Aquarius, i giudici: niente smaltimento illecito di rifiuti

Cadono le accuse della Procura di Catania contro Aquarius, la nave umanitaria di Medici senza frontiere sospettata di aver smaltito in modo illecito i rifiuti pericolosi che aveva a bordo. Per commettere il reato di traffico illecito le indagini avrebbero dovuto svelare un’attività organizzata che però non è emersa. “Insussistente il contestato reato di traffico illecito di rifiuti” scrive il Tribunale del Riesame nelle motivazioni con cui annulla il decreto del Gip che aveva disposto il sequestro di 200mila euro da due conti correnti intestati a Francesco Giannino, titolare della “Mediterranean shipping agency” di Augusta. È vero, scrivono i giudici, che “ritenuta potenziale l’infettività, i rifiuti derivanti dalle operazioni di salvataggio (nello specifico vestiti e biancheria intima) avrebbero dovuto essere riferiti come rifiuti sanitari a rischio infettivo o sanitari pericolosi”, ma “la pluralità delle operazioni, e l’abitualità della condotta, non è però sufficiente a far ritenere integrato il reato contestato” dato che è mancato l’allestimento di un’attiva organizzata appositamente. Esulta l’Ong Medici senza frontiere, che parla di accuse sproporzionate che sarebbero “tentativi di fermare il soccorso in mare”.

Antitrust, le fatiche del Csm per l’ok a Rustichelli

“Macché incompatibilità, si può fare” giurano a Palazzo Chigi a proposito del trasloco di Paolo Savona al vertice della Consob. A dispetto delle polemiche, ci sarebbe un parere che taglia la testa al toro: era stato fatto per superare le obiezioni a un’altra nomina, ma poco importa. Un parere è per sempre, come i diamanti.

Ne sanno qualcosa al Csm che in questi giorni sono alle prese con il caso del magistrato Roberto Rustichelli. Che prima di potersi accomodare sulla poltrona di presidente dell’Antitrust avrà bisogno di un appiglio pure lui, in modo che l’organo di autogoverno delle toghe lo possa autorizzare all’incarico per il quale è stato indicato dalla presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati in tandem con quello della Camera, Roberto Fico. Nonostante una procedura di selezione assai lunga, che ha visto in campo più di 100 candidature non meno prestigiose della sua, alla fine la scelta è caduta proprio su Rustichelli. Salvo poi scoprire che il magistrato aveva un problema di non poco conto: è stato fuori ruolo oltre 11 anni, nel corso dei quali è stato impegnato soprattutto in uffici di governo, quando il limite massimo in cui le toghe possono assentarsi dalle aule di giustizia è fissato a 10, almeno sulla carta. Da allora il suo approdo all’Antitrust è stato messo in frigo. In attesa di una soluzione che consenta di non smentire il lavoro della seconda e della terza carica dello Stato, evitando che debba addirittura rinunciare alla carriera di magistrato pur di assumere l’incarico a cui è stato chiamato.

A Palazzo dei Marescialli si lavora in questa direzione da settimane. Poi l’altro giorno si è deciso di ricorrere al parere che giustifichi e quindi legittimi l’autorizzazione dell’incarico da parte del plenum nonostante i vincoli imposti dalle regole.

L’impresa è ardua, ma in filigrana già si intravedono le soluzioni possibili ai quesiti formulati dalla Commissione che al Csm decide su questo tipo di casi. A cui dovrà rispondere l’Ufficio Studi che, in particolare, dovrà stabilire se la nomina di Rustichelli all’Antitrust può essere qualificata come incarico elettivo e quindi sottratta al limite decennale. Se il suo collocamento fuori ruolo sia obbligatorio, con buona pace del tetto. O se, per caso, non sia invece applicabile quel codicillo infilato nelle pieghe di un decreto Sblocca cantieri che nel 2005 aveva previsto una deroga ai 10 anni pure per le nomine a componenti delle autorità indipendenti. Che invece la legge Severino del 2012 ha poi riservato solo per lo svolgimento di incarichi di governo, elettivi o per i componenti delle Corti internazionali.

Ma l’Ufficio studi dovrà pure verificare se sia possibile fare uno sconticino a Rustichelli: ossia evitare di conteggiarli tutti gli oltre 11 anni da lui trascorsi fuori ruolo, considerando solo gli incarichi successivi al 31 luglio 2007, quando è diventata operativa la legge sul limite decennale. E in questo caso bisognerà fare i funamboli: perché l’unica norma che accenna alla questione di una decorrenza particolare è quella prevista per i magistrati che lavorano alla Presidenza della Repubblica, alla Corte costituzionale e al Csm. Solo per loro il termine decennale vale dal 2012.

In ogni modo, se il conteggio verrà fatto partire dal 2007, Rustichelli risulterebbe come per magia fuori ruolo da meno di 6 anni. A quel punto va sciolto l’ultimo nodo: alle brutte, si può autorizzarlo solo per una parte del settennato all’Antitrust? Comunque meglio di niente.

Impunità per legge ai padroni dell’Ilva: il caso alla Consulta

Sarà la Consulta a stabilire se l’estremo allungamento dei tempi di risanamento dell’Ilva e l’immunità penale concessa ai suoi acquirenti rispondano ai principi della Costituzione italiana. Il gip del Tribunale di Taranto Benedetto Ruberto ha sollevato la questione di legittimità Costituzionale sui diversi decreti “Salva Ilva” e in particolare sui tempi per risanare la fabbrica – che dai 3 anni iniziali sono poi diventati 11, mentre la fabbrica continua a inquinare – e sullo scudo concesso dal governo Renzi ai Commissari governativi nel 2015 e poi esteso da quello Gentiloni ai nuovi acquirenti. Norma confermata dall’attuale esecutivo nell’accordo siglato con Arcelor Mittal che ha rilevato il gruppo siderurgico.

“Vieneda chiedersi – scrive il giudice nella sua istanza alla Consulta – se, attualmente, sia proprio l’interesse economico ad essere divenuto tiranno rispetto al diritto alla salute” e se “il legislatore abbia finito con il privilegiare, con le ultime norme nei cosiddetti decreti ‘salva Ilva’, in modo eccessivo l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili quali la salute e la vita stessa, nonché il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso”. Domande su cui ora i “giudici delle leggi” dovranno esprimersi.

La vicenda è partita dalla richiesta di archiviazione avanzata dalla procura ionica per alcuni fascicoli aperti per le continue emissioni nocive della fabbrica e l’inquinamento della falda acquifera dopo l’ampliamento della discarica interna allo stabilimento: indagini che non possono proseguire, a causa dell’immunità concessa dallo Stato ai vertici della fabbrica. Questi infatti non sono perseguibili per violazioni commesse durante le operazioni di ammodernamento previste dal piano ambientale. Un esonero che ormai sembra a tempo indeterminato. I lavori di adeguamento contenuti nell’Aia, l’Autorizzazione integrata ambientale, dovranno essere conclusi entro l’agosto 2023: fino a quel momento, quindi, la legge mette a riparo i dirigenti e la proprietà della fabbrica per i danni causati.

Ed è proprio il continuo allungamento dei tempi del “piano ambientale” che per il magistrato rappresenta un punto su cui la Corte Costituzionale dovrà pronunciarsi. “Questo esonero di responsabilità non è temporalmente delimitato”, scrive spiegando che il legislatore potrebbe prorogare oltre il 2023 il termine di attuazione del Piano e quindi anche lo scudo penale nei confronti dei responsabili rischiando “di lasciare la popolazione jonica e i lavoratori nell’assurda duratura esposizione a livelli davvero intollerabili di inquinamento”.

Il termine di adeguamento era inizialmente fissato al 2015 dal primo decreto salva Ilva varato dal Governo Monti, quindi solo tre anni dopo il sequestro dell’Ilva disposto dal giudice Patrizia Todisco nel luglio 2012. Ma i diversi Governi che si sono succeduti, da Monti a Letta, a Renzi a Gentiloni, hanno spostato avanti nel tempo quella data ultima. Per il gip Ruberto se il legislatore ha dato termine sino al 2023 per la messa a norma degli impianti allora anche l’attività produttiva, pur inquinando e mettendo “in pericolo la vita dei lavoratori e degli abitanti, la loro salute e l’ambiente” deve ritenersi autorizzata fino ad allora, ma a patto che vengano rispettate le prescrizioni del piano. Significa che se in questi anni dovessero esserci condotte di “rilievo penale” queste restano autorizzate dalla legge. Un arco di 11 anni in cui tutto è lecito basta che l’Ilva non smetta di produrre.

Per il magistrato, quindi, la Consulta dovrà esprimersi di nuovo a distanza di 6 anni da quando decretò come legittimo il primo salva Ilva: il tempo trascorso da allora, infatti, per il giudice tarantino era un elemento che la Corte all’epoca tenne in debita considerazione: oggi appaiono violati “i paletti che la Consulta aveva posto” e i decreti salva Ilva hanno “creato un sottosistema penale connesso a questa particolare realtà industriale (…) dove la tutela di beni primari (quali la salute e lo stesso diritto alla vita) deve subire vistose deroghe per garantire la continuità di impresa”.

Lo spread torna a sfiorare i 300 punti: interessi vicini al 3%

Da quandol’Istat ha comunicato la sua stima preliminare sul Pil del quarto trimestre 2018, lo spread tra i titoli di Stato italiani e tedeschi a dieci anni è tornato a salire decisamente: dai 240 punti di fine gennaio, il differenziale di rendimento tra Btp e Bund ieri è arrivato a sfiorare i 300 punti (294 per la precisione) per chiudere poi a fine giornata a 285 punti base. Il rendimento, cioè gli interessi da riconoscere a chi acquista il nostro debito, è tornato vicino al 3%. Il motivo di questa nuova impennata dello spread (ieri salito per tutti i titoli europei rispetto ai tedeschi, anche se quello italiano resta, ad esempio, il doppio di quello portoghese) è probabilmente dovuto ai pessimi segnali in arrivo dall’economia del continente: gli ultimi dati della produzione industriale (quelli di dicembre) sono stati pessimi in Italia (-5,5%) e Spagna (-6,2), molto brutti anche in Germania (-3,9) e negativi comunque in Francia (-1,4%). Male anche le Borse in tutta Europa: Milano lascia per strada lo 0,65%, Parigi poco meno, Francoforte perde l’1%.

I giudici: “Ecco perché non dovevano togliere le inchieste a De Magistris”

Nel 2007 il pm di Catanzaro Luigi de Magistris si vide sottrarre le inchieste Poseidone e Why Not, sugli affari intorno alla depurazione delle acque e ai finanziamenti regionali alle imprese, con provvedimenti che la Corte d’Appello di Salerno ha giudicato “illegittimi”. Quei provvedimenti furono compiuti “in violazione dei doveri di astensione” nel primo caso, ed “in violazione di uno dei presupposti previsti dalla legge, l’assenza del tentativo di sostituzione con altro pm”, nel secondo caso. Tentativo che si poteva e si doveva fare, infatti la Procura generale ottenne l’applicazione di un pm della Procura, De Tomasi.

È quanto scritto nei passaggi chiave delle 33 pagine di motivazioni della sentenza notificate ieri al legale del sindaco di Napoli, Elena Lepre: “È stato finalmente riconosciuto giudizialmente – commenta l’avvocato – che i provvedimenti furono illegittimi e hanno cagionato un danno ingiusto alla reputazione professionale dell’allora pm De Magistris, favorendo coloro che erano indagati”.

Dopo le assoluzioni di primo grado, in Appello – che ha valore solo civile, perché la Procura non ha fatto ricorso – i giudici hanno riqualificato le accuse da corruzione giudiziaria in abuso d’ufficio per la revoca del fascicolo Poseidone e hanno dichiarato la prescrizione per l’allora procuratore aggiunto Salvatore Murone, per l’allora senatore di Forza Italia Giancarlo Pittelli e per l’allora sottosegretario alle Attività produttive Giuseppe Galati. Prescrizione anche per i reati ipotizzati intorno all’avocazione alla Procura generale del fascicolo Why Not, anch’essi riqualificati da corruzione giudiziaria in abuso d’ufficio: ne erano accusati Murone, l’ex avvocato generale e facente funzione di Procuratore generale Dolcino Favi, l’imprenditore della CdO Antonio Saladino.

Il procuratore capo di Catanzaro, Mariano Lombardi (morto durante il processo) avrebbe dovuto astenersi dal revocare a De Magistris Poseidone “una volta venuto a conoscenza che era indagato un suo caro amico, l’avvocato Pittelli”. I giudici sottolineano che Murone concorse alla mancata astensione e che il provvedimento “è stato verosimilmente richiesto a Lombardi dai beneficiari, Pittelli e Galati, quando i tre si sono incontrati riservatamente a casa di Pittelli”. L’avocazione di Why Not e l’applicazione del pm De Tomasi fu decisa da Favi su indicazione di Murone: quest’ultimo era amico dell’indagato Saladino e avrebbe dovuto astenersi.

Grandi centrali alle Regioni: il regalo miliardario al Nord

La secessione dei ricchi – che i suoi sostenitori chiamano “autonomia differenziata” per le Regioni, un pessimo lascito della riforma del Titolo V voluta quasi vent’anni fa dal centrosinistra – avanza a grandi e silenziosi passi dentro al corpaccione della produzione legislativa gialloverde. Com’è noto, la Lega vuole i disegni di legge per l’autonomia di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna (le prime a muoversi) in Consiglio dei ministri la settimana prossima: un testo, però, non c’è ancora e la ministra Erika Stefani sta incontrando qualche difficoltà nel portare i ministeri interessati sulla linea “tutto il potere ai governatori” con cui la Lega intende sostituire, all’odiato centralismo romano, il piccolo centralismo dei capoluoghi. Intanto però, nel cosiddetto decreto Semplificazioni appena approvato definitivamente, il Carroccio ha incassato “un anticipo di autonomia”, come ha voluto definirlo Attilio Fontana, che vale almeno 360 milioni l’anno, quasi tutti appannaggio delle regioni del Nord.

A che “anticipo” si riferisce il presidente leghista della Lombardia? Al passaggio (“senza compenso”) della proprietà delle grandi derivazioni idroelettriche dallo Stato alle Regioni le cui concessioni siano scadute o in scadenza entro il 2023, in attesa di trasferire anche quelle dell’Enel (il 60% del totale) che decadranno il 31 marzo 2029.

Si tratta, in sostanza, delle grandi centrali che fanno dell’Italia una dei principali produttori di questa energia pulita: dall’acqua, per così dire, arriva oltre il 16% dell’energia nazionale (il 42% se si contano le sole “rinnovabili”). Finora, come ribadito da una sentenza della Corte costituzionale che aveva dato torto proprio alla Lombardia, nonostante il settore energetico resti materia concorrente, le decisioni sulle grandi concessioni spettavano esclusivamente allo Stato centrale. Le gare, però, sono rimaste bloccate per anni dai dissidi tra governo e Regioni, favoriti anche dalla mancanza della legislazione di dettaglio prevista da un decreto Bersani addirittura del 1999. Ora, grazie a un emendamento approvato in Senato, passa tutto ai governatori: la proprietà delle opere (quelle idromeccaniche, le dighe, etc.) – dietro modesto indennizzo ai concessionari uscenti – e la potestà sulle gare per le concessioni e i relativi introiti.

Ci sono due cose che si intrecciano in questa legge. Le norme sulle gare erano necessarie, specie dopo la sentenza della Consulta che bocciava le proroghe, e in questo senso era necessario definire l’indennizzo per i concessionari uscenti. La Ragioneria, infatti, benedice (con tanto di coltellata al governo Monti che invece, con un decreto del 2012, aveva “favorito” i concessionari): “Si ritiene che l’importo complessivo (dell’indennizzo, ndr) possa essere inferiore al 5% del valore complessivo dei beni oggetto di riassegnazione” e quindi “agevolmente posto a carico dei concessionari subentranti” e riassorbito già in sede di gara. Seconda notazione: “In ragione del protrarsi dell’assenza di una disciplina di dettaglio dal 1999, i concessionari hanno limitato gli investimenti perlopiù alla manutenzione ordinaria”. Il che non solo rende meno oneroso l’indennizzo, ma contemporaneamente più forte l’azione di leva per il futuro: è infatti probabile “un ciclo miliardario d’investimenti privati – fino a 5 miliardi – nei prossimi dieci anni” con, secondo l’Ance, 45mila nuovi posti di lavoro e “oltre un miliardo di entrate fiscali in un triennio”.

Questo Bengodi da adesso in poi sarà gestito dalle Regioni, divenute proprietarie delle grandi derivazioni idroelettriche. Quali? Essendosi il Trentino Alto Adige già portato avanti, la maggior parte dei benefici sono per Lombardia, Veneto e Friuli (tutte a guida leghista), seguite dal Piemonte e da un po’ di Centro Italia (Emilia Romagna soprattutto).

Al netto degli investimenti, questa legge regala alle regioni più ricche del Paese – calcola la Ragioneria generale basandosi proprio sull’esperienza di Trento e Bolzano – solo per le concessioni già scadute o da riassegnare entro il 2023 “circa 300 milioni di euro all’anno” da canoni a vario titolo, “pari a 9 miliardi di euro nell’arco di durata delle nuove concessioni (considerata una durata media di 30 anni)”; a questi vanno aggiunti “circa 60 milioni di euro all’anno di energia gratuita da destinare a servizi pubblici e categorie di utenti dei territori interessati dalle concessioni”. Questo, ovviamente, al netto delle maggiori entrate, assai probabili, ma che vanno “verificate a consuntivo”.

Se questo è il buongiorno dell’autonomia differenziata, “secessione dei ricchi” – un’espressione coniata dall’economista Gianfranco Viesti – non pare definizione forzata.

Romagna, arriva l’adesione anomala degli industriali

Ci sarà anche una delegazione di industriali in piazza, al fianco di Cgil, Cisl e Uil. È Confindustria Romagna ad aderire “per contestare le politiche adottate dal governo nel Dl Semplificazioni” ed in particolare lo stop alle trivelle: un “suicidio industriale”, dice il presidente di Confindustria Romagna, Paolo Maggioli. “Ad una iniziativa come questa ci sembra assolutamente opportuno partecipare” sottolinea il presidente di Confindustria Romagna. È un “fronte comune” quello tra industriali e sindacati: “Imbarazzo? Tutt’altro, credo che sia indispensabile essere uniti in momenti come questi, in cui la sensazione è che non si dia importanza al tema della crescita. È importante per le aziende e per il lavoro: dobbiamo essere uniti e compatti con tutte le altre organizzazioni, anche sindacali”.

Per Paolo Maggioli la scelta degli industriali di Confindustria Romagna è “anche una prova di maturità, nel nostro Paese, perchè non c’è un obiettivo diverso tra le imprese ed i sindacati”. Con il tema delle trivelle è quello che sta accadendo in Romagna: “C’è un intero territorio in subbuglio, un territorio che sta combattendo unito e compatto”.

“Dovrebbero stare con noi, non contro”

“Questa volta proprio non li capisco”. Pasquale Tridico è un uomo di sinistra, insegna Economia del Lavoro all’Università di Roma 3, oggi guida la squadra di consiglieri economici del ministro del Lavoro e dello Sviluppo, Luigi Di Maio. In questi mesi ha coordinato la costruzione del sistema del reddito di cittadinanza e la stesura del decreto legge che lo introduce.

Professor Tridico, che idea si è fatto della manifestazione che oggi vedrà in piazza i tre principali sindacati contro il governo?

Sono sempre stato molto sensibile, per cultura e formazione, alle rivendicazioni dei sindacati. Ma questa volta fatico a capire bene l’oggetto della protesta. Per la prima volta un governo stanzia 8,2 miliardi per gli ultimi in questo Paese: è il più grande sforzo anti-povertà degli ultimi trent’anni.

Però a innescare la protesta è stata proprio la vostra legge di Bilancio.

Posso aspettarmi dalla destra la solita retorica “prima la crescita poi la redistribuzione”, una posizione legittima anche se per me retrograda: la teoria dello “sgocciolamento” della crescita dai ricchi verso il basso non ha dato risultati, specie per le classi più deboli. Ma i sindacati dovrebbero apprezzare il fatto che invece noi stiamo redistribuendo prima della crescita e in funzione anticiclica, con una politica economica espansiva che anticipa la reazione alla recessione.

Forse i sindacati rivendicano un ruolo. Non sono stati molto consultati.

Non so se sia una questione pregiudiziale o di metodo. Se il punto è che non abbiamo coinvolto i sindacati o se il problema è che abbiamo tolto alla sinistra temi e politiche sul sociale che aveva abbandonato da trent’anni. Io penso che la politica economica di questo governo non possa essere attaccata da una prospettiva sindacale.

Tra le altre cose, i sindacati chiedono più investimenti per creare lavoro.

Li stiamo facendo. Abbiamo aumentato le risorse e sbloccato quelle già stanziate. Ma c’è un’emergenza di inattivi e disoccupati oltre che di povertà. Gli investimenti ci mettono tempo a produrre effetti, intanto la gente muore di fame. Abbiamo anche messo un miliardo per i centri per l’impiego, con 10mila assunzioni complessive. Anche questi sono investimenti che, secondo il Tesoro, hanno un moltiplicatore alto, di 1,2. Mentre i sussidi ne hanno uno di 0,4.

I sindacati temono anche che un reddito di cittadinanza elevato ingabbi i poveri in una “trappola della povertà. “

Forse preferivano un salario indiretto più basso, come auspica Carlo Calenda? Se i sindacati vogliono lottare per dare ai lavoratori salari più bassi, facciano pure. Noi, con il reddito di cittadinanza, vogliamo dare più potere contrattuale ai lavoratori.

Quello di oggi sarà il debutto in piazza di Landini come nuovo leader della Cgil. Che interlocutore sarà per voi?

Conosco bene il suo profilo e la sua storia. Mi aspetto da lui un sostegno pieno al tipo di misure che stiamo varando. Il sindacato, lo dico da studioso, deve lottare per occupazione e redistribuzione. Noi stiamo redistribuendo e stiamo facendo un grande sforzo per l’occupazione con gli interventi sui centri per l’impiego. Forse non tutto è già pronto, ma dovevamo aspettare di sistemare ogni dettaglio e cominciare a erogare il reddito fra tre anni? È questo che ci chiedono i sindacati?

Il sindacato sfida il governo: il “risveglio” della sinistra

Chi ha memoria di sinistra e sindacati ricorda che negli ultimi venti anni la politica ha sempre beneficiato del “risveglio” sindacale. Di risveglio ha parlato proprio Maurizio Landini, segretario della Cgil da due settimane, invitando alla manifestazione indetta insieme a Cisl e Uil e che oggi sfilerà a Roma per concludersi in piazza San Giovanni. La partecipazione si annuncia rilevante se è vero che fino a ieri sono stati organizzati 12 treni speciali, 1300 pullman, due navi, diversi voli low-cost oltre a tutti i viaggi auto organizzati. Insomma, giornata delle grandi occasioni.

Ed ecco, allora, il ricordo di chi sfila con il sindacato da alcuni decenni. “Anche nel 1994 dopo la vittoria di Berlusconi, la sinistra entrò in letargo, letteralmente annichilita da un risultato inatteso. Lo sciopero e la manifestazione di Cgil, Cisl e Uil, contro la riforma delle pensioni – che poi fece cadere il governo per mano di Umberto Bossi – il 12 novembre 1994, con un milione di persone in piazza, segnò il ‘risveglio’ della base di sinistra”. Altra occasione, più nota: “Il 23 marzo 2002. Anche questa volta al Circo Massimo, ma con la sola Cgil e il suo segretario, Sergio Cofferati”. I milioni saranno tre e l’ineffabile Berlusconi aveva appena rivinto le elezioni nel 2001. La resistenza della Cgil alla riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori – che invece riuscirà a governi di sinistra come i due governi Monti e Renzi – unita al contestuale movimento anti-globalizzazione e poi contro la guerra, produrrà anch’essa un nuovo risveglio.

Così la sinistra parlamentare ci spera. A scendere oggi in piazza ci saranno due candidati alla segreteria Pd su tre: Maurizio Martina lo ha annunciato da tempo, Nicola Zingaretti lo ha confermato ieri. Roberto Giachetti è invece in partenza per Danzica dove apre la sua campagna per le primarie ricordando il sindaco Pawel Adamowicz.

Ci saranno le forze alla sinistra del Pd, Nicola Fratoianni di Sinistra italiana, Roberto Speranza del Mdp, Rifondazione comunista.

Solo che stavolta la situazione è molto diversa. Al governo c’è una formazione politica i cui elettori, perlomeno una larga parte, in quelle precedenti occasioni si trovavano nelle piazze – si pensi a quanto conti per il M5S il Referendum sull’acqua pubblica del 2011, anch’esso una riscossa contro, ancora una volta, Berlusconi –. Oggi, invece, sostengono un governo da cui si aspettano risultati anche sul fronte sociale. Ed è palpabile, sui social network, nel dibattito sui mezzi di informazione (si veda l’intervista a Pasquale Tridico in pagina) il disappunto e lo straniamento che il “popolo a cinque stelle” vive nei confronti della piazza sindacale. La quale sarà fondamentalmente anti-governativa come dimostra la semi-provocazione della Confindustria emiliana che annuncia la sua presenza.

Lo stesso Landini ha rilanciato ieri le sue critiche al reddito di cittadinanza, definito un “ibrido” e alla riforma pensioni conosciuta come “quota 100”. Soprattutto, il segretario della Cgil vuole caricare la piazza anche di un sentimento anti-Salvini attaccato per le politiche sui migranti che hanno un profondo impatto sull’elettorato di sinistra. Anche Cisl e Uil, sebbene meno esposte nella polemica contro il governo, mettendo l’accento sulla piattaforma alternativa, si collocheranno in una dinamica di scontro anche se il governo finora ha preferito non commentare con dichiarazioni esplicite né, tantomeno, sprezzanti. La piattaforma, del resto, è forse poco digeribile per la Lega, ma non ha proposte sovversive: l’incremento degli investimenti pubblici al 6%, lo scomputo degli investimenti pubblici dal deficit; il limite a 1.000 euro per i pagamenti in contanti; un fondo statale per il Mezzogiorno; cassa integrazione straordinaria e contratto di solidarietà; rafforzamento della Naspi; 41 anni di contribuzione per andare in pensione a prescindere dall’età; una pensione contributiva di garanzia per i giovani; eliminare i super ticket; rinnovare i contratti del pubblico impiego.

Al sindacato interessa soprattutto il riconoscimento dal governo: “Stupisce che Di Maio abbia incontrato i Gilet gialli – ha dichiarato ieri Landini – che protestano contro il governo Macron e non incontri i sindacati italiani”. Oltre a questo, interessano risultati concreti per questo la protesta andrà avanti ancora nelle forme che si vedranno.

Dalla piazza per il governo giallo-verde nasce un controcanto nuovo: la situazione potrebbe essere più movimentata.

Si chiude la campagna per le Regionali E B. compra Socrate

“Mancava solo Cirino Pomicino”, ha scritto su Facebook Alessandro Di Battista commentando la foto della conferenza stampa di giovedì che ritrae Matteo Salvini insieme a Silvio Berlusconi e Gaetano Quagliariello di Idea, lista che sostiene il candidato del centrodestra alle elezioni regionali in Abruzzo che si terranno domani. Anche Luigi Di Maio, in visita a Roccaraso e Pescara per le ultime ore di campagne elettorale al fianco della candidata del Movimento 5 stelle Sara Marcozzi, punzecchia l’alleato di governo: “Ho visto un Salvini imbarazzato vicino a Berlusconi, quasi a bordo tavola, nemmeno una diretta Facebook”. Pure il segretario della Lega è in vena di battute durante la tappa elettorale a Rivisondoli, a proposito di incentivi al turismo in Abruzzo ha detto: “Per portare più turisti proporrò a Macron un gemellaggio Francia-Abruzzo”. Silvio Berlusconi in visita ad Avezzano invita a “votare Forza Italia e fateci votare anche a pedate se serve. Il pericolo grillino è più grave di quello comunista”. In un autogrill tra Teramo e Avezzano il Cavaliere ha comprato una copia dell’Apologia di Socrate di Platone, il racconto dell’ingiusta condanna a morte del filosofo greco.