico tra le province di Napoli e di Salerno, assunse centinaia di persone soltanto perché segnalate dai politici locali. E lo fece su ordine dell’allora Ad Stefano Tempesta, scelto da Acea, e da altro management proveniente dalla multiutility romana. Lo afferma la Procura di Torre Annunziata (Napoli) in 17 pagine depositate al termine di un’inchiesta di quasi dieci anni, nata su una notizia di reato del 1º dicembre 2007 a Massa Lubrense, relativa ad antiche gestioni di Gori e Acea, e inghiottita nei giorni scorsi dal gorgo di una archiviazione per prescrizione.

Quello riassunto nell’atto giudiziario dei pm torresi è il racconto hard di una colossale clientela. Secondo la Procura, Acea, che in virtù dei patti parasociali guidava Gori attraverso il 37% intestato alla società veicolo Sarnese Vesuviano srl, decise consapevolmente di gonfiarne in maniera abnorme l’organico, riempiendolo di personale poco qualificato, purché raccomandato. Perché la sua stella polare – è la ricostruzione frutto di testimonianze, documenti e intercettazioni – non era quella di rendere un servizio efficiente per la collettività, ma disegnare a ogni costo bilanci positivi per consolidare il titolo in Borsa di Acea negli anni prima del 2009. E per questo c’era bisogno del beneplacito dei politici.

Ovvero sindaci e amministratori dei 76 Comuni azionisti dell’Ente d’Ambito Sarnese Vesuviano (Easv), interamente pubblico, detentore del 51% delle quote e dunque “controllore” di Gori-Acea, coi quali si approvavano i bilanci e i piani di sviluppo di Gori: venivano nutriti e addomesticati con le assunzioni clientelari del loro “elettorato”. “Incarichi e retribuzioni sono dipese solo dal peso del politico segnalante”, sostiene il pm. L’intera logica ‘speculativa’ non fu ostacolata, perché chi avrebbe dovuto controllare non lo fece e in qualche caso andò a lavorare dai controllati. La Procura sottolinea che il primo presidente di Easv fu un politico in quota Ds-Pd “vicino a Bassolino”, Alberto Irace, che nel 2007 “improvvisamente lasciava la poltrona per accettare l’incarico propostogli di dirigente proprio in Acea”. Negli anni successivi ne diventerà amministratore delegato, dopo aver lavorato in Toscana come Ad di Publiacqua, luoghi in cui si avvicina al mondo di Matteo Renzi. “Irace fu compiacente alle finalità egemonistiche di Acea”, scrive la Procura.

È tutto nero su bianco – tranne le amicizie e i curriculum delle persone citate – nelle 17 pagine della richiesta di archiviazione della Procura e vistate dal Gip. Non ci sono più reati perseguibili. Fatti vecchi, gestioni risalenti a una decina di anni or sono. Si era accumulata una tonnellata di polvere sul tavolo della grande abbuffata delle 674 assunzioni compiute fino al 2007. A un certo punto, Gori era così strapiena di personale che dirottò i raccomandati verso le società appaltatrici dei servizi esternalizzati nonostante l’organico monstre, come Acquaservizi. Gli operai facevano i colloqui in Gori e poi venivano presi in Acquaservizi.

Tutto ciò per la Procura non configura un’associazione a delinquere tra dirigenti Gori-Acea, politici e imprenditori dei 100 appalti Gori monitorati intorno a una torta di 90 milioni di euro, ma solo un caso di “malcostume”, una “privatizzazione all’italiana” che ha perseguito “miseri interessi clientelari”.

Prescritto tutto il resto, compreso un episodio di corruzione e un altro di frode in pubbliche forniture a Capri. I 26 indagati del fascicolo 2989/10 possono tirare un sospiro di sollievo. A cominciare dal subappaltatore-politico della costiera sorrentina che fu perquisito dalla Finanza nel giugno 2010, e preso dal panico gettò uno dei suoi personal computer nel fuoco. L’hard disk fu salvato ed emersero le tracce di un favore: i suoi lavori di ristrutturazione gratuiti nella casa dell’Ad Tempesta a Roma, uno dei cinque nomi sull’avviso proroga indagine del novembre 2010 per reati di abuso d’ufficio, turbativa d’asta, falso e truffa. L’unico atto trapelato e conoscibile fino all’archiviazione di 8 anni e mezzo dopo. Un altro dei cinque indagati in chiaro era Giovanni Marati, rinominato poche settimane fa Ad di Gori dopo esserlo stato dal 2009 al 2014. Anche Marati, come Irace, è stato Ad di Publiacqua, la ‘renzianissima’ società pubblica toscana presieduta dall’amico di Renzi Filippo Vannoni, indagato nell’affaire Consip. Nomi che ricorrono nel giro delle gestioni del servizio idrico.

Ora queste archiviazioni, più severe di una condanna, daranno nuovi argomenti a chi chiede che la gestione dell’acqua torni ad essere interamente pubblica. Come stabilito da un referendum del 2011.

Da Es17 a oggi: vecchi e nuovi “destinati a morte”

“Questi quando scendono portano la morte sulle spalle… credimi… quando arrivano è finita”. Due anni, dal 2014 al 2016, e 60 “caduti”, tutti giovanissimi. È la “paranza dei bambini”, nome consacrato dal libro di Roberto Saviano (e dall’omonimo film che il 12 febbraio verrà presentato al Festival di Berlino): grilletti facili, abituati a far fuoco tra la folla, a sparare per sentirsi importanti. Una paranza che da Forcella si insinua nei Decumani, e scende giù fino ai Tribunali e a Porta Capuana. Il ventre molle di Napoli, la periferia nel centro, tra turisti che di giorno riempiono le strade, e gente che di notte si rintana nei bassi trasformati in nuove piazze di spaccio di droga, il vero carburante capace di far girare il motore della mattanza.

Dicono che siano quasi venti i ragazzi che aspirano a emulare oggi Emanuele Sibillo. E che le “fibrillazioni” che nelle ultime settimane si stanno registrando nel cuore di Napoli, tra stese e bombe in esercizi commerciali più o meno famosi, non siano altro che assestamenti convulsi dovuti ai movimenti dei giovanissimi – gruppi dello stesso clan, o rivali – che si frastagliano, si parcellizzano, si spostano rapidamente da un fronte a un altro, come tante piccole formiche. Complici i sempre mutevoli equilibri criminali, quelli delle grandi famiglie che, nell’ombra, continuano a contendersi la città. Oggi come cinque anni fa.

In questi giorni gli inquirenti – i pm Francesco De Falco e Celeste Carrano, nel pool guidato da Giuseppe Borrelli, sotto la regia del Procuratore capo Giovanni Melillo – stanno freneticamente raccogliendo decine e decine di prove, indizi, dichiarazioni, conversazioni intercettate. Lo schema, ancora una volta, sembra ripetersi: la paranza come propaggine dei grandi cartelli mafiosi, delle grandi famiglie della camorra cittadina, dai Contini ai Licciardi, storicamente ostili ai Mazzarella, il gruppo che non ha mai smesso, nemmeno negli anni in cui i capifamiglia sono finiti in carcere, di voler controllare il centro di Napoli. I clan storici, si legge in una delle ultime relazioni della Direzione investigativa antimafia, “limitando il ricorso ad azioni violente, lascerebbero la gestione delle attività esecutive a gruppi satellite, per dedicarsi ad attività criminali di più alto profilo, quali il riciclaggio e il re-impiego di denaro di provenienza illecita”. Ai bimbi sono state lasciate negli anni le piazze di spaccio, da piazza Bellini a Forcella. Ai boss, invece, il monopolio del racket, da riscuotere sul territorio sempre attraverso nuove alleanze, giovanipiscitielli, cavalli più o meno grandi su cui puntare, “basta che abbiano la mano ferma per sparare”.

Ai tempi di Emanuele Sibillo, le estorsioni si facevano soprattutto agli ambulanti della Maddalena, con le loro bancarelle di borse e scarpe contraffatte (il business del mercato delle griffe false assicura alla camorra introiti fino a 20 milioni all’anno), alle prostitute e ai parcheggiatori abusivi di Porta Nolana, alle pizzerie di via dei Tribunali. Oggi c’è da aggiungere al conto un centro storico che è passato da 1 a 4 milioni di turisti annui, con le friggitorie e pizzerie che prendono il posto delle piccole botteghe storiche (per uno spazio commerciale su strada, da 40-45 mq, qui si paga d’affitto 5mila euro al mese) e almeno 200 nuovi bed&breakfast che stanno gentrificando i vicoli popolari.

Tutto era sembrato iniziare nel mese di luglio di qualche anno fa. A pochi metri dal Duomo, dalla strada dei presepi e dal Cristo velato, in via Oronzio Costa muore, colpito da un proiettile alla schiena, il 19enne Emanuele Sibillo, barba da jihadista e occhiali neri. Era il 2 luglio 2015. Le strade dei Decumani sono ancora oggi piene di scritte sui muri “F.S.”, Famiglia Sibillo. I ragazzini 15enni si tagliano i capelli come ‘Manuè e si tatuano il numero 17, nel nuovo gergo in cui a ogni numero (17) corrisponde una lettera dell’alfabeto (S come Sibillo): ovvero si stampano sulla pelle l’ammirazione, il rispetto, e l’appartenenza a Emanuele che “era uno di noi, uno dei ragazzi del centro storico che ha portato in alto il nostro quartiere e ha scacciato il tumore”. Il tumore era ed è, oggi come quarant’anni fa, la famiglia Mazzarella.

Emanuele, da latitante, erano giorni che andava a sparare in via Oronzio Costa, in quello che è stato soprannominato “il vico della morte”. Sparava contro il portone dei Buonerba, un altro gruppo di ragazzini che, appoggiati dai Mazzarella, si stavano di nuovo allargando nel quartiere e che si erano messi in testa di “fargliela pagare a ‘sti scampati dei Sibillo – si ascolta nelle intercettazioni – fino ad adesso hanno mangiato loro, ora dobbiamo tornare a mangiare noi”. È così che vengono decisi a tavolino spedizioni punitive, stese coi motorini, omicidi, vendette. Con quella “spregiudicatezza criminale e la breve sopravvivenza” che caratterizza, secondo i magistrati, il fenomeno della paranza: “Piccoli eserciti di ragazzi sbandati – si legge nelle carte – senza una vera e propria identità storico-criminale che,da anonimi delinquenti, si sono impadroniti del territorio attraverso una quotidiana violenza, utilizzata come affermazione e assoggettamento ma, anche, sfida verso gli avversari”.

Ed è così che si compie il destino obbligato che hanno davanti. “Tu hai solo due strade, o Poggioreale o morte”. Basta guardarli i protagonisti, quelli veri, della paranza dei bimbi: tutti nati negli anni ‘90 e, che si chiamino Sibillo o Buonerba, tutti in carcere o al cimitero.

Come gli jihadisti, i “babyboss” hanno un rapporto con la morte del tutto particolare: sembrano cercarla mentre la danno. E chi cerca la morte, o si fa accompagnare da essa come un’ombra – lo si può leggere, per le prime condanne alla paranza dei bambini, nelle motivazioni dell’allora giudice Nicola Quatrano –, non ha niente da negoziare: solo da distruggere. Come per ‘o Nannone, Antonio Napolitano. Quando viene arrestato nel 2015, a 18 anni appena compiuti, la Squadra Mobile di Napoli lo trova a casa con un fucile sotto il letto. Fisico esile e brufoli in viso, era un killer spietato, braccio destro di Emanuele Sibillo. I rivali – intercettati – del Nannone dicevano: “Quello viene qui sotto con la pistola in mano. Gli abbiamo piazzato tre colpi e non è morto. Tu ci puoi provare pure per altri dieci giorni, ma quello non muore”.

Scriveva Pier Paolo Pasolini: “Per prima cosa ti insegnano la rinuncia. La seconda cosa è una certa obbligatoria tendenza all’infelicità. La terza cosa che ti viene insegnata dai ‘destinati a morire’ è la retorica della bruttezza. Non hanno certo gioventù splendenti. E tu, invece, splendi”.

Lavorare a questo film, ha raccontato Roberto Saviano, ha significato entrare nel cuore e nella vita di chi oggi ha 14,15,16 anni e un unico imperativo: trovare un posto nel mondo. “Ma tutti gli strumenti utili per raggiungerlo spesso sono preclusi. Ti prendi quello che vuoi o finisci qui. Rischi tutto o non sei nessuno. Ora immaginate questo: tutte le ansie del tempo solitario e feroce che stiamo vivendo, affrontate ed esorcizzate facendo soldi, facendoli subito, con il narcotraffico e con le pistole”. E vi ritroverete, chiusi un po’ gli occhi, a percorrere il Decumano inferiore, Spaccanapoli, fino a Forcella. Nella selvaggia durezza dei vicoli che contrasta all’improvviso la soavità dei volti di Madonne e Bambini, Vergini e Martiri che troverete tra le nicchie nei muri. Qui, il mare non bagna Napoli. Vi ritroverete al vicolo del Sole, detto così perché il sole non vi entra mai; o al vicolo del Settimo Cielo, per l’altitudine di un pezzettino di cielo che appare fra le case. Tra i balconi coi panni stesi, i carretti con la verdura, le urla che riempiono l’aria.

A Forcella, si diceva una volta, si spara con la stessa frequenza con cui si estrae la molletta. Era così ai tempi dei fratelli Giuliano e di Lovegino. È così ai tempi di Emanuele Sibillo e della sua paranza. È e resterà così. Chissà.

Questa Rai che arraffa canone e pubblicità

“Il finanziamento pubblicitario di un’emittente televisiva di servizio pubblico (…) ne inquina inevitabilmente l’autonomia e influenza comunque la ‘purezza’ della missione”

(da “Con lo Stato e con il mercato?” di Angelo Zaccone Teodosi e Francesca Medolago Albani Mondadori, 2000 – pag. 446)

 

Come si fa a dare torto a Luigi Di Maio quando annuncia che “alla Rai è finita l’epoca in cui uno possa guadagnare 3 milioni l’anno” e perciò “occorre una sforbiciata”? Ha ragione il vicepremier pentastellato a invocare l’austerità nella gestione del servizio pubblico, anche se una “sforbiciata” – come dice lui – non sarà sufficiente per risolvere la pratica. Certi mega-compensi, soprattutto di ex giornalisti che si sono dimessi dall’Ordine professionale per convertirsi in “artisti” e aggirare così il “tetto” fissato dalla legge per gli stipendi dei dipendenti pubblici (240mila euro l’anno), gridano allo scandalo: tanto più se vengono elargiti a pseudopaladini della sinistra e dell’impegno sociale.

Ma gli annunci e i proclami non bastano. Anche qui, come nel caso del flop del programma su Beppe Grillo su Rai Due, bisogna risalire all’origine del problema. E cioè a quella commistione fra pubblico e privato che, insieme alla dipendenza dalla politica, è l’altro male oscuro della televisione di Stato. Ristrutturazione della “governance” e abolizione della pubblicità, modello Bbc, sono – appunto – i due cardini intorno a cui dovrebbe essere imperniata quella riforma organica che neppure il “governo del cambiamento” è riuscito finora a realizzare.

Questo è ciò che succede quando Mamma Rai, serva – come Arlecchino – di due padroni, con una mano incassa il canone d’abbonamento e con l’altra fa incetta di spot, di telepromozioni e perfino di product placement, inseguendo gli ascolti per rastrellare pubblicità più o meno occulta e tradendo spesso la sua mission istituzionale. Se ne parla ormai da anni; il canone è stato inserito nella bolletta elettrica per contrastare l’evasione; ma ora lo Stato “preleva” il 5% fisso del gettito (circa 90 milioni) e il 50% dall’extra-gettito (ovvero il recupero dell’evasione: oltre 100milioni) per destinarlo alla fiscalità generale. Nel “contratto di servizio” con lo Stato non c’è scritto però da nessuna parte che la tv pubblica debba gestire tre reti generaliste, retaggio della vecchia lottizzazione da Prima Repubblica, più un’altra dozzina di canali tematici.

Naturalmente, occorre regolare al contempo la raccolta pubblicitaria in funzione antitrust, favorendo la redistribuzione delle risorse fra tutti gli altri mezzi: giornali, radio e tv locali, Internet. Quando lanciai questa proposta diversi anni fa, alla Festa della Margherita organizzata da Paolo Gentiloni a Monopoli (Bari), l’allora direttore del Tg5 berlusconiano Enrico Mentana, sul palco del dibattito, si fregò le mani ostentatamente in un soprassalto goliardico di aziendalismo. Ma la questione era e rimane una questione di sistema, nel senso che non si può togliere la pubblicità alla Rai per rafforzare ulteriormente le concentrazioni private.

Al pari della “governance”, da affidare a un organismo indipendente per affrancare l’azienda pubblica dalla sua subalternità alla politica, anche la certezza e la trasparenza delle risorse sono condizioni essenziali per garantirne l’indipendenza e l’autonomia. Ecco perché non basta “sforbiciare” gli stipendi di qualche giornalista o sedicente artista del piccolo schermo. E così l’abolizione della pubblicità sulle reti Rai servirà magari a calmierare il mercato dei conduttori e dei divi televisivi, anche a beneficio delle reti private.

Conte e i nodi del consiglio di Stato

Lunedì scorso Il Fatto Quotidiano ha pubblicato a firma di Giorgio Meletti un articolo di estremo interesse sul Consiglio di Stato ove si annidano “poche decine di alti burocrati che detengono la più importante concentrazione di potere esistente in un Paese moderno”. L’articolo si diffonde sia sul malcostume di distaccare i giudici amministrativi a dirigere le Authority i cui atti sono stati e saranno chiamati a giudicare, sia nell’evidenziare, con dovizia di particolari e di nomi (tra i quali l’attuale presidente del Consiglio di Stato Patroni Griffi), la inopportuna consuetudine di conferire a Consiglieri di Stato (quasi sempre gli stessi) l’incarico di sottosegretario (se non addirittura di ministro) o di segretario generale della Presidenza del Consiglio dei ministri o, più spesso, di capo gabinetto dei vari ministri.

Non ha fatto eccezione l’attuale governo che ha nominato Roberto Chieppa – già segretario generale dell’Antitrust – segretario generale della Presidenza del Consiglio, ed Ermanno De Francesco capo dell’ufficio legislativo e, inoltre, Luigi Carbone – già commissario dell’Autorità per l’energia – capo gabinetto del ministro dell’Economia. Conclude Meletti: “Fare il Consigliere di Stato ha questo di bello: un drappello di giuristi (sacerdoti intoccabili) le norme se le scrivono da distaccati ai ministeri e poi se li giudicano, se le interpretano e se le applicano”. A fronte di una così anomala situazione, un governo, se è davvero “del cambiamento”, dovrebbe adottare con urgenza i seguenti provvedimenti: a) impedire che i magistrati amministrativi assumano l’incarico di segretario generale del governo e di capo gabinetto dei singoli ministri evitando, così, una impropria, intensa commistione tra coloro che esercitano la funzione giurisdizionale e di controllo proprio sugli atti di governo, e il governo stesso (organo politico). Non vi è, del resto, alcun motivo perché gli incarichi in questione non possano essere assunti da dirigenti amministrativi dei vari ministeri e degli organi periferici; peraltro, è ben possibile, in casi di particolare complessità giuridica, rivolgersi al Consiglio di Stato quale organo consultivo del governo; b) abrogare (l’odioso) privilegio accordato all’esecutivo di nominare un quarto dei componenti il Consiglio di Stato. Si eliminerebbe, così, il sospetto di abusi o favoritismi e, soprattutto, il sospetto che l’esecutivo cerchi di collocare in tale Consesso, deputato al controllo anche sugli atti del governo, persone di sua fiducia. Emblematico il caso della fidata vigilessa Manzione voluta da Renzi, prima a capo dell’ufficio legislativo della Presidenza del Consiglio, e poi al Consiglio di Stato, suscitando aspre polemiche per la mancanza anche del requisito dell’età; c) individuare normativamente un organo giurisdizionale – che può essere, in prima battuta, una sezione civile della Corte di Cassazione e le sezioni unite civili in seconda – che giudichi le controversie tra i magistrati amministrativi che possono insorgere a seguito dei provvedimenti dell’organo di autogoverno della giustizia amministrativa (C.P.G.A.) eliminando, così, una inaccettabile “Giustizia domestica” in virtù della quale un giudizio intrapreso da un presidente di sezione – il quale si ritenga, nella corsa alla nomina a presidente del Consiglio di Stato, essere stato ingiustamente pretermesso – debba, comunque, essere sottoposto all’esame e alla decisione di quell’organo al cui vertice si trova il collega avverso il quale ha proposto ricorso.

Il premier Conte – che è stato vicepresidente del C.P.G.A. ed è presidente del Consiglio dei ministri – ha tutte le conoscenze, competenze e mezzi per porre fine a tale intollerabile situazione.

Le élite italiane col mini-napoleone

Lo spettacolo è imbarazzante. Per quante critiche si possano muovere a questo governo (e secondo noi sono tante, a partire dall’amalgama che lo costituisce), fa un certo effetto la visione in cinemascope su tutti gli organi di stampa della presa di distanza dall’Italia e dal suo governo, con relativo compiaciuto ribrezzo verso le sue più alte cariche istituzionali, a favore del caro alleato francese. È come se la crisi diplomatica sancita da Macron col richiamo dell’ambasciatore in patria avesse sturato il condotto del risentimento delle élite verso il “governo del popolo” (che si è autoincoronato tale, invero in maniera un po’ comica, ma che tecnicamente lo è, stando ai voti) e dato alle opposizioni la giusta carica per la loro debole opera di “resistenza”.

Dappertutto si leggono rimbrotti a Di Maio per aver incontrato un rappresentate dei “gilet gialli”, episodio che avrebbe indotto Macron alla sofferta scelta da stato di guerra. Nessuno che si arrischi a mettere sotto la lente l’abnorme reazione del presidente francese nell’ambito di una precisa strategia di attrazione del consenso (a eccezione di Lucia Annunziata, che su Huffington Post fa un’analisi profonda delle ragioni elettorali delle parti in gioco). Per il resto, la descrizione della scenetta arlecchinesca composta dalle marionette italiane anti-europee prese a bastonate e ramanzine dal poliziotto francese rivela che ai piani alti dell’informazione mainstream non si aspettava altro che una bella crisi internazionale scatenata dal dilettantismo dei nostri governanti per mettere alla berlina i limiti di un governo non costruito in base ai desiderata delle élite politiche e finanziarie (in sostanza, i limiti del suffragio universale). Wolfgang Münchau, editorialista del Financial Times (non proprio una fanzine giallo-verde), ha scritto sulla rivista online Eurointelligence che “è una tragedia per gli europeisti il fatto che il più importante leader europeista sia un buffone”.

Münchau, che già aveva descritto Macron come un isterico in crisi di nervi, ascrive la reazione di Parigi a una scomposta strategia per drammatizzare la crisi interna e solleticare lo sciovinismo dei francesi, trasformando le gaffe di Di Maio in un affare di Stato. Il richiamo in patria dell’ambasciatore è un atto grave (lo abbiamo fatto noi nel 2016 in seguito alla “scarsa collaborazione” del Cairo alle indagini sull’omicidio di Giulio Regeni, salvo poi rimandare in Egitto un nuovo ambasciatore un anno e 4 mesi dopo) che avrebbe dovuto suscitare nei nostri commentatori un surplus di vigilanza critica; invece, il tifo contro l’Italia delle élite italiane (e dei loro protégé, come Renzi) non è mai stato così clamoroso.

Del resto, Macron è un prodotto in vitro delle élite. Basta guardare il documentario che ne racconta l’ascesa (Macron: dietro le quinte di una vittoria) per capire come il successo del suo movimento En Marche! fu il risultato di un misto di cinismo, marketing e “fortuna” machiavelliana, insomma di una scelta di mercato che l’ha posizionato in una nicchia scoperta dove nessuno aveva più il coraggio di agire: nel racconto positivo di un’Europa che potesse salvare i sommersi. Quando l’enarca paragonò i movimenti che avevano vinto le elezioni a una “lebbra”, in Italia ci fu una corsa tra i giornali a riportare la lèpida trovata: col sottile piacere di certe sindromi psichiatriche, speravano forse che davanti a una diagnosi così impietosa gli italiani rivalutassero i partiti sconfitti alle elezioni. Da allora, sotto l’occorrenza di “lebbra” e di “vomitevole” (copyright del portavoce di En Marche!) vengono lette le mosse del governo sull’immigrazione, sul Tav, sul franco coloniale, ecc., anche quando l’ipocrisia dei francesi sarebbe assai censurabile (i gendarmi che “scaricano” i migranti a Claviere nottetempo, ad esempio), e la crisi di oggi non fa eccezione.

È un vizio antico quello del potere costituito di lisciare il pelo a una potenza straniera (casualmente, per potenza di fuoco e di finanze, alla Francia) per dirimere le questioni interne, acquisire territori, sedare rivolte popolari (nel 1849 Luigi Napoleone Bonaparte, che Marx descriverà nella sua natura caricaturale, intervenne con la sua soldataglia a favore dello Stato Pontificio contro la Repubblica Romana di Mazzini, Armellini e Saffi, che capitolò sconfitta). Il risultato dello schiaffo diplomatico del piccolo Napoleone è però prevedibile: più il mondo dei salvati irride il governo dei populisti, più il popolo – che forse come dicono i furbi non esiste, però vota – sta col governo dei populisti; più le élite bastonano i sovranisti, più gli italiani, anche i più moderati, aperti e progressisti, per una sorta di effetto rebound ricordano e rivendicano il possesso della loro sovranità. E per capirlo non serve nemmeno studiare la Storia, anche se non guasterebbe: basta guardare i film di Chaplin.